VII
Nell'età dell'oro per le
accademie, l'anno 1698, il duca di Telese, Bartolommeo Ceva Grimaldi, leggeva
all'accademia degli Uniti di Napoli un suo discorso intorno l'Aminta,
trovando molto da ridire punto per punto su la favola e il costume, su la
sentenza e l'elocuzione, e cominciando, m'imagino con un gran gesto della mano
trinciante molt'aria all'intorno, Poeta poetae infestus. A que' giorni
tutto era permesso ai titolati in Italia, e massime nel regno di Napoli. Nella
stessa accademia, in altra adunanza, contrastando al duca, un padre maestro
Baldassarre Paglia minor conventuale lesse anche lui un discorsetto latino (e
il latino stava bene al frate, ma per l'Aminta!), un discorsetto in cui
piú erano le smorfie e i complimenti al nobile avversario che le ragioni; ma
questa la scusa «Tanto potei recitare in un quarto d'ora prescrittomi, senza
aver prima osservato le censure dell'eruditissimo competitore». Tali i costumi
delle accademie. Ragionevole era la difesa del coro fatta dal padre
maestro contro il retore feudale: «Troppo scrupoloso ei non approva che il
coro, proprio all'azione tragica, sia frammesso in una comica, perché le azioni
de' privati, non in presenza del pubblico, né anche giustamente possono esser
fatte note e pubblicate dal coro ma, siccome Aminta e Silvia riferiscono
l'origine loro agli dèi, certo la plebe de' pastori poteva interessarsi delle
cose loro». Piú curiosa la caratteristica di Silvia, ma bisogna leggerla nel
proprio latino: «Puellam egregie rusticam, flecti haud facilem, nunc pudore
suffusam, nunc metu tremulam, nunc ira fervidam, nunc amore iucundam, affectu
blandam, odio blandiorem, moribus mollem, cum personis ancipitem, ad tempus
rigidam, pro locis cautam exhibet Sylvia».111
A qualche cosa
riuscirono le scioccherie del duca: diedero occasione a un libro, L'Aminta
difeso e illustrato da Giusto Fontanini (1700).112 Era il Fontanini un monsignor friulano,
conscienziosamente pedante, stizzosamente orgoglioso, piú d'una volta, per
partito preso, bugiardo; e diede poi noia al Muratori e ad Apostolo Zeno: qui è
pesante, ma innocente: parla di tutte le cose e di qualche altra ancora; ma chi
la sappia leggere, con riguardo al modo onde quei vecchi trattavano la cosí
detta critica letteraria, alcun che di buono per la storia del dramma e della
poesia del Tasso può ripescarne. Quella difesa fu ristampata trent'anni dopo113 con piú osservazioni d'un accademico
fiorentino, che in vece era senese, Uberto Benvoglienti; e le osservazioni
erano postille buttate qua e là alla poltrona su 'l costume e l'elocuzione;
alle quali oppose certe note, senza nulla d'amaro ma né anche di salso, un
Domenico Mauro di Noia.114 A proposito di alcuni
versi nel monologo del satiro (a. ii,
sc. 1),
Ohimè!
quand'io ti porto i fior novelli,
Tu li
ricusi, ritrosetta, forse
Perché fior
via piú belli hai nel bel volto ecc,
il Benvoglienti fa un riscontro nuovo allora e
non inopportuno con la poesia popolare: «Questi vaghi pensieretti sogliono dire
i pastori nei loro rispetti verso le loro innamorate, ma non convengono in
bocca d'un satiro».
Passando a men noiosi
anni per la poesia e per la critica, il meglio che potesse dirsi nel senso
della bella letteratura neoclassica lo disse l'abate Serassi nella vita del
poeta (1785), e poi il ben detto allargò nelle prefazioni alle due splendide
bodoniane stampe dell'Aminta (1789 e '96). Mentre il piú fiorente poeta
del tempo celebrava
I bei carmi
divini onde i sospiri
In tanto
grido si levâr d'Aminta,
Sí che
parve minor della zampogna
L'epica
tromba, e al paragon geloso
Dei sommi
onori dubitò Goffredo,115
il miglior critico della letteratura
cinquecentistica ci ragionava intorno cosí:
.... Quanto egli [il Tasso] si mostra grande,
sollevato ed eroico nel suo maggior poema, altrettanto è sedato, gentile e
semplice in questo boschereccio componimento. Perciocché, convenendogli di
accomodarsi interamente al costume ch'avea tolto ad imitare, non gli fu
mestiero d'andar in traccia di parole frasi o giri che avessero del pellegrino
o si scostassero punto dal comune linguaggio poetico, ma solo dovette scegliere
nella nostra lingua le voci piú pure e piú leggiadre e le maniere di favellare
piú gentili, e queste accozzare insieme in guisa che nel verso venissero a
formare un suono tutto semplice nello stesso tempo e tutto grazioso. Piú d'ogni
altra cosa però si vede ch'ei pose cura di andar imitando negli eccellenti
greci, e massimamente in Anacreonte in Mosco e in Teocrito, certe figure, certi
traslati, certe immaginette, certi vezzi in somma, che sembrano affatto
naturali e pur sono artificiosissimi e sommamente delicati: nella quale
imitazione il Tasso si contenne veramente da quel grand'uomo ch'egli era;
perciocché non ricopiò già egli né troppo da vicino imitò, ma sul tronco delle
greche bellezze innestò, per cosí dire, le sue proprie e quelle della sua
lingua, di modo che ne venne a produrre un frutto nostrale assai piacevole e
per avventura anche piú saporoso del primo ed originario.
Tanto parve, ed è, detto bene, che un sovran
maestro del verso italiano, il Parini, fece suo intero e nelle stesse formali
parole il giudizio senza né anche citare il giudicante.116 Ma nei tempi di produzione e coltura veramente
letteraria non si bada pe 'l sottile a ciò che può essere proprietà comune, il
ben sentire intorno un'opera d'arte. Si pensa – Voi siete culto, io son culto:
dunque dobbiamo sentire cosí. – Provatevi oggigiorno a incontrarvi in una citazione
con un professore estetico o un critico storico che creda d'averla trovata
prima lui: è il caso d'una guerra civile. Allora la critica si faceva anche da'
poeti: questa del Monti, per esempio, è critica storica, ma in elegantissimi
versi:
Amor piú
che le Muse
A Torquato
dettò questo gentile
Ascrèo
lavoro; e infino allor piú dolce
Linguaggio
non avea posto quel dio
Su mortal
labbro, benché assai di Grecia
Erudito
l'avessero i maestri
E quel di
Siracusa e l'infelice
Esul di
Ponto.
Degli ultimi, anzi forse
l'ultimo tra gli scrittori nostri che van per la maggiore, a giudicare l'Aminta,
fu, chi lo crederebbe?, il Gioberti: retto e corretto, ma non con piú spirito
che un professore di retorica buona: era, pare, tuttavia giovane, e non
lanciava ancora le formole.
L'Aminta è certamente un capolavoro per
la parte dello stile; anche come opera drammatica è bellissimo, e ridente di
una schiettezza e di una venustà tutta greca: non di meno ha molti difetti, per
quell'abuso d'ingegno e di spirito con cui il Tasso corruppe i rari pregi di
tutte le sue opere e da cui no 'l fece declinare né la maestà dell'epopea né la
semplicità del genere pastorale. Gli atteggiamenti gl'incidenti piú vaghi e piú
patetici sono guastati da questo vizio nell'Aminta come nella Gerusalemme,
onde non può piú quel dramma essere chiamato perfettissimo, come fa il Serassi,
di quello che possa esserlo questo poema. Veggasi, per esempio, quella scena (2a
dell'a. iii) in cui Aminta ode
dalla bocca di Nerina il racconto di quelle circostanze, che inducono
fermamente a credere la morte di Silvia: egli troncamente esclama,
O velo! o sangue!
O Silvia! tu se' morta!
E ciò dicendo vien meno. Tratto veramente
tragico pe 'l sentimento e per la forma dell'elocuzione; ma il Tasso, a ciò non
contento, ne guasta súbito l'effetto facendo muovere ad Aminta rinvenuto verso
il suo dolore una tale apostrofe sí spiritosa e sottile, che un uomo a sangue
freddo penerebbe forse a inventare. Cosí pure nella scena 1a
dell'atto iv bellissimo è quel
ripiglio che fa Dafne alla ritrosa Silvia poiché la vede accorata per la
creduta morte di Aminta e pentita del suo rigore:
Oh quel ch'io odo!
Tu sei pietosa, tu? tu
senti al cuore
Spirto alcun di pietade?
Oh, che vegg'io!
Tu piangi, tu superba?
Oh meraviglia!
Che pianto è questo tuo?
pianto d'amore?
Questo movimento drammatico e i modi naturali e
vivi con cui è espresso sono, per dirlo cosí di passaggio, un di quei fonti da
cui l'Alfieri ritrasse la brevità e l'energia del suo tragico stile. Ma il
Tasso rompe ben tosto questo movimento, alto forse di troppo per la tenuità del
genere pastorale, ma pure in sé bellissimo, e pone in bocca a quella Dafne
medesima una serie di antitesi sulla morte di Aminta che toglie Silvia di vita;
la quale raffredda tostamente il lettore infiammato da quel bel tratto, e lo
riduce a non trovare altro pregio che quello della lingua e dell'elocuzione là
dove si prometteva nell'incanto drammatico un piú profondo diletto.117
Se non che l'Alfieri,
anzi che bevere per la favella tragica ai fonti dell'Aminta, ne avea pensato
diversamente da tutti e a modo suo. Ecco, inedito, il suo parere.
Stimatissimo in Italia è codesto poema del
Tasso, benché a parer mio di gran lunga inferiore alla Gerusalemme dello
stesso autore. Egli è vero che sono tra loro differenti i generi, poiché nulla
lo stil pastorale si confà con l'epico; ma vero è altresí che codesto genere di
pastorali sceneggiate è per sé stesso mediocre, e non sollevabile nella
rappresentazione. L'Aminta è pieno di bellissimi concetti leggiadramente
espressi, ma languisce in moltissime scene: l'intreccio non me ne piace
affatto, e tutta la favola si passa in narrazioni inverisimili. Io credo
potersi paragonare questo genere di spettacolo pastorale a quello delle
tragedie volgarmente dette urbane, che non sono commedie né tragedie ma tengono
alquanto delle due: cosí la pastorale fra la tragedia ed il dramma tiene un
mezzo indefinibile che in scena deve necessariamente riescire insipido. Ogni
terza specie è cattiva; ed è senza dubbio il frutto o del non ingegno o d'una
stravagante immaginazione. Nell'Aminta non scorgo intreccio veruno. Il
personaggio di satiro è contrario ai costumi ed inutile all'azione: quello
della sfacciata Dafne serve a poco: Elpino poi non è introdotto che per narrare
il fine, cosa che poteva egualmente far Tirsi. Insomma, se l'Aminta come
teatrale componimento esamino, mi par cattivissimo; se poi come semplice poema,
una raccolta di belle elegie lo giudico.118
Superbo giudizio, quasi personale; ma sincero da
parte dell'uomo che pur tanto ammirava il Tasso, e non del tutto ingiusto
quanto al genere.
Per vedere esattamente
delineata e messa in chiaro con poche parole la figura e parte che la pastorale
italiana ha nello svolgimento e nella storia del dramma bisogna leggere uno
straniero. Dell'Aminta insieme e del Pastor fido A. G. Schlegel
dice che
La composizione non è veramente tragica, ma è
nobile ed anche ideale; e la poesia de' cori è d'una grande bellezza. Questi
cori non appariscono su la scena, e non s'annodano all'azione; sono voci
liriche e armoniose che sembrano echeggiare nell'aria.... Benché vi sia un
intreccio generale ed uno scioglimento, l'azione sovente non progredisce nelle
scene isolate: il che prova che gli spettatori, poco avvezzi a' vivi piaceri
del teatro, si tenevano ancora contenti della placida pompa d'una bella poesia,
né conoscevano quell'agitazione e quella impazienza che la rapidità del
movimento drammatico può sola colmare.119
Ciò che la concitazione del
dramma non poteva, lo dava la sensualità musicale. Finisco citando d'un
bell'ingegno italiano, che, quando poteva riguardare posato, vedeva bene:
Questa parte della nostra letteratura fu forse
la piú popolare in Europa, e non cedé che alla nuova e cosí lusinghiera
popolarità dell'opera in musica, alla quale aveva lastricata la via con i cori
cantanti, col lusso degl'intermezzi, con la dolce morbidezza del verso.120
Di fatti la favola
pastorale cedé passo passo il campo al melodramma mitologico e storico: quando
questo con Apostolo Zeno fiorí, quella era placidamente esinanita; e Gian
Vincenzio Gravina, che forse rideva su l'agonia dell'ibrida forma, tirava anche
su, inconscio, il Metastasio a far di peggio, secondo lui, di meglio, secondo
il giudizio de' teatri eleganti.
|