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Camillo Berneri
Novelle

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  • L'inventore
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L'inventore

 

 

All'ufficio dell'Ing. Comm. Augusto Imperiali si presentava spesso la seccatura, nella forma di un ometto tutto strinto nelle spalle misere, tutto timidezza ed ossequio, ma con un sorrisetto, tra la barbetta ispida, di uomo che la sa lunga, ed uno sguardo scintillante di sotto le sopracciglia spioventi, quasi a nascondere quei lumini troppo vivi per una faccia così affamata.

Arrivava con un rotolo di carta sotto il braccio, ma appena all'ufficio dell'Ing. Comm. Imperiali, se lo portava dietro la schiena. L'ingegnere lo accoglieva con un grugnito, e masticava un: — Si accomodisecco secco. Poi dopo essere rimasto un momento assorto, con le grosse mani inanellate intrecciate sul ventre, diceva: — Dunque a che punto siamo con questa invenzione? — L'ometto allora, faceva roteare in avanti il braccio sinistro, con la destra poggiava il cappello sulla seggiola più vicina e subito dopo svolgeva il suo rotolo davanti allo sguardo indifferente dell'ingegnere. E cominciava la spiegazione, infiorettata di: — Lei mi insegna... non importa che le spieghi... — e simili blandizie. Ma l'ingegnere finiva col dire: — Vedremo, vedremo. Ora siamo occupatissimi, ma quanto prima prenderemo in esame la cosa —.

Il "quanto prima" si era prolungato tre anni, con proroghe mensili. Trentasei visite infruttuose: unico totale per l'ometto paziente e tenace.

 

Ma un giorno, tra l'ometto magro e patito e l'omone ben pasciuto, corsero dei rapporti strabilianti. L'ingegnere batté la destra sulla scrivania, con esclamazioni ammirative; ed invitò a pranzo l'ometto, gongolante.

A tavola, tutti gentili; per una parola d'ordine soffiata all'orecchio della signora Imperiali e trasmessa ai signorini. La signora sfoggiava i sorrisi più affascinanti; i signori ammiccavano, ridacchiavano, ma discretamente.

L'ometto parlava parlava, della sua invenzione, del passato, della vita grama. Tutta la vita così: — Paghe grame e niente ripeschi. — La signora e i signori si domandavano come mai quel miserabile fosse alla loro tavola, ed erano vogliosi di sapere che cosa bolliva in pentola. L'ingegnere aveva una faccia sorniona e badava a non lasciar vuoto il bicchiere dell'ospite, che avvolto da quelle premure, e da quel caldo, ipnotizzato dallo splendore delle posate e dallo scintillio delle stoviglie, eccitato dal vino generoso, si apriva sempre più. Guardava i ragazzi con l'aria affettuosa dello zio che viene di lontano, la signora con soggezione nella quale c'erano lampi di galanteria, e dava all'ingegnere dei colpetti d'intesa sulle spalle e sulla pancia. E parlava della sua pena di essere ballottato di promessa in promessa, dei creditori che non riusciva a sbronciare, della soffitta nella quale pioveva, sì che doveva di quando in quando montare sui tetti a dare una rimestatina alle tegole, lavoro ormai inutile, chè la incannucciata marciva. I ragazzi si divertivano un mondo a sentir parlare un povero, chè gli invitati consueti non facevano altro che parlare di azioni, rialzi, ribassi e simili pasticci.

A pranzo finito, l'ospite si alzò con fatica e con passo malsicuro seguì l'ingegnere nello studio. Riguardarono il progetto, e l'ingegnere offrendo una avana all'ometto che pareva un po' ingrassato, venne al sodo: — Giacchè ci siamo, per non perder tempo sarebbe bene metterci d'accordo per il lato finanziario. Domani c'è l'adunata degli azionisti della Stet e sarebbe bene potessi presentare il contratto. Farebbe buona impressione —.

L'ometto annuì, felice di veder finita, e finita bene, la sua lunga odissea. L'ingegnere si mise a scrivere, e presentò poco dopo un foglio, che l'inventore cercò di leggere con calma. Cercò di capire, ma la testa era annebbiata. Vide delle cifre e delle clausole che non lo persuadevano, ma non osava chiedere schiarimenti tanto meno muovere obiezioni. Temeva di urtare; temeva si allontanasse la soluzione, proprio mentre stava per entrare in porto. E firmò.

L'ingegnere rinchiuse il documento nella cassaforte, poi estrasse dal portafoglio alcuni biglietti di banca e li mise in una busta, che porse all'ometto, dicendogli: "Questo non come anticipo, che è una piccolezza. Ma come amichevole prestito. Quando sarà ricco, me lo restituirà al cento per cento". E con una risatina e una stretta di mano prevenne il ringraziamento dell'ometto, che si alzò per congedarsi, non vedendo l'ora di guardare dentro la busta.

L'ingegnere volle accompagnarlo fin sulla porta, e all'ospite che insisteva: "Ma le pare, Commendatore... ma non si disturbi..." — rispondeva, con un crescendo di toni cordiali: "Ormai siamo amici... La mia casa è la vostra... Arrivederci a presto...".

Appena in strada, l'ometto guardò nella busta. Duemila franchi! Si sentì ricco. E correndo verso casa, pensava con emozione: "Ho finito! Ho finito! Comincio a vivere". E con tenerezza ricordava la accoglienza. Che cuore d'oro, quell'ingegnere! E che bel pezzo di donna, la signora! Vispi quei ragazzi! Gli pareva di avere una famiglia, ora. Il vino e la gioia gli solleticavano il cuore, innondandolo di una tenerezza stupida e dolcissima.

Entrò in un'osteria, chè a casa, tra quello squallore, non si sentiva di ritornare. Bevve con un piacere nuovo. Da tempo beveva per affogare i dispiaceri. Ma quelli galleggiavano. E il bicchiere vuoto diventava un caleidoscopio. Affioravano i ricordi neri. Notti afose o rigide tra il fiato asmatico della madre e quello vinoso del padre. Lunghe giornate nella botteguccia dove, bambino, cominciava a pagarsi la vita. Poi il mondo, girato con il bisogno alle calcagne e il buio davanti. Buscarsi da vivere: pensiero di ogni giorno. Per non aggravare le angustie, niente vizi. Ma venne la smania di conoscere, che mangiava molte candele e lo faceva cliente, e non quotidiano, dei friggitori. Poco a poco arredò la testa, ma lo stomaco brontolava. E per tirare avanti in quel grigiore di giorni lunghi ci volle il vino.

Rimase all'osteria fino alla chiusura; allora dovettero buttarlo fuori. Era notte tarda e la casa era lontana, ma l'ometto aveva il suo sole.

 

*

 

Di ritorno dalla casa dell'ingegnere, il nostro ometto si sdraiò sul letto; per concentrarsi. Non capiva. Aveva lasciato il progetto nelle mani dell'ingegnere e questi non si faceva trovare in casa, oppure non riceveva. Sempre occupato od in viaggio. Ma perchè non lasciava detto nulla alla signora? Perchè non lasciava due righe? Il dubbio di essere stato ingannato si affacciava, ma lo ricacciava con manate di giustificazioni ottimiste. E si dava del maligno. Per calmare l'orgasmo beveva beveva. Beveva anche per cacciare la paura di ammalarsi. Da alcuni giorni veniva preso da malesseri improvvisi e violenti. Si sentiva soffocare, il cuore pareva si fermasse, la vista gli si velava.

Anche quella sera il male lo aggredì. Cercò di non badargli. Volle continuare a leggere il giornale. Accese un sigaro. Ma dovette alzarsi, e camminare in su e in giù.

Una torbida, affannosa sonnolenza lo avvolgeva. Pensò al progetto nelle mani dell'ingegnere. Fece per scrivere, per chiedere di rivedere il contratto. Ma non aveva carta, buste e l'inchiostro era ingrumato nel boccetto polveroso. Andò verso la porta per chiamare la portinaia. Allungata la mano per girare la maniglia, la ritrasse con un brivido. Chè una tenda nera gli si era abbassata davanti. Un dolore acuto gli attanagliò la nuca e una morsa di fuoco lo strinse alla gola. Volle chiamare: Signora Nelda... Signora Nelda..., ma non uscì che un gorgoglio. Le ginocchia cedevano. Una collera disperata snodò il groppo alla gola, che lasciò passare l'ultimo respiro in un grido: — Ladro!...

 

*

 

La polizia gli trovò addosso milleottocentocinque lire e quaranta centesimi.

Nel vicinato fiorì la leggenda che Tirso Bartracchi, detto "l'inventore", era un avaraccio. A crearla fu la portinaia che si pente ancor oggi di non aver avuto la buona idea di guardargli in tasca "a quell'ebreo".

 

L'Adunata dei Refrattari, 21 agosto 1937




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