Il Comune medioevale come fase
economico-corporativa dello Stato
moderno
Federico II. Cfr. Raffaello Morghen, IL tramonto
dello potenza sveva e la piú recente storiografia, «Nuova Antologia» del 16
marzo 1930. Riporta alcuni recenti dati bibliografici su Federico II. Dal punto
di vista del «senso» della storia italiana esposto nei paragrafi sui Comuni
medioevali e sulla funzione cosmopolita degli intellettuali italiani è
interessante il volumetto di Michelangelo Schipa Sicilia e l’Italia sotto
Federico II, Napoli, Società Napoletana di storia patria, 1929.
(Naturalmente se è vero che lo Schipa «sembra sdegnarsi» con i Comuni e col
Papa che resistettero a Federico, ciò è antistorico, ma si dimostra come il
Papa si opponesse all’unificazione dell’Italia e come i Comuni non uscissero
dal Medioevo).
Il Morghen cade in altro errore quando scrive che al tempo
delle lotte tra Federico e il Papato [i Comuni] «si protendono ansiosi e
impazienti verso l’avvenire ecc.»; «è l’Italia la quale si appresta a dare al
mondo una nuova civiltà essenzialmente laica e nazionale quanto piú la
precedente era stata universalistica e chiesastica».
Sarebbe difficile al Morghen giustificare questa
affermazione in altro modo che citando dei libri come il Principe. Ma
che i libri siano una nazione e non solamente un elemento di cultura, ci vuole molta
retorica per sostenerlo.
Fu Federico II ancora legato al Medio Evo? Certamente. Ma è
anche vero che se ne staccava: la sua lotta contro la Chiesa, la sua tolleranza
religiosa, l’essersi servito di tre civiltà: ebraica, latina, araba, e aver
cercato di amalgamarle, lo pone fuori del Medio Evo. Era un uomo del suo tempo,
ma egli davvero poteva fondare una società laica e nazionale e fu piú italiano
che tedesco, ecc. Il problema va veduto interamente e anche questo articolo del
Morghen può servire.
Dante e Machiavelli. Bisogna liberare la dottrina
politica di Dante da tutte le superstrutture posteriori, riducendola alla sua
precisa significazione storica. Che, per l’importanza avuta da Dante come
elemento della cultura italiana, le sue idee e le sue dottrine abbiano avuto
efficacia di suggestione per stimolare e sollecitare il pensiero politico
nazionale, è una quistione: ma bisogna escludere che tali dottrine abbiano
avuto un valore genetico proprio, in senso organico. Le soluzioni passate di
determinati problemi aiutano a trovare la soluzione dei problemi attuali
simili, per l’abito critico culturale che si crea nella disciplina dello
studio, ma non si può mai dire che la soluzione attuale dipenda geneticamente
dalle soluzioni passate: la genesi di essa è nella situazione attuale e solo in
questa. Questo criterio non è assoluto, cioè non deve essere portato
all’assurdo: in tal caso si cadrebbe nell’empirismo: massimo attualismo,
massimo empirismo. Bisogna saper fissare le grandi fasi storiche, che nel loro
insieme hanno posto determinati problemi, e fin dall’inizio del loro sorgere ne
hanno accennato gli elementi di soluzione. Cosí direi che Dante chiude il Medio
Evo (una fase del Medio Evo), mentre Machiavelli indica che una fase del Mondo
Moderno è già riuscita a elaborare le sue quistioni e le soluzioni relative in
modo già molto chiaro e approfondito. Pensare che Machiavelli geneticamente
dipenda o sia collegato a Dante è sproposito storico madornale. Cosí è puro
romanzo intellettuale la costruzione attuale dei rapporti tra Stato e Chiesa
(vedi F. Coppola) sullo schema dantesco «della Croce e dell’Aquila». Tra il
Principe del Machiavelli e l’Imperatore di Dante non c’è connessione genetica,
e tanto meno tra lo Stato Moderno e l’Impero medioevale. Il tentativo di
trovare una connessione genetica tra le manifestazioni intellettuali delle
classi colte italiane delle varie epoche, costituisce appunto la «retorica»
nazionale: la storia reale viene scambiata con le larve della storia. (Con ciò
non si vuol dire che il fatto non ha significato; non ha significato
scientifico, ecco tutto. È un elemento politico; è meno ancora, è un elemento
secondario e subordinato di organizzazione politica e ideologica di piccoli
gruppi che lottano per l’egemonia culturale e politica).
La dottrina politica di Dante mi pare doversi ridurre a mero
elemento della biografia di Dante (ciò che in nessun modo si potrebbe dire e
fare per il Machiavelli), non nel senso generico che in ogni biografia
l’attività intellettuale del protagonista è essenziale e che importa non solo
ciò che il biografato fa, ma anche ciò che pensa e fantastica. Ma nel senso che
tale dottrina non ha avuto nessuna efficacia e fecondità storico-culturale,
come non poteva averne ed è importante solo come elemento dello sviluppo
personale di Dante dopo la sconfitta della sua parte e il suo esilio da
Firenze. Dante subisce un processo radicale di trasformazione delle sue
convinzioni politiche-cittadine, dei suoi sentimenti, delle sue passioni, del
suo modo di pensare generale. Questo processo ha come conseguenza di isolarlo
da tutti. È vero che il suo nuovo orientamento può chiamarsi «ghibellinismo»
solo per modo di dire: in ogni caso sarebbe un «nuovo ghibellinismo», superiore
al vecchio ghibellinismo, ma superiore anche al guelfismo: in realtà si tratta
non di una dottrina politica, ma di un’utopia politica, che si colora di
riflessi del passato, e piú di tutto si tratta del tentativo di organizzare
come dottrina ciò che era solo materiale poetico in formazione, in ebullizione,
fantasma poetico incipiente che avrà la sua perfezione nella Divina Commedia,
sia nella «struttura» come continuazione del tentativo (adesso versificato) di
organizzare in dottrina i sentimenti, sia nella «poesia» come invettiva
appassionata e dramma in atto. Al disopra delle lotte interne comunali, che
erano un alternarsi di distruzioni ed estermini, Dante sogna una società
superiore al Comune, superiore sia alla Chiesa che appoggia i Neri come al
vecchio Impero che appoggiava i ghibellini, sogna una forma che imponga una
legge superiore alle parti ecc. È un vinto della guerra delle classi che sogna
l’abolizione di questa guerra sotto il segno di un potere arbitrale. Ma il
vinto, con tutti i rancori, le passioni, i sentimenti del vinto, è anche un «dotto»
che conosce le dottrine e la storia del passato. Il passato gli offre lo schema
romano augusteo e il suo riflesso medioevale, l’Impero romano della nazione
germanica. Egli vuol superare il presente, ma con gli occhi rivolti al passato.
Anche il Machiavelli aveva gli occhi al passato, ma in ben altro modo di Dante
ecc.
[Le finanze del Comune
fiorentino.] Il libro di Bernardino Barbadoro, Le Finanze della
repubblica fiorentina, Olschk Firenze, 1929, L. 100. Nella
recensione del libro del Barbadoro pubblicata nel «Pègaso» del luglio 1930,
Antonio Panella ricorda il tentativo (incompiuto e difettoso) fatto da Giovanni
Canestrini di pubblicare una serie di volumi sulla scienza e l’arte di Stato
desunte dagli atti ufficiali della Repubblica di Firenze e dei Medici (nel 1862
uscí il primo e unico volume della serie promessa). La finanza del comune
genovese fu trattata dal Sieveking, di Venezia dal Besta, dal Cessi, dal
Luzzatto.
Il Barbadoro tratta ora della finanza fiorentina,
cronologicamente giunge fino all’istituzione del Monte dopo la Signoria del Duca
d’Atene, e per la materia comprende l’imposta diretta e il debito pubblico,
cioè le basi essenziali della struttura economica del Comune (pare che il
Barbadoro debba completare la trattazione, occupandosi delle imposte
indirette).
Prima forma di tassazione, «il focatico»: essa risente
ancora dei sistemi tributari feudali e sta a rappresentare il segno tangibile
dell’affermarsi dell’autonomia del Comune, il quale si sostituisce ai diritti
dell’Impero; forma piú evoluta: l’«estimo», basato sulla valutazione globale
della capacità contributiva del cittadino.
Sul sistema dell’imposta diretta come cespite principale di
entrata reagisce l’interesse della classe dominante, che, come detentrice della
ricchezza, tende a riversare i pesi fiscali sulla massa della popolazione con
le imposte sul consumo; comincia allora la prima forma di debito pubblico, coi
prestiti o anticipazioni che i ceti abbienti fanno per i bisogni dell’erario,
assicurandosene il rimborso attraverso le gabelle. La lotta politica è
caratterizzata dall’oscillazione tra «estimo» e imposta sul consumo: quando il
Comune cade sotto una signoria forestiera (duca di Calabria e duca d’Atene)
appare l’«estimo», mentre invece in certi momenti si giunge a ripudiare
l’estimo in città (cosí nel 1315). Il regime signorile, sovrastando agli
interessi delle classi sociali (cosí il Panella: ma realmente «rappresentando
un certo equilibrio delle classi sociali, per cui il popolo riusciva a limitare
lo strapotere delle classi ricche») può seguire un principio di giustizia
distributiva e migliorare anche il sistema dell’imposta diretta, fino al 1427,
agli albori del principato mediceo e al tramonto dell’oligarchia, in cui fu
istituito il Catasto.
Questo libro del Barbadoro è indispensabile per vedere
appunto come la borghesia comunale non riuscí a superare la fase
economica-corporativa, cioè a creare uno Stato «col consenso dei governati» e
passibile di sviluppo. Lo sviluppo statale poteva avvenire solo come
principato, non come repubblica comunale.
È interessante anche il libro per
studiare l’importanza politica del debito pubblico, che si sviluppò per le
guerre di espansione, cioè per assicurare alla borghesia un piú ampio mercato e
la libertà di transito. (Sarebbe da confrontare con ciò che Marx dice nel Capitale
a proposito della funzione e dell’importanza del debito pubblico). Anche le
conseguenze del debito pubblico sono interessanti: la classe abbiente che aveva
creduto di trovare nei prestiti un mezzo per riversare sulla massa dei
cittadini la parte maggiore dei pesi fiscali, si trovò punita dalla insolvenza
del Comune che, coincidendo con la crisi economica, contribuí ad acuire il male
e ad alimentare il dissesto del paese. Questa situazione portò al consolidamento
del debito e alla sua irredimibilità (rendita perpetua e alla riduzione del
saggio d’interesse) con la istituzione del Monte dopo la cacciata del Duca
d’Atene e l’avvento al potere del popolo «minuto».
[La caduta del Comune.] Nel 1400 lo spirito di iniziativa
dei mercanti italiani era caduto; si preferiva investire le ricchezze
acquistate in beni fondiari e avere un reddito certo dall’agricoltura,
piuttosto che arrischiarle nuovamente in viaggi o in investimenti all’estero.
Ma come si è verificata questa caduta? Gli elementi che vi hanno contribuito
sono parecchi: le lotte di classe fierissime nelle città comunali, i fallimenti
per insolvenza di debitori regali (fallimento dei Bardi e Peruzzi), l’assenza
di un grande Stato che proteggesse i suoi cittadini all’estero: cioè la causa
fondamentale è nella stessa struttura dello Stato comunale che non può
svilupparsi in grande Stato territoriale. Da allora si è radicato in Italia lo
spirito retrivo per cui si crede che sola ricchezza sicura è la proprietà fondiaria.
Bisognerà studiare bene questa fase, in cui i mercanti diventano proprietari
terrieri e vedere quali fossero i rischi inerenti allo scambio e al commercio
bancario.
L’assedio di Firenze del 1529-30. Rappresenta la
conclusione della lotta tra fase corporativa-economica della storia di Firenze
e Stato moderno (relativamente). Le polemiche tra gli storici a proposito del
significato dell’assedio (cfr. polemica tra Antonio Panella e Aldo Valori,
conclusa con la capitolazione scientifica del Valori, nel «Marzocco» e la sua
meschina «vendetta» giornalistica nella «Critica Fascista»: della polemica
accennerò in seguito) dipendono dal non saper apprezzare queste due fasi e ciò
per la retorica sul Comune medioevale: che Maramaldo possa essere stato
rappresentante del progresso storico e Ferrucci storicamente un retrivo, può
spiacere moralmente, ma storicamente può e deve essere sostenuto.
Sul fatto che la borghesia
comunale non è riuscita a superare la fase corporativa e quindi non si può dire
abbia creato uno Stato, poiché era Stato piuttosto la Chiesa e l’Impero, cioè che
i Comuni non hanno superato il feudalismo, bisogna, prima di scrivere qualche
cosa, leggere il libro di Gioacchino Volpe Il Medio Evo. Da un articolo
di Riccardo Bacchelli nella «Fiera Letteraria» del 1° luglio 1928 (Le
molte vite) tolgo questo brano: «Ma per non uscir nella preistoria, né da
questo libro, nel Medioevo del Volpe si legge come il popolo dei Comuni
sorge e vive nella situazione di privilegio sacrificato che gli fu fatta
dalla Chiesa Universale e da quell’idea del Sacro Impero, che, imposta (?!)
dall’Italia come sinonimo ed equivalente di umana civiltà all’Europa che tale
la riconobbe e coltivò, impediva (?) poi all’Italia il piú (!) naturale
sviluppo storico a nazione moderna». Bisognerà vedere se il Volpe autorizza
queste... bizzarrie.
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