All'ufficio dell'Ing. Comm.
Augusto Imperiali si presentava spesso la seccatura, nella forma di un ometto
tutto strinto nelle spalle misere, tutto timidezza ed ossequio, ma con un sorrisetto,
tra la barbetta ispida, di uomo che la sa lunga, ed uno sguardo scintillante di
sotto le sopracciglia spioventi, quasi a nascondere quei lumini troppo vivi per
una faccia così affamata.
Arrivava con un rotolo di carta
sotto il braccio, ma appena all'ufficio dell'Ing. Comm. Imperiali, se lo
portava dietro la schiena. L'ingegnere lo accoglieva con un grugnito, e
masticava un: — Si accomodi — secco secco. Poi dopo essere rimasto un momento
assorto, con le grosse mani inanellate intrecciate sul ventre, diceva: — Dunque
a che punto siamo con questa invenzione? — L'ometto allora, faceva roteare in
avanti il braccio sinistro, con la destra poggiava il cappello sulla seggiola
più vicina e subito dopo svolgeva il suo rotolo davanti allo sguardo indifferente
dell'ingegnere. E cominciava la spiegazione, infiorettata di: — Lei mi
insegna... non importa che le spieghi... — e simili blandizie. Ma l'ingegnere
finiva col dire: — Vedremo, vedremo. Ora siamo occupatissimi, ma quanto prima
prenderemo in esame la cosa —.
Il "quanto prima" si
era prolungato tre anni, con proroghe mensili. Trentasei visite infruttuose:
unico totale per l'ometto paziente e tenace.
Ma un giorno, tra l'ometto magro
e patito e l'omone ben pasciuto, corsero dei rapporti strabilianti. L'ingegnere
batté la destra sulla scrivania, con esclamazioni ammirative; ed invitò a
pranzo l'ometto, gongolante.
A tavola, tutti gentili; per una
parola d'ordine soffiata all'orecchio della signora Imperiali e trasmessa ai
signorini. La signora sfoggiava i sorrisi più affascinanti; i signori
ammiccavano, ridacchiavano, ma discretamente.
L'ometto parlava parlava, della
sua invenzione, del passato, della vita grama. Tutta la vita così: — Paghe
grame e niente ripeschi. — La signora e i signori si domandavano come mai quel
miserabile fosse alla loro tavola, ed erano vogliosi di sapere che cosa bolliva
in pentola. L'ingegnere aveva una faccia sorniona e badava a non lasciar vuoto
il bicchiere dell'ospite, che avvolto da quelle premure, e da quel caldo,
ipnotizzato dallo splendore delle posate e dallo scintillio delle stoviglie,
eccitato dal vino generoso, si apriva sempre più. Guardava i ragazzi con l'aria
affettuosa dello zio che viene di lontano, la signora con soggezione nella
quale c'erano lampi di galanteria, e dava all'ingegnere dei colpetti d'intesa
sulle spalle e sulla pancia. E parlava della sua pena di essere ballottato di
promessa in promessa, dei creditori che non riusciva a sbronciare, della
soffitta nella quale pioveva, sì che doveva di quando in quando montare sui
tetti a dare una rimestatina alle tegole, lavoro ormai inutile, chè la
incannucciata marciva. I ragazzi si divertivano un mondo a sentir parlare un
povero, chè gli invitati consueti non facevano altro che parlare di azioni,
rialzi, ribassi e simili pasticci.
A pranzo finito, l'ospite si
alzò con fatica e con passo malsicuro seguì l'ingegnere nello studio.
Riguardarono il progetto, e l'ingegnere offrendo una avana all'ometto che
pareva un po' ingrassato, venne al sodo: — Giacchè ci siamo, per non perder
tempo sarebbe bene metterci d'accordo per il lato finanziario. Domani c'è
l'adunata degli azionisti della Stet e sarebbe bene potessi presentare il
contratto. Farebbe buona impressione —.
L'ometto annuì, felice di veder
finita, e finita bene, la sua lunga odissea. L'ingegnere si mise a scrivere, e
presentò poco dopo un foglio, che l'inventore cercò di leggere con calma. Cercò
di capire, ma la testa era annebbiata. Vide delle cifre e delle clausole che
non lo persuadevano, ma non osava chiedere schiarimenti nè tanto meno muovere
obiezioni. Temeva di urtare; temeva si allontanasse la soluzione, proprio
mentre stava per entrare in porto. E firmò.
L'ingegnere rinchiuse il
documento nella cassaforte, poi estrasse dal portafoglio alcuni biglietti di
banca e li mise in una busta, che porse all'ometto, dicendogli: "Questo
non come anticipo, che è una piccolezza. Ma come amichevole prestito. Quando
sarà ricco, me lo restituirà al cento per cento". E con una risatina e una
stretta di mano prevenne il ringraziamento dell'ometto, che si alzò per
congedarsi, non vedendo l'ora di guardare dentro la busta.
L'ingegnere volle accompagnarlo
fin sulla porta, e all'ospite che insisteva: "Ma le pare, Commendatore...
ma non si disturbi..." — rispondeva, con un crescendo di toni cordiali:
"Ormai siamo amici... La mia casa è la vostra... Arrivederci a
presto...".
Appena in strada, l'ometto
guardò nella busta. Duemila franchi! Si sentì ricco. E correndo verso casa,
pensava con emozione: "Ho finito! Ho finito! Comincio a vivere". E
con tenerezza ricordava la accoglienza. Che cuore d'oro, quell'ingegnere! E che
bel pezzo di donna, la signora! Vispi quei ragazzi! Gli pareva di avere una
famiglia, ora. Il vino e la gioia gli solleticavano il cuore, innondandolo di
una tenerezza stupida e dolcissima.
Entrò in un'osteria, chè a casa,
tra quello squallore, non si sentiva di ritornare. Bevve con un piacere nuovo.
Da tempo beveva per affogare i dispiaceri. Ma quelli galleggiavano. E il
bicchiere vuoto diventava un caleidoscopio. Affioravano i ricordi neri. Notti
afose o rigide tra il fiato asmatico della madre e quello vinoso del padre.
Lunghe giornate nella botteguccia dove, bambino, cominciava a pagarsi la vita.
Poi il mondo, girato con il bisogno alle calcagne e il buio davanti. Buscarsi
da vivere: pensiero di ogni giorno. Per non aggravare le angustie, niente vizi.
Ma venne la smania di conoscere, che mangiava molte candele e lo faceva
cliente, e non quotidiano, dei friggitori. Poco a poco arredò la testa, ma lo
stomaco brontolava. E per tirare avanti in quel grigiore di giorni lunghi ci
volle il vino.
Rimase all'osteria fino alla
chiusura; allora dovettero buttarlo fuori. Era notte tarda e la casa era
lontana, ma l'ometto aveva il suo sole.
*
Di ritorno dalla casa
dell'ingegnere, il nostro ometto si sdraiò sul letto; per concentrarsi. Non
capiva. Aveva lasciato il progetto nelle mani dell'ingegnere e questi non si
faceva trovare in casa, oppure non riceveva. Sempre occupato od in viaggio. Ma
perchè non lasciava detto nulla alla signora? Perchè non lasciava due righe? Il
dubbio di essere stato ingannato si affacciava, ma lo ricacciava con manate di
giustificazioni ottimiste. E si dava del maligno. Per calmare l'orgasmo beveva
beveva. Beveva anche per cacciare la paura di ammalarsi. Da alcuni giorni
veniva preso da malesseri improvvisi e violenti. Si sentiva soffocare, il cuore
pareva si fermasse, la vista gli si velava.
Anche quella sera il male lo
aggredì. Cercò di non badargli. Volle continuare a leggere il giornale. Accese
un sigaro. Ma dovette alzarsi, e camminare in su e in giù.
Una torbida, affannosa
sonnolenza lo avvolgeva. Pensò al progetto nelle mani dell'ingegnere. Fece per
scrivere, per chiedere di rivedere il contratto. Ma non aveva nè carta, nè
buste e l'inchiostro era ingrumato nel boccetto polveroso. Andò verso la porta
per chiamare la portinaia. Allungata la mano per girare la maniglia, la
ritrasse con un brivido. Chè una tenda nera gli si era abbassata davanti. Un
dolore acuto gli attanagliò la nuca e una morsa di fuoco lo strinse alla gola.
Volle chiamare: Signora Nelda... Signora Nelda..., ma non uscì che un
gorgoglio. Le ginocchia cedevano. Una collera disperata snodò il groppo alla
gola, che lasciò passare l'ultimo respiro in un grido: — Ladro!...
*
La polizia gli trovò addosso
milleottocentocinque lire e quaranta centesimi.
Nel vicinato fiorì la leggenda
che Tirso Bartracchi, detto "l'inventore", era un avaraccio. A
crearla fu la portinaia che si pente ancor oggi di non aver avuto la buona idea
di guardargli in tasca "a quell'ebreo".
L'Adunata
dei Refrattari, 21 agosto 1937
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