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Giosuè Carducci Su l'Aminta di T. Tasso IntraText CT - Lettura del testo |
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Trovati e fermati in Ferrara i tre veri primi ferraresi esemplari alla perfetta favola pastorale che è per venire, torno piú sicuro a divagare ancora un poco tra casi dubbi e singolari di precedenze, di somiglianze, d'imitazioni, non senza importanza nella storia d'una produzione letteraria cosí complessa. I lettori ricorderanno la Cecaria e l'autor suo Marc'Antonio Epicuro de' Marsi. Egli morí ottuagenario in Napoli nel 1555; ma un dieci anni prima61 avrebbe composto una Mirzia, intitolata «favola boscareccia» in un manoscritto del secolo decimosesto scadente, dalla biblioteca dei duchi d'Urbino passato all'Alessandrina di Roma.62 La favola è tale. La scena a vista del golfo di Napoli. Trebazio pastore, amante non corrisposto della ninfa Mirzia, entra lagnandosi e s'addormenta in una capanna. Viene Filerio altro pastore facendo una dichiarazione alla ninfa Venalia, ed è respinto. Sopravviene a consolarlo Ottimio pastore anch'egli: móntano tutt'e due sur un albero e di lassú vedono non veduti i giuochi delle ninfe, tra le quali Mirzia e Venalia, presiedute da Diana: Ottimio s'innamora nientemeno che della dea. Le ninfe se ne vanno; i due discendono; Trebazio si desta e grida l'amor suo; poi tutt'e tre s'accordano a descrivere in versi le bellezze amate. Dopo di che Filerio dà a Trebazio un velo che Mirzia ha lasciato sul terreno: certamente la ninfa tornerà per esso. L'appendono ad un albero; e poi tutt'e tre s'appiattano. Viene Mirzia e sale su l'albero per istaccare il velo: Trebazio l'assedia, ma alle lusinghe di lei si trae in disparte, perché discenda sicura; discesa, essa lo spinge nelle acque d'un fonte, e se ne va. I disperati amanti vanno anch'essi all'antro e all'oracolo della Sibilla: la quale risponde; a Filerio, che Imene lo consolerà; a Ottimio, che mutando forma avrà Diana; a Trebazio, che fuggendo sarà seguito. Dopo discussioni sul responso, Filerio e Ottimio si allontanano: a Trebazio rimasto solo col suo dolore soccorre Mirzia, che alla sua volta chiede mercé: Trebazio ora sdegnato la respinge; ella per dolore è conversa in mirto. Ed ecco Ottimio con un buon satiro che lo vien confortando, ma impazza e a poco a poco diventa fontana: Diana verrà a bagnarsi in quelle acque, e cosí egli l'avrà. Torna Trebazio, e sedutosi all'ombra d'un mirto, mentre ne svelle un ramo per farsene riparo e dormire, ode uscirne la voce di Mirzia lamentevole. Il pastore e il buon satiro invocano Venere che le ridia la perduta forma, ed ella infatti torna ninfa tra le braccia di Trebazio. Il satiro suona tutte le sue zampogne. E qui finisce senza ch'altro sappiasi di Filerio. Il dramma in tre atti, senza partizione di scene, ha il dialogo in terzine piane o sdrucciole, le descrizioni, gli oracoli e le preghiere in ottave, le espansioni amorose in stanze liriche: la verseggiatura fa ricordare la Cecaria. E nella Mirzia tre sono i pastori come nella Cecaria tre i ciechi; e i tre in ambedue i drammi descrivono a gara le bellezze delle amate e ricorrono all'oracolo. L'Epicuro, intorno al 1545 o poco dopo, mosso dagli esempi che venivano di Lombardia, ritornò egli alla sua gioventú, e già vecchio assai imitò sé stesso giovine, allargando e complicando l'azione con fantasie ovidiane? Bisogna ragionar cosí, chi tenga per indubitabile l'attribuzione del codice urbinate alessandrino. Ma quel codice, cosí lontan da Napoli, su 'l finire del secolo, spropositato, merita egli poi tanta fede? La merita dinanzi al fatto di due stampe, una parmense «La Mirzia, commedia pastorale di Selvaggio de' Selvaggi» del 1552, una vicentina «La Trebazia, favola boscareccia del signor Fabio Ostinelli gentiluomo napolitano» del 1673? Nella prima è la favola stessa, nella seconda è anche la stessa verseggiatura che nella Mirzia.63 Veggano un po' gli eruditi: è un caso per loro. Io intanto credo che la Mirzia, quale fu pubblicata ultimamente, è opera d'un napolitano, che imitò la Cecaria e allargò le forme dell'ecloga signorile, dopo la metà del secolo, conoscendo i nuovi esempi ferraresi. Proprio del 1556 è una «commedia pastorale» di Bartolomeo Braida da Sommariva in Piemonte.64 Dedicata a Francesca di Fois contessa di Tenda, moglie di Claudio di Savoia governatore per Francesco I e gran siniscalco di Provenza e Marsiglia, fu probabilmente recitata a quella corte. In un dei sonetti che precedono, il poeta chiede scusa per l'opera sua cosí:
Privo del studio mio, mentre 'l crudele Marte rivolge sossovra il Piemonte Per quattro lustri già con danni ed onte Empiendo il ciel di stridori e querele,
Spiegai d'Italia al scriver mio le vele E a l'armi ancor ebbi mie voglie pronte, Né potendo al stil volgere la fronte Quel puoco dolce mio cangiossi in fèle.
Il buon Braida, che non però volge sempre il suo stile cosí mal destro, avea pubblicato l'anno avanti sue rime in Torino, e piú addietro, nel 1540, un'«opera nuova» pur di rime, nel cui frontespizio s'intitolava studente di legge.65 Potrebbesi supporre che avesse letto il Sacrificio del Beccari, da che in questa sua commedia espone anch'egli un intreccio di tre amori e una ninfa legata a un albero; se non che su 'l bel principio Mercurio esce a fare il prologo come nell'Orfeo del Poliziano, e la commedia del resto va in ottava rima come una rappresentazione del Quattrocento. Certi castelli della Val d'Aosta, pur costruiti a mezzo il secolo decimoquinto, ostentano l'architettura e la pittura del Trecento, per la ragione che ne' paesi un po' distanti dai centri di cultura l'arte quasi sempre rimane a dietro poco piú poco meno da cento a cinquant'anni. I tre pastori, Tindaro, Ruffo, Alpardo, e le tre ninfe, Fileria, Augusta, Alessandra, rappresentano la parte idillica, ma non tutta gentilesca, come anche i nomi dimostrano. Basso comico è il villano, che, innamorato d'una delle ninfe, viene, anticipato monsieur Jourdain, a cercare chi gl'insegni far all'amore cortigianescamente e ben parlare: egli parla sempre il rustico piemontese e in versi corti d'otto o nove sillabe. Trova un cortigiano che se gli presta, e ne seguono molte beffe; sin che i pastori uscendo tutti con un lor bastone e dicendo non piú in versi (la rappresentazione si fa mimica) – Doh, villan poltrone, tu se' tornato – gli dànno molte bastonate. E cosí finisce il terzo atto. Al quarto viene in scena l'elemento fantastico: un uom selvaggio, che non parla, ma ferocemente passeggia su e giú col bastone in spalla, e poi va a colcarsi sotto un albero; levatosi a un rumore di fronde dalla foresta vicina scopre le due ninfe Fileria ed Augusta, e piglia Fileria e la lega a un tronco d'albero flagellandola tuttavia con de' vimini. In questo mezzo i tre pastori erano andati al tempio d'Amore per impetrare mercé a' loro travagli; e tanto fervorosamente pregano che riescono a svegliare lo Sdegno, il quale pari d'Amore siede accanto a lui nel tempio suo stesso. Augusta li raggiunge, e conta il caso di Fileria. I pastori corrono ad affrontare il selvaggio: Ruffo e Alpardo sono uccisi: Tindaro da prima fugge, ma tosto ripreso animo torna all'assalto. Mentre da una parte dura la zuffa, dall'altra sopraggiunge Alessandra e scioglie Fileria; e via. Tindaro, abbattuto alla fine il selvaggio, va per liberare Fileria; né piú trovandola, memore delle durezze di lei e disperato, si ferisce, e cade morto su' cadaveri dei compagni. Quattro morti dunque per terra. Atto quinto. Ripassa Fileria, e vede: rimorsa d'essere durata cosí crudele al misero amante, si consiglia con Augusta; e s'avviano al ritiro d'un santo romito che fa miracoli. Battono alla porta, suonano il campanello. Il romito non vuole aprire; ma quando, sporgendo fra i battenti dell'uscio la persona con l'asperges e il capo levato in atto di scongiurare, scorge i due bei visetti, gli cade l'asperges di mano e resta innamorato. S'avviano per dove sono i morti non senza qualche atto troppo ardito del frate, represso tosto dalla severità delle seguaci di Diana. Alle quali il romito mostra nella sua tasca un'erba il cui tócco fa risentire, non che i feriti a morte, ma i morti. Se non che, come volendo antecipare il prezzo del miracolo, il frate gitta le braccia al collo a Fileria. Ma le brave ninfe lo acciuffano per lo scapolare e lo legano a un albero; poi, toltagli di tasca l'erba, vanno a resuscitare per conto loro i pastori. Dei tre, Tindaro rivive con lo sdegno del passato, e caccia Fileria. Essa e la compagna tornano per consiglio e rimedio al romito. Il romito briccone, che anche è mago, cosí legato fa un cerchio in terra con una verga leggendo in un suo libraccio: salta su uno spirito e gli parla all'orecchio: ond'egli dice a Fileria che bisogna addormentare lo Sdegno; e per ciò vadano alla casa del Sonno, e facciano cosí e cosí. Vanno, lasciando pur legato il romito; ed hanno dal mite iddio un'ampollina di acqua limpida e fresca; asperso d'una stilla di questa lo Sdegno, per quanto abbia d'irritazione, bisognerà che si dorma. Ecco le ninfe al tempio di Amore: l'acqua fa il suo effetto. Tindaro torna amoroso: le ninfe tutte pietose si abbracciano coi loro pastori: l'eremita a quella vista anch'egli vuol tornare al secolo, credo per tôr donna: è sciolto. Amore vince tutto, e il contento ingenera la pietà: gli amanti felici risuscitano anche il selvaggio. E tutti insieme ballano. Delle molte osservazioni che avrei a fare, ne espongo una. Ricorda il lettore l'ecloga bellunese del 1513? Qui, come là, uomini selvatici e ammazzamenti. È curiosa questa ibrida trasformazione della rappresentazione mitologica toscana e dell'idillio classico napolitano che rimontando i due lati delle alpi aspira gli umori e i vapori dell'elemento fantastico romanzesco medievale, con ciò allontanandosi piú sempre e del tutto dalla vera favola pastorale in prossima o attuale composizione. E se ne distacca per altre ragioni, in altra regione, cioè a Napoli, la forma ambiziosamente e freddamente rimasta mitologica e ovidiana con la Marzia. E con piú anche di stridore se ne distaccano la farsa plebea di stregonerie e divozioni cristiane: la tragedia plateale di apparizioni divine e di evocazioni diaboliche, di metamorfosi e di resurrezioni: la commedia grossiera di Merlini romiti, di pastori Truffaldini, di villani Curculioni, di Trasoni spagnoli e di ninfe larvate; la tela cangiante delle forme dialettali e delle metriche; si distaccano, dico, dalla linea pura, dalla temperanza composta, dalla euritmia melodica del nuovo dramma bucolico. La favola pastorale, quale s'è già mostrata e quale procede alla perfetta sua fioritura in Ferrara, è tutta classica, è l'idealizzazione del costume pastorale greco nella sua piú plastica concinnità e con un sentimento moderno di turbata sensual voluttà.66
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61 Cfr. E. Pèrcopo, M. A. Epicuro, in Giorn. stor. d. lett. it. XII, 1888, già cit. 62 Pubbl. da I. Palmerini, già cit. 63 Cfr. F. Torraca in Riv. crit. di lett. ital., a. IV (Firenze, 1887) col. 188. 64 Comedia pastorale di nuovo composta per mess. Barth. Brayda di Summariva etc.: Torino, appo Giov. Maria Coloni da Saluzzo, 1550. Debbo la conoscenza di questo curiosissimo e rarissimo libretto al mio amico prof. Severino Ferrari. 65 Cfr. anche Quadrio, VII 69-70, 283; e Tomm. Vallauri, Stor. della poes. in Piemonte (Torino, Chirio, 1841), I, 232-3. 66 Il Quadrio (libr. III. dist. iii, c. iv, tomo v, 399) ricorda un G. B. Cartari bresciano, che, fiorito a mezzo il sec. xvi, avrebbe composto una favola pastorale intitolata Trialuce, stamp. in Brescia nel 1566 e ivi ristampata per Policreto Turlino nel 1655. È un de' pochi errori di quel vecchio ma eruditissimo e sempre stimabile critico. Non esiste che l'ediz. del 1655, e la Trialuce è una vera operetta del Seicento. |
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