APPENDICE
FAVOLA PASTORALE
DI
G. B. GIRALDI
CINTHIO
[Frammento]
Questo frammento a me lo
indicò e per me lo trascrisse il prof. Giuseppe Agnelli, già mio alunno e ora bibliotecario
diligente e dotto della Civica di Ferrara. È conservato nel codice 331 di essa
biblioteca, col proprio titolo di «Favola pastorale»: autografo, tra cinque
altre operette, del Giraldi; prima delle quali l'Egle, con la intitolazione di
«satira»: è in otto carte di mm. 221 ´
160, spartite in due duerni; l'uno ha la «parte prima», il secondo la «parte
quinta». Mons. Giuseppe Antonelli, che lo descrisse nel suo Indice dei
manoscritti della civ. Biblioteca di Ferrara [Ferrara, Taddei, 1884], desunse
dalla persona del prologo la denominazione di Amore che diè alla favola.
PARTE PRIMA
Amore
|
|
Pare
cosa ben strana a la mia madre,
Ch',
avendo vinto Giove e vinti quanti
Nel
ciel son dèi, sola Dïana sia
Sí
contra di me armata, che mai face
Non
senta del mio fuoco, né mai strale
Ch'esca
da l'arco mio la passi pure
Oltre
la gonna, e che non solamente
Ella
sia armata contra me del gelo
Di
gelata onestà, ma che le ninfe
Che
seguon lei siano ribelli seco
A
me et a lei. Ma certo piú dolere
Non
si potrà; perché infiammato ho il petto
A
la piú cara ninfa ch'ella avesse;
E
di lei sono altresí due pastori
Cosi
infiammati, che ciascun di loro
Cerca
di avere al suo disio la ninfa,
Ma,
perché a due non puote una esser moglie,
Sono
a tenzon fra lor di ch'ella debba
Essere.
Et io, che non vo' che cagione
Sia
d'odio Amore, ho ritrovato modo
Di
far che la tenzon sarà acquetata
Dal
piú saggio pastor di queste selve
Con
letizia infinita de le parti;
Godendo
l'uno Irinda, ché tal nome
Ha
quella ninfa c'ho tolta a Dïana
A
lei già tanto cara, l'altro donna
Infiammata
di lui da la mia face.
Ma
veggo uscir Dïana disdegnosa
Che
levata io le abbia da lo stuolo
La
piú leggiadra ninfa e la piú cara
Che
errasse mai con lei fra boschi e selve.
Ma
dolgasi a sua voglia: ora mi godo
Ch'ella
conosca la potenza mia.
Diana
e le ninfe
Io
son sí piena di giusta ira e tanto
Accesa
contra Amor, che, se mi desse
Ne
le mani, i' farei sí gran vendetta
Del
grave oltraggio che mi ha fatto, ch'io
Restarei
paga: non gli lascierei
Una
penna nell'ali e le saette
Gli
spezzarei con l'arco, e gli farei
Veder
che per lui meglio saria stato
Starsi
nel seno a la lasciva madre
Ch'esser
venuto a dar lascivo assalto
A
le seguaci mie. Ma veggo Irinda
Che,
sdegnate le sori et il cacciare
Meco
ne' boschi le selvaggia fiere,
Deliberata
si è prender marito,
Per
lo foco che gli ha nel core acceso
Questo
malvagio Amor. Non so come io
Mi
tenga che non ponga una saetta
In
corda e non la scocchi nel suo cor
E
la levi di vita: pure io voglio,
Che
la servitú ch'ella insino ad ora
Usata
mi ha con fe' perdon le impetri.
Ma
ben raccordo a tutte quante voi
Che,
se alcuna sarà mai cosí sciocca
Che
si ponga ad amar satiro od uomo,
Gliene
farò portar sí grave pena
Che
passerà in essempio a tutte le altre.
|
|
Nin.
|
Se
sciocca, se lasciva si è mostrata,
Alma
dia, Irinda, noi con cor costante
Armato
di onestà salda e vivace
Vogliàn
servarvi servitú continua
Con
perpetua onestate; e indarno Amore
Scoccherà
sempre in noi le sue quadrella,
Perché
sicure siam ch'egli non vince
Quelle
che vinte esser non voglion. Dia. Questo
Vostro
fermo proposto di onestade
Di
castità perpetua cosí care
Mi
farà sempre avervi, che contente
Vi
rimarrete di essermi compagne.
Ora
entriamo nel bosco, a mover guerra
A
damme a capri e a cinghiali e a cervi;
E
stiasi Irinda nel lascivo fuoco
Che
la rode e consuma a nervo a nervo.
Irinda: Gaia madre di Viaste.
Oimè,
come mi son io dipartita
Da
lo stuol di Dïana, come lassa
Entrata
son ne l'amorosa greggia?
Mentre
che stata son colla mia....
Fra
l'altre ninfe e non [ho] avuto in core
Fiamma
d'amor, cosí tranquilla vita
Ho
vissa, che giamai doglia né affanno
M'ingombrò
il petto: ma, poi che mi accese
Questo
crudel arcier con gli suoi strali,
Io
non ho avuta mai vita giocosa,
E
hanmi ingombrato il cor sí gravi cure
Che
né notte né dí trovata ho pace;
E
fra tante gran cure e affanni tanti
Mi
se n'è aggiunta una sí strana e scura
Ch'ella
sola bastar potrebbe a farmi
Esser
via piú d'ogni altra afflitta e morta.
Accesa
io mi ritrovo di Filisio
Sí
che in lui solo ho posto ogni pensiero
E
con lui finir bramo i giorni miei:
Et
ecco, mentre che cercato abbiamo
Condurre
il nostro amore a fino onesto,
S'è
interposto Vaste al disir nostro
E
cerca di volermi per sua moglie,
Il
qual ho in odio piú che non ha in odio
L'agnella
il lupo od il leon la lupa;
E
se mestier mi fusse di pigliarlo
Per
mio marito, piú tosto tornare
Voglio
a le selve e seguitar Dïana
Che
mai vedermi quel pastore a lato.
Ve'
come la ria sorte regge il mondo:
Ama
Vaste Frodignisa tanto
Quanto
donna può amar gentil pastore,
E
questi sdegna si vaga polcella
E
si è messo ad amar me che l'ho in odio.
Veggo
che a tormentarmi esce del bosco
La
madre sua; e, se non che mi ha vista,
Io
non l'aspetterei: ma saprà cose
Che
la distorneran forse da darmi
Piú
noja. Ga. Dio ti salvi, bella figlia.
Onor
di queste selve; e ti conceda
Quel
che piú brami il dio di questi boschi.
|
|
Ir.
|
Se
quel che piú desiro e che piú bramo
Mi
sia concesso, mio marito sia
Filisio
che amo piú che gli occhi miei.
|
|
Ga.
|
Come
Filisio? e perché non Vïaste
Mio
figlio, che piú ti ama che non ama
La
pecchia il fiore e l'agnellino il latte?
|
|
Ir.
|
Io
vorrei pur che questo vostro figlio
Lasciasse
di noiarmi e che attendesse
A
custodir le sue greggie e ad amare
Chi
l'ama e lasciar me, che non son mai
Per
volger verso lui l'animo mio;
E
segni tali ha già del mio volere
Che
dovria pur ristar di darmi noia.
|
|
Ga.
|
Figliuola
mia; se tu ben conoscessi
L'utilità
e il ben tuo, tu muteresti
Pensiero
e sdegnaresti chi tu or ami,
E
sarebbe Vïaste l'amor tuo.
Filisio
è, come sai, servo a Damone,
Se
bene ei dica esser nepote suo;
E
se ne vive alla mercede altrui,
E
qualora si levi dal servire
Non
ha onde poscia aver latte né casio:
E
il mio figliuolo ha la piú bella greggia
Che
in questi paschi tenera erba pasca.
E,
se bellezza amar si dee, sai? uomo
Non
fu sí bello mai fra questi campi.
Febo
mentre d'Ammeto pascea in terra
L'armento
non fu [o] Adoni unqua si vago,
Che
l'onor fu tenuto allor de' boschi.
Sembran
le belle guancie un sangue, un latte:
Gli
occhi paion due stelle, e le sue labbra
Sono
rosse vie piú che acerbo moro.
Il
color de i capei par fior d'alisi,
Di
cui cosa non è simil piú a l'oro.
Via
piú bianco il collo ha d'ogni ligustro;
E
pastore non è che pasca greggia
Di
piú bel corpo e di piú bel sembiante.
E,
se d'essere in caccia si diletta,
Aver
non puoi di lui piú destro in caccia
Né
valoroso piú né piú sicuro.
Avanza
egli nel corso il legger cervo;
E
contra il suo valor nulla può il dente
Di
feroce cinghiale; e i lupi e gli orsi
Temono
lui via piú che damma il veltro.
E
voce ha cosí dolce e sí soave
Che
tra le ninfe di Dïana alcuna
Non
è che l'agguagliasse: anzi ho veduta
Dïana
stare attonita al suo canto,
Mentre
egli, figlia mia, le sue bellezze
Cantava.
E, se pon labbra a la zampogna,
Egli
ardere fa Pan d'ira e d'invidia.
|
|
Ir.
|
Siasi
quale esser voglia, a me non piace.
|
|
Ga.
|
E
perché piú piacer ti dee Filisio,
Di
cui non è il piú sozzo in queste parti?
Via
piú che la caligine son neri
I
suoi capelli, et ha simil la fronte
A
quella di un cinghiale: ha gli occhi bianchi
Che
paion quei della gattuccia nostra,
E
gonfiate le labbra e il viso nero
Che
pare un Etïòpo. E, s'egli canta,
Egli
sembra una rana di palude
O
vero un corvo che su quercia gracchi;
E,
se si pon a i labri la zampogna,
Una
cicala par che al caldo strida,
Tanta
vien dal suo son noia molesta.
|
|
Ir.
|
Io
non so a che mi tenga, che non faccia
Vendetta
di cotesta grave ingiuria,
Che
mi avete ora fatta a biasimarmi
Il
mio Filisio in cosí strana guisa.
Egli
val piú dormendo che non vale
Vïaste,
quando piú cerca mostrarsi
Fra'
pastori leggiadro. Or non siate osa
Piú
mai di dirmi mal del mio Filisio;
Ché,
se non mi verran meno le mani,
Io
vi farò pentir di tanto ardire.
|
|
Ga.
|
Deh,
Irinda mia, non esser cosí fiera!
Ché
non conviene a la tua gran bellezza
L'esser
crudele. Ascolta, ché dirotti
Cosa
che ti farà rimaner lieta.
|
|
Ir.
|
Io
non voglio udir piú cosa veruna;
Ma
voglio che diciate al vostro figlio,
Che
molto meglio egli faria ad amare
Chi
l'ama e lasciar me, che via piú tosto
Mi
eleggerei morir d'esser mai sua.
|
|
Ga.
|
Non
ti partire, Irinda, ascolta; ed io
Cosa
non ti dirò che ti sia ingrata.
|
|
Ir.
|
Udir
non vo' da voi piú cosa alcuna:
Gaia
sola
Io
detto aveva bene al figlio mio
Che
l'opra i' perderei. Non credo mai
Che
Irinda ad amar lui sia per piegarsi;
E
non posso se non lodar la ninfa
Poi
che costante sta ne l'amor suo.
E'
farebbe assai meglio il mio figliuolo,
Come
Irinda detto ha, ad amar chi l'ama,
Che
mettere in oblio la greggia sua,
Per
voler al suo amor piegar chi l'odia.
E
s'egli seguirà il consiglio mio,
Come
seguire ad ogni modo il deve,
Lascierà
questa pratica, e porrassi
Ad
amar Frodignisa, ch'ama lui
Non
meno che ami Irinda il suo Filisio.
PARTE QUINTA
Viaste,
Dino
Io
vo' piú tosto non dirò lasciare
La
greggia in preda a' lupi, ma....
Uscire,
ch'io sostenga mai ch'Irinda
Sia
d'altri. Dica pur, faccia pur quanto
Sa
far Montano; non potrà mai tôrmi
Da
questa voglia c'ho nel cor fondata
Come
in selce ben dura. Che sia Irinda
Moglie
a Filisio e ch'io ne sia contento?
Piú
tosto si vedran nere le nevi
E
le brine caldissime, ch'io voglia
Che
questo sia: o che la vita affatto
Vi
lascerò, o che sarà ella mia.
|
|
Din.
|
Figliuol,
non si dee l'uom cosí fermare
Ne
la sua voglia, che non dia anche orecchio
A
buoni et amorevoli consigli
Che
gli mostrino il meglio. È molto saggio
Montano,
e per la lunga esperïenza
Vede
in ciò quel che tu, che appannato hai
Da
questo tuo sfrenato desiderio
(Egli
m'è forza ch'io ti dichi il vero),
Non
puoi veder. Dimmi, ti prego, dimmi
Che
contentezza speri tu di avere
Con
Irinda se tua ben divenisse,
Togliendoti
ella contra voglia sua?
Vïaste,
i' vo' che sappi che a fatica
Stan
bene insieme quelle mogli e quelli
Mariti
che si son concordemente
Insiem
congiunti, non che quei che contra
Loro
voglia si son congiunti insieme:
Se
tua... a questo modo Irinda,
Avresti
teco una perpetua croce.
Però
farai gran senno a non volere
Cercar
di teco avere un mal continuo,
Che
te con la tua greggia infermi in guisa
Che
disperato allor tu te [ne] moia.
|
|
Via.
|
Io
vo' piú tosto stare in guerra sempre
Con
lei, che con qualunque altra in diletto:
Sia
ella pur mia, io la farò ben fare
Ciò
che mi sarà a grado. Din. E che ti pensi?
Che,
se tu vorrai star sempre in angoscia
E
tormentar quella leggiadra ninfa
Che
non men cara mi è che se mia figlia
Ella
si fosse, comportar io voglia
Ch'ella,
Vïaste, tua moglie divenga
Per
non aver mai bene? Tu t'inganni,
Vïaste,
se ciò pensi: però poni
L'animo
tuo in riposo, e pensa, pensa
Piú
tosto che cotesta ogn'altra cosa.
Sono
introdotti i matrimoni a...
De
gli uomini, Vïaste, non perché essi
Portino
seco gara, odio e rancore.
|
|
Via.
|
Se
tu, Dino, vorrai, se tu vorrai,
Dino
mio caro, tu potrai disporre
Irinda
che rivolga a me il pensiero
Sí
che di suo voler venga mia moglie.
|
|
Din.
|
Io
non son stato a questa ora, Vïaste,
A
tentar che pensiero ella abbia, e trovo
Ch'ella
piú tosto soffrirà esser morta
Ch'esser
tua mai. Via. Tu mi hai trafitto il core.
|
|
Din.
|
E
che colpa ve n'ho io, se tu vuoi
Quel
che impossibil è che tu abbi mai?
Ella
esser vuole di Filisio, e in lui
Ha
posti tutti quanti i suoi pensieri;
E,
quando ad uno di voi due dovessi
Concederla
io, piú ragionevol fôra
Ch'a
Filisio la dessi ch'ama Irinda
Che
a te c'ha in odio. Però, poi che vedi
Ogni
cosa contraria al tuo disio,
Dà
orecchio a quel che ti ha detto Montano:
Lèvati
questa cura omai dal core
E
volgi ad altra donna il tuo pensiero.
|
|
Via.
|
Dino,
io te 'l vo' dir: sarà cagione
L'odio
che veggo che costei mi porta
Che
dia morte a Filisio e morto lui
Io
faccia con un laccio anch'io quel fine
Che
per la crudeltà di Anassarete
Fe'
il misero Ifi. E tosto ne vedrete
L'effetto
tu et Irinda; poi che insieme
Vi
sarete congiunti a la mia morte.
Dino solo.
Ve'
che disavventura ha questa ninfa
Per
questo sciocco. Ella brama Filisio,
Et
io consentirei che fusse sua;
E
questo diavol di Vïaste mette
Tanto
disordine in questo maneggio
Che
non so che mi far né che mi dire.
Non
credo io già che fra pastori unquanco
Non
fusse caso cosí strano: io prego
Chi
la cura ha de' matrimonii santi
Che
degni di condurre a onesto fine
Questo
grave disordine; sí ch'abbia
Filisio
Irinda, e deponga Vïaste
La
strana passïon ch'ora lo ingombra.
Gaia, madre di
Viaste, Montano
|
|
Ga.
|
Gran
ventura stata è, che ritrovato
Si
sia vivo il pastor da cui la figlia
Di
mia sorella tolse Lisa; e molta
Prudenza
ella ha mostrata nel mandare
Con
la risposta insieme il pastor anco,
Anzi
ad esser venuta ella con lui,
Acciò
che, se vi fusse anche bisogno
De
la sua presenza.....
Cercar
di racquetar questa discordia
Che
fra Filisio è nata e fra Vïaste.
|
|
Mon.
|
Prudente
veramente è stata Lisa,
Come
tu di'; né si potrà pensare
Cosa
piú acconcia al desiderio nostro.
Lasciata
qui questa tua pastorella
Acciò
che di bisogno sia chiamata,
Lisa
o il pastor ch'ella ha condotto seco
A
te la mandi, perché gli conduca
Ambidue
a far fede di quel che a...
Qui
con Vïaste. Però vanne, Gaia,
E
fa che se ne venga qui Vïaste,
Che
non si partirà, spero, da noi
Che
ogni discordia sia ridotta in pace.
Gaia
Il
voglia Dio.
Montano
Cosí sarà di certo.
Ho
veduto talora una tempesta
Nel
mar sí grande, c'ho pensato mai
Di
non poter veder tranquille l'onde;
E
in quanto occhio si gira si son messe
L'onde
tanto superbe in tremolare.
Una
gragnuola anche talora ho vista
Sí
densa piover da le nubi, ch'io
Non
pur pensato ho che a la greggia nostra
Debba
mancare il vivere ma a noi;
E
poi cosí abbondante ho visto l'anno
Che
parso è che piú tosto la gragnuola
De
l'abondanza sia stata cagione
Ch'ella
dato pur ci abbia un picciol danno.
E
cosí van le cose in questo mondo.
Chi
pensato avria mai che fusse nata
Cosa
sí fuor d'ogni pensiero umano
Or,
ne le selve nostre, che acquetare
Potuta
avesse la discordia grave
Che
nata fra Filisio era e Vïaste?
Questo
mi mostra che mai disperare
Non
si dee l'uom de la bontà divina.
Veggo Vïaste, i' gli vo' gir incontra.
Viaste, Montano
|
|
Via.
|
Io
son stato, Montan, per non venire
A
ritrovarti, ancora che mia madre,
A
la qual porto quella riverenza
Che
dee figliuolo buon portare a madre,
Detto
me l'abbia; perché io mi ho pensato
Che
tu di quel mi vogli favellare
Di
cui pur dianzi ragionato mi hai.
S'è
cosí come credo io che sia,
Ti
prego e ti riprego che non vogli
Noiarmi
piú, perché ciò non è altro
Che
piú infiammarmi e raddoppiar la doglia
Et
animarmi pur contra Filisio.
|
|
Mon.
|
Vïaste,
io voglio che tu sappi ch'io
Ho
tanto a core ogni tuo bene e tanto
Ti
amo, che piú non amo i figli propri;
Però
tu creder dêi che non dirotti
Se
non quel che ti sia d'util, d'onore:
Cosí
mi custodisca la mia greggia
Pane
dio de' pastori e le mie biade
Da'
mostri de la terra mi difenda
Cerere
dia; et a te ponga in core
E
questa e quei di dar sí attentamente
Orecchio
a le parole mie, che quindi
Ti
venga quella contentezza ch'io
Bramo
maggior. Via. Son le parole buone.
Ma
non so se saran sí buoni i fatti.
|
|
Mon.
|
Saranno
anche migliori. I' tengo certo
Che,
s'alcun ti volesse dar per moglie
Giovane
che figliuola si trovasse
De
la sorella di tua madre, mai
Tu
non consentiresti a cosa tale.
|
|
Via.
|
Tolga
via Dio, che tal pensier mi venga!
Io
mi starei piú tosto, e dico il vero,
Di
non aver mai moglie: perché questa
Mi
parerebbe una sceleratezza
Che
dovesse far me gire e la greggia
In
ultima ruina. Mon. E cosí a punto
Saría,
Vïaste. Saperai adunque
Ch'Irinda,
de la quale ardi e sfavilli,
Ti
è cugina germana. Via. Deh, Montano,
Cerca
dare ad intender ciò a' fanciulli,
Che
nulla non ne vuol creder Vïaste.
Questa
una favola è che tu ti hai finta
Per
distornarmi da l'amare Irinda:
Ma
certo sii che non ti verrà fatto.
Non
ebbe mai la sòra di mia madre
Sorella
alcuna. Mon. Anzi, Vïaste, ella ebbe
Irinda:
e perché veggo che tu fede
A
me prestar non vo', io credo pure
Che
fede presterai ad una ninfa
Del
coro di Dïana. Via. Senza dubbio:
Se
ninfa tal mi fesse fe' di questo,
Non
ardirei di contradirla punto;
Ché
so che quella purità di donne
Non
dice mai se non il ver. Mon. Va a Gaia,
E
di' che meni quella ninfa seco
E
quel vecchio pastor, ch'or da le selve
Venuto
è seco. Tu cosa udirai
Che
ti farà stupir di maraviglia,
Et
acqueterà sí l'animo tuo
Che
darai bando a le noiose cure.
|
|
Via.
|
Tu
mi fai tutto sgrizzolar sentendo
Quel
di che tu ragioni; e non potrebbe
Non
mi esser ciò di maraviglia grande.
|
|
Mon.
|
Ecco
che viene chi ti farà fede
Del
vero, e troverai che Dio ha voluto
Proveder
che non cadi in error tale
Quale
sarebbe s'una tua germana
Come
cieco per moglie avessi preso.
|
Montano, Ninfa, Pastore, Viaste, Gaia Madre Di
Viaste
|
|
|
Sacrata
ninfa, questo giovanotto
Et
io disideriamo di sapere
Ch'Irinda
sia; come nel coro venne
De
le vergini ninfe di Dïana
E
come indi partita ella si sia.
Piacciati
dunque, prego, sodisfare
Al
desiderio nostro: cosí sempre
Favorevol
ti sia la tua Dïana
Né
ti dia assalto mai satir lascivo.
|
|
Nin.
|
Montan,
tu dèi saper che ha quindici anni
Che
essendo in caccia questo pastor vidi
Ch'aveva
una bambina a pena nata
Su
la quale ei facea dirotto pianto:
E
di ciò ricercando la cagione
Mi
disse che la madre gli avea data
Quella
anima innocente, acciocché a i lupi
La
desse a divorare: et io commossa
A
gran compassïon presi la figlia
Et
a Dino la diedi a nutricare.
Cresciuta
ch'ella fu sino all'etade
Di
dieci anni, i' la presi per compagna;
Et
è stata con meco insino a tanto
Che
da Dïana si è partita, accesa
De
l'amor di un pastor di queste selve.
E
questo è quel che ti so dir di lei.
Rimanete
con Dio; ché a la mia dea
Io
voglio ritornar, ch'ella mi aspetta.
|
|
Mon.
|
Vàttene
in pace, fortunata ninfa:
Cosí
mai sempre favorisca il cielo
I
desideri tuoi, come allegrezza
Infinita
ci hai data. Nin. Prego il cielo
Che
la faccia venir sempre maggiore.
|
|
Mon.
|
E
chi diè a te, pastor, quella bambina?
|
|
Pas.
|
La
sorella di Gaia la mi diede,
Versando
fuor da gli occhi un rio di pianto
Con
infinita doglia, biasimando
La
tenace avarizia del marito,
Che
per non le dover la dote dare
Commesso
avea a la moglie che le desse
Morte
sí tosto ch'ella nata fosse,
E
che se forse ella facea altrimenti
Proveria
l'ira sua. Quella meschina
Cui
non sofferse dar morte a la figlia
A
me la diè, che la portassi a i lupi;
E
questa ninfa, come ella vi ha detto,
La
prese; e grazia ho al ciel vederla viva,
E
vorrei volentier che la sua madre,
Che
vinta da l'affanno uscí di vita,
Viva
si ritrovasse. Mon. Ora, Vïaste,
Tu
puoi veder se deve esser tua moglie
Irinda.
Via. Poi che ritrovo esser vero
Quanto
mi hai detto, ove soleva amare
Irinda
come amata, ora l'ho cara
Come
germana mia sorella: e poi
Che
Filisio sí l'ama et ella lui,
I'
vo che gliela diamo per mogliera,
Ché
non fu mai cosí beata coppia
Fra'
pastori ha mill'anni. Ga. Figliuol mio,
Perché
compita sia la mia allegrezza,
Io
voglio che mi facci ancor la grazia,
Poscia
che tanto ti ama Frodignisa
E
non è bella men che si sia Irinda,
Che
la ti prenda per mogliera. Via. Poi
Che
Irinda aver non posso, io son per fare
Tutto
quel che vi è a grado. Mon. Entriamo adunque
A
dar principio a cosí liete nozze.
|
|
|
|
|