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Giosuè Carducci
Su l'Aminta di T. Tasso

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  • STORIA DELL'AMINTA
    • III
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III

 

Quando il Tasso compose l'Aminta, egli con titolo di gentiluomo del duca di Ferrara aveva stanza in corte e la stessa mensa del principe oltre l'onorario d'un po' piú di 110 lire italiane al mese, e non obblighi altro che di far rime alle occasioni o quando gli piacesse; rime che Alfonso II, uomo di fino e signoril giudizio, udiva a leggere spesso e volentieri. Che se qui alcuno di que' poetuncoli e filosofuncoli che frustarono per sé tante paia di scarpe e a' capidivisione tante paia d'orecchi per diventar professori torcesse il grifo rugumando qualche frase di liberrima indignatio, ma che altro erano in sostanza a Weimar lo Schiller e il Goethe? Torquato si godeva quell'ozio letterario e quiete di studi con la conscienza però d'un obbligo, scrivere poemi immortali. Ma dové anche qualche volta ricordare non senza cruccio taluno che forse cercò distoglierlo dall'accettare il partito del cardinal d'Este nel 1565 o lo avea piú di fresco nel 72 dissuaso dal rendersi al servizio d'Alfonso. Il fatto è che Aminta nella seconda scena, di tanto varia bellezza, dell'atto primo, esce un tratto a dire:

 

Giusta cagione

Ho del mio disperar, ché il saggio Mopso

Mi predisse la mia cruda ventura;

Mopso, ch'intende il parlar de gli augelli

E le virtú de l'erbe e de le fonti,

E si rammenta ciò ch'è già, passato,

Ed osserva il presente, e del futuro

Sa dar vera e ineffabile sentenza;

 

e Tirsi, che è il Tasso, ripiglia:

 

Di qual Mopso tu dici? di quel Mopso

C'ha ne la lingua melate parole

E ne le labbra un amichevol ghigno,

E la fraude nel seno ed il rasoio

Tien sotto il manto? Or su, sta di buon core,

Ché i sciaurati pronostici infelici,

Ch'ei vende a' malaccorti con quel grave

Suo supercilio, non han mai effetto;

E per prova so io ciò che ti dico.

 

E séguita raccontando come, quando gli venne bisogno e voglia d'irsene alla gran cittade in riva al fiume, avendone fatto parola a Mopso, questi ne lo sconsigliò, mettendogli in aperto tutte le bugie e falsità cittadine e le insidie della corte.

Bellissimo tratto: ma chi è Mopso? Secondo una tradizione, raccolta già, se non accolta, dall'abate Menagio primo commentator dell'Aminta91 e ragionata poi dall'abate Serassi biografo del Tasso,92 egli sarebbe Sperone Speroni, filosofo, oratore, critico e poeta patavino (1501-1588); uomo di valore oltre l'ordinario; ma orgoglioso, moroso, invidioso. Alla di lui conversazione il Tasso scolare giovinetto in Padova usò assai, e ciò che gli dovea di cognizioni e idee intorno alla teorica dell'arte sua confessò nei Discorsi poetici. Se vero che lo Speroni lo dissuadesse dal farsi cortigiano, il Tasso, forse per mostrargli di non aver avuto torto a non dargli retta, tanto seppe adoperarsi co 'l duca, pur lodando e rilodando il filosofo, che egli nell'ottobre del 1571 mandò quattro suoi gentiluomini a levarlo da Padova e lo ebbe seco per piú giorni alla corte. Ne' quali giorni Torquato alla presenza di esso Speroni non che del duca e d'altri signori lesse piú canti della Gerusalemme: ma il padovano maestro, in vece di accompagnare i suoi a' plausi degli altri e animare il giovine, se ne stette a sentire con molta freddezza, e poi gli mosse pomposamente certe sottili difficoltà, che il Tasso fu quasi in dubbio di lasciare l'impresa.93basta. Quando nel 1576 Torquato mandava attorno il poema finito a questo e quel letterato per avvisi e correzioni, lo Speroni fu il piú triste e stravagante anzi tiranno che critico, anzi Zoilo che Aristarco: tanto che perduta alla fine pazienza il poeta ai 4 maggio scriveva ad un amico:

 

Se [lo Sperone] vuol udire i miei ultimi cinque canti, leggeteglieli; ma io avrei caro che non si curasse d'udirli. Dategli buone parole, dicendogli ch'io disegno di trascrivere tutto il libro di mia mano e mandarglielo: farò poi quello che mi tornerà commodo, e non mancheranno mai pretesti. A ogni modo, o tardi o per tempo, l'avemo a rompere; e la rottura sarà tanto maggiore quanto piú tarda. Io non vo' padrone se non colui che mi il pane, né maestro; e voglio esser libero non solo ne' giudicii, ma anco ne lo scrivere e ne l'operare. Quale sventura è la mia, che ciascuno mi voglia fare il tiranno addosso? Consiglieri non rifiuto, purché si contentino di stare dentro ai termini di consigliero.94

 

basta ancora. Nel 1581, quando il poeta era in prigione, quel cavalier cattedrante andava dicendo e scrivendo che, interrogato molte fiate dal Tasso intorno la poetica e rispondendo egli liberamente come soleva, esso Tasso «ne ha fatto un volume e mandato al signor Scipione Gonzaga per cosa sua e non mia; ma io ne chiarirò il mondo». Felice Paciotto, quegli a cui scriveva, proferendoglisi d'avere dal Gonzaga quel volume per chiarire il plagio, il vecchio impostore riparava all'ombra dell'avello. «Dal sig. Scipionerispondeva a' 24 febbraio 1581 – non spero che abbiate nulla: perché, a mostrar quel che si usurpa quel pazzo, si aspetta che io mora. Ma io li dissi nella Minerva che tutto era mio; e senza veder li suoi scritti profetiggiai che 'l suo poema non saria scritto con l'artificio da lui notato: segno che l'arte non era sua».95 Però Torquato fece bene ad appiedare il mascherone di Mopso a quella pittura in costume della corte estense, viva nel racconto di Tirsi piú che non gli affreschi nella gran sala del castello di Ferrara. Il prof. Solerti nella ancora inedita Vita del Tasso non vuol esser certo che quel Mopso sia lo Speroni, o vuole almeno che la caricatura non figurasse nella prima recita dell'Aminta. Lasci lasci il buon Solerti alla gogna quel noioso Mopso, o prima o poi ch'e' ci fosse legato. Non è permesso oltraggiare impunemente i grandi morti, come lo Speroni avea già fatto con l'Ariosto;96 e né anche dev'essere impunemente permesso a un vecchione di ottantun anno, ricco, onorato, felice, di calunniare un giovane allo spedale perché aveva piú ingegno di lui.

 

Però ti sta, ché tu se' ben punito.

 

Se non che la vendetta del povero Tasso è quasi una glorificazione: in cosí bei versi! Il racconto di Tirsi nella scena piú a dietro citata séguita di questo tenore:

 

Cosí diss'egli: ed io n'andai con questo

Fallace antiveder ne la cittade;

E, come volse il ciel benigno, a caso

Passai per dov'è 'l felice albergo.

Quindi uscian fuor voci canore e dolci

E di cigni e di ninfe e di sirene,

Di sirene celesti: e n'uscian suoni

Soavi e chiari, e tanto altro diletto,

Ch'attonito, godendo ed ammirando,

Mi fermai buona pezza. Era su l'uscio,

Quasi per guardia de le cose belle,

Uom d'aspetto magnanimo e robusto,

Di cui, per quanto intesi, in dubbio stassi

S'egli sia miglior duce o cavaliero;

Che, con fronte benigna insieme e grave,

Con regal cortesia invitò dentro,

Ei grande e 'n pregio, me negletto e basso.

Oh che sentii! che vidi allora! I' vidi

Celesti dee, ninfe leggiadre e belle,

Nuovi Lini ed Orfei, ed altre ancora

Senza vel, senza nube, e quale e quanta

A gl'immortali appar vergine aurora

Sparger d'argento e d'òr fugiade e raggi

E fecondando illuminar d'intorno.

Vidi Febo e le Muse, e fra le Muse

Elpin sedere accolto; ed in quel punto

Sentii me far di me stesso maggiore,

Pien di nuova virtú, pieno di nuova

Deitate; e cantai guerre ed eroi,

Sdegnando pastoral ruvido carme.

E se ben poi, come altrui piacque, feci

Ritorno a queste selve, io pur ritenni

Parte di quello spirto: né già suona

La mia sampogna umil come soleva,

Ma di voce piú altera e piú sonora,

Emula de le trombe, empie le selve.

Udimmi Mopso poscia, e con maligno

Guardo mirando affascinommi; ond'io

Roco divenni, e poi gran tempo tacqui,

Quando i pastor credean ch'io fossi stato

Visto dal lupo, e il lupo era costui.

 

Il lettore ha tosto riconosciuto, credo, Alfonso II, Lucrezia ed Eleonora principesse sorelle, la contessa di Scandiano, Eleonora Sanvitale, e altre e altre. Ma chi è quell'Elpino qui posto cosí in alto e altrove [a. i, sc. 1] gloriato come erede nientemeno che dell'Ariosto?

 

Or non rammenti

Ciò che l'altr'ieri Elpino raccontava,

Il saggio Elpino a la bella Licori,

Licori che in Elpin puote con gli occhi

Quel ch'ei potere in lei dovria co 'l canto,

Se 'l dovere in amor si ritrovasse?

E 'l raccontava udendo Batto e Tirsi,

Gran maestri d'amore, e 'l raccontava

Ne l'antro de l'Aurora, ove su l'uscio

È scritto «Lungi, ah lungi ite, profani».

Diceva egli, e diceva che gliel disse

Quel grande che cantò l'armi e gli amori

Ch'a lui lasciò la fistola morendo, ecc.

 

L'antro dell'aurora, sia detto di passaggio, è a punto una sala del castello di Ferrara (la chiamano di Leonora), nel cui soffitto risplende ancora la bella dea dipinta dal Dossi; e Batto è Batista Guarini, allora, prima delle gelosie per donne e per altro, grande amico del Tasso. Elpino poi è Giovan Battista Pigna (1529-1575), dotto in filosofia e medicina, oratore e storico ferrarese, e, ciò che piú monta, segretario prima d'Ercole II e ora d'Alfonso: interessava a Torquato, novellin cortigiano, di star bene con quell'uomo, il cui credito e la potenza erano in quegli anni appresso al duca grandissimi. Venuto a pena a Ferrara, il Tasso avea preso a corteggiare la signora Lucrezia Bendidio, molto ammirata per bellezza e spirito alla corte, e fece per lei di be' versi. Ma, ahimè, della gentildonna anche era innamorato il segretario, il quale altresí facea versi per lei: anzi, altro che versi, tutto intiero un canzoniere. Non eran belli di certo come quei del Tasso, ma erano, come chi dicesse, di su' Eccellenza. Allora che pensa il Tasso? Consigliato anche da madama Leonora, in vece di comporre altre rime in lode della Lucrezia, oh gran virtú delle corti antiche!, si mise a commentare quelle che scriveva il Pigna; e cosí compose le «Considerazioni sopra tre canzoni di G. B. Pigna intitolate «Le tre sorelle», nelle quali si tratta dell'amor divino in paragone col lascivo». Veramente (pare anche al Serassi) quelle tre canzoni non sono gran cosa: e tuttavia il Tasso si studiò di trovarci per entro di gran misteri e sensi altissimi e profondi, cercò di blandire il Pigna per ogni verso, sino a pareggiarlo e preferirlo talvolta a' migliori: il che non si può mai credere dicesse da senno.97 Qui, nella pastorale, Lucrezia diventa Licori, a cui Elpino fa la prèdica non del divino amore, ma delle femmine dannate all'inferno quando sien dure a' vóti de' segretari vecchi: e Licori diventa, credo, perché il Pigna ne' suoi versi latini, che valgono a pena un tantin meglio degl'italiani, ha per l'a punto un epigramma ad Licorim. Cotesti suoi Carmina il Pigna li ebbe pubblicati nel 1553 insieme a quei dell'Ariosto, de' quali ad istanza di Virginio figlio del poeta avea fatta la scelta; come nel 1554 pubblicò la prosa estetica e storica dei romanzi, ove della poesia e vita di messer Ludovico discorre a lungo e bene. Ecco perché

 

Quel grande che cantò l'armi e gli amori

A lui lasciò la fistola morendo.

 

È un po' grossa; ma i documenti ci sono, e tanto basta per la critica presente. Se non che ben presto il segretario ebbe a mostrarsi al giovane poeta quel che era stato per il suo vecchio maestro, G. B. Giraldi; cioè ingrato, invidioso, maligno, e segnatamente geloso del favore che Torquato godeva presso le principesse Lucrezia e Leonora. E allora il saggio Elpino dell'Aminta diventò l'Alete della Gerusalemme [II, 58],

 

Gran fabbro di calunnie adorne in modi

Novi che sono accuse e paion lodi.

 

Ma torniamo a soggetto piú degno, Tirsi [a. II, sc. 2 ]:

 

O Dafne, a me quest'ozio ha fatto Dio:

Colui che Dio qui può stimarsi, a cui

Si pascon gli ampi armenti e l'ampie gregge

Da l'uno a l'altro mare, e per li lieti

Colti di fecondissime campagne,

E per gli alpestri dossi d'Appennino.

Egli mi disse, allor che suo mi fece:

Tirsi, altri cacci i lupi e i ladri e guardi

I miei murati ovili; altri comparta

Le pene e i premi a' miei ministri, ed altri

Pasca e curi le greggi; altri conservi

Le lane e 'l latte, ed altri le dispensi:

Tu canta, or che se' in ozio. Ond'è ben giusto

Che non gli scherzi di terreno amore,

Ma canti gli avi del mio vivo e vero

Non so s'io lui mi chiami Apollo o Giove;

Ché ne l'opre e ne 'l volto ambi somiglia.

 

Qui è il Tasso, contento e felice, qual fu per poco a ventinove anni, tra gli splendori della corte, i favori delle belle, gli entusiasmi cavallereschi della nuova lealtà, la visione della prossima gloria. Che se in altro luogo [a. i, sc. 1] Tirsi è ricordato

 

allor ch'ardendo

Forsennato egli errò per le foreste,

Si che insieme movea pietate e riso

Ne le vezzose ninfe e ne' pastori,

Né già cose scrivea degne di riso

Se ben cose facea degne di riso;

 

quello fu un delirio momentaneo per una passione che arse e passò. Ora egli è tranquillo, tranquillo, tranquillo, e delle donne e dell'amore pensa ciò che dice a Dafne nella elegantissima scena seconda del secondo atto:

 

I diletti di Venere non lascia

L'uom che schiva l'amor, ma coglie e gusta

Le dolcezze d'amor senza l'amaro.

...... Allor vedrassi amante

Tirsi mai piú, ch'Amor nel regno suo

Non avrà piúpiantisospiri.

A bastanza ho già pianto e sospirato:

Faccia altri or la sua parte.

 

E con ciò resta esclusa affatto la romantica supposizione che il Tasso ritraesse Leonora in Silvia e sé in Aminta e che la pastorale sia l'espressione piú intera e fedele dell'amore rispettoso e timido del poeta per la principessa d'Este.98

 





91 Parigi, Courbè, 1655, pag. 188.



92 Vol. I (Firenze, Barbèra, 1858), pp. 172 e 241.



93 Lo stesso, 240-41.



94 T. Tasso, Lettere, I (Firenze, Le Monnier, 1853) pag 174.



95 S. Speroni, Opere, v (Venezia, Occhi, 1740) pp. 272-74.



96 B. Tasso, Lettere, t. iii (Padova, Comino, 1751) pp. 160-162.



97 Serassi, Vita ecc., i 198.



98 Ces. Galvani, Lettera a M. A. Parenti sull'Aminta del Tasso, Modena, Vincenzi, 1826: F. Pellegrini, L'Aminta di Torquato Tasso, tesi per laurea, Pisa, Mariotti, 1880.





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