Le due suore questuanti non
avevano raccolte che poche elemosine, in quel quartiere ricco. Indugiavano,
quindi, nonostante il calar della sera, a suonar campanelli e a sussurrare gli inviti.
Davanti ad una villetta civettuola sostarono indecise, chè un grosso cane
latrava, furioso, dietro le sbarre del cancello dalle punte dorate.
Suonarono. La targa diceva in
caratteri rosa su bianco: Villa Cupido.
Si affacciò una cameriera, che
quietò il cane e aprì. Entrarono in salotto. "La signora viene
subito". Restarono in piedi, sui margini dell'ampio tappeto. Un violento
profumo impregnava l'ambiente, avvolto nell'ombra.
Delle candele rosa su dei
candelabri dorati attiravano l'attenzione delle suore. Ma sul caminetto a muro
non c'era un'immagine sacra, bensì una statuetta: una donna nuda, seduta, che
porgeva il seno. Al muro, un'altra donna nuda, sdraiata. Guardavano con
curiosità i vari ninnoli sparsi qua e là sui tavolinetti, in un armadio vetrato.
Sul divano i cuscini erano accatastati. Una pelle d'orso biancheggiava.
Si guardarono e fecero una
smorfia d'intesa. Suor Angela mormorò: "dev'essere una poco di
buono".
La signora entrò. Si scusò del
ritardo. Era in accappatoio. Dei braccialetti tintinnavano ai polsi. I capelli
alla garçonne, le labbra scarlatte; gli occhi dall'ombra smisurata. I
piedi erano nudi nelle pantofole azzurre e ricamate in oro. Mentre le suore
parlavano di carità, di orfane, la signora guardava, con simpatia sorridente,
come delle amiche. "Ma sì, ma sì, aspettino un minuto". Ritornò con
un biglietto da cinquanta franchi, e lo porse con un sorriso di fanciullona
contenta di dare. Le suore, irrigidite, mormorano un: grazie — ed accennarono
un inchino di commiato. Ma la signora domandò se poteva offrir loro qualche
cosa, e senza lasciar il tempo per la risposta suonò il campanello pendente
dalla lampada rilucente di cristalli. "No, grazie. Non si scomodi".
"Ma sì, ma sì, avranno sete con questo caldo. E, poi, sempre in giro... Io
in questi giorni, non faccio che bere". E alla cameriera, apparsa nel vano
di una porta; "Servi qualcosa, Lillì"
Le due suore si guardavano. Le
aveva immobilizzate un ricordo vago, un certo riconoscimento. La pronuncia era
quella, la loro. Anche la signora le guardava con interesse. Ad un tratto
sbottò: "Ma noi ci conosciamo. Lei è la Lisa del mulino e lei la Rossa del Pino, se non mi
sbaglio". Era così. La signora era la Bianchina, la modista. In paese la chiamavano
"la gatta", per i suoi occhi verdi e, ancor più, perchè faceva delle
moine.
Le due suore rimasero
interdette. Quel riconoscimento era come una ventata di vento che sollevasse
loro le sottane. Ma finora Angela assentì: "sì, siamo noi. Anche a me
pareva di conoscerla". "Anche a me", mormorò suor Geltrude.
"Ma allora diamoci del tu,
diamine. Siamo state così buone amiche. Ma sedetevi, dunque. Oh che piacere che
ho di avervi incontrate. Così possiamo parlare di Verdelago. Sapete? Ci sono
stata quest'estate. Ho visto la tua vecchietta, sai, Lisa: è ancora in gamba. E
tuo fratello, Mariuccia, che bel ragazzo! Ne fa delle conquiste! Quest'estate
faceva all'amore con la figlia del cantoniere del ponte, sai il Becco, e
m'hanno scritto che l'ha ingravidata. E la Berta... la ricordate la Berta?... No?... Ma quella
dell'Osteria degli amici... quella ragazza con un petto così, che rideva
sempre... beh, è qui anche lei. La vedo di tanto in tanto...".
E continuò così. Le due suore
rimanevano sotto quell'acquazzone di notizie paesane, imbarazzate dei dettagli,
scandalizzate da certe novità, ma curiose. Bevevano le notizie, come quel vino
dolce e frizzante, il vino di Montescuro, straordinario. Erano dieci anni che
non l'avevano bevuto. Erano dieci anni che non sapevano più niente del paese. E
la loro lingua si sciolse, per domandare. E risero anche loro, alle malizie
della Bianchina, che spogliava il paese con aneddoti che rinfrescavano i
ricordi, e coi ricordi le antipatie e i rancori. — Ah, l'aveva lasciata Poldo
quella scema della Lucia e col ventre grosso. Avrà imparato a levar i fidanzati
alle amiche — pensò Suor Angela.
"E Carluccio, il
Moro", cosa fa?" domandò Suor Geltrude.
Suonavano le nove. Le nove...
esclamarono insieme le due suore. "Le nove! Ripeterono insieme
esterrefatte, balzando in piedi".
"Ih, che paura che avete!
Non vi mangerà mica la superiora!
Le due suore la vedevano, la
madre superiora, arcigna, domandare: "Come mai questo ritardo?". Ne
vedevano gli occhi scrutatori, la grigia freddezza di quegli occhi le docciava.
I fumi del vino svanivano, e subentrava la paura: una paura infantile che le
rendeva sgomente come di fronte ad una sventura irreparabile. La Bianchina le rincorava:
"Su, su, andiamo a tavola. È pronto. Non sarà una mezz'ora di più che
complicherà la cosa. Intanto penseremo alla scusa". Già, la scusa non la
trovarono e chissà se l'avrebbero trovata, così sconvolte. Si aggrapparono alla
"scusa", e seguirono l'amica ritrovata.
A tavola, ancora il buon vino.
La pasta asciutta era ottima, l'arrosto era ottimo, il formaggio era ottimo. Fu
un'orgia del palato per le due suore use ai pasti uniformi e scipiti del
convento. E i cibi e il vino e i conversari le immersero in un torpore che le
smemorò. Suonarono le dieci. Suonarono le undici.
"Ormai è meglio che
restiate. Ho un lettone che c'è posto per un convento... di frati". E
Bianchina ridendo, aggiunse: "Staremo meglio che nel fienile della
Matilde, ti ricordi, Lisa?".
Suor Angela ricordò, divenendo
di bragia. Rivide. Andavano lassù, nei pomeriggi afosi. Dava un'impressione di
frescura quell'ombra venendo dalla calura dei campi affocati. Ma l'aria
diventava greve, poi, e l'odor del fieno stordiva. Si aprivano le camicette, e
si asciugavano il sudore, che imperlava il seno e sotto le ascelle colava. E
quel fermento del sangue, che ribolliva in quell'ardore del cielo e della
terra, suggeriva dei giochi. Furono malizie fanciullesche da prima, ma un
giorno...
Suor Angela rivide Bianchina,
quella di quel giorno. Rivide le sue braccia bianche agitarsi nell'aria, e le
parve di sentire ancora una morbida freschezza serrarle le guance. Rimasero. Si
coricarono. Ma il sonno non veniva. Suor Geltrude pensava alla superiora. Suor
Angela pensava a quei lontani pomeriggi, che l'odore del corpo di Bianchina
veniva, eccitava l'inquietudine del sangue. Bianchina riaccese. Volle mostrare
il proprio corredo. E le venne l'idea di vedere addosso alle sue amiche le sue
camicie tutte pizzi e trasparenti come veli. Suor Geltrude si rifiutò. Ma suor
Angela provò alcune camicie, da notte e da giorno. E si guardò nella specchiera,
arrossendo, ma trovandosi "ancora discreta".
Suor Geltrude rimproverò suora
Angela, che sgambettava, con scoppi di risa, davanti alla specchiera.
Aveva bevuto troppo, suora
Angela. Il Convento, i voti, la superiora... tutto spariva, portato lontano da
una ventata di follia che aveva un profumo di fieno e l'ardore di frutto il
sole delle mietiture.
Giocarono così, finchè il
respiro di suor Geltrude si fece grosso.
Accanto all'amica che dormiva,
sognando di essere rimproverata dal padre confessore, il passato risorse.
*
Al chiarore dell'alba, suor
Geltrude vide suor Angela appoggiata col capo sulla spalla di Bianchina, che
posava una mano sul seno di questa. Le svegliò, e disse: "Alla scusa non
abbiamo ancora pensato".
Mentre Bianchina faceva il bagno,
le due suore si proponevano varie scuse. Ma le scartarono ad una ad una, chè
non reggevano. Lo sgomento della sera prima si riaddensò. Ma Bianchina apparve,
coll'accappatoio aperto, dicendo: "Ho trovato. Vengo anch'io al convento.
E mi presenterete come... un'anima pentita".
E rivolgendosi a suor Angela,
"Sei contenta, amore?". Suor Angela arrossì.
Suor Geltrude fece una smorfia.
"Sono stufa di questa vita. Un po' di riposo mi farà bene.
Diremo che m'avete incontrata,
che stavo per uccidermi per un grosso dispiacere, che siete rimaste con me per
assistermi, e che, parlandomi della vita religiosa del convento m'avete
convertita. Va bene così?... Non sono mica una brutta Maddalena...".
E si inginocchiò davanti allo
specchio, inclinando il capo su di una spalla e giungendo le mani.
Suor Geltrude scattò: "Via,
Bianchina, la religione non è una cosa da ridere". E suor Angela consentì
tutta seria. Aveva ripreso la sua faccia atona.
La condussero dal padre
confessore, per preparare il terreno. Il buon vecchietto, anima candida, fu
estasiato al racconto di suor Angela.
Bianchina entrò nel convento. Ma
si stancò ben presto, ed il padre confessore non trovò più la sua
"Maddalena", come la chiamava parlandone alla suora superiore che
aveva già dato il suo giudizio: "Sarà, ma quando esiste una pecorella
così, ho paura per il gregge".
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