IX
Delle parecchie ecloghe
pastorali e rusticali passate in rassegna fin qui non una ce n'è o scritta o
rappresentata o stampata in Ferrara, non una d'origine ferrarese. In Ferrara
entriamo classicamente e signorilmente con l'Egle. Giovan Battista
Giraldi Cinthio, l'Euripide romantico della corte d'Este, contristata che
l'ebbe con tante lacrime e sangue d'incestuose tragedie, volle rallegrarla con
una satira. «Non tragedia – egli diceva in esametri latini al suo duca –, ardua
materia e superiore alle forze dei piú; non commedia, forma oggimai trita da
poeti dotti e indòtti, ma èccoti una favola che finalmente nudi presenta i satiri
agresti e deduce dalle selve i Fauni insieme ed i Pani. Vieni e piàcciati
riguardare la famiglia di Bacco, non veduta avanti nel Lazio e respinta dalla
scena, la quale novellamente dopo lunga stagione tende insidie alle ninfe». La
satira fu rappresentata in casa dell'autore a' 24 di febbraio e a' 4 di marzo
dell'anno 1545, nella presenza di Ercole II duca e del cardinale Ippolito suo
fratello: la rappresentò messer Sebastiano Clarignano da Monte Falco: fece la
musica messer Antonio dal Cornetto, l'architettura e pittura della scena messer
Girolamo Carpi da Ferrara: fece la spesa l'università degli scolari di legge.
Cosí la città di Ferrara, che prima avea veduto su le scene un satiro nell'Orfeo
del Poliziano rifatto da Antonio Tebaldeo e un coro di satiri nel Cefalo
di Nicolò da Correggio, ebbe ora tutto intero un dramma di satiri al modo dei
greci, ma non imitato di su 'l Ciclope d'Euripide. Il Giraldi credé
poter rinnovare il dramma satirico d'Euripide, ma non si attentò di fare una
rappresentazione epica o mitica come il Ciclope: l'Egle è una
favola di dèi e semidèi in Arcadia. Fauni e satiri amano in vano le ninfe de'
boschi; e ricorrono per consiglio e aiuto a Egle, amica del buon Sileno e della
bella vita, che promette aiutarli. Le Oreadi, le Driadi, le Napee si dispongono
a seguir Diana alla caccia; e rispondon male a Egle, la quale vorrebbele
persuase che c'è piú gusto a seguitare amore. Alla fine le ferisce nel debole
con la pietà: – Gli dèi delle foreste, disperati dei vostri rigori, emigrano;
abbandonando qui i figliuoli. Che sarà de' poveri Faunetti e Satirini? – Le
ninfe sono tócche; tanto piú quando al ritorno dalla caccia Egle presenta loro
la brigatella cornuta e contrita. Le ninfe consentono a far loro da madri,
purché si portino bene e siano buoni; e la sera stessa vengono liberamente a
giuocare e danzare coi piccoli. Qui le aspetta Egle. I Satiri e Fauni grandi
appostati dietro gli alberi saltano fuori. Fuggon le ninfe, inseguite: ma d'un
tratto èccole trasformate in alberi, in ruscelli, in fontane: ecco il dio Pan
che racconta il miracolo tenendo in mano una canna, tutto ciò che gli resta
della bella e crudele Siringa. C'è in fine in un sonetto la dedicazione
dell'autore, che dice di appendere a un faggio questa corona di silvestri
fiori a onore de' pastori e delle ninfe:
Ché,
s'avverrà che con piú dotta mano
Corone
alcun gli tessa o che dimostri
A qualche
miglior via la virtú loro,
Spero, et
il mio sperar non sarà vano,
Che 'l nome
pastorale a' tempi nostri
Tal fia
qual fu già ne l'età de l'oro.
Il dramma è in cinque atti di endecasillabi non
rimati, con il coro parlante, e, in fine d'atto, cantante in rima. C'è il
motivo del pastore innamorato e della ninfa insensibile, Pan e Siringa: c'è tra
Egle e le ninfe il contrasto dell'osservare verginità e del seguire amore, che
Dafne e Silvia faran poi cosí vivo: c'è fin l'accenno all'amore delle piante
cosí ben ripreso a tócchi infiammati in quel primo dialogo dell'Aminta. Pan
dice:
Né pur le
cose c'hanno senso sono
Arse d'amor,
ma le 'nsensibili anco:
Si vede pur
la palma amar la palma
E l'un
platano l'altro e l'alno l'alno.53
Nove anni di poi, «Il
sacrificio» favola pastorale (questa volta leggesi proprio cosí nel
frontespizio del libretto)54 di Agostino de'
Beccari, era solennemente rappresentato in Ferrara due volte; l'11 febbraio e
il 4 marzo del 1554 nel palazzo di don Francesco d'Este, prima in conspetto di
Ercole II e di Luigi suo figliuolo, poi a madama la duchessa Renata e sue
figlie Lucrezia e Leonora, famose nella poesia italiana, insieme con don
Francesco e don Alfonso: fece la musica Alfonso della Viola, e Andrea suo
fratello rappresentò sonando la lira il sacerdote che nel terzo atto esce
cantando l'inno a Pan Liceo. Fu di nuovo rappresentata per nozze principesche a
Sassuolo e a Ferrara, trentatre anni dopo, nel 1587; e questa ripresa, in cui
recitò anche Battista Guarini, attesta la riconoscente stima che fin dopo i
trionfi dell'Aminta e del Pastor fido si aveva a quel superstite
autore della prima favola pastorale. Agostino Beccari, nato in Ferrara poco
prima del 1510 e morto nel 1590, fu uomo, dissero, di non esquisite lettere ma
di fecondo e felicissimo ingegno. Non esquisite lettere, per quei tempi: ma in
alcune parti della sua favola l'imitazione dall'ecloghe latine e da Ovidio è
opportuna ed elegante. La scena è in Arcadia. Èrasto ama Callínome ninfa di
Diana, non corrisposto: Carpalio ama Melidia riamato, ma è contrario un
fratello di lei: Turinio ama Stellina, che, lasciatolo, segue Èrasto. Questi
tre amori, con l'intromissione di un satiro che cerca per inganni goder quelle
ninfe e n'è sempre schernito, nell'occasione delle feste e del sacrifizio di
Pan, pervengono, con varietà e novità gradevole d'episodii, a termine felice.
Il dialogo è in versi sciolti: rimati a strofe i canti dei pastori e delle
ninfe e l'inno del sacerdote a Pan. V'è un prologo, nel quale fin dal principio
l'autore annunzia:
Una favola
nova pastorale
Ch'altra
non fu giammai forse piú udita
Di questa
sorte recitarsi in scena;
sebbene non dissimuli di aver veduto l'Egle
del Giraldi, introducendo il pastor Turinio a dire d'una sua còppa,
In cui si
vede il grand'amor di Pane
Con Siringa
e quel d'Egle con Sileno.
Con questa triplicità d'amori e quasi d'azioni,
con questo dialogo finalmente regolare in versi sciolti, mediocri ma culti, con
questi inni e questi canti rimati, siamo lontani ma lontani assai, mi pare,
dall'ecloghe non pure aretinesche del Caccia e veneziane del Calmo; ma e dalle
toscane rusticali e dalle miste. E pure v'è chi negli episodi di questo Sacrificio
assaggia «una semplicità che molto non si allontana da quella dell'ecloga».55 Veramente tale insistenza su l'affare delle
ecloghe vuole essere ricondotta ai principii e alle fonti.
«Avanti che il signor
Beccari facesse questo suo Sacrificio – attesta un editore – non si leggevano
se non poche ecloghe rozze, nelle quali sol due o tre persone parlavano».56 Ma questa è l'affermazione d'un fatto, di
materia pastorale non drammatica, ben differente dal caso nostro: si
leggevano. Piú largamente Giason di Nores, aristotelico professore
patavino, avendo poi a dir male del Pastor fido scriveva:57 «Fin l'altro giorno simil poesie si
rappresentavano sotto nome di ecloghe nelle feste e ne' banchetti per dar
spazio forse con un tal intertenimento ne' conviti di apparecchiar le tavole;
ma ora improvvisamente le hanno ridotte alla grandezza delle commedie e delle
tragedie, con cinque atti, senza proporzioni, senza convenienza, senza
verosimilitudine». È chiaro: a un genere e a una forma, che lo Stagirita non
registrò né sancí, l'aristotelico avversario del fortunato cortigiano di
Ferrara aggrava la condanna cercandone fuor del teatro e del classicismo
l'umiltà delle origini. – Ma queste umili origini l'ha confermate il Guarini
stesso. – Adagio. Battista Guarini ragionevolmente e argutamente alla
opposizione del Nores rispondeva: «E perché non è lecito all'ecloga uscire
dalla sua infanzia e pervenire agli anni maturi, se l'ha potuto far la tragedia?...
Le Muse, siccome sul tronco ditirambico innestarono la tragedia e sul fallico
la commedia, cosí nel fertilissimo lor giardino piantaron l'ecloga
picciolissima verga, e n'è poi nata la pastorale nobilissima pianta».58 Ma con queste parole il poeta fattosi critico
non accenna mica all'ecloga del Quattrocento e Cinquecento italiano.
Dall'infanzia l'ecloga era uscita, e come!, con Teocrito; e il raffronto del
tronco ditirambico e del fallico rimena diritto all'antichità, e non alle
smorfie dei sannazzariani, né alle villanie delle rusticali toscane, né alle
ampolle delle urbane napoletane, né alle inezie venezievoli, né alle sconcezze
lombarde. Lo afferma incontrovertibilmente esso Guarini: «La favola pastorale,
avvegna che in quanto alle persone introdotte riconosca la sua primiera origine
e dall'ecloga e dalla satira degli
antichi, niente di meno, in quanto alla forma e all'ordine, si può
chiamar poema moderno, essendo che non si truovi appresso l'antichità di cotal
favola alcun esempio greco o latino». E súbito dopo, senza lasciar appiglio a
incertezze e dubbi, dell'opera di Agostino Beccari parla, ordinatamente e per
disteso, cosí:
Il primo de' moderni che
felicemente ardisse di farlo fu Agostino Beccari, onorato cittadino della mia
patria; il quale, avendo veduto, e ciò con molto giudizio, che l'ecloga non è
altro che un breve ragionamento di due pastori, in niun'altra cosa
differente da quella scena che i latini chiaman diverbio, se non nell'essere
unica, independente, col principio e fine in sé stessa; e considerando che
Teocrito, uscendo dell'ordinario numero di coloro che parlano in cosí fatti
componimenti, una ne fece [le Pompe di Adone] non sol di molti
interlocutori, ma di soggetto piú drammatico dell'usato e di lunghezza piú
dell'altre notabile; s'avvisò di potere con molta lode occupare questo luogo da
penna greca o latina non ancor tócco, e regolando molti pastorali ragionamenti
sotto una forma di drammatica favola, e distinguendola in atti col suo
principio mezzo e fine sufficiente, col suo nodo, col suo rivolgimento, col suo
decoro e con l'altre necessarie parti, ne fe' nascere una commedia, se non in
quanto le persone introdotte sono pastori: e per questo la chiamò favola
pastorale. Ond'è poi stata la invenzione con tanto applauso ricevuta dal mondo,
che i primi dicitori del nostro secolo ed in ispezie Torquato Tasso, si son
recati a gran pregio lo 'mpiegarci l'opere loro. Or questo titolo di favola
pastorale non vuol dir altro che azione di quella sorte d'uomini che pastori
sono chiamati. E perché ogni azione drammatica bisogna che sia o comica o
tragica o mista, il Sacrificio del Beccari non ha dubbio che 'n forma di
comedia non sia tessuta, avendo le persone private, il riso, il nodo, lo scioglimento
e il fine ch'è tutto comico. Ma egli non la volle chiamar commedia prendendo il
nome generico invece dello specifico, e disse anzi favola che comedia,
per non usare impropriamente quel nome; il quale avvegna che per la forma e per
l'altre sue parti ottimamente le convenisse, nondimeno, per esser fuori della
città e non rappresentandosi cittadini, assai men propriamente dell'ordinario,
col titolo di comedia si sarebbe nomata. È poi corso questo aggiunto di pastorale
ed ha col tempo acquistato forza e significato di sustantivo; talché, quando si
dice una pastorale, senz'altra compagnia, s'intende favola di pastori.59
C'è di piú. Dopo
stampata or son due anni questa parte del mio studio, mi fu data notizia d'un
frammento di G. B. Giraldi. È scritto di mano d'esso l'autore, in un codice
della biblioteca di Ferrara, che altre operette contiene del Giraldi, e tra
queste l'Egle pur autografa. Il frammento fu intitolato dall'autore
stesso Favola pastorale; e ha una Parte prima e una Parte
quinta, sole scritte o sole avanzate. Intiera dunque la favola doveva
constare di cinque parti, come di cinque atti constarono poi quelle del
Beccari, di Torquato Tasso e del Guarini. Amore fa il prologo, proprio come poi
nell'Aminta. L'argomento, per quanto può raccapezzarsene, era questo:
Una ninfa ama un pastore, è amata da un altro, amato a sua volta da altra ninfa
non amata: per agnizione di consanguineità, la prima ninfa è lasciata sposa al
primo pastore, e il secondo pastore si volge alla seconda ninfa. Il dialogo è
tutto in endecasillabi ben sostenuti, se non quanto sono rotti opportunamente a
suo luogo in servigio del dialogo; lo stile è quel nobile del Giraldi, se non
quanto è temperato di eleganza quasi alcuna volta comica, con isciolto andare,
un che di mezzo tra l'Egle e l'Aminta.60
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