VI
Il lungo
viaggio da Genova a Bologna fu un martirio per suor Immacolata. Accompagnata da
una vecchia monaca che doveva recarsi in Romagna in quei giorni, nel vagone di
seconda classe riservato alle signore dove si trovavano altre due viaggiatrici,
una delle quali con un bimbo malato e inquieto, ella doveva fare gran forza a
sé stessa per non prorompere in singhiozzi disperati ogni volta che la dolce
imagine materna le si presentava più viva al pensiero. L'ultimo loro incontro
era avvenuto cinque mesi addietro, e sebbene di salute sempre malferma
specialmente dopo la perdita del marito, della quale la contessa Farigliano
aveva vivamente sofferto, nulla dava a dubitare ch'ella dovesse seguirlo così
in breve. Anche gli accessi cardiaci a cui andava soggetta, non erano a dire
del medico, pericolosi, date le cure sollecite e continue delle quali i suoi
figlioli la circondavano. Per questo suor Immacolata non aveva inquietudini.
Ella conosceva bene la bontà, la delicatezza, l'abnegazione di sua cognata, la
moglie d'Arrigo, che era cara alla suocera come una figliuola, mentre costei la
venerava come una madre. Se il male aveva potuto aggravarsi fino a quel punto
non era certo stato per mancanza di riguardi e di cure. Le tornarono in mente
le parole della superiora quando si era congedata: "Coraggio, figliuola:
l'ora della morte è fissata da Dio; conviene rassegnarsi alla Sua volontà.
Pregheremo per sua madre...." Eppure ella non poteva rassegnarsi! La morte
di suo padre le aveva fatto provare un gran dolore; ma all'idea di perdere sua
madre, si sentiva invasa da una specie di disperazione ribelle....
Erano
lontane, è vero: rinunziando al mondo aveva dovuto pure rinunziare alla sua
casa piena di memorie, alla sua famiglia piena di dolcezze: ma ai suoi affetti
puri e santi aveva potuto non rinunziare senza offendere quel Dio a cui si
consacrava interamente. Anzi nella via superiore a quelle terrestri, nella via
piena di luce, fiorita degli asfodeli della Grazia, suor Immacolata aveva la
convinzione d'esser più efficace verso i suoi cari che non rimanendo con essi,
Ella pregava per la pace e la purezza dei loro spiriti e il benessere della
loro esistenza materiale: essa li guidava, li sorreggeva, li ammoniva, li
confortava, li consigliava di lontano, nelle lunghe lettere in cui versava
tutti i tesori della sua anima immacolata come la sua veste e il suo nome. Era
la vigile lampada del santuario, che si consuma solitaria, ma dà luce di amore
e di fede: era la mistica colomba di pace che fa sereno il tetto su cui si
posa, a cui ritorna, non fosse che per un istante. Ella si sentiva quindi
avvinta alla famiglia, alla madre lontana, con vincoli ai quali il lume ideale
sovrapposto, non aveva fatto che accrescere la forza e l'intensità.
L'attempata
monaca che l'accompagnava, suor Caterina, tentava in tutti i modi di
rianimarla, ora infondendole qualche speranza, ora esortandola alla
rassegnazione e al sacrifizio, ora invitandola a pregare con lei. E suor
Immacolata si prestava docile, ma il pallore del suo delicato volto e
l'offuscamento doloroso dei suoi occhi azzurri che ogni momento si colmavano di
lacrime, rivelavano che il sentimento lottava in lei con la volontà. Si era
anche occupata del suo piccolo compagno di viaggio malato, per distogliersi
alla propria angoscia, interrogando la madre e suggerendole qualche rimedio:
aveva recitato un intero rosario e letto nel suo Manuale di pietà molte
preghiere; eppure il tempo non passava mai, e quel viaggio le pareva non
dovesse mai aver fine.
— Vedrà,
vedrà.... — mormorava alla sua compagna, — che non arriverò in tempo a vederla
viva....
— Speri nel
Signore misericordioso.... — rispondeva la pia sorella. — Egli non le negherà
forse questa grazia.
Suor
Immacolata taceva, stringendo convulsamente il rosario fra le dita sottili. E
guardando distratta il verde paesaggio della monotona campagna emiliana che
sembrava fuggire dal lato opposto a quello dove inoltrava il treno, si
consumava nei suoi occulti pensieri, di dolore e di rimorso.... Sì, anche di
rimorso. In quell'ora grave, nella quale sua madre stava per lasciarla, la sua
coscienza sensibilissima le rivolgeva una interrogazione severa: se non avesse
lei, per avventura, contribuito, seguendo la via del suo alto destino, a
logorare per un patema d'animo segreto la salute di quella sua cara. La tenerezza
di sua madre per lei, specie dopo la morte della prima figliuola, Luisa, recava
tutti i caratteri d'una passione. Quante volte l'aveva veduta trepidare,
inquietarsi, affliggersi anche di cose di poco conto, ma che riguardavano lei,
la figlia prediletta! E con quale gelosa cura l'aveva allevata, fisicamente e
moralmente, se l'era sempre tenuta vicina, sino ai vent'anni, fino al giorno in
cui apprendeva la sua grande risoluzione di ritirarsi dal mondo per offrirsi a
Dio.
Il distacco
era stato crudelissimo, e la contessa Farigliano non vi si era rassegnata che
facendo violenza al suo sentimento egoistico. Ma ne aveva sofferto, ma poteva
averne sofferto più di quanto nella sua virtù ne avesse lasciato trapelare....
E suor Immacolata pensava che se sua madre fosse partita dal mondo prima di
risolvere quel dubbio doloroso, non avrebbe avuto più pace, nemmeno nel
chiostro. Una parola, un atto, uno sguardo della moribonda basterebbero.... ed
implorava Dio con tutte le sue forze che la lasciasse giungere in tempo per
raccoglierli.
— Suor
Caterina.... e se la mia vista le desse una emozione troppo forte? Se il suo
cuore malato al vedermi si spezzasse? Sarei io che....
Il pianto le
fece nodo alla gola e suor Immacolata tacque chiudendo gli occhi nello spasimo
di quel nuovo sgomento.
— No, si dia
coraggio: i suoi parenti l'avranno preparata.... poi chissà se il male è così
grave come essi temono? Può essere una crisi come le altre.... forse la
supererà....
La suora
addolorata rialzò le palpebre a questo alito di nuova speranza. Ah se il
Signore le facesse questa grazia immensa! Ma il presentimento lugubre opprimeva
tanto la sua anima che nessun sollievo la penetrò.
Il treno
correva fra Piacenza e Parma nel pomeriggio afoso, livido, senza sole. Due ore
ancora la separavano dall'arrivo. Qualcuno sarebbe certo alla stazione, poiché
essa aveva avvisato della sua immediata partenza da Genova. Troverebbe Corrado?
Oh almeno fossero tutti intorno a quel letto.... almeno vi trovasse anche
monsignor Altabella, il prelato venerando, l'antico amico della sua casa, lui
che aveva ricevuto fra i primi la rivelazione della sua vocazione e che si era
assunto la difficile missione di persuadere i suoi genitori a non impedirle di
rispondere all'appello del Signore.
La Stazione di Parma col suo
piccolo parco verde lieto, dopo pochi minuti di fermata, passò come una
visione. Mano mano che lo spazio diminuiva, la sua ansia invece di calmarsi si
faceva più acerba; ed ella offriva quel tormento al suo Dio perchè le
concedesse la suprema, triste dolcezza di raccogliere l'estremo sospiro di lei
che le aveva dato la vita. Pregava mentalmente; e la preghiera le si spezzava
in una invocazione, disperata, monotona, ardente, nell'intimo del cuore, sotto
il suo aspetto dignitoso e tranquillo.
— Ecco
Modena. Presto siamo a Bologna.... — osservò Suor Caterina per consolarla.
Bologna! Quel
nome la percosse, la trasse per qualche momento dalla sua agitazione. Non era
più stata a Bologna dacché era suor Immacolata. Sua madre, i suoi parenti, si
recavano essi a vederla qua e là, dove la portava il suo ministero, o nel suo
convento, a Padova. Suo padre era morto nella loro villa di Rivarola, ella vi
era accorsa, era passata anche molte volte dalla stazione della più centrale
fra le città emiliane, ma non era più rientrata nel palazzo avito di via San
Stefano dove era nata, dove aveva trascorso la sua prima giovinezza, dove si
era infranto il luminoso sogno del suo cuore. Ed ora dopo dieci anni, sotto
altro nome, ella vi rimetterebbe il piede; ella rivedrebbe quelle pareti, quei
mobili, quegli oggetti, certi immutati, e con che strazio nell'anima! e in qual
luttuoso giorno!
Ancora pregò:
"Gesù, che sapesti l'amarezza suprema nell'orto degli Olivi, fa che il mio
cuore non si schianti nel varcare quella soglia! Cingimi della tua fortezza
sovrumana: fa ch'io mi dimentichi di me medesima, ch'io porti anche nella casa
che fu mia il raggio della tua fede, il conforto e la speranza e la pace che
scendono da Te...."
L'ardente
preghiera fu spezzata dal fischio acuto e prolungato della macchina che
avvertiva l'arrivo imminente. Le altre viaggiatrici si levarono. Suor Caterina
tolse dalla rete le due umili valigie di tela; rivolse alla compagna altre
parole di consolazione e di incoraggiamento che ella udì come in sogno.
Il treno
entrò sotto la tettoia affollata, rallentò e si fermò con fragore. Suor
Immacolata udì il nome della sua città gridato con una specie d'orgoglio da
molte voci.... udì il dialetto che le era famigliare.... ma si sentiva incapace
d'un movimento, d'un atto di volontà, come sotto un incubo penoso. Fu suor
Caterina che la prese delicatamente per il braccio, la forzò a levarsi, l'aiutò
a scendere.
Mentre
rimaneva incerta sul marciapiede stordita dal chiasso, dall'emozione, dalla
propria debolezza fisica, un nome, il suo nome, il nome della sua vita morta,
pronunciato da una voce cara la riscosse, la rianimò:
— Maria....
Era Corrado,
il suo fratello prediletto, in divisa di capitano, lì accanto a lei.
— Ah! — ella
gridò dominando a fatica l'impulso di gettarsi sul suo petto fido, come usava
un tempo. E tosto: — È viva?...
— Sì....
Vieni subito: c'è la carrozza.... Hai del bagaglio?
Nel
rivolgersi a prendere la piccola valigia di tela, rivide suor Caterina e si
congedò commossa in fretta, per seguire il fratello che già si avviava.
Uno strano
effetto le fece il salire in un coupè stemmato al cui sportello il servo
attendeva in attitudine rispettosa, ella, l'umile figliuola della Carità, che
volontariamente aveva eletto l'ultimo posto nelle gerarchie del mondo. E quella
carrozza e quei servi venivano dalla sua casa: erano stati un tempo i suoi.
Quando la
carrozza si avviò sotto una pioggerella fine che mutava quel vespro di giugno
in un vespro autunnale, suor Immacolata chiese con ansia al fratello dei
dettagli sullo stato della diletta ammalata. Era gravissimo.... Aveva ricevuto
i sacramenti. Pure si mostrava tranquilla, in una lucidità di mente perfetta.
Era stata lei a desiderare che si telegrafasse ai figliuoli lontani per averli
intorno nel momento estremo.... Corrado era arrivato al mattino da Livorno: non
si era troppo commossa vedendolo.... aveva dimostrato solamente la sua intima
dolcezza.... Ora aspettava lei....
La suora,
tutta bianca, nell'abito, nelle bende, nel volto, dall'ombra della carrozza
ascoltava il diletto fratello parlare, contemplando su quel maschio e nobile
viso la sua stessa emozione dolorosa a cui se ne aggiungeva un'altra, più
tenera e sottile. La voce di Corrado, i lineamenti famigliari, alterati dagli
anni e dal dolore, lo sguardo acuto e grave degli occhi azzurri che
somigliavano ai suoi, la divisa d'ufficiale di marina, la riportavano nel suo
passato, negli anni prima dolci, poi tristi della sua giovinezza. E una schiera
di fantasmi aleggiava intorno, alcuni soavemente grati alla memoria fedele,
altri temibili, ma che non era più capace di scacciare. Maria Bertolese....
l'amica capricciosa e infida, ch'era stata la devastatrice dei loro due cuori,
di quello del fratello per l'amore che vi aveva fatto nascere; raro tesoro
sdegnato e disconosciuto; di quello di lei a cui aveva invocato l'unico sogno
che le faceva parer lieta e desiderabile la vita. Dove si trovava colei? Le
risovvenne del loro ultimo incontro, già lontano, causale, in un ospizio
d'orfane d'una città di Romagna, nel vespro dell'ultimo giorno dell'anno,
mentre lei, suor Immacolata, si trovava in giardino con le fanciulle affidate
alle sue cure....
Rivide la
scena.... rivide il lampo freddo di quegli occhi color delle lame d'acciaio....
rivide la bimba che la signora teneva per mano, la loro figlia, ch'ella
aveva poi condotto seco con un turbamento ineffabile.... Riudì la vocina
infantile, ne rammentava il nome: Mimma.... Che era mai adesso di quella
creatura, adolescente ormai? Non osò chiederne al fratello. Chissà se aveva
dimenticato? Chissà se il mare lo aveva guarito? Se in fondo alla sua anima
forte e invitta l'antica ferita era rimarginata completamente? Povero fratello!
In quel momento che un comune e così vivo e santo dolore li riuniva, suor
Immacolata sentì più per lui che per sé acerbo il rimprovero per l'usurpatrice.
Lei oramai, era al sicuro.... La carrozza si fermò. La viaggiatrice riconobbe
con un sussulto i gradini e l'arco del portico di via S. Stefano: il portone di
casa sua. Con un appello supremo alla protezione divina, raccolse le sue forze,
scese dopo il fratello. Pioveva tranquillamente, con un lieve e fresco rumore
come in autunno. Corrado le porse amorevolmente il braccio.
Solo quel
braccio forte e fido potè darle l'eroismo d'oltrepassare quella vecchia soglia
senza svenire.
L'altro
fratello, Arrigo, un bel giovine bruno, un po' tarchiato, attendeva a' piedi
della scala. Alcuni servi andavano e venivano, inchinandosi intorno a lei
ossequiosamente; ma suor Immacolata viveva in quel momento come in sogno.
Arrigo le prese le mani, le mormorò qualche parola di conforto, ma poi si
rivolse per non lasciar scorgere il suo pianto. Corrado, senza abbandonarla, la
guidò per lo scalone, ancora adorno di tappeti e di piante verdi sul
pianerottolo; lo scalone tante volte asceso e ridisceso a fianco di lei che
moriva nel tempo della sua vita serena, quando la giovinezza e la speranza le
davano le ali. E altre figure le balenarono al pensiero: suo padre che non era
più; la sua istitutrice, Mistress Liliane, vigile come una seconda madre sotto
la corretta rigidezza inglese, morta anch'essa in un esiglio lontano; il
senatore Merelli, l'amico buono che l'accarezzava e la consolava, che pure
inavvertitamente le aveva dato il colpo crudele.... Dov'erano essi? La gran
casa le parve un sepolcro.
Ma sulla
soglia dell'anticamera, una gentile donna amorosa le si gettò fra le braccia,
l'avvolse nella sua vita e nella sua pietà. Era la cognata, Cordelia, la
giovine moglie di Arrigo; colei che aveva circondato di pazienti cure amorose,
di tenerezza e di rispetto, la contessa Farigliano negli ultimi anni della sua
esistenza: lei che con la sua presenza efficace aveva potuto, sola, mettere in
quiete la coscienza della figliuola che seguiva Gesù. Una forza e una pace
penetrarono nell'animo della suora a quell'abbraccio fraterno e alle buone
parole:
— Venga
venga.... La mamma l'aspetta... è tranquilla.... non soffre.... Muore come ha
vissuto, nobilmente. C'è il dottore.... le ha fatto un'iniezione. C'è anche
monsignor Altabella.
Al nome del
venerando sacerdote una nuova dolcezza malinconica entrò nel cuore della
pellegrina che tra la propria angoscia sentì l'aiuto e la protezione del suo
Dio in cui si rifugiò ancora con una fede infinita.
La cognata la
trasse delicatamente verso una stanza, la stanza di sua madre. Nulla era stato
mutato. Nel suo rapido passaggio suor Immacolata risalutava ogni colore, ogni
oggetto, cogli occhi e l'anima uguali a quelli di lei che agonizzava poco
lontano. Sulla porta della camera triste le venne incontro il vecchio
sacerdote. Ella si prostrò umilmente.
— Coraggio,
figliuola.... — le mormorò la voce pia, la voce autorevole che già tanti
elevati consigli le aveva dato. — Dio le riservava questa santa missione. La
compia da cristiana e da figliuola. Tocca a Lei rendere dolce a quest'anima
benedetta il suo passaggio dalle caligini all'eterna luce.... venga.
La rialzò,
l'addusse, ed essa rivide immutata la stanza di sua madre. Solo la porta a
vetri dell'alcova era tutta aperta. Suor Immacolata fu vicina al letto di sua
madre moribonda.
Sollevata da
molti guanciali, la contessa, coi capelli incanutiti, il volto cereo, lo
sguardo vago, dapprima non la riconobbe. Sospinta da un'angoscia rapida e
tremenda, la monaca si curvò su lei, la chiamò con la sua dolce voce, ridisse
il nome tante volte invocato, nell'infanzia, nella sua giovinezza, il nome che
fu per tante volte sorgente di conforto e di pace, il santo nome che l'indomani
non darebbe più a nessuno:
— Mamma,
mamma....
L'agonizzante
ebbe nei lineamenti e nelle pupille un debole e pur sensibile ritorno di vita.
Mosse le labbra, ma solo un sospiro le sfuggì.
Gli altri
figliuoli e il sacerdote stavano fuori dell'alcova, rispettando commossi
quell'incontro estremo. Al capezzale sedeva il medico che teneva tra le dita il
polso della giacente. Ma al sopraggiungere della suora s'era egli pure tratto
in disparte.
— Mamma.... —
ridisse suor Immacolata — mi vedi, mi senti.... mamma?
— La
moribonda mormorò:
— Maria!
Ancora il suo
dolce nome del passato, il nome che risuscitava tutta la sua vita sepolta: ma
quale formidabile emozione le diede, proferito dalle labbra di sua madre che
stava per morire! Eppure dall'istante in cui ella aveva toccato quel letto come
il termine delle sue affannose aspirazioni, una grande, una miracolosa forza
era scesa su lei, e dava alla sua anima invitta la completa dominazione sul suo
debole organismo. Ella constatò con sollievo che Dio nell'affidarle la santa e
dolorosa missione, le dava pure la possibilità di compierla. S'inginocchiò,
prese nelle sue mani la mano fredda e inerte, la cara mano che sapeva così
dolcemente carezzare, sorreggere, benedire, perdonare, e disse ancora:
— Sì, Maria,
la tua Maria, che vuol essere da te benedetta, o mamma, confortata da una
parola.... O mamma, se ti feci soffrire se ti lasciai.... perdono, perdono,
perdono....
La moribonda
ebbe un accenno di placido sorriso. E all'orecchio intenso, ansioso, della
figliuola, giunsero le sue estreme parole, le parole di grazia, che mai più,
mai più doveva dimenticare:
— Dio ti
benedica.... tu hai scelto la parte migliore....
Sospirò forte
e rimase così, col capo rivolto verso suor Immacolata.
Il dottore si
avvicinò, toccò il polso, accostò l'orecchio al cuore....
Ma la
figliuola aveva già compreso.... Chiuse con le pure dita gli occhi materni che
oramai si riaprivano per sempre di là dalla vita, sull'eterno Vero; le
congiunse le mani in croce: si tolse dal collo il crocifisso e lo depose su
quel cuore immobile. Monsignor Altabella ai piedi del letto funebre prese a
recitare delle preghiere. Arrigo singhiozzava nelle braccia della tenera sposa;
Corrado col volto alterato, le braccia conserte, fissava dietro alla monaca
genuflessa la cara imagine composta in pace: l'imagine che lo seguirebbe nella
sua esistenza errante di marinaio, sull'oceano, nelle terre lontane; e innanzi
alla quale, nel suo dolore profondo e muto, provava pure l'orgoglio santo di
sentirsi la coscienza monda da ogni colpa grave, di non aver mai dovuto
nascondere nulla delle sue azioni o dei suoi pensieri a colei per cui ora,
affrancata dalla materia, nessuna azione o nessun pensiero poteva più rimanere
nascosto e il cui spirito, invisibile, ma vivente e luminoso, aleggiava ancora
tra essi, sulla sua morta spoglia, come la farfalla che liberata appena
dall'involucro vi indugia intorno prima di iniziare la sua nuova esistenza di
volo e di luce.
I tristi
obblighi a cui la morte costringe i superstiti, la pietà affettuosa d'amici che
si diedero cura d'accorrere a palazzo Farigliano non appena si sparse la nuova
del decesso, strapparono i fratelli e la cognata della monaca dalla stanza
funebre, dove rimase ella sola accanto al vecchio sacerdote, a pregare. Il suo
dolore intenso non aveva superato i confini tra cui lo stringeva la sua volontà
dominatrice, dove lo riterrebbe fin che vedesse un dovere da compiere,
l'ultimo, il più tenue.
La creatura
spirituale, l'eletta, prevaleva in lei, come sempre, anche in questa prova
difficilissima della sua vita di carità e d'abnegazione. Quando anche monsignor
Altabella si fu allontanato, ella, aiutata da una vecchia famigliare che aveva
ritrovato insieme alle cose note e care dell'infanzia, e che la chiamava ancora
"contessina" prestò alla salma diletta gli estremi, pietosi uffici.
Le sue bianche mani, così destre nelle opere di misericordia, erano delicate,
leggiere e pie come quelle di un angelo. Volle vederla bella per l'ultima
volta: volle che coloro che si recherebbero a portare l'ultimo saluto a colei
ch'era stata il modello delle madri e delle spose, potessero ritenerne per
sempre l'imagine piena di commovente poesia. Rivestì il corpo così adorno, in
vita, di aristocratica dignità, con un ricco abito di broccato nero. Sui
capelli incanutiti, pettinati con cura intorno alla cerea fronte, accomodò il
lembo di un'ampia mantiglia di blonda spagnuola, nera, che dispose poi intorno
alla persona come un manto imperiale. Al collo le lasciò il medaglione con la
miniatura della sorellina morta nell'infanzia — Luisa — ch'ella portava sempre,
unito al ritratto dello sposo, aggiunto dopo la vedovanza. Ma sul petto, sotto
le mani incrociate, pose ancora il suo semplice crocifisso monacale, perchè
rimanesse con lei, come un vincolo sacro di religione e d'amore, tra le loro
due anime, tra il tempo e l'eternità.
Venne poi
Cordelia, la dolce e nuova sorella dalla figurina ancora di fanciulla, dai
larghi occhi grigi sotto la breve fronte, piena di lacrime. Ella recava in
un'ampia canestra i più bei fiori del giardino, e suor Immacolata rivide con
intimo strazio le rose, d'un tempo, le rose della spalliera, rampicanti sul
vecchio muro, nelle loro tinte di pallido oro e di porpora cupa: rivide i gigli
della sua morta primavera. Le buone mani femminili, d'accordo, cosparsero di
quei fiori il letto mortuario che ne acquistò un ideale quasi trionfale.
Fu invano,
però, che quando ogni servizio fu finito, la giovane contessa e i fratelli
indussero suor Immacolata a ritirarsi, a prendersi un po' di riposo, a
rifocillarsi con qualche ristoro. Calma e ferma nella sua dolcezza austera,
ella rispondeva che non sentiva bisogno di nulla, che non desiderava se non di
rimanere quella notte accanto alla spoglia materna, addusse l'abitudine dei
digiuni, delle veglie, dei disagi, assicurò affettuosamente i parenti che non
avrebbe sofferto, che era forte e temprata ormai. Ed essi vedendola tranquilla
e risoluta finirono per non insistere oltre e si ritirarono lasciando nella
stanza piena di fiori e di lumi, nel vasto palazzo tutto chiuso e semibuio,
quella bianca figura di monaca, così agile, così pallida, così fine, così
lieve, che pareva una custode Celeste.
I fratelli, i
domestici si avvicendarono nella veglia notturna, ma rimasero nelle stanze
vicine. Suor Immacolata sola, e la vecchia guardarobiera non abbandonarono la
camera della morta, durante la breve notte di giugno. Le due grandi finestre
rimasero aperte, e dal sottostante giardino, ricco di verde e di frescura,
salivano gli effluvi delle corolle schiuse nelle tenebre, gli aromi delle
piante resinose, il pacato, ritmico stridere dei grilli, e, quando a quando, il
lamentoso grido di qualche uccello notturno. Attratte dalla luce dei ceri
ardenti intorno al letto trasportato fuori dell'alcova, le falene volteggiavano
col loro pazzo volo come attratte dalla vertigine della propria distruzione: e
questa danza lugubre dei piccoli esseri alati, era il solo movimento di vita
esistente fra quelle pareti in cui gli oggetti e le cose sembravano
immobilizzati come il cuore della signora del luogo che dormiva per la prima
notte il sonno augusto della gran pace. In disparte, su una sedia a bracciuoli,
la vecchia domestica reclinava il capo allentando il rosario tra le dita:
presso il letto nella sua bianca veste verginale, nelle sue bende austere, suor
Immacolata curva su un inginocchiatoio non pregava più, non piangeva, non
dormiva: pensava. In quella camera, dove nonostante l'alta nota funebre nulla
era mutato, la stanza materna ch'ella rammentava così sempre, fino
dell'infanzia remota, ella riviveva tutto intero il suo passato: ella ascoltava,
ora con tenerezza dolorosa, ora con desolato abbandono, ora con pungente
strazio, la storia di venti anni di vita, narrati a lei dagli aspetti, dalle
forme, in ognuno delle quali palpitava una memoria. Quante ore della sua
infanzia gioconda aveva vissuto in quella stanza, coi suoi trastulli, ai piedi
della giovane mamma, sulle sue ginocchia, cullata, carezzata dalle sue mani
amorose! E più tardi, quante ore della giovinezza, leggendo, ricamando,
disegnando accanto a lei, guida, consigliera, amica amorosa e sicura! Un'ora
specialmente non poteva dimenticare, un'ora di cui, a distanza d'anni, e nel
tranquillo porto, ella sentiva ancora la dilacerante crudeltà demolitrice....
Un pomeriggio estivo: sua madre seduta a quella scrivania stessa, rimasta nel
medesimo luogo, accanto alla prima finestra, scriveva una lettera. Lei nella
sua delicata giovinezza appena schiusa, tutta raccolta intorno a un sogno
d'amore, lavorava a una trina destinata a una tovaglia d'altare. Ancora ne
faceva, di quella trina, sul disegno stesso! Come un lampo ripensò alla
terrazza di casa Denza a Genova, alla sua malatina che aveva lasciato
all'inizio di quella giornata medesima e che ora le pareva così lontana. Ma poi
la visione remota si ricompose. Fra mamma e figliuola, un vecchio amico fedele,
il senatore Merelli, colui che dormiva ora nel piccolo camposanto montano.
L'aveva veduta nascere, le voleva bene come un padre, eppure dal suo labbro
ell'ebbe il colpo mortale che doveva decidere di tutto il suo avvenire. Una
frase le tornò lucida, precisa, come risuonata allora tra quelle pareti che,
forse, ne avevano conservato l'eco: "Si sposeranno a settembre".
Ell’era fuggita a nascondersi con quel dardo confitto nell'anima che uccideva
insieme alla sua felicità un ideale d'amicizia, un ideale d'amore.
Ancora l'alto
sgabello di stile Enrico VI stava presso alla scrivania ingombra dei gingilli
d'allora. E la suora credette vedere nell'intimità di quell'angelo due
fantasmi, quello della madre che ora giaceva morta, e quello dell'antica fanciulla,
morta anch'essa col suo dolore. Ma dalla sua nuova vita spirituale, dalla sua
resurrezione vittoriosa oltre la cerchia delle passioni umane che non la
toccavano più, suor Immacolata, misurando l'angoscia di quelle ombre, effuse
verso Iddio, ancor una volta, le sue riconoscenti azioni di grazia per averla
guidata fuori del pelago, nel mare, libero e luminoso, in vista della Terra
promessa.
Così
trascorse la breve notte di giugno, fra le rievocazioni, la preghiera, la
meditazione. Né all'alba si sentiva stanca. Una meravigliosa forza era in lei,
infusa da una potenza sovrumana e nutrita da un sogno celeste. Un sogno, sì:
una pallida corolla di sogno, austera come un giglio, era sbocciata nel suo
cuore in quella notte di veglia funebre e amorosa, in quello stesso luogo che
aveva veduto avvizzire miseramente il fiore delle sue speranze primaverili.
Liberando l'anima benedetta di sua madre, l'angelo della morte aveva pure
reciso gli ultimi vincoli che trattenevano lei al suo passato, ai suoi affetti,
al suo ultimo dovere di pietà figliale. Ora si sentiva libera della sua
volontà, libera di muovere finalmente verso il grande, fulgente ideale
religioso e civile che l'attirava oltre i mari, lontano, nelle terre inospiti,
incontro al martirio e alla morte. Forse, oltre la sua fede desiderosa di
espandersi in un orizzonte più vasto e più alto ancora, la sospingeva verso
l'avventuroso ignoto l'antica virtù degli avi crociati e cavalieri di Terra
Santa, il cui ricordo durava ancora visibile nell'avita villa di Rivarola:
forse le dava quella insaziata sete di ardori mistici il candido spirito d'una
meno remota antenata, zia Laura, che a venticinque anni era entrata nell'ordine
delle Clarisse col nome ch'ella aveva rinnovato, il nome della purezza
insuperata; forse anche, poiché lo stesso sangue scorreva nelle loro vene e la
loro infanzia era stata nutrita dalle tradizioni medesime, un po' di quel
fascino che attirava senza posa Corrado sull'oceano, che gli aveva fatto
sdegnare per la rude vita di marinaio gli agi d'una vita signorile e le
raffinatezze della sua aristocratica stirpe, un po' di quel fascino verso
l'ignoto, verso il pericolo, verso l'inesplorato e l'esotico, teneva pure sotto
il suo giogo l'anima dolce, pia e gagliarda insieme, della sorella.
L'alba impallidiva
le pareti e diffondeva nella stanza funebre un soffio più fresco e più vivo.
Fra il gruppo di abeti e di pini i passeri si risvegliavano cinguettando; le
rondini con brevi e cauti strida tessevano rapidi voli intorno alle grondaie. E
suor Immacolata aveva ripreso a pregare. Pregava sua madre di benedire la
grande risoluzione che vicino a lei, in quella notte di dolore e di devozione,
si era affermata e rivelata come l'estremo appello del Cristo, del suo Sposo
Celeste, verso l'ultima vetta del Calvario. Pregava Dio che non le venisse
conteso più oltre il varco per questo volo estremo verso cui, ora, tutta
l'anima sua anelava in un ardore e in una impazienza di martire. E quando
l'aurora pennelleggiò il cielo di perla, di nubi, rosee e violacee, e l'aria si
intiepidì, e una luce più calda entrò dalle finestre e ridonò ai fiori sparsi
intorno alla salma i loro freschi colori, e alla figura della morta recò una
spiritualità serena che nulla aveva di lugubre, suor Immacolata si levò,
risvegliò con bontà la vecchia domestica e uscì col suo passo leggero dalla
stanza. Uscì non per darsi al riposo, finalmente, ma per iniziare un pio
pellegrinaggio che desiderava compier solo col suo pensiero fedele, alla
vigilia dell'estremo addio.
Tutte le
finestre erano già aperte e l'aurora sospirosa e tenera d'un giorno che si
annunziava sereno, entrava a rianimare d'una giovinezza nuova le pareti
secolari che tante ore di gioia e tante ore di pianto avevano già misurato. E
in quell'ora imminente alla gloriosa levata del sole, la bianca suora
pellegrinante per le sale avite pareva un fantasma lieve e dolente che tornasse
ad aggirarsi nei luoghi famigliari da cui la sua anima non sapeva allontanarsi.
Tutto era come allora nel quartiere di sua madre. Ella rivide la sala da
pranzo, con le note suppellettili, la mensa domestica, il posto a cui sedevano
i genitori, il suo posto e quello della sua istitutrice: e pensò alla famiglia
rinnovellata, alla giovane famiglia del suo minor fratello succeduta alla
antica, al rifiorimento sul vecchio tronco: e pregò la pace e l'abbondanza e
l'amore su quel desco, come nel passato.... Passò in un salotto dal parato
azzurro, dove solitamente suo padre e i suoi amici si riunivano a fumare, e
rivide ancora su una tavolina quadrata la vecchia scacchiera negletta che
tratteneva nelle lunghe serate d'inverno il conte e il senatore Merelli,
l'amico venerato anch'esso sparito per sempre. Di là si andava nel salotto dove
la sua famiglia riceveva in una tranquilla intimità, il salotto nel quale aveva
lasciato maggior numero di ricordi, e che tante volte il suo pensiero aveva
rievocato con una malinconia affettuosa. Scorgendone il parato giallo
dall'uscio aperto tremò temendo non ritrovarlo più tale amava ricomporselo
nella memoria fedele, e si avvicinò adagio, ma sulla soglia dovette appoggiarsi
agli stipiti sentendosi vacillare e chiuse gli occhi sopraffatta dall'onda del
passato che la avvolgeva con una violenza trionfatrice. Anche il salotto era
immutato. Sotto gli affreschi di Guido Reni del soffitto, inquadrati a fregi
d'oro, gli antichi mobili stavano ancora disposti simmetricamente: il divano di
damasco giallo era sempre nel fondo, le mensole a grandi specchi ancora si
fronteggiavano e addossato al tavolo di mezzo, il divanino, ricoperto dal
magnifico scialle indiano, pareva aspettasse tuttora la maestosa e aggraziata
figura materna che lo prediligeva. Suor Immacolata varcò la soglia, più
pallida, fra le bende, di colei che giaceva tra i fiori e i ceri: poi ebbe un
sussulto così grande che tutta la sua gracile figura ne oscillò. Aveva veduto
una cosa nuova, il suo ritratto: il grande ritratto ad olio fatto da Ermes
Gradenigo, il giovane pittore veneziano che l'aveva così appassionatamente
amata e ch'ella, tutta rivolta al suo sogno doloroso e vano, aveva respinto.
Ella non pensava più a quel ritratto, o almeno non credeva di ritrovarlo in
quel luogo e in quell'ora. Immobile, cogli occhi fissi come dinanzi a uno
spettro, ella contemplò un pezzo la bionda ideale figurina di fanciulla,
vestita di bianco, seduta in un antico seggiolone con dei fiori fra le mani....
Lei, lei! Era ben lei quell'incognita le cui pupille dipinte, piene d'una soave
mestizia s'incontrarono con le sue! Pareva dirle, l'imagine, con lo sguardo
eloquente, con le labbra suggellate sul suo secreto di amore puro e doloroso;
"Che hai tu fatto di me? Io ero nata per la luce, tu mi hai chiuso
nell'ombra; io ero nata per gli omaggi, tu mi hai nascosta agli occhi umani; io
ero nata per l'amore e la maternità, tu mi hai distrutta. Che hai tu fatto dei
miei biondi capelli, della mia persona elegante, delle mie raffinatezze, delle
mie grazie? Io ero nata per essere regina e tu mi hai voluta trasformare
nell'ancella più umile....".
Rispondeva la
suora, austera e sicura: "Io t'ho redenta. Tu soffrivi, ora sei ascesa al
di sopra delle sofferenze umane: tu gemevi per le delusioni e gli inganni che
illanguidivano la tua giovinezza, ed io t'ho messa al sicuro; tu ti struggevi
nel desiderio e nell'attesa d'un bene irraggiungibile, ed io ti ho riunita a un
bene che non inganna e non mente, presso cui è pace e vittoria. Tu eri
destinata dal tuo Creatore a un luogo eccelso ed io te l'ho dato, lontano dalla
terra, e forse sul tuo capo biondo gli angeli poseranno una corona più fulgida
e preziosa d'ogni emblema sovrano....".
Ma abbassando
gli occhi dal ritratto, incontrò sotto di esso il suo pianoforte, chiuso e
muto, e una debolezza la vinse all'improvviso. Vi si abbandonò su e pianse come
non aveva ancora pianto: pianse le abbondanti lacrime della sua adolescenza,
mite, pianse i suoi sogni morti, i suoi affetti morti, il passato morto, tutto
quello che è fuggito e non può più ritornare. Pianse senza che la sua fede di
mistica sposa vacillasse un attimo, senza che le sue candide vesti monacali
dovessero credersi profanate da quel pianto. Erano le lacrime estreme, era il
supremo congedo, era un ultimo lavacro purificatore da cui si rilevò ancora più
temprata e più alta. Portando alle labbra il crocifisso che pendeva dal rosario
al suo fianco, suor Immacolata si tolse di là, lasciò quelle pareti con un
grande ed unico sentimento d'amore e di perdono in cui adunò e compose in pace
morti e vivi: chi le aveva voluto tanto bene e chi le aveva fatto tanto
male....
Traversando
una saletta da cui si saliva al secondo piano, s'arrestò un momento innanzi al
busto in cera, sotto il vetro, della sua parente, colei che l'aveva preceduta
nella via dell'abnegazione e della purezza. Donna Laura dei conti Farigliano di
Casella, raffigurata nelle sue vesti austere di vergine aspirante al chiostro,
nella fine opera dell'artefice antico, appariva, sotto una cuffietta bianca,
abbigliata di nero, con un fisciù candido fermato sul petto su cui incrociava
pure le mani piamente, quasi in un gran desiderio di dedizione e di preghiera.
La monaca dinanzi al grande reliquario pregò, come innanzi ad una stazione
della sua via crucis di memorie.
Poi salì col
suo passo lento e leggero d'un tempo, la scala che conduceva al secondo piano
dove tante volte era ascesa con la sua mèsse di speranza e di sogni, d'onde un
giorno, segnato dalla volontà di Dio, era scesa per non tornare più. Là, in
alto, era la sua camera di fanciulla. Ella non avrebbe potuto lasciare quei
luoghi senza rivedere la sua camera, qualunque aspetto ora avesse. Terminata la
scala, girò intorno al gran salone d'entrata, su una specie di terrazzino, a
lei ben noto: si fermò a un uscio.... Se fosse chiuso a chiave? Se a lei, già
signora del luogo, fosse negata quell'estrema ospitalità d'un minuto che pure
dovrebbe recare con sé come un viatico spirituale? Invece l'uscio cedette,
subito alle sue mani gentili. Era quello il suo piccolo salottino; ma non
avevano aperto la finestra, ed era tutto buio. A lei parve dormisse del suo
lungo sonno innocente del passato, e lo traversò cauta quasi temesse davvero di
svegliarvi qualcosa o qualcuno. Sospinse l'uscio della sua stanzetta da letto,
anche questa immersa nelle tenebre. Cercò a tentoni la finestra, l'aperse
violentemente, come per un frettoloso risveglio, e l'impressione complessa che
n'ebbe fu intensa così che a fatica soffocò un grido. Come in una ratta visione
rivide la sua stanzina tale e quale l'aveva lasciata, parata di mussolina rosea
a pieghe diagonali fissate da lunghi rami artificiali di mandorlo e pesco in
fiore: — ma simultaneamente, dalla finestra entrava il primo sonoro saluto
delle campane. Ella cadde in ginocchio. E genuflessa così rivide tutto, tutto
come aveva lasciato dodici anni addietro: il letto rifatto, coi freschi veli
bianchi: la teletta con lo specchio a cui aveva sempre così poco indugiato, ma
la cui parola lusinghiera ella era felice di raccogliere per conquistar il
cuore d'uno solo: e l'armadio, e il cassettoncino e la poltrona, e accanto al
letto la Madonna
della sua prima Comunione innanzi a cui pendeva, tuttora, la lampadina
veneziana.... ora spenta. Un pensiero vigile, una cura gelosa, un culto tenace
presiedevano a quella perfetta conservazione, ed essa con struggimento infinito
di dolore, indovinò il pensiero, la mano materna, di colei che l'aveva adorata
fino all'ultimo respiro.
— Oh
mamma.... oh mamma! — la pellegrina singhiozzò in una nuova onda di affanno e
di rimpianto: ma il sole biondo che inondava la stanza e la faceva tutta
ridente, il solenne e festoso scampanìo, parevano la risposta di sua madre, la
cui spoglia giaceva laggiù nella lugubre stanza, tra i ceri ardenti, ma il cui
spirito vagava in alto nelle serene immensità. "Figliuola, parevano
ripeterle, tu hai scelto la parte migliore.... non pianger più, io veglio su te
e ti benedico".
Suor
Immacolata si risollevò per prostrarsi di nuovo, ma in atto di tranquilla
preghiera, innanzi alla statua di Maria Immacolata, ricordo della sua prima
comunione, collocata da essa in una nicchia di stile gotico, dove erano rimaste
le bianche rose di seta da lei donate in omaggio e un paio di orecchini di
turchese, olocausto offerto nella fervida attesa del compimento d'una speranza
d'amore. Rammentò ella le sue preghiere della puerizia, quelle della
giovinezza, le aspirazioni ardenti, gli abbandoni assoluti: rammentò come anche
nei momenti più tristi, più sconsolati della sua vita, la preghiera che le
aveva dato calma e refrigerio. E la suora che tante miserie, tanti dolori aveva
veduti, reclinò il volto, cinto dalle bende, come lo reclinava la giovinetta
ignara del male, sotto l'aureola dei suoi capelli biondi: e in quel luogo
doppiamente sacro, alla vigilia d'un esilio forse senza ritorno, alla vigilia
forse del martirio e della morte, rinnovò a Dio la consacrazione di sé
medesima, umilmente, completamente.
Maria, si ergeva,
nel simulacro, mite e gloriosa sul serpente, l'eterno principio del Male
umiliato e vinto: e le preghiere d'un passato innocente, e le memorie d'una
purissima vita parevano comporre in quella luce d'aurora un nimbo visibile
d'oro intorno alla figura della monaca prostrata.
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