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Giosuè Carducci
Su l'Aminta di T. Tasso

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  • APPENDICE   FAVOLA PASTORALE DI G. B. GIRALDI CINTHIO
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APPENDICE

 

FAVOLA PASTORALE

DI

G. B. GIRALDI CINTHIO

[Frammento]

 

 

Questo frammento a me lo indicò e per me lo trascrisse il prof. Giuseppe Agnelli, già mio alunno e ora bibliotecario diligente e dotto della Civica di Ferrara. È conservato nel codice 331 di essa biblioteca, col proprio titolo di «Favola pastorale»: autografo, tra cinque altre operette, del Giraldi; prima delle quali l'Egle, con la intitolazione di «satira»: è in otto carte di mm. 221 ´ 160, spartite in due duerni; l'uno ha la «parte prima», il secondo la «parte quinta». Mons. Giuseppe Antonelli, che lo descrisse nel suo Indice dei manoscritti della civ. Biblioteca di Ferrara [Ferrara, Taddei, 1884], desunse dalla persona del prologo la denominazione di Amore che diè alla favola.

 

 

PARTE PRIMA

 

Amore

 

 

Pare cosa ben strana a la mia madre,

Ch', avendo vinto Giove e vinti quanti

Nel ciel son dèi, sola Dïana sia

Sí contra di me armata, che mai face

Non senta del mio fuoco, né mai strale

Ch'esca da l'arco mio la passi pure

Oltre la gonna, e che non solamente

Ella sia armata contra me del gelo

Di gelata onestà, ma che le ninfe

Che seguon lei siano ribelli seco

A me et a lei. Ma certo piú dolere

Non si potrà; perché infiammato ho il petto

A la piú cara ninfa ch'ella avesse;

E di lei sono altresí due pastori

Cosi infiammati, che ciascun di loro

Cerca di avere al suo disio la ninfa,

Ma, perché a due non puote una esser moglie,

Sono a tenzon fra lor di ch'ella debba

Essere. Et io, che non vo' che cagione

Sia d'odio Amore, ho ritrovato modo

Di far che la tenzon sarà acquetata

Dal piú saggio pastor di queste selve

Con letizia infinita de le parti;

Godendo l'uno Irinda, ché tal nome

Ha quella ninfa c'ho tolta a Dïana

A lei già tanto cara, l'altro donna

Infiammata di lui da la mia face.

Ma veggo uscir Dïana disdegnosa

Che levata io le abbia da lo stuolo

La piú leggiadra ninfa e la piú cara

Che errasse mai con lei fra boschi e selve.

Ma dolgasi a sua voglia: ora mi godo

Ch'ella conosca la potenza mia.

 

Diana e le ninfe

Io son sí piena di giusta ira e tanto

Accesa contra Amor, che, se mi desse

Ne le mani, i' farei sí gran vendetta

Del grave oltraggio che mi ha fatto, ch'io

Restarei paga: non gli lascierei

Una penna nell'ali e le saette

Gli spezzarei con l'arco, e gli farei

Veder che per lui meglio saria stato

Starsi nel seno a la lasciva madre

Ch'esser venuto a dar lascivo assalto

A le seguaci mie. Ma veggo Irinda

Che, sdegnate le sori et il cacciare

Meco ne' boschi le selvaggia fiere,

Deliberata si è prender marito,

Per lo foco che gli ha nel core acceso

Questo malvagio Amor. Non so come io

Mi tenga che non ponga una saetta

In corda e non la scocchi nel suo cor

E la levi di vita: pure io voglio,

Che la servitú ch'ella insino ad ora

Usata mi ha con fe' perdon le impetri.

Ma ben raccordo a tutte quante voi

Che, se alcuna sarà mai cosí sciocca

Che si ponga ad amar satiro od uomo,

Gliene farò portar sí grave pena

Che passerà in essempio a tutte le altre.

 

Nin.

Se sciocca, se lasciva si è mostrata,

Alma dia, Irinda, noi con cor costante

Armato di onestà salda e vivace

Vogliàn servarvi servitú continua

Con perpetua onestate; e indarno Amore

Scoccherà sempre in noi le sue quadrella,

Perché sicure siam ch'egli non vince

Quelle che vinte esser non voglion. Dia. Questo

Vostro fermo proposto di onestade

Di castità perpetua cosí care

Mi farà sempre avervi, che contente

Vi rimarrete di essermi compagne.

Ora entriamo nel bosco, a mover guerra

A damme a capri e a cinghiali e a cervi;

E stiasi Irinda nel lascivo fuoco

Che la rode e consuma a nervo a nervo.

 

Irinda: Gaia madre di Viaste.

Oimè, come mi son io dipartita

Da lo stuol di Dïana, come lassa

Entrata son ne l'amorosa greggia?

Mentre che stata son colla mia....

Fra l'altre ninfe e non [ho] avuto in core

Fiamma d'amor, cosí tranquilla vita

Ho vissa, che giamai doglia né affanno

M'ingombrò il petto: ma, poi che mi accese

Questo crudel arcier con gli suoi strali,

Io non ho avuta mai vita giocosa,

E hanmi ingombrato il cor sí gravi cure

Che né notte né dí trovata ho pace;

E fra tante gran cure e affanni tanti

Mi se n'è aggiunta una sí strana e scura

Ch'ella sola bastar potrebbe a farmi

Esser via piú d'ogni altra afflitta e morta.

Accesa io mi ritrovo di Filisio

Sí che in lui solo ho posto ogni pensiero

E con lui finir bramo i giorni miei:

Et ecco, mentre che cercato abbiamo

Condurre il nostro amore a fino onesto,

S'è interposto Vaste al disir nostro

E cerca di volermi per sua moglie,

Il qual ho in odio piú che non ha in odio

L'agnella il lupo od il leon la lupa;

E se mestier mi fusse di pigliarlo

Per mio marito, piú tosto tornare

Voglio a le selve e seguitar Dïana

Che mai vedermi quel pastore a lato.

Ve' come la ria sorte regge il mondo:

Ama Vaste Frodignisa tanto

Quanto donna può amar gentil pastore,

E questi sdegna si vaga polcella

E si è messo ad amar me che l'ho in odio.

Veggo che a tormentarmi esce del bosco

La madre sua; e, se non che mi ha vista,

Io non l'aspetterei: ma saprà cose

Che la distorneran forse da darmi

Piú noja. Ga. Dio ti salvi, bella figlia.

Onor di queste selve; e ti conceda

Quel che piú brami il dio di questi boschi.

 

Ir.

Se quel che piú desiro e che piú bramo

Mi sia concesso, mio marito sia

Filisio che amo piú che gli occhi miei.

 

Ga.

Come Filisio? e perché non Vïaste

Mio figlio, che piú ti ama che non ama

La pecchia il fiore e l'agnellino il latte?

 

Ir.

Io vorrei pur che questo vostro figlio

Lasciasse di noiarmi e che attendesse

A custodir le sue greggie e ad amare

Chi l'ama e lasciar me, che non son mai

Per volger verso lui l'animo mio;

E segni tali ha già del mio volere

Che dovria pur ristar di darmi noia.

 

Ga.

Figliuola mia; se tu ben conoscessi

L'utilità e il ben tuo, tu muteresti

Pensiero e sdegnaresti chi tu or ami,

E sarebbe Vïaste l'amor tuo.

Filisio è, come sai, servo a Damone,

Se bene ei dica esser nepote suo;

E se ne vive alla mercede altrui,

E qualora si levi dal servire

Non ha onde poscia aver latte né casio:

E il mio figliuolo ha la piú bella greggia

Che in questi paschi tenera erba pasca.

E, se bellezza amar si dee, sai? uomo

Non fu sí bello mai fra questi campi.

Febo mentre d'Ammeto pascea in terra

L'armento non fu [o] Adoni unqua si vago,

Che l'onor fu tenuto allor de' boschi.

Sembran le belle guancie un sangue, un latte:

Gli occhi paion due stelle, e le sue labbra

Sono rosse vie piú che acerbo moro.

Il color de i capei par fior d'alisi,

Di cui cosa non è simil piú a l'oro.

Via piú bianco il collo ha d'ogni ligustro;

E pastore non è che pasca greggia

Di piú bel corpo e di piú bel sembiante.

E, se d'essere in caccia si diletta,

Aver non puoi di lui piú destro in caccia

Né valoroso piú né piú sicuro.

Avanza egli nel corso il legger cervo;

E contra il suo valor nulla può il dente

Di feroce cinghiale; e i lupi e gli orsi

Temono lui via piú che damma il veltro.

E voce ha cosí dolce e sí soave

Che tra le ninfe di Dïana alcuna

Non è che l'agguagliasse: anzi ho veduta

Dïana stare attonita al suo canto,

Mentre egli, figlia mia, le sue bellezze

Cantava. E, se pon labbra a la zampogna,

Egli ardere fa Pan d'ira e d'invidia.

 

Ir.

Siasi quale esser voglia, a me non piace.

 

Ga.

E perché piú piacer ti dee Filisio,

Di cui non è il piú sozzo in queste parti?

Via piú che la caligine son neri

I suoi capelli, et ha simil la fronte

A quella di un cinghiale: ha gli occhi bianchi

Che paion quei della gattuccia nostra,

E gonfiate le labbra e il viso nero

Che pare un Etïòpo. E, s'egli canta,

Egli sembra una rana di palude

O vero un corvo che su quercia gracchi;

E, se si pon a i labri la zampogna,

Una cicala par che al caldo strida,

Tanta vien dal suo son noia molesta.

 

Ir.

Io non so a che mi tenga, che non faccia

Vendetta di cotesta grave ingiuria,

Che mi avete ora fatta a biasimarmi

Il mio Filisio in cosí strana guisa.

Egli val piú dormendo che non vale

Vïaste, quando piú cerca mostrarsi

Fra' pastori leggiadro. Or non siate osa

Piú mai di dirmi mal del mio Filisio;

Ché, se non mi verran meno le mani,

Io vi farò pentir di tanto ardire.

 

Ga.

Deh, Irinda mia, non esser cosí fiera!

Ché non conviene a la tua gran bellezza

L'esser crudele. Ascolta, ché dirotti

Cosa che ti farà rimaner lieta.

 

Ir.

Io non voglio udir piú cosa veruna;

Ma voglio che diciate al vostro figlio,

Che molto meglio egli faria ad amare

Chi l'ama e lasciar me, che via piú tosto

Mi eleggerei morir d'esser mai sua.

 

Ga.

Non ti partire, Irinda, ascolta; ed io

Cosa non ti dirò che ti sia ingrata.

 

Ir.

Udir non vo' da voi piú cosa alcuna:

 

Gaia sola

Io detto aveva bene al figlio mio

Che l'opra i' perderei. Non credo mai

Che Irinda ad amar lui sia per piegarsi;

E non posso se non lodar la ninfa

Poi che costante sta ne l'amor suo.

E' farebbe assai meglio il mio figliuolo,

Come Irinda detto ha, ad amar chi l'ama,

Che mettere in oblio la greggia sua,

Per voler al suo amor piegar chi l'odia.

E s'egli seguirà il consiglio mio,

Come seguire ad ogni modo il deve,

Lascierà questa pratica, e porrassi

Ad amar Frodignisa, ch'ama lui

Non meno che ami Irinda il suo Filisio.

 

PARTE QUINTA

Viaste, Dino

Io vo' piú tosto non dirò lasciare

La greggia in preda a' lupi, ma....

Uscire, ch'io sostenga mai ch'Irinda

Sia d'altri. Dica pur, faccia pur quanto

Sa far Montano; non potrà mai tôrmi

Da questa voglia c'ho nel cor fondata

Come in selce ben dura. Che sia Irinda

Moglie a Filisio e ch'io ne sia contento?

Piú tosto si vedran nere le nevi

E le brine caldissime, ch'io voglia

Che questo sia: o che la vita affatto

Vi lascerò, o che sarà ella mia.

 

Din.

Figliuol, non si dee l'uom cosí fermare

Ne la sua voglia, che non dia anche orecchio

A buoni et amorevoli consigli

Che gli mostrino il meglio. È molto saggio

Montano, e per la lunga esperïenza

Vede in ciò quel che tu, che appannato hai

Da questo tuo sfrenato desiderio

(Egli m'è forza ch'io ti dichi il vero),

Non puoi veder. Dimmi, ti prego, dimmi

Che contentezza speri tu di avere

Con Irinda se tua ben divenisse,

Togliendoti ella contra voglia sua?

Vïaste, i' vo' che sappi che a fatica

Stan bene insieme quelle mogli e quelli

Mariti che si son concordemente

Insiem congiunti, non che quei che contra

Loro voglia si son congiunti insieme:

Se tua... a questo modo Irinda,

Avresti teco una perpetua croce.

Però farai gran senno a non volere

Cercar di teco avere un mal continuo,

Che te con la tua greggia infermi in guisa

Che disperato allor tu te [ne] moia.

 

Via.

Io vo' piú tosto stare in guerra sempre

Con lei, che con qualunque altra in diletto:

Sia ella pur mia, io la farò ben fare

Ciò che mi sarà a grado. Din. E che ti pensi?

Che, se tu vorrai star sempre in angoscia

E tormentar quella leggiadra ninfa

Che non men cara mi è che se mia figlia

Ella si fosse, comportar io voglia

Ch'ella, Vïaste, tua moglie divenga

Per non aver mai bene? Tu t'inganni,

Vïaste, se ciò pensi: però poni

L'animo tuo in riposo, e pensa, pensa

Piú tosto che cotesta ogn'altra cosa.

Sono introdotti i matrimoni a...

De gli uomini, Vïaste, non perché essi

Portino seco gara, odio e rancore.

 

Via.

Se tu, Dino, vorrai, se tu vorrai,

Dino mio caro, tu potrai disporre

Irinda che rivolga a me il pensiero

Sí che di suo voler venga mia moglie.

 

Din.

Io non son stato a questa ora, Vïaste,

A tentar che pensiero ella abbia, e trovo

Ch'ella piú tosto soffrirà esser morta

Ch'esser tua mai. Via. Tu mi hai trafitto il core.

 

Din.

E che colpa ve n'ho io, se tu vuoi

Quel che impossibil è che tu abbi mai?

Ella esser vuole di Filisio, e in lui

Ha posti tutti quanti i suoi pensieri;

E, quando ad uno di voi due dovessi

Concederla io, piú ragionevol fôra

Ch'a Filisio la dessi ch'ama Irinda

Che a te c'ha in odio. Però, poi che vedi

Ogni cosa contraria al tuo disio,

Dà orecchio a quel che ti ha detto Montano:

Lèvati questa cura omai dal core

E volgi ad altra donna il tuo pensiero.

 

Via.

Dino, io te 'l vo' dir: sarà cagione

L'odio che veggo che costei mi porta

Che dia morte a Filisio e morto lui

Io faccia con un laccio anch'io quel fine

Che per la crudeltà di Anassarete

Fe' il misero Ifi. E tosto ne vedrete

L'effetto tu et Irinda; poi che insieme

Vi sarete congiunti a la mia morte.

 

Dino solo.

Ve' che disavventura ha questa ninfa

Per questo sciocco. Ella brama Filisio,

Et io consentirei che fusse sua;

E questo diavol di Vïaste mette

Tanto disordine in questo maneggio

Che non so che mi far né che mi dire.

Non credo io già che fra pastori unquanco

Non fusse caso cosí strano: io prego

Chi la cura ha de' matrimonii santi

Che degni di condurre a onesto fine

Questo grave disordine; sí ch'abbia

Filisio Irinda, e deponga Vïaste

La strana passïon ch'ora lo ingombra.

 

Gaia, madre di Viaste, Montano

 

Ga.

Gran ventura stata è, che ritrovato

Si sia vivo il pastor da cui la figlia

Di mia sorella tolse Lisa; e molta

Prudenza ella ha mostrata nel mandare

Con la risposta insieme il pastor anco,

Anzi ad esser venuta ella con lui,

Acciò che, se vi fusse anche bisogno

De la sua presenza.....

Cercar di racquetar questa discordia

Che fra Filisio è nata e fra Vïaste.

 

Mon.

Prudente veramente è stata Lisa,

Come tu di'; né si potrà pensare

Cosa piú acconcia al desiderio nostro.

Lasciata qui questa tua pastorella

Acciò che di bisogno sia chiamata,

Lisa o il pastor ch'ella ha condotto seco

A te la mandi, perché gli conduca

Ambidue a far fede di quel che a...

Qui con Vïaste. Però vanne, Gaia,

E fa che se ne venga qui Vïaste,

Che non si partirà, spero, da noi

Che ogni discordia sia ridotta in pace.

 

Gaia

Il voglia Dio.

 

Montano

Cosí sarà di certo.

Ho veduto talora una tempesta

Nel mar sí grande, c'ho pensato mai

Di non poter veder tranquille l'onde;

E in quanto occhio si gira si son messe

L'onde tanto superbe in tremolare.

Una gragnuola anche talora ho vista

Sí densa piover da le nubi, ch'io

Non pur pensato ho che a la greggia nostra

Debba mancare il vivere ma a noi;

E poi cosí abbondante ho visto l'anno

Che parso è che piú tosto la gragnuola

De l'abondanza sia stata cagione

Ch'ella dato pur ci abbia un picciol danno.

E cosí van le cose in questo mondo.

Chi pensato avria mai che fusse nata

Cosa sí fuor d'ogni pensiero umano

Or, ne le selve nostre, che acquetare

Potuta avesse la discordia grave

Che nata fra Filisio era e Vïaste?

Questo mi mostra che mai disperare

Non si dee l'uom de la bontà divina.
Veggo Vïaste, i' gli vo' gir incontra.

 

Viaste, Montano

 

Via.

Io son stato, Montan, per non venire

A ritrovarti, ancora che mia madre,

A la qual porto quella riverenza

Che dee figliuolo buon portare a madre,

Detto me l'abbia; perché io mi ho pensato

Che tu di quel mi vogli favellare

Di cui pur dianzi ragionato mi hai.

S'è cosí come credo io che sia,

Ti prego e ti riprego che non vogli

Noiarmi piú, perché ciò non è altro

Che piú infiammarmi e raddoppiar la doglia

Et animarmi pur contra Filisio.

 

Mon.

Vïaste, io voglio che tu sappi ch'io

Ho tanto a core ogni tuo bene e tanto

Ti amo, che piú non amo i figli propri;

Però tu creder dêi che non dirotti

Se non quel che ti sia d'util, d'onore:

Cosí mi custodisca la mia greggia

Pane dio de' pastori e le mie biade

Da' mostri de la terra mi difenda

Cerere dia; et a te ponga in core

E questa e quei di dar sí attentamente

Orecchio a le parole mie, che quindi

Ti venga quella contentezza ch'io

Bramo maggior. Via. Son le parole buone.

Ma non so se saran sí buoni i fatti.

 

Mon.

Saranno anche migliori. I' tengo certo

Che, s'alcun ti volesse dar per moglie

Giovane che figliuola si trovasse

De la sorella di tua madre, mai

Tu non consentiresti a cosa tale.

 

Via.

Tolga via Dio, che tal pensier mi venga!

Io mi starei piú tosto, e dico il vero,

Di non aver mai moglie: perché questa

Mi parerebbe una sceleratezza

Che dovesse far me gire e la greggia

In ultima ruina. Mon. E cosí a punto

Saría, Vïaste. Saperai adunque

Ch'Irinda, de la quale ardi e sfavilli,

Ti è cugina germana. Via. Deh, Montano,

Cerca dare ad intender ciò a' fanciulli,

Che nulla non ne vuol creder Vïaste.

Questa una favola è che tu ti hai finta

Per distornarmi da l'amare Irinda:

Ma certo sii che non ti verrà fatto.

Non ebbe mai la sòra di mia madre

Sorella alcuna. Mon. Anzi, Vïaste, ella ebbe

Irinda: e perché veggo che tu fede

A me prestar non vo', io credo pure

Che fede presterai ad una ninfa

Del coro di Dïana. Via. Senza dubbio:

Se ninfa tal mi fesse fe' di questo,

Non ardirei di contradirla punto;

Ché so che quella purità di donne

Non dice mai se non il ver. Mon. Va a Gaia,

E di' che meni quella ninfa seco

E quel vecchio pastor, ch'or da le selve

Venuto è seco. Tu cosa udirai

Che ti farà stupir di maraviglia,

Et acqueterà sí l'animo tuo

Che darai bando a le noiose cure.

 

Via.

Tu mi fai tutto sgrizzolar sentendo

Quel di che tu ragioni; e non potrebbe

Non mi esser ciò di maraviglia grande.

 

Mon.

Ecco che viene chi ti farà fede

Del vero, e troverai che Dio ha voluto

Proveder che non cadi in error tale

Quale sarebbe s'una tua germana

Come cieco per moglie avessi preso.

 

Montano, Ninfa, Pastore, Viaste, Gaia Madre Di Viaste

 

 

Sacrata ninfa, questo giovanotto

Et io disideriamo di sapere

Ch'Irinda sia; come nel coro venne

De le vergini ninfe di Dïana

E come indi partita ella si sia.

Piacciati dunque, prego, sodisfare

Al desiderio nostro: cosí sempre

Favorevol ti sia la tua Dïana

Né ti dia assalto mai satir lascivo.

 

Nin.

Montan, tu dèi saper che ha quindici anni

Che essendo in caccia questo pastor vidi

Ch'aveva una bambina a pena nata

Su la quale ei facea dirotto pianto:

E di ciò ricercando la cagione

Mi disse che la madre gli avea data

Quella anima innocente, acciocché a i lupi

La desse a divorare: et io commossa

A gran compassïon presi la figlia

Et a Dino la diedi a nutricare.

Cresciuta ch'ella fu sino all'etade

Di dieci anni, i' la presi per compagna;

Et è stata con meco insino a tanto

Che da Dïana si è partita, accesa

De l'amor di un pastor di queste selve.

E questo è quel che ti so dir di lei.

Rimanete con Dio; ché a la mia dea

Io voglio ritornar, ch'ella mi aspetta.

 

Mon.

Vàttene in pace, fortunata ninfa:

Cosí mai sempre favorisca il cielo

I desideri tuoi, come allegrezza

Infinita ci hai data. Nin. Prego il cielo

Che la faccia venir sempre maggiore.

 

Mon.

E chi diè a te, pastor, quella bambina?

 

Pas.

La sorella di Gaia la mi diede,

Versando fuor da gli occhi un rio di pianto

Con infinita doglia, biasimando

La tenace avarizia del marito,

Che per non le dover la dote dare

Commesso avea a la moglie che le desse

Morte sí tosto ch'ella nata fosse,

E che se forse ella facea altrimenti

Proveria l'ira sua. Quella meschina

Cui non sofferse dar morte a la figlia

A me la diè, che la portassi a i lupi;

E questa ninfa, come ella vi ha detto,

La prese; e grazia ho al ciel vederla viva,

E vorrei volentier che la sua madre,

Che vinta da l'affanno uscí di vita,

Viva si ritrovasse. Mon. Ora, Vïaste,

Tu puoi veder se deve esser tua moglie

Irinda. Via. Poi che ritrovo esser vero

Quanto mi hai detto, ove soleva amare

Irinda come amata, ora l'ho cara

Come germana mia sorella: e poi

Che Filisio sí l'ama et ella lui,

I' vo che gliela diamo per mogliera,

Ché non fu mai cosí beata coppia

Fra' pastori ha mill'anni. Ga. Figliuol mio,

Perché compita sia la mia allegrezza,

Io voglio che mi facci ancor la grazia,

Poscia che tanto ti ama Frodignisa

E non è bella men che si sia Irinda,

Che la ti prenda per mogliera. Via. Poi

Che Irinda aver non posso, io son per fare

Tutto quel che vi è a grado. Mon. Entriamo adunque

A dar principio a cosí liete nozze.

 

 

 




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