II
La favola pastorale, o
piú largamente boschereccia e campestre, segna l'ultimo sforzo dell'artistica
vitalità e il grado supremo della composizione formale a cui pervenne tra noi
nel declinare del secolo decimosesto la poesia bucolica degli antichi,
serbataci dal medioevo e poi rinnovata nella letteratura del Rinascimento.
Dall'idillio e dall'ecloga ella prese la scena i personaggi il costume, dal
dramma pur antico le forme all'atteggiamento delle passioni e allo svolgimento
dell'azione, nell'azione e nell'espressione tenendo a mescolare temperatamente
il patetico ed il giocondo: fu tragicommedia, nuovo genere misto, ma nobile, e,
pur fuori dalle regole degli aristotelici, regolare. Rappresentata, in principio,
per feste o per nozze di signori agli Estensi, ai Della Rovere, ai Gonzaga, ai
Medici, ai Savoia, nei nobili palazzi, nelle ville e nelle reggie; tra
splendore e fasto di apparecchi ove l'architettura la pittura la scultura
sfoggiavano nella raffigurazione della scena e nelle macchine degl'intermezzi,
e i primi ingenui vezzi della musica adolescente carezzavano le morbidezze
passionate d'una poesia sapientissima; tra uditorii di belle dame e pompose,
pronte a citare de' sonetti del Petrarca e delle ottave dell'Ariosto e farne,
all'occasione, del proprio, di cavalieri pronti a trattare la spada come a
discutere controversie peripatetiche, di poeti che anche potevano leggere
filosofia e matematiche al pubblico studio e di filosofi eleganti ne' madrigali;
la favola pastorale cominciava facendo sembiante di contrapporre a tanta
lussuria d'arte d'ingegno e di coltura una sua vista di mondissima rusticità
con quasi un senso di attraente freschezza.
Ecco il fondo d'un
bosco: gli alberi alti e radi lasciano il passo ai raggi del sole, che
illuminando scopre lontano monti e monti ancora: il terreno verde e ombrato è
libero al pascolo de' bestiami e ai ritrovi e colloqui de' pastori. O vero,
ecco aperta campagna, con veduta di capanne e di greggi: gorgoglia presso
riversando le acque dal colmo bacino una fonte, o stendesi umida tra canne e
pioppi la riva d'un fiume che vien di lontano emanando dall'urna di un dio.
Siamo in Arcadia, o su le rive del Po dove già cadde Fetonte e lacrimarono
l'Eliadi, o in quale altra parte di questa antica terra di Saturno e di Giano?
È lo stesso. Entrano in scena due donne o due uomini d'età diversa: i nomi, gli
abiti, il costume sono greci; greci gli dèi che invocano, greca la religione
della quale celebrano i sacrifizi e fanno i vóti. Sí quei primi personaggi e sí
gli altri che poi verranno appaiono essere pastori, cacciatori, coltivatori,
bifolchi, qualche volta marinai; ma non de' comuni: anzi i primari nell'azione
sono figliuoli o nepoti di Pan o del dio indígete della contrada e del fiume
nativo; e a loro si mescono nell'azione enti d'un ordine superiore, semidèi,
satiri e ninfe. Nell'azione ci deve essere ciò che gli aristotelici chiamavano
rivolgimento di fortuna, prima di buona in rea, che induce negli spettatori il
terrore e ingenera il travaglio tragico, poi novamente di rea in buona, sí che
il lieto fine consoli poi le agitate sensazioni con la giocondezza della
commedia. Ma eterno e immortale motivo della favola pastorale è l'amore: onde
il rivolgimento di fortuna, la crisi, è dal piú al meno sempre una: chi, nel
principio, uomo o donna, aborriva dall'amore, finisce, per una ragione o per
l'altra, divina o umana, fatale o del caso, cedendo alle lusinghe della dolce
passione e rendendosi al desiderio dell'amante. Cosí durezze rivolte in
carezze, inimicizie in amicizie, ritrovate le cose o persone care perdute, sono
lieti fini. E gli episodi sono le liberazioni e salvazioni da mortiferi
animali, da mostri, da satiri: specialmente da satiri. Il satiro è uno degli
elementi necessari alla pastorale: amatore e persecutore selvaggio di ninfe,
egli rappresenta la rozza sensualità primitiva di contro alla trasfigurazione
dell'amore operata nella vita pastorale dalla poesia e dalla musica.
Di tutti questi
personaggi, come abitanti di selve e campi, il parlare dovrebbe esser semplice
se non rustico; ma il fatto è (i critici lo van sempre notando, e non con lode)
che quei campagnoli sono troppo fini dicitori, che quei pastori la sgarano ai
cortigiani. Se non che quei pastori, l'abbiamo già detto, sono figli o nipoti
di numi, eroi nel senso greco essi stessi, e si atteggiano in conspetto di
principi e di principesse, in faccia a uditorii de' piú cólti che siano mai
stati al mondo, in una scena che sfugge i confini del reale. Rimettiamoci dunque
in tali condizioni e circostanze, e facciamoci cosí una ragione vera di quella
poesia; e tanto piú agevolmente ce la faremo, quanto essa è, quella dico del
Tasso e del Guarino, della piú nitida, della piú elegante e squisita che
l'Italia abbia mai avuto nell'ordine secondario della sua produzione. La
verseggiatura mescola endecasillabi e settenarii, di guisa che il maggior verso
corregga il minore con la sua gravità e grandezza, e questo con la sua agilità
aiuti l'altro a correre e ondeggiare, sí che riesca un'armonia mezzanamente
sostenuta tra commedia e tragedia, che alzi abbassi e varii al bisogno
dell'azione e della passione. Gli atti sono cinque: è ammesso il prologo e
talvolta l'epicarma, cioè il congedo gratulatorio: non devono mancare i cori,
di pastori, di cacciatori, di ninfe; coro parlante, che piglia parte alla
commozione della favola; coro cantante, fra atto e atto, non tanto le moralità,
quanto le impressioni che da quella vengono.
Tale fu nella sua
giovanil perfezione la favola pastorale o boschereccia: alla quale anche, per
un di piú non importuno, acquistavan grazia e interesse, almeno nelle prime
recite, le allusioni alle costumanze e alle idee, alle persone ed ai fatti del
giorno e della corte.
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