Riforma e Rinascimento
Umanesimo e Rinascimento. Cosa significa che il
Rinascimento abbia scoperto «l'uomo», abbia fatto dell'uomo il centro dell'universo
ecc. ecc.? Forse che prima del Rinascimento l'«uomo» non era il centro
dell'universo ecc.? Si potrà dire che il Rinascimento ha creato una nuova
cultura o civiltà in opposizione a quelle precedenti o che sviluppano quelle
precedenti, ma occorre «limitare» ossia «precisare» in che questa cultura
consista ecc. Davvero che prima del Rinascimento l'«uomo» era nulla ed è
diventato tutto? o si è sviluppato un processo di formazione culturale in cui
l'uomo tende a diventare tutto? Pare si debba dire che prima del Rinascimento
il trascendente formasse la base della cultura medioevale, ma quelli che
rappresentavano questa cultura erano forse «nulla» oppure quella cultura non
era il modo di essere «tutto» per loro? Se il Rinascimento è una grande
rivoluzione culturale, non è perché dal «nulla» tutti gli uomini abbiano
cominciato a pensare di essere «tutto», ma perché questo modo di pensare si è
diffuso, è diventato un fermento universale ecc. Non è stato «scoperto» l'uomo,
ma è stata iniziata una nuova forma di cultura, cioè di sforzo per creare un
nuovo tipo di uomo nelle classi dominanti.
(Continuazione della nota riassuntiva che s’inizia alla
prima pagina). (In ogni caso occorre distinguere le facezie contro il clero che
sono tradizionali fin dal Trecento, dalle opinioni piú o meno ortodosse sulla
concezione religiosa della vita).
Il Walser, che visse a lungo in Italia, osserva che per
comprendere il carattere del Rinascimento italiano è utile, in certi limiti,
conoscere la psicologia degli italiani moderni. Osservazione che mi pare molto
acuta, specialmente per quanto riguarda l’atteggiamento verso la religione e
che pone il problema di ciò che sia lo spirito religioso in Italia
modernamente, e se esso possa essere paragonato non dico allo spirito religioso
dei protestanti, ma anche a quello di altri paesi cattolici, specialmente della
Francia. Che la religiosità degli italiani sia molto superficiale è innegabile
cosí come è innegabile che essa ha un carattere strettamente politico, di
egemonia internazionale. A questa forma di religiosità è legato il Primato del
Gioberti, che a sua volta contribuí a rassodare e sistemare ciò che esisteva
già prima allo stato diffuso. Non bisogna dimenticare che dal Cinquecento in
poi l’Italia contribuí alla storia mondiale specialmente perché sede del Papato
e che il cattolicismo italiano era sentito come un surrogato dello spirito di
nazionalità e statale, non solo, ma addirittura come una funzione egemonica
mondiale, cioè come spirito imperialistico. Cosí è giusta l’osservazione che lo
spirito anticuriale è una forma di lotta contro ceti privilegiati; e non si può
negare che in Italia i ceti religiosi avessero una funzione (posizione)
economica e politica molto piú radicale che negli altri paesi, dove la
formazione nazionale limitava la funzione ecclesiastica. L’anticurialismo degli
intellettuali laici, le «facezie» anticlericali ecc. sono anche una forma di
lotta tra intellettuali laici e intellettuali religiosi data la prevalenza che
questi ultimi avevano.
Se lo scetticismo e il paganesimo degli intellettuali sono
in gran parte mere apparenze superficiali e possono allearsi a un certo spirito
religioso, anche nel popolo (cfr. il libro di Domenico Guerri sulle correnti
popolari nel Rinascimento) le manifestazioni licenziose (carri e canti
carnascialeschi) che al Walser sembrano piú gravi, possono spiegarsi allo
stesso modo.
Come gli italiani di oggi quelli del Rinascimento, dice il
Walser, sapevano «sviluppare separatamente e contemporaneamente i due fattori
dell’umana capacità di comprensione, il razionale e il mistico, e in modo che
il razionalismo condotto fino all’assoluto scetticismo, per un invisibile
legame, inconcepibile all’uomo nordico, si riallaccia in modo saldo al piú
primitivo misticismo, al piú cieco fatalismo, al feticismo e alla crassa
superstizione». Queste sarebbero le piú importanti correzioni che il Walser
porta alla concezione del Rinascimento, propria del Burckhardt e del De
Sanctis. Scrive lo Janner, che il Walser non riesce a distinguere l’Umanesimo
dal Rinascimento, e che se forse senza l’Umanesimo non ci sarebbe stato il
Rinascimento, questo però supera per importanza e per le conseguenze
l’Umanesimo.
Anche questa distinzione deve essere piú sottile e profonda:
pare piú giusta l’opinione che il Rinascimento è un movimento di grande
portata, che si inizia dopo il Mille, di cui l’Umanesimo e il Rinascimento (in
senso stretto) sono due momenti conclusivi, che hanno avuto in Italia la sede
principale, mentre il processo storico piú generale è europeo e non solo italiano.
(L’Umanesimo e il Rinascimento come espressione letteraria di questo movimento
storico europeo hanno avuto in Italia la sede principale, ma il movimento
progressivo dopo il Mille, se ha avuto in Italia gran parte coi Comuni, proprio
in Italia è decaduto e proprio coll’Umanesimo e il Rinascimento che in Italia
sono stati regressivi, mentre nel resto d’Europa il movimento generale culminò
negli Stati nazionali e poi nell’espansione mondiale della Spagna, della
Francia, dell’Inghilterra, del Portogallo. In Italia, agli Stati nazionali di
questi paesi, ha corrisposto l’organizzazione del Papato come Stato assoluto –
iniziato da Alessandro VI – organizzazione che ha disgregato il resto d’Italia
ecc.). Il Machiavelli è rappresentante in Italia della comprensione che il
Rinascimento non può esser tale senza la fondazione di uno Stato nazionale, ma
come uomo egli è il teorico di ciò che avviene fuori d’Italia, non di eventi
italiani.
Da una recensione («Nuova Antologia» del 1° agosto 1933) di
Arminio Janner del libro: Ernst Walser, Gesammelte Studien zur
Geitesgeschichte der Renaissance (ed. Benno Schwabe, Basilea, 1932).
Secondo lo Janner l'idea che noi ci facciamo del Rinascimento è soprattutto
determinata da due opere capitali: La civiltà del Rinascimento di Jacopo
Burckhardt e la Storia
della Letteratura Italiana del De Sanctis. Il libro del Burckhardt fu
interpretato diversamente in Italia e fuori d'Italia. Uscito nel 1860 ebbe
risonanza europea, influenzò le idee del Nietzsche sul superuomo e per questa
via suscitò tutta una letteratura, specialmente nei paesi nordici, su artisti e
condottieri del Rinascimento, letteratura in cui si proclama il diritto alla
vita bella ed eroica, alla libera espansione della personalità senza riguardi a
vincoli morali. Il Rinascimento si riassume cosí in Sigismondo Malatesta,
Cesare Borgia, Leone X, l'Aretino, con Machiavelli come teorico e a parte,
solitario, Michelangelo. In Italia D'Annunzio rappresenta questa
interpretazione del Rinascimento. Il libro del Burckhardt (tradotto dal Valbusa
nel 1877) ebbe in Italia influenza diversa: la traduzione italiana metteva piú
in luce le tendenze anticuriali che il Burckhardt vide nel Rinascimento e che
coincidevano con le tendenze della politica e della cultura italiana del Risorgimento.
Anche l'altro elemento messo in luce dal Burckhardt nel Rinascimento, quello
dell'individualismo e della formazione della mentalità moderna, fu in Italia
visto come opposizione al mondo medioevale rappresentato dal Papato. In Italia
fu meno notata l'ammirazione per una vita energetica e di pura bellezza; i
condottieri, gli avventurieri, gli immoralisti trovarono in Italia meno
attenzione. (Queste osservazioni pare siano da tenere in conto: c'è una
interpretazione del Rinascimento e della vita moderna che viene attribuita
all'Italia come se fosse nata originariamente e nei fatti in Italia ma non è
che l'interpretazione di un libro tedesco sull'Italia ecc.).
Il De Sanctis accentua nel Rinascimento i colori oscuri
della corruzione politica e morale; nonostante tutti i meriti che si possono
riconoscere al Rinascimento, esso disfece l'Italia e la condusse serva dello
straniero.
Insomma, il Burckhardt vede il Rinascimento come punto di
partenza di una nuova epoca della civiltà europea, progressiva, culla dell'uomo
moderno: il De Sanctis dal punto di vista della storia italiana, e per l'Italia
il Rinascimento fu il punto di partenza di un regresso ecc. Il Burckhardt e il
De Sanctis però coincidono nei particolari dell'analisi del Rinascimento, sono
d'accordo nel rilevare come elementi caratteristici il formarsi della nuova
mentalità, il distacco da tutti i legami medioevali di fronte alla religione,
all'autorità, alla patria, alla famiglia. (Queste osservazioni dello Janner sul
Burckhardt e il De Sanctis sono da rivedere). Secondo lo Janner «negli ultimi
dieci o quindici anni s'è però andata man mano formando una controcorrente di
studiosi, per lo piú cattolici, che contestano la realtà di questi (fatti
risaltare dal Burckhardt e dal De Sanctis) caratteri del Rinascimento e tentano
di farne risaltare altri in gran parte opposti. In Italia l'Olgiati, il
Zabughin, il Toffanin, nei paesi tedeschi il Pastor, nei primi volumi della Storia
dei Papi e il Walser». Del Walser è uno studio sulla religiosità del Pulci
(Lebens und Glaubensprobleme aus dem Zeitalter der Renaissance, in «Die
Neuren Sprachen», 10°, Beiheft). Egli (riprendendo gli studi del Volpi e di
altri) analizza il tipo di eresia del Pulci e le vicende dell'abiura che ne
dovette fare piú tardi; ne mostra «in modo assai convincente» l'origine
(averroismo e sètte mistiche giudaiche) e mostra che nel Pulci non si tratta
solo di distacco dai sentimenti religiosi ortodossi, ma di una sua nuova fede
(intessuta di magia e di spiritismo) che piú tardi si risolve in una larga
comprensione e tolleranza di tutte le fedi. (È da vedere se lo spiritismo e la
magia non sono necessariamente la forma che doveva prendere il naturalismo e il
materialismo di quell'epoca, cioè la reazione al trascendente cattolico o la
prima forma di immanenza primitiva e rozza). Nel volume che lo Janner
recensisce, pare che tre studi specialmente interessino, in quanto illustrano
la nuova interpretazione: «Il Cristianesimo e l'antichità nella concezione del
primo Rinascimento italiano», «Studi sul pensiero del Rinascimento» e «Problemi
umani e artistici del Rinascimento italiano».
Secondo il Walser l'affermazione del Burckhardt che il
Rinascimento sia stato paganeggiante, critico, anticuriale e irreligioso non è
esatta. Gli umanisti della prima generazione come Petrarca, Boccaccio, il
Salutati, di fronte alla chiesa non si staccano dall'atteggiamento degli
studiosi medioevali. Gli umanisti del Quattrocento, Poggio, il Valla, il
Beccadelli sono piú critici e indipendenti, ma di fronte alla verità rivelata
tacciono anch'essi e accettano. In questa affermazione il Walser è d'accordo
col Toffanin che nel suo libro Che cosa fu l'Umanesimo afferma che
l'Umanesimo, col suo culto della latinità e della romanità, fu assai piú
ortodosso che non la letteratura dotta in volgare del Duecento e Trecento.
(Affermazione che può essere accettata, se si distingue nel moto del
Rinascimento il distacco avvenuto con l'Umanesimo dalla vita nazionale che andò
formandosi dopo il Mille, se si considera l'Umanesimo come un processo
progressivo per le classi colte «cosmopolitiche» ma regressivo dal punto di
vista della storia italiana).
(Il Rinascimento può essere considerato come l'espressione
culturale di un processo storico nel quale si costituisce in Italia una nuova
classe intellettuale di portata europea, classe che si divise in due rami: uno
esercitò in Italia una funzione cosmopolitica, collegata al papato e di
carattere reazionario, l'altro si formò all'estero, coi fuorusciti politici e
religiosi, ed esercitò una funzione cosmopolita progressiva nei diversi paesi
in cui si stabilí o partecipò all'organizzazione degli Stati moderni come
elemento tecnico nella milizia, nella politica, nell'ingegneria ecc.).
Può esser vero che l'Umanesimo nacque in Italia come studio
della romanità e non del mondo classico in generale (Atene e Roma): ma occorre
distinguere allora. L'Umanesimo fu «politico-etico», non artistico, fu la
ricerca delle basi di uno «Stato italiano» che avrebbe dovuto nascere insieme e
parallelamente alla Francia, alla Spagna, all'Inghilterra: in questo senso
l'Umanesimo e il Rinascimento hanno come esponente piú espressivo il
Machiavelli. Fu «ciceroniano» come sostiene il Toffanin, cioè ricercò le sue
basi nel periodo che precedette l'Impero, la cosmopolis imperiale (e in tal
senso Cicerone può essere un buon punto di riferimento per il suo opporsi a
Catilina prima, a Cesare poi, cioè all'emergere delle nuove forze
anti-italiche, di classe cosmopolita). Il Rinascimento spontaneo italiano, che
si inizia dopo il Mille e fiorisce artisticamente in Toscana, fu soffocato
dall'Umanesimo e dal Rinascimento in senso culturale, dalla rinascita del
latino, come lingua degli intellettuali, contro il volgare, ecc. Che questo
Rinascimento spontaneo (del Duecento specialmente) possa solo essere paragonato
alla fioritura della letteratura greca, è innegabile, mentre il «politicismo»
del Quattrocento-Cinquecento è il Rinascimento che può essere riferito al
Romanesimo.
Atene e Roma hanno la loro continuazione nelle chiese
ortodossa e cattolica: anche qui è da sostenere che Roma fu continuata dalla
Francia piú che dall'Italia e Atene-Bisanzio dalla Russia zarista. Civiltà
occidentale e orientale. Ciò fino alla Rivoluzione francese e forse alla guerra
del 1914.
Nel saggio del Rostagni molte osservazioni particolari
acute, ma la prospettiva sbagliata. Il Rostagni intanto confonde la cultura
libresca con quella spontanea. Che la svalutazione dei Romani sia dovuta al
Romanticismo, specialmente tedesco (nel campo artistico) può essere vero; che
abbia avuto motivi pratici immediati ecc., può anche essere vero. Ma il
Rostagni avrebbe dovuto ricercare se tuttavia non ci fosse in questo
unilateralismo una verità, sia pure unilaterale. Verità di cultura, non
estetica, perché l'«autonomia» estetica è degli artisti singoli, tra l'altro, e
non dei raggruppamenti culturali; e sia pure «autonomia di cultura» che certo
dovrebbe esistere, come appunto dimostra il fatto della scissione culturale tra
Oriente e Occidente, tra chiesa Cattolica e Ortodossismo bizantino ecc. Ma
allora occorrevano non motivazioni superficiali, ma piú approfondite ricerche
non solo in letteratura ma nella cultura generale.
È molto importante il libro di
Giuseppe Toffanin, Che cosa fu l’umanesimo. Il Risorgimento dell’antichità classica
nella coscienza degli italiani fra i tempi di Dante e la Riforma, Firenze,
Sansoni (Biblioteca storica del Rinascimento). Il Toffanin coglie fino ad un
certo punto il carattere reazionario e medioevale dell’umanismo: «Quel
particolare stato d’animo e di cultura a cui in Italia, fra il Tre e il
Cinquecento, si dà nome di umanesimo, fu una riscossa e rappresentò, per
almeno due secoli, una barriera contro certa inquietudine eterodossa e
romantica che era in germe prima nell’età comunale e prese poi il sopravvento
nelle riforme. Esso fu spontanea conciliazione di discordanti elementi ideali,
e accettazione di limiti antifilosofica per eccellenza: ma codesta
antifilosoficità, una volta pensata e accettata, è anch’essa una filosofia».
Cfr. l’articolo di Vittorio Rossi già analizzato [il Rinascimento] che
in parte accetta la tesi del Toffanin, ma per combatterla meglio. Mi pare
appunto che la quistione di ciò che fu l’umanesimo non può essere risolta che
in un quadro piú comprensivo della storia degli intellettuali italiani e della
loro funzione in Europa. Il Toffanin ha scritto anche un libro sulla Fine
dell’Umanesimo e il volume sul Cinquecento nella Collezione
Vallardi.
Articolo di Vittorio Rossi, Il
Rinascimento, nella «Nuova Antologia» del 16 novembre 1929. Molto
interessante e comprensivo nella sua brevità. Per il Rossi, giustamente, il
rifiorire degli studi intorno alle letterature classiche fu un fatto di
formazione secondaria, un indizio, un sintomo e non il piú appariscente della
profonda essenza dell’età cui spetta il nome di Rinascimento. «Il fatto
centrale e fondamentale, quello onde ogni altro germoglia, fu la nascita e la
maturazione d’un nuovo mondo spirituale che dall’energica e coerente virtú
creativa sprigionatasi dopo il Mille in ogni campo dell’umana attività, fu
portato allora sulla scena della storia non pure italiana, ma europea».
Dopo il Mille s’inizia la reazione contro il regime feudale «che improntava di
sé tutta la vita» (con l’aristocrazia fondiaria e il chiericato): nei due o tre
secoli seguenti si trasforma profondamente l’assetto economico, politico e
culturale della società: si rinvigorisce l’agricoltura, si ravvivano, estendono
ed organizzano le industrie e i commerci; sorge la borghesia, nuova classe
dirigente (questo punto è da precisare, e il Rossi non lo precisa) fervida di
passione politica (dove, in tutta Europa, o solamente in Italia e nelle
Fiandre?) e stretta in corporazioni finanziarie potenti; si costituisce con
crescente spirito di autonomia lo Stato comunale.
(Anche questo punto è da precisare: bisogna fissare che
significato ha avuto lo «Stato» nello Stato comunale: un significato
«corporativo» limitato, per cui non si è potuto sviluppare oltre il feudalismo
medio, cioè quello successo al feudalismo assoluto – senza terzo stato, per
cosí dire, – esistito fino al Mille e a cui successe la monarchia assoluta nel
secolo XV, fino alla Rivoluzione francese. Un passaggio organico dal comune a
un regime non piú feudale si ebbe nei Paesi Bassi e solo nei Paesi Bassi. In Italia
i Comuni non seppero uscire dalla fase corporativa, l’anarchia feudale ebbe il
sopravvento in forma appropriata alla nuova situazione e ci fu poi la
dominazione straniera. Confrontare a questo proposito alcune note sugli
«Intellettuali italiani». Per tutto lo sviluppo della società europea, cui
accenna il Rossi, dopo il Mille, occorre tener conto del libro di Henri Pirenne
sull’origine delle città).
Movimenti di riforma della Chiesa; sorgono ordini religiosi
nuovi che vogliono ripristinare la vita apostolica. (Questi movimenti sono
sintomi positivi o negativi del nuovo mondo che si sviluppa? Certamente essi si
presentano come reazione alla nuova società economica, sebbene la domanda di
riformare la Chiesa
sia progressiva: però è vero che essi indicano un maggior interesse del popolo
verso le quistioni culturali e un maggior interesse verso il popolo da parte di
grandi personalità religiose, cioè gli intellettuali piú in vista dell’epoca:
ma anche essi, in Italia almeno, sono o soffocati o addomesticati dalla Chiesa,
mentre in altre parti d’Europa si mantengono come fermento per sboccare nella
Riforma. Parlando delle tendenze culturali dopo il Mille non bisognerebbe
dimenticare l’apporto arabo attraverso la Spagna: cfr. gli articoli di Ezio Levi nel «Marzocco»
o nel «Leonardo»; e, con gli arabi, gli ebrei spagnuoli). «Nelle scuole
filosofiche e teologiche di Francia s’accendono fieri dibattiti, che fan segno
del rinato spirito religioso e insieme delle cresciute esigenze della ragione».
(Queste dispute non sono dovute alle dottrine averroiste che cercano di
conquistare il mondo europeo, cioè alla pressione della cultura araba?)
«Scoppia la lotta per le investiture, che, suscitata dal ridesto senso della
romanità imperiale (cosa vuol dire? dal ridesto senso dello Stato che vuole
assorbire in sé tutte le attività dei cittadini, come nell’Impero Romano?) e
dalla coscienza di presenti interessi spirituali, politici, economici, sommuove
tutto il mondo dei principi secolari ed ecclesiastici e la massa anonima dei monaci,
dei borghesi, dei contadini, degli artigiani». Eresie (ma soffocate col ferro e
col fuoco).
«La cavalleria, mentre sancisce e
consacra nell’individuo il possesso di virtú morali, alimenta un amore di
cultura umana e pratica certa raffinatezza di costumi». (Ma la cavalleria in
che senso si può legare al Rinascimento dopo il Mille? Il Rossi non distingue i
movimenti contraddittori, perché non tiene conto delle diverse forme di
feudalismo e di autonomia locale entro la cornice del feudalismo. D’altronde
non si può non parlare della cavalleria come elemento del Rinascimento vero e
proprio del 1500, sebbene l’Orlando furioso ne sia già un rimpianto in
cui il sentimento di simpatia si mescola a quello caricaturale ed ironico, e il
Cortegiano ne sia la fase sufficientemente filistea, scolastica,
pedantesca). Le Crociate, le guerre dei re cristiani contro i Mori in Spagna,
dei Capetingi contro l’Inghilterra, dei Comuni italiani contro gli imperatori
svevi, in cui matura o spunta il sentimento delle unità nazionali
(esagerazione). È strana, in un erudito come il Rossi, questa proposizione:
«Nello sforzo con cui quegli uomini rigenerano se stessi e costruiscono le
condizioni d’una nuova vita, essi sentono ribulicare i fermenti profondi della
loro storia, e nel mondo romano, cosí ricco di esperienze di libera e piena
spiritualità umana, trovano anime congeniali», che mi pare tutta una filza di
affermazioni vaghe e vuote di senso: 1) perché c’è sempre stata una continuità
tra il mondo romano e il periodo dopo il Mille (medio-latino); 2) perché «le
anime congeniali» è una metafora senza senso e in ogni caso il fenomeno avvenne
nel 400-500 e non in questa prima fase; 3) perché di romano non ci fu nulla nel
Rinascimento italiano, altro che la vernice letteraria, perché mancò proprio
ciò che è specifico della civiltà romana: l’unità statale e quindi
territoriale.
La cultura latina, fiorente nelle scuole di Francia del XII
secolo – con magnifico rigoglio di studi grammaticali e rettorici, di
composizioni poetiche e di prose regolate e solenni, a cui in Italia
corrisponde una piú tarda e modesta produzione dei poeti ed eruditi veneti e
dei dettatori – è una fase del medio-latino, è un prodotto schiettamente
feudale nel senso primitivo di prima del Mille; cosí si dica degli studi
giuridici, rinati per il bisogno di dare assetto legale ai nuovi e complessi
rapporti politici e sociali, che si volgono è vero al diritto romano, ma
rapidamente degenerano nella casistica piú minuziosa, appunto perché il diritto
romano «puro» non può dare assetto ai nuovi complessi rapporti: in realtà
attraverso la casistica dei glossatori e dei post-glossatori si formano delle
giurisprudenze locali, in cui ha ragione il piú forte (o il nobile o il
borghese) e che è l’«unico diritto» esistente: i principi del diritto romano
vengono dimenticati o posposti alla glossa interpretativa che a sua volta è
stata interpretata, con un prodotto ultimo in cui di romano non c’era nulla,
altro che il principio puro e semplice di proprietà.
La
Scolastica, «che viene nuovamente pensando e sistemando entro
alle forme della filosofia antica» (rientrata, si noti, nel circolo della
civiltà europea, non per il «ribulicare» dei fermenti profondi della storia, ma
perché introdottavi dagli arabi e dagli ebrei) «le verità intuite dal
Cristianesimo».
L’Architettura romanica. Il Rossi ha molta ragione di
affermare che tutte queste manifestazioni dal 1000 al 1300 non sono frutto di
artificiosa volontà imitatrice, ma spontanea manifestazione di una energia
creativa, che scaturisce dal profondo e mette quegli uomini in grado di sentire
e di rivivere l’antichità. Quest’ultima proposizione è però erronea, perché
quegli uomini, in realtà, si mettono in grado di sentire e vivere intensamente
il presente, mentre successivamente si forma uno strato di intellettuali che
sente e rivive l’antichità e che si allontana sempre piú dalla vita popolare,
perché la borghesia in Italia decade o si degrada fino a tutto il Settecento.
È ancora strano che il Rossi non s’accorga delle
contraddizioni in cui cade affermando: «Tuttavia se per Rinascimento senza
complementi s’ha ad intendere, come a me non par dubbio, tutto il multiforme
prorompere dell’attività umana nei secoli dall’XI al XVI, indizio fra tutti
cospicuo del Rinascimento vuol essere considerato, non il rifiorire della
cultura latina, ma il sorgere della letteratura in lingua volgare, da cui
acquista rilievo uno dei piú notevoli prodotti di quella energia, lo scindersi
dell’unità medioevale in differenziate entità nazionali». Il Rossi ha una concezione
realistica e storicistica del Rinascimento, ma non sa abbandonare completamente
la vecchia concezione retorica e letteraria: ecco l’origine delle sue
contraddizioni e della sua acribia; il sorgere del volgare segna un distacco
dall’antichità, ed è da spiegare come a questo fenomeno si accompagni una
rinascita del latino letterario. Giustamente dice il Rossi che «l’uso che un
popolo faccia d’una piuttosto che di un’altra lingua per disinteressati fini
intellettuali, non è capriccio di individui o di collettività, ma è spontaneità
di una peculiare vita interiore, balzante nell’unica forma che le sia propria»,
cioè che ogni lingua è una concezione del mondo integrale, e non solo un
vestito che faccia indifferentemente da forma a ogni contenuto. Ma allora? Non
significa ciò che erano in lotta due concezioni del mondo: una
borghese-popolare, che si esprimeva nel volgare e una aristocratico-feudale che
si esprimeva in latino e si richiamava all’antichità romana e che questa lotta
caratterizza il Rinascimento e non già la serena creazione di una cultura
trionfante? Il Rossi non sa spiegarsi il fatto che il richiamo all’antico è un
puro elemento strumentale-politico e non può creare una cultura di per sé e che
perciò il Rinascimento doveva per forza risolversi nella Controriforma, cioè
nella sconfitta della borghesia nata dai Comuni e nel trionfo della romanità,
ma come potere del papa sulle coscienze e come tentativo di ritorno al Sacro
Romano Impero: una farsa dopo la tragedia.
In Francia la letteratura di lingua d’oc e di lingua d’oïl
sboccia tra la fine del primo e il principio del secondo secolo dopo il Mille,
quando il paese è tutto in fermento per i grandi fatti politici, economici,
religiosi, culturali accennati prima. «E se in Italia l’avvento del volgare
all’onore della letteratura ritarda d’oltre un secolo, gli è che fra noi il
grande moto, che instaura sulle rovine dell’universalismo medioevale una nuova
civiltà nazionale, è, per la varietà della storia molte volte secolare delle
nostre città, piú vario e dovunque autoctono e spontaneo, e manca la forza
disciplinatrice di una monarchia e di potenti signori, onde piú lenta e
faticosa riesce la formazione unitaria appunto di quel nuovo mondo spirituale,
di cui la nuova letteratura in volgare è l’aspetto piú appariscente». Altro
groppo di contraddizioni: in realtà il moto innovatore dopo il Mille fu piú
violento in Italia che in Francia e la classe portatrice della bandiera di quel
moto si sviluppò economicamente prima e piú potentemente che in Francia e riuscí
a rovesciare il dominio dei suoi nemici, ciò che in Francia non avvenne. La
storia si svolse diversamente in Francia che in Italia; questo è il truismo del
Rossi, che non sa indicare le differenze reali dello sviluppo e le pone in una
maggiore o minore spontaneità e autoctonia, molto difficili o impossibili da
provare. Intanto anche in Francia il movimento non fu unitario, perché tra Nord
e Sud c’è stata una bella differenza, che si esprime letterariamente in una
grande letteratura epica nel Nord e nell’assenza di epica nel Sud. L’origine
della differenziazione storica tra Italia e Francia si può trovare testimoniata
nel giuramento di Strasburgo (verso l’841), cioè nel fatto che il popolo
partecipa attivamente alla storia (il popolo-esercito) diventando il garante
dell’osservanza dei trattati tra i discendenti di Carlo Magno; il
popolo-esercito garantisce «giurando in volgare», cioè introduce nella storia
nazionale la sua lingua, assumendo una funzione politica di primo piano,
presentandosi come volontà collettiva, come elemento di una democrazia
nazionale. Questo fatto «demagogico» dei Carolingi di appellarsi al popolo
nella loro politica estera è molto significativo per comprendere lo sviluppo
della storia francese e la funzione che vi ebbe la monarchia come fattore
nazionale. In Italia i primi documenti di volgare sono dei giuramenti
individuali per fissare la proprietà su certe terre dei conventi, o hanno un
carattere antipopolare («Traite, traite, fili de putte»). Altro che spontaneità
e autoctonia. L’involucro monarchico, vero continuatore dell’unità statale
romana, permise alla borghesia francese di svilupparsi piú che la completa
autonomia economica raggiunta dalla borghesia italiana, che però fu incapace di
uscire dal terreno grettamente corporativo e di crearsi una propria civiltà
statale integrale. (È da vedere come i Comuni italiani, rivendicando i diritti
feudali del Conte sul territorio circostante del comitato, ed essendoseli
incorporati, divennero un elemento feudale, col potere esercitato da un
comitato corporativo invece che dal conte).
Il Rossi nota che alla letteratura
volgare si accompagnano, «coeve e significative della medesima attività
interiore del popolo nostro, le forme comunali del cosiddetto preumanesimo
del Dugento e del Trecento» e che alla letteratura volgare e a questo
preumanesimo consegue l’umanesimo filologico dell’ultimo Trecento e del
Quattrocento, concludendo: «Tre fatti che ad una considerazione puramente
estrinseca (!) di contemporanei e di posteri, poterono parere l’un l’altro
antitetici, mentre segnano nell’ordine culturale le tappe dello sviluppo dello
spirito italiano, progressive e in tutto analoghe a quelle che nell’ordine
politico sono il Comune, cui corrisponde la letteratura volgare con certe forme
del preumanesimo, e la
Signoria, il cui correlativo letterario è l’umanesimo
filologico». Cosí tutto è a posto, sotto la vernice generica dello «spirito
italiano».
Con Bonifacio VIII, l’ultimo dei grandi pontefici medioevali
e con Arrigo VII erano finite le lotte epiche fra le due piú alte potestà della
terra. Decadenza dell’influsso politico della Chiesa: «servitú» avignonese e
scisma. L’impero, come autorità politica municipale, muore (tentativi sterili
di Ludovico il Bavaro e di Carlo IV). «La vita era nella giovane e industre
borghesia dei Comuni, che veniva rassodando il suo potere contro i nemici
esterni e contro i popolani minuti e che mentre seguitava il suo cammino nella
storia, stava per generare o già aveva generato le signorie nazionali». Che
signorie nazionali? L’origine delle signorie è ben diversa in Italia dagli
altri paesi: in Italia nasce dall’impossibilità della borghesia di mantenere il
regime corporativo, cioè di governare con la pura violenza il popolo minuto. In
Francia invece l’origine dell’assolutismo è nelle lotte tra borghesia e classi
feudali, in cui però la borghesia è unita al popolo minuto e ai contadini
(entro certi limiti, s’intende). E si può parlare in Italia di «signoria
nazionale»? Cosa voleva dire «nazione» in quel tempo?
Continua il Rossi: «Dinanzi a
questi grandi fatti, l’idea che pareva incarnarsi nella perpetuità universale
dell’Impero, della Chiesa e del diritto romano, e che è ancora di Dante, di una
continuazione universale, nella vita del Medio Evo, della universale vita romana,
cedeva all’idea che una grande rivoluzione s’era compiuta negli ultimi
secoli e che una nuova èra della storia era cominciata. Nasceva il senso
di un abisso che separasse ormai la nuova civiltà dall’antica; onde l’eredità
di Roma non era piú sentita come una forza immanente nella vita quotidiana; ma
gli Italiani cominciavano a volgere lo sguardo all’antichità come ad un proprio
passato, ammirevole di forza, di freschezza, di bellezza, cui dovessero tornare
col pensiero per via di meditazione e di studio e per un fine di educazione
umana, simili a figlioli che dopo un lungo abbandono tornassero ai padri, non a
vecchi che ripensassero e rimpiangessero l’età giovanile». E questo è un vero
romanzo storico: dove si può trovare l’«idea che una grande rivoluzione s’era
compiuta», ecc.? Il Rossi dilata a fatto storico degli aneddoti di
carattere libresco e il senso del disprezzo dell’umanista per il latino
medioevale e l’alterigia del signore raffinato per la «barbarie» medioevale; ha
ragione Antonio Labriola nel suo brano Da un secolo all’altro, che solo
con la
Rivoluzione Francese si sente il distacco dal passato, da
tutto il passato e questo sentimento ha la sua espressione ultima nel tentativo
di rinnovare il computo degli anni col calendario repubblicano. Se ciò che
pretende il Rossi si fosse manifestato davvero, non sarebbe avvenuto cosí
facilmente il passaggio dal Rinascimento alla Controriforma. Il Rossi non sa
liberarsi dalla concezione retorica del Rinascimento e perciò non sa valutare
il fatto che esistevano due correnti: una progressiva e una regressiva, e che
quest’ultima trionfò in ultima analisi, dopo che il fenomeno generale raggiunse
il suo massimo splendore nel Cinquecento (non come fatto nazionale e politico,
però, come fatto culturale prevalentemente se non esclusivamente), come
fenomeno di una aristocrazia staccata dal popolo-nazione, mentre nel popolo si
preparava la reazione a questo splendido parassitismo nella Riforma
protestante, nel Savonarolismo coi suoi «bruciamenti delle vanità», nel banditismo
popolare come quello di re Marcone in Calabria e in altri movimenti che sarebbe
interessante registrare e analizzare almeno come sintomi indiretti; lo stesso
pensiero politico del Machiavelli è una reazione al Rinascimento, è il richiamo
alla necessità politica e nazionale di riavvicinarsi al popolo come hanno fatto
le monarchie assolute di Francia e di Spagna, come è un sintomo la popolarità
del Valentino in Romagna, in quanto deprime i signorotti e i condottieri ecc.
Secondo il Rossi «la coscienza della
separazione ideale prodottasi nei secoli fra l’antichità e l’epoca nuova» è già
virtualmente nello spirito di Dante, ma appare attuale e
s’impersona, nell’ordine politico, in Cola di Rienzo, che «erede del pensiero
di Dante, vuole rivendicare la romanità e quindi l’italianità (perché
“quindi”?, Cola di Rienzo pensava proprio solo al popolo di Roma, materialmente
inteso) dell’Impero e col vincolo sacro della romanità stringere in unità di
nazione tutte le genti italiane; quanto alla cultura popolare, nel Petrarca,
che saluta Cola “nostro Camillo, nostro Bruto, nostro Romolo” e con istudio
paziente rievoca l’antico, mentre con anima di poeta lo risente e rivive».
(Continua il romanzo storico: quale fu il risultato degli sforzi di Cola di
Rienzo? nulla assoluto; e come si può far la storia con le velleità sterili e i
pii desideri? E i Camilli, i Bruti, i Romoli messi insieme dal Petrarca non
sentono la pura retorica?)
Il Rossi non riesce a porre il
distacco tra Medio latino e latino umanistico o filologico come egli lo chiama;
non vuol capire che si tratta in realtà di due lingue, perché esprimono due
concezioni del mondo, in certo senso antitetiche, sia pure limitate alla
categoria degli intellettuali e ancora non vuol capire che il preumanesimo
(Petrarca) è ancora diverso dall’umanesimo, perché la «quantità è diventata
qualità». Il Petrarca, si può dire, è tipico di questo passaggio: egli è un
poeta della borghesia come scrittore in volgare, ma è già un intellettuale
della reazione antiborghese (signorie, papato) come scrittore in latino, come
«oratore», come personaggio politico. Ciò spiega anche il fenomeno
cinquecentesco del «petrarchismo» e la sua insincerità: è un fenomeno puramente
cartaceo, perché i sentimenti da cui era nata la poesia del dolce stil nuovo e
del Petrarca stesso, non dominano piú la vita pubblica, come non domina piú la
borghesia comunale, ricacciata nei suoi fondachi e nelle sue manifatture in
decadenza. Politicamente domina un’aristocrazia in gran parte di parvenus,
raccolta nelle corti dei signori e protetta dalle compagnie di ventura: essa
produce la cultura del Cinquecento e aiuta le arti, ma politicamente è limitata
e finisce sotto il dominio straniero.
Cosí il Rossi non può vedere le origini di classe del
passaggio dalla Sicilia a Bologna e alla Toscana della prima poesia in volgare.
Egli pone accanto il «preumanismo (nel suo senso) imperiale ed ecclesiastico di
Pier delle Vigne e di maestro Berardo da Napoli, cosí cordialmente odiato dal
Petrarca» e che ha «ancora radice nel sentimento della continuità imperiale
della vita antica» (cioè è ancora Medio latino, come il «preumanismo» comunale
dei filologi e poeti veronesi e padovani e dei grammatici e retori bolognesi)
con la scuola poetica siciliana e dice che l’uno e l’altro fenomeno sarebbero
stati sterili perché ambedue legati «ad un mondo politico e intellettuale ormai
tramontato»; la scuola siciliana non fu sterile, perché Bologna e la Toscana ne animarono «il
vuoto tecnicismo del nuovo spirito culturale democratico». Ma è giusto questo
nesso interpretativo? In Sicilia la borghesia mercantile si sviluppò sotto
l’involucro monarchico e con Federico II si trovò coinvolta nella quistione del
Sacro Romano Impero della Nazione germanica: Federico era un monarca assoluto
in Sicilia e nel Mezzogiorno, ma era anche l’Imperatore medioevale. La
borghesia siciliana, come quella francese, si sviluppò piú rapidamente, dal
punto di vista culturale, che la
Toscana; lo stesso Federico e i suoi figli poetarono in
volgare e da questo punto di vista essi parteciparono della nuova spinta di
attività umane posteriore al Mille; ma non solo da questo punto di vista: in
realtà la borghesia toscana e quella bolognese erano piú arretrate
ideologicamente che Federico II, l’Imperatore medioevale. Paradossi della
storia. Ma non bisogna falsificare la storia, come fa il Rossi, capovolgendo i
termini per amore di tesi generale. Federico II fallí, ma si trattò di ben
altro tentativo che quello di Cola di Rienzo e di ben altro uomo. Bologna e la Toscana accolsero il
«vuoto tecnicismo siculo» con ben altra intelligenza storica del Rossi:
capirono che si trattava di «cosa loro», mentre non capirono che era loro anche
Enzo, sebbene portasse la bandiera dell’Impero universale e lo fecero morire in
carcere.
A differenza del «preumanesimo» imperiale ed ecclesiastico,
il Rossi trova che «nella scabra e talvolta bizzarra latinità del preumanesimo
fiorito all’ombra delle signorie comunali, covavano (!) invece la reazione
all’universalismo medioevale e aspirazioni indistinte a forme di stile
nazionali (cosa significa? che il volgare era travestito di forme latine?);
onde i nuovi studiosi del mondo classico dovevano sentirvi precorrimenti di
quell’imperialismo romano che Cola aveva vagheggiato come centro di
unificazione nazionale e che essi sentivano e auspicavano come forma di dominio
culturale dell’Italia sul mondo. La nazionalizzazione (!) dell’Umanesimo, che
il secolo XVI vedrà compiersi in tutti i paesi civili d’Europa, nascerà appunto
dall’impero universale di una cultura, la nostra, che germoglia sí dallo studio
dell’antico, ma nel tempo stesso s’afferma e si diffonde anche come letteratura
volgare e quindi nazionale italiana». (Questa è la concezione retorica in pieno
del Rinascimento; che gli umanisti abbiano auspicato il dominio culturale
d’Italia sul mondo è tutt’al piú l’inizio della «retorica» come forma
nazionale. A questo punto si inserisce l’interpretazione della «funzione
cosmopolita degli intellettuali italiani» che è ben altra cosa che non «dominio
culturale» di carattere nazionale: è invece proprio testimonianza di assenza
del carattere nazionale della cultura.)
La parola humanista compare
solo nella seconda metà del secolo XV e in italiano solo nel terzo decennio del
XVI: la parola umanesimo è ancora piú recente. Sulla fine del secolo XIV
i primi umanisti chiamarono i loro studi studia humanitatis, cioè «studi
intesi al perfezionamento integrale dello spirito umano, e quindi i soli degni
veramente dell’uomo. Per loro la cultura non è soltanto sapere, ma è anche vivere...
è dottrina, è moralità, è bellezza specchiate nell’unità della vivente opera
letteraria». Il Rossi, preso nelle sue contraddizioni, determinate dalla
concezione meccanicamente unitaria della storia del Rinascimento ricorre a
delle immagini per spiegare come il latino umanistico sia andato deperendo,
finché il volgare celebrò i suoi trionfi in ogni dominio della letteratura «e
l’umanesimo italiano ebbe finalmente la lingua che [sola] era sua, mentre il
latino scendeva nel suo sepolcro». (Non completamente, però, perché rimase
nella Chiesa e nelle scienze fino al Settecento, a dimostrare quale sia stata
la corrente sociale che ne aveva sostenuto sempre la permanenza: il latino dal
campo laicale fu espulso solo dalla borghesia moderna, lasciandone il rimpianto
nei diversi forcaioli).
«Umanesimo non è latinismo; è affermazione di umanità piena,
e l’umanità degli umanisti italiani era, nella sua storicità, italiana; talché
esprimersi non poteva se non nel volgare che anche gli umanisti parlavano nella
pratica della vita e che, malgrado ogni proposito classicheggiante, forzava
baldanzosamente i cancelli del loro latino. Potevano essi, astraendosi dalla
vita, sognare il loro sogno, e fermi nell’idea che letteratura degna di questo
nome non potesse darsi se non in latino, ripudiare la nuova lingua; altra era
la realtà storica, della quale essi stessi e quel loro spirito sognante erano
figli e nella quale vivevano la loro vita di uomini nati quasi un millennio e
mezzo dopo il grande oratore romano». Che significa tutto ciò? Perché questa
distinzione tra latino-sogno e volgare-realtà storica? E perché il latino non
era una realtà storica? Il Rossi non sa spiegare questo bilinguismo degli
intellettuali, cioè non vuol ammettere che il volgare, per gli umanisti, era
come un dialetto, cioè non aveva carattere nazionale e che pertanto gli
umanisti erano i continuatori dell’universalismo medioevale – in altre forme si
capisce – e non un elemento nazionale; erano una «casta cosmopolita», per i
quali l’Italia rappresentava forse ciò che [è] la regione nella cornice
nazionale moderna, ma nulla di piú e di meglio: essi erano apolitici e
anazionali.
«C’era nel classicismo umanistico,
non piú un fine di moralità religiosa, bensí un fine di educazione integrale
dell’anima umana; c’era soprattutto la riabilitazione dello spirito umano, come
creatore della vita e della storia», ecc., ecc. Giustissimo: questo è l’aspetto
piú interessante dell’Umanesimo. Ma è esso in contraddizione con ciò che ho
detto prima sullo spirito anazionale e quindi regressivo – per l’Italia –
dell’Umanesimo stesso? Non mi pare. L’Umanesimo infatti non sviluppò in Italia
questo suo contenuto piú originale e pieno d’avvenire. Esso ebbe il carattere
di una restaurazione, ma, come ogni restaurazione, assimilò e svolse, meglio
della classe rivoluzionaria che aveva soffocato politicamente, i principî
ideologici della classe vinta che non aveva saputo uscire dai limiti
corporativi e crearsi tutte le superstrutture di una società integrale. Solo
che questa elaborazione fu «campata in aria», rimase patrimonio di una casta
intellettuale, non ebbe contatti col popolo-nazione. E, quando in Italia il
movimento reazionario, di cui l’Umanesimo era stato una premessa necessaria, si
sviluppò nella Controriforma, la nuova ideologia fu soffocata anch’essa e gli
umanisti (salvo poche eccezioni) dinanzi ai roghi abiurarono (cfr. il capitolo
su «Erasmo» pubblicato dalla «Nuova Italia» dal libro del De Ruggiero, Rinascimento,
riforma e controriforma).
Il contenuto ideologico del Rinascimento
si svolse fuori d’Italia, in Germania e in Francia, in forme politiche e
filosofiche: ma lo Stato moderno e la filosofia moderna furono in Italia
importati perché i nostri intellettuali erano anazionali e cosmopoliti come nel
Medio Evo, in forme diverse, ma negli stessi rapporti generali. Nell’articolo
del Rossi vi sono altri elementi, interessanti, ma essi sono di carattere
particolare. Bisognerà studiare il libro del Rossi sul Quattrocento (coll.
Vallardi), il libro del Toffanin, Cosa fu l’Umanesimo (ediz. Sansoni),
il libro del De Ruggiero su citato, oltre le opere classiche sul Rinascimento
pubblicate da scrittori stranieri (Burckhardt, Voigt, Symonds, ecc.).
Il Rinascimento (Fase economica-corporativa della
storia italiana). Origini della letteratura e della poesia volgare.
Vedere gli studi di Ezio Levi su Uguccione da Lodi e i primordi della poesia
italiana e altri studi posteriori (1921) su gli antichi poeti lombardi, con
l’edizione delle rime, commento e piccole biografie. Il Levi sostiene che si
tratta di un «fenomeno letterario», «accompagnato da un movimento di pensiero»
e rappresentante «il primo affermarsi della nuova coscienza italiana, in
contrapposizione all’età medioevale, pigra e sonnolenta» (cfr. S. Battaglia, Gli
studi sul nostro Duecento letterario, nel «Leonardo» del febbraio 1927). La
tesi del Levi è interessante e deve essere approfondita. Naturalmente come tesi
di storia della cultura e non di storia dell’arte. Il Battaglia scrive che «il
Levi scambia questa modesta produzione rimata, che serba i caratteri e gli
atteggiamenti di evidente natura popolare, per un fenomeno letterario», ed è
possibile che il Levi, come spesso avviene in tali casi, esageri l’importanza
artistica di questi scrittori; ma che significa ciò? E che significa la «natura
popolare» contrapposta alla «letteraria»? Quando una nuova civiltà sorge, non è
naturale che essa assuma forme «popolari» e primitive, che siano uomini
«modesti» ad esserne i portatori? E ciò non è tanto piú naturale in tempi
quando la cultura e la letteratura erano monopolio di caste chiuse? Ma poi, al
tempo di Uguccione da Lodi, ecc., anche nel ceto colto, esistevano grandi
artisti e letterati? Il problema posto dal Levi è interessante perché le sue
ricerche tendono a dimostrare che i primi elementi del Rinascimento non furono
di origine aulica o scolastica, ma popolare, e furono espressione di un
movimento generale culturale religioso (patarino) di ribellione agli istituti
medioevali, Chiesa e Impero. La statura poetica di questi scrittori lombardi
non sarà stata molto alta, la loro importanza storico-culturale non è perciò
diminuita.
Altro pregiudizio sia del Battaglia che del Levi è che nel
Duecento debba cercarsi e trovarsi l’origine di una «nuova civiltà italiana»;
una ricerca di tal genere è puramente retorica e segue interessi pratici
moderni. La nuova civiltà non è «nazionale», ma di classe, e assumerà forma
«comunale» e locale non unitaria, non solo «politicamente», ma neanche
«culturalmente». Nasce «dialettale» pertanto e dovrà aspettare la maggior
fioritura del ’300 toscano per unificarsi, fino a un certo punto,
linguisticamente. L’unità culturale non era un dato esistente precedentemente,
tutt’altro; esisteva una «universalità europeo-cattolica» culturale e la nuova
civiltà reagisce a questo universalismo, di cui l’Italia era la base, con i
dialetti locali e col portare in primo piano gli interessi pratici dei gruppi
borghesi municipali. Ci troviamo quindi in un periodo di disfacimento e
disgregazione del mondo culturale esistente, in quanto le forze nuove non si
inseriscono in questo mondo, ma vi reagiscono contro sia pure inconsapevolmente
e rappresentano elementi embrionali di una nuova cultura. Lo studio delle
eresie medioevali diventa necessario (Tocco, Volpe, ecc.). Lo studio del
Battaglia, Gli studi sul nostro Duecento letterario, «Leonardo»,
gennaio-febbraio-marzo 1927, è utile per i richiami bibliografici, ecc.
Origini (cfr. nota p. 50 bis). Si confondono due momenti della
storia: 1) la rottura con la civiltà medioevale, il cui documento piú
importante fu l’apparizione dei volgari; 2) l’elaborazione di un «volgare
illustre», cioè il fatto che si raggiunse una certa centralizzazione fra i
gruppi intellettuali, cioè, meglio, tra i letterati di professione. In realtà i
due momenti, pur essendo collegati, non si saldarono completamente. I volgari
incominciano ad apparire per ragioni religiose (giuramenti militari,
testimonianze di carattere giuridico per fissare diritti di proprietà, prestate
da contadini che non conoscevano il latino), frammentariamente, casualmente.
Che in volgare si scrivano opere letterarie, qualunque sia il loro valore, è
ancora un fatto nuovo, è il fatto realmente importante. Che tra i volgari
locali, uno, quello toscano, raggiunga una egemonia, è un altro fatto ancora,
che però occorre limitare: esso non è accompagnato da una egemonia
politico-sociale, e perciò rimane confinato a un puro fatto letterario. Che il
volgare scritto appaia in Lombardia come prima manifestazione di una certa
portata, è fatto da mettere in grande rilievo; che sia legato al patarinismo è
fatto anch’esso molto importante. In realtà la borghesia nascente impone i
propri dialetti, ma non riesce a creare una lingua nazionale: se questa nasce,
è confinata ai letterati e questi vengono assorbiti dalle classi reazionarie,
dalle corti, non sono «letterati borghesi», ma aulici. E non avviene questo
assorbimento senza contrasto. L’Umanesimo dimostra che il «latino» è molto
forte, ecc. Un compromesso culturale, non una rivoluzione, ecc.
[La corrente popolare nel Rinascimento] Sarà da
vedere il libro, molto lodato e apprezzato, di Domenico Guerri, La corrente
popolare nel rinascimento. Un modo di porre la questione falsa è quello di
Giulio Augusto Levi che, nella recensione del libro [di] Luigi Ponnelle e Luigi
Bordet, San Filippo Neri e la società del suo tempo (1515-1595),
traduzione di Tito Casini, prefazione di Giovanni Papini, Ediz: Cardinal
Ferrari, (nella «Nuova Italia» del gennaio 1932), scrive: «Volgarmente si pensa
che l’Umanesimo sia nato e cresciuto sempre nelle stanze dei dotti; ma il
Guerri ha ricordato la viva parte che vi prese la piazza; io per la mia parte
avevo già rilevato lo spirito popolare di quel movimento nella mia Breve
storia dell’estetica e del gusto (2ª ed., 1925, pp. 17-18). Anche, e molto
piú, la controriforma cattolica si pensa che sia stata opera di prelati e di
principi, imposta con rigore di leggi e di tribunali; grande, ma uggiosa (cosí
sembra ai piú), è rispettata e non amata. Ma se quel rinnovamento religioso
fosse stato operato solo per via di costrizione, come sarebbe nata proprio in
quel tempo, in terra cattolica, anzi in Italia, la grande musica sacra? Col
terrore delle pene si piegano le volontà, ma non si fanno nascere opere d’arte.
Chi vuol vedere quanta freschezza, vivacità, purezza, sublimità d’ispirazione,
quanto amore di popolo ci fu in quel movimento, legga la storia di questo santo
ecc. ecc.». Il bello è che fa il raffronto tra Sant’Ignazio e Filippo cosí:
«L’uno pensava alla conquista cristiana del mondo intero, l’altro non mirava piú
lontano del cerchio dove poteva stendersi l’azione sua personale, e a
malincuore permise il sorgere di una filiale a Napoli». E ancora: «L’opera
dei Gesuiti ebbe effetti piú vasti e piú duraturi: quella di Filippo, affidata
alle ispirazioni del cuore, dipendeva troppo dalla sua persona: ciò che
l’ispirazione fa non può essere né continuato né ripetuto; non si può se
non rifare con una ispirazione nuova, la quale è sempre diversa». Appare dunque
che Filippo non fa parte della Controriforma, ma è fiorito nonostante la Controriforma, se
pure non dovrà dirsi contro di essa.
[Il Cinquecento] Bisognerà
leggere il volume di Fortunato Rizzi, L’anima del Cinquecento e la lirica
volgare, che, dalle recensioni lette, mi pare piú importante come
documento della cultura del tempo che per il suo valore intrinseco. (Sul Rizzi
ho scritto in altro quaderno una noterella, considerandolo come «italiano
meschino» a proposito di una sua recensione del libro di un nazionalista
francese sul Romanticismo, recensione che dimostrava la sua assoluta
inettitudine a orientarsi fra le idee generali e i fatti di cultura). Sul libro
del Rizzi occorrerà rileggere l’articolo di Alfredo Galletti, La lirica
volgare del Cinquecento e l’anima del Rinascimento, nella «Nuova Antologia»
del 1° agosto 1929. (Anche sul Galletti occorrerà allargare le proprie
informazioni: il Galletti dopo la guerra – per la quale ha lottato strenuamente
col Salvemini e col Bissolati, date le sue origini riformistiche, aggiungendo
un particolare spirito antigermanico – nel primo, ma specialmente nel secondo
dopoguerra, è caduto in uno stato d’animo di esasperazione culturale, di
piagnonismo intellettuale, proprio di chi ha avuto «gli ideali infranti»; i
suoi scritti sono riboccanti di recriminazioni, di digrignar di denti in
sordina, di allusioni critiche sterili nella loro disperazione comica). Nella
critica della poesia cinquecentesca italiana prevale questa opinione: che essa
sia per quattro quinti artificiosa, convenzionale, priva di intima sincerità.
«Ora – osserva il Rizzi con molto buon senso – è sentenza comune che nella
poesia lirica si trovi l’espressione piú schietta e viva del sentimento di un
uomo, di un popolo, di un periodo storico. È egli possibile che ci sia stato un
secolo – il Cinquecento appunto – il quale abbia avuto la disgrazia di nascere
senza una propria fisonomia spirituale o che di tale fisonomia si sia
compiaciuto (?!) a riverberare un’immagine falsa proprio nella poesia lirica?
Il piú intellettualmente vivace, il piú spiritualmente intrepido, il piú cinico
dei secoli, dicono i suoi tanti avversari (!!), avrebbe ipocritamente
dissimulato il suo vero animo nella studiata armonia dei sonetti e delle canzoni
petrarcheggianti; oppure si sarebbe divertito a mistificare i posteri, fingendo
nei versi un platonico sospiroso idealismo, che poi le novelle, le commedie, le
satire, tante altre testimonianze letterarie di quell’età, smentiscono
apertamente?». Tutto il problema è falsato a pieno, nella sua impostazione, da
conflitti e contraddizioni intime.
E perché il Cinquecento non potrebbe essere pieno di
contraddizioni? Non è anzi esso proprio il secolo in cui si aggruppano le
maggiori contraddizioni della vita italiana, la cui non soluzione ha
determinato tutta la storia nazionale fino alla fine del Settecento? Non c’è
contraddizione tra l’uomo dell’Alberti e quello di Baldassar Castiglione, tra
l’uomo dabbene e il «cortegiano»? Tra il cinismo e il paganesimo dei grandi
intellettuali e la loro strenua lotta contro la Riforma e in difesa del
Cattolicesimo? Tra il modo di concepire la donna in generale (che poi era la
dama alla Castiglione) e il modo di trattar la donna in particolare, cioè la
donna del popolo? Le regole della cortesia cavalleresca erano forse applicate
alle donne del popolo? La donna in generale era ormai un feticcio, una
creazione artificiosa, e artificiosa fu la poesia lirica, amorosa,
petrarcheggiante almeno per i quattro quinti. Ciò non vuol dire che il
Cinquecento non abbia avuto un’espressione lirica, cioè artistica; l’ha avuta,
ma non nella «poesia lirica» propriamente detta.
Il Rizzi pone la quistione delle contraddizioni del
Cinquecento nella seconda parte del suo libro, ma non capisce che dall’urto di
queste contraddizioni avrebbe potuto nascere la poesia lirica sincera: ciò non
fu ed è questa una mera constatazione storica. La controriforma non poteva
essere e non fu un superamento di questa crisi, ne fu un soffocamento
autoritario e meccanico. Non erano piú cristiani, non potevano essere
non-cristiani: dinanzi alla morte tremavano e anche dinanzi alla vecchiaia. Si
posero dei problemi piú grandi di loro e si avvilirono: d’altronde erano
staccati dal popolo.
L’uomo del Quattrocento e del
Cinquecento. Leon Battista Alberti,
Baldassarre Castiglione, Machiavelli mi sembrano i tre scrittori piú importanti
per studiare la vita del Rinascimento nel suo aspetto «uomo» e nelle sue
contraddizioni morali e civili. L’Alberti rappresenta il borghese (vedere anche
il Pandolfini), Castiglione il nobile cortigiano (vedere anche il Della Casa),
Machiavelli rappresenta e cerca di rendere organiche le tendenze politiche dei
borghesi (repubbliche) e dei principi, in quanto vogliono, gli uni e gli altri,
fondare Stati o ampliarne la potenza territoriale e militare.
Secondo Vittorio Cian (Il conte
Baldassar Castiglione (1529-1929), «Nuova Antologia» del 16
agosto – 1° settembre 1929) Francesco Sansovino, contemporaneo, là dove informa
che Carlo V era assai parco lettore, soggiunge: «Si dilettava di leggere tre
libri solamente, li quali esso avea fatti tradurre in lingua sua propria: l’uno
per l’instituzione della vita civile, e questo fu il Cortegiano del
conte Baldesar da Castiglione, l’altro per le cose di Stato, e questo fu il Principe
co’ Discorsi del Machiavelli, et il terzo per l’ordine della
milizia, e questo fu la Historia
con tutte le altre cose di Polibio». Scrive il Cian: «Non abbastanza è
stato avvertito che il Cortegiano, documento storico di primissimo ordine,
attesta e illustra luminosamente l’evoluzione della cavalleria medioevale, la
quale, attecchita in iscarsa misura, dicono, in Italia, in realtà,
differenziatasi, sin dalle origini, da quella d’oltr’Alpi, nel clima italiano
della Rinascita diventa una nuova cavalleria, assume il carattere d’una milizia
civile, combattente all’insegna di Marte, ma anche di Apollo, di Venere e di
tutte le Muse. Evoluzione, dico, e non affatto degenerazione o decadenza, come
parve al De Sanctis».
Ma il Cian si basa solo sul Cortegiano,
che è un tentativo di organizzare una aristocrazia intorno al «principe» e di
differenziarla dalla morale borghese trionfante: che questa cavalleria fosse
superficiale è dimostrato dall’Orlando Furioso, che precede il Don
Chisciotte e lo prepara. In ogni caso l’articolo del Cian è da rivedere:
egli è conoscitore filologicamente perfetto del Cortegiano e bisognerà
procurarsi la sua edizione del libro (3a ed., editore Sansoni).
[La
Riforma in Italia] Cfr. A. Oriani, La lotta
politica (p. 128, edizione milanese): «La varietà dell’ingegno italiano,
che nella scienza poteva andare dal sublime buon senso di Galileo alle
abbaglianti e bizzarre intuizioni di Cardano, si colora nullameno alla Riforma,
e vi si scorgono tosto Marco Antonio Flaminio, poeta latino, Jacopo Nardi,
storico, Renata d’Este, moglie del duca Ercole II; Lelio Socini, ingegno
superiore a Lutero e a Calvino, che la porta ben piú alto fondando la setta
degli unitari; Bernardo Ochino e Pietro Martire Vermigli, teologo, che passeranno,
questi all’Università di Oxford, quegli nel capitolo di Canterbury; Francesco
Burlamacchi che ritenterà l’impossibile impresa di Stefano Porcari e vi perirà
martire eroe; Pietro Carnesecchi e Antonio Palcario, che vi perderanno entrambi
nobilmente la vita. Ma questo moto incomunicato al popolo è piuttosto una crisi
del pensiero filosofico e scientifico, naturalmente ritmata sulla grande
rivoluzione germanica, che un processo di purificazione e di elevazione
religiosa. Infatti Giordano Bruno e Tommaso Campanella, riassumendolo, per
quanto vissuti e morti entro l’orbita di un ordine monastico, sono due filosofi
trascinati dalla speculazione oltre i confini non solo della Riforma ma del
Cristianesimo stesso. Quindi il popolo rimane cosí insensibile alla loro
tragedia che sembra quasi ignorarla».
Ma cosa significa tutto ciò? Forse che anche la Riforma non è una crisi
del pensiero filosofico e scientifico, cioè dell’atteggiamento verso il mondo,
della concezione del mondo? Bisogna quindi dire che, a differenza degli altri
paesi, neanche la religione in Italia era elemento di coesione tra il popolo e
gli intellettuali, e perciò appunto la crisi filosofica degli intellettuali non
si prolungava nel popolo, perché non aveva origini nel popolo, perché non esisteva
un «blocco nazionale-popolare» nel campo religioso. In Italia non esisteva
«chiesa nazionale», ma cosmopolitismo religioso, perché gli intellettuali
italiani [erano] collegati a tutta la cristianità immediatamente come dirigenti
anazionali. Distacco tra scienza e vita, tra religione e vita popolare, tra
filosofia e religione; i drammi individuali di Giordano Bruno ecc. sono del
pensiero europeo e non italiano.
Nicola Cusano. Nella Nuova Antologia del 16 giugno 1929 è
pubblicata una nota di L. von Bertalanffy su Un Cardinale germanico (Nicolaus
Cusanus), curiosa in se stessa e per la noterella che la redazione della
«Nuova Antologia» le fa seguire. Il Bertalanffy espone sul Cusano
l’opinione tedesco-protestante, sinteticamente, senza apparato critico-bibliografico;
la «Nuova Antologia» fa osservare meschinamente che il Bertalanffy non
ha parlato degli «studi numerosi e importanti che anche in Italia furono
dedicati al Cusano in questi ultimi decenni» e ne dà una sfilza fino al Rotta.
L’unico cenno di merito è nelle ultime linee: «Il Bertalanffy vede nel Cusano
un precursore del pensiero liberale e scientifico moderno, il Rotta invece
opina che il Vescovo di Bressanone “per quello che è lo spirito, se non la
forma della sua speculazione, è tutto nell’orbita del pensiero medioevale”. La
verità non è mai tutta da una parte». Cosa vuol dire?
È certo che il Cusano è un riformatore del pensiero
medioevale e uno degli iniziatori del pensiero moderno; lo prova il fatto
stesso che la Chiesa
lo dimenticò e il suo pensiero fu studiato dai filosofi laici che vi avevano
ritrovato uno dei precursori della filosofia classica moderna.
Importanza dell’azione pratica del
Cusano per la storia della Riforma protestante. Al Concilio (di Costanza?) fu
contro il Papa per i diritti del Concilio. Si riconciliò col Papa. Al Concilio
di Basilea sostenne la riforma della Chiesa. Tentò di conciliare Roma con gli
Hussiti: di riunire Oriente e Occidente, e persino pensò di preparare la
conversione dei Turchi, rilevando il nucleo comune nel Corano e nell’Evangelo. Docta
ignorantia e coincidentia oppositorum. Per primo concepí l’idea
dell’infinito, precorrendo Giordano Bruno e gli astronomi moderni.
Si può dire che la Riforma luterana scoppiò perché fallí l’attività
riformatrice del Cusano, cioè perché la Chiesa non seppe riformarsi dall’interno. Per la
tolleranza religiosa, ecc. (nato nel 1401 – morto nel 1464).
Michele Losacco, La dialettica
del Cusano, nota di 38 pp. presentata dal socio Luigi Credaro nell’adunanza
del 17 giugno di una istituzione che la «Nuova Antologia» dimentica di
indicare (forse i Lincei?).
[Lorenzo il Magnifico] Sulla figura e l’importanza di
Lorenzo il Magnifico sono da vedere gli studi di Edmondo Rho. Si annunziano
studi di R. Palmarocchi, che non pare abbia la capacità di interpretare la
funzione del Magnifico. Dal punto di vista storico-politico il Rho sostiene che
il Magnifico fu un mediocre, privo di capacità creativa. Diplomatico, non
politico. Il Magnifico avrebbe semplicemente seguito il programma di Cosimo. Come
politica estera (italiana, riguardante l’intera penisola) Lorenzo avrebbe avuto
l’idea geniale di organizzare una lega italica che però non fu attuata ecc. (Il
Palmarocchi ha raccolto Le piú belle pagine di Lorenzo nell’ed. Ojetti e
nell’introduzione ha cercato di rappresentare la figura di Lorenzo).
La funzione di Lorenzo è importante per ricostruire il nodo
storico italiano che rappresenta il passaggio da un periodo di sviluppo
imponente delle forze borghesi alla loro decadenza rapida ecc. Lo stesso Lorenzo
può essere assunto come «modello» della incapacità borghese di quell’epoca a
formarsi in classe indipendente e autonoma per l’incapacità di subordinare gli
interessi personali e immediati a programmi di vasta portata. In questo caso,
saranno da vedere i rapporti con la
Chiesa di Lorenzo e dei Medici che lo precedettero e gli
successero. Chi sostiene che il Savonarola fu «uomo del Medio Evo» non tiene
sufficiente conto della sua lotta col potere ecclesiastico, lotta che in fondo
tendeva a rendere Firenze indipendente dal sistema feudale chiesastico. (Per il
Savonarola si fa la solita confusione tra l’ideologia che si fonda su miti del
passato e la funzione reale che deve prescindere da questi miti ecc.).
Controriforma. Nella «Nuova Antologia» del 16 aprile 1928 Guido Chialvo
pubblica una Istruttione di Emanuele Filiberto a Pierino Belli, suo
Cancelliere ed Auditore di guerra, sul «Consiglio di Stato» in data 1° dicembre
1559. Ecco l’inizio di questa Istruttione: «Si come il timor di Dio è
principio di sapienza et non c’è maggior morbo né piú capital peste nel governo
de li Stati, che quando gl’huomini che ne hanno la cura non temono Dio, et
attribuiscono a la prudenza loro quello che si deve solo riconoscer dalla
Divina Provvidenza et Inspiratione, et che da questa empia heresia, come dal
fonte di ogni vitio derivano tutte le malvagità et scelleratezze del mondo, et
gli huomini ardiscono violar le divine et humane leggi».
[La reazione ecclesiastica] Le opere complete del
Machiavelli furono stampate per l’ultima volta in Italia nel 1554, e nel 1555
il Decamerone integro; l’editore Giolito dopo il 1560 cessò di stampare
anche il Petrarca. Da allora cominciano le edizioni castrate dei poeti, dei
novellieri, dei romanzieri. La censura ecclesiastica infastidisce anche i
pittori.
Il Pastor nella Storia dei Papi scrive: «Può essere
che nei paesi cattolici il divieto generale di scritti in difesa del nuovo
sistema terrestre (copernicano) ammorzasse la predilezione per l’astronomia; però
in Francia i gallicani, riferendosi alla libertà della chiesa francese, non
considerarono come obbligatorii i decreti dell’Indice e dell’Inquisizione e, se
in Italia non sorse un secondo Galilei o un Newton o un Bradley, difficilmente
la colpa è da attribuire al decreto contro Copernico». Il Bruers nota però che
i rigori dell’Indice suscitarono tra gli scienziati un panico spaventoso e che
lo stesso Galilei, nei ventisei anni decorsi dal primo processo alla morte, non
poté liberamente approfondire e far studiare ai suoi discepoli la questione
copernicana. Dallo stesso Pastor appare che specialmente in Italia la reazione
culturale fu efficiente. I grandi editori deperiscono in Italia: Venezia
resiste di piú, ma infine gli autori italiani e le opere italiane (del Bruno,
del Campanella, del Vanini, del Galilei) sono stampate integralmente solo in
Germania, in Francia, in Olanda. Con la reazione ecclesiastica che culmina
nella condanna di Galileo finisce in Italia il Rinascimento anche fra gli
intellettuali.
Rinascimento, Risorgimento, Riscossa, ecc. Nel
linguaggio storico-politico italiano è da notare tutta una serie di
espressioni, legate strettamente al modo tradizionale di concepire la storia
della nazione e della cultura italiana, che è difficile e talvolta impossibile
di tradurre nelle lingue straniere. Cosí abbiamo il gruppo «Rinascimento»,
«Rinascita» («Rinascenza», francesismo), termini che sono ormai entrati nel
circolo della cultura europea e mondiale, perché se il fenomeno indicato ebbe
il massimo splendore in Italia, non fu però ristretto all’Italia.
Nasce nell’Ottocento il termine «risorgimento» in senso piú
strettamente nazionale e politico, accompagnato dalle altre espressioni di
«riscossa nazionale» e «riscatto nazionale»: tutti esprimono il concetto del
ritorno a uno stato di cose già esistito nel passato o di «ripresa» offensiva
(«riscossa») delle energie nazionali disperse intorno a un nucleo militante e
concentrato, o di emancipazione da uno stato di servitú per ritornare alla
primitiva autonomia («riscatto»). Sono difficili da tradurre appunto perché
strettamente legate alla tradizione letteraria-nazionale di una continuità
essenziale della storia svoltasi nella penisola italiana, da Roma all’unità
dello Stato moderno, per cui si concepisce la nazione italiana «nata» o «sorta»
con Roma, si pensa che la cultura greco-romana sia «rinata», la nazione sia
«risorta», ecc. La parola «riscossa» è del linguaggio militare francese, ma poi
è stata legata alla nozione di un organismo vivo che cade in letargia e si
riscuote, sebbene non si possa negare che le è rimasto un po’ del primitivo
senso militare.
A questa serie puramente italiana si possono collegare altre
espressioni corrispondenti: per esempio il termine, di origine francese e
indicante un fatto prevalentemente francese, «Restaurazione».
La coppia «formare e riformare», perché, secondo il
significato assunto storicamente dalla parola, una cosa «formata» si può
continuamente «riformare», senza che tra la formazione e la riforma sia
implicito il concetto di una parentesi catastrofica o letargica, ciò che invece
è implicito per «rinascimento» e «restaurazione». Si vede da ciò che i
cattolici sostengono che la
Chiesa Romana è stata piú volte riformata dall’interno,
mentre nel concetto protestante di «Riforma» è implicita l’idea di rinascita e
restaurazione del cristianesimo primitivo, soffocato dal romanesimo. Nella
cultura laica si parla perciò di Riforma e Controriforma, mentre i cattolici (e
specialmente i gesuiti che sono piú accurati e conseguenti anche nella
terminologia) non vogliono ammettere che il Concilio di Trento abbia solamente
reagito al luteranesimo e a tutto il complesso delle tendenze protestantiche,
ma sostengono che si sia trattato di una «Riforma cattolica» autonoma,
positiva, che si sarebbe verificata in ogni caso. La ricerca della storia di
questi termini ha un significato culturale non trascurabile.
Traducibilità delle diverse culture nazionali.
Parallelo tra la civiltà greca e quella latina e importanza che hanno avuto
rispettivamente il mondo greco e quello latino nel periodo dell’Umanesimo e del
Rinascimento. (Pubblicazioni attuali sulla vecchia quistione della
«superiorità» e «originalità» della arte greca in confronto con quella latina:
vedi lo studio di Augusto Rostagni Autonomia della letteratura latina nell’«Italia
Letteraria» del 21 maggio 1933 e segg.). Per ciò che riguarda l’Umanesimo e il
Rinascimento il Rostagni non distingue i diversi aspetti della cultura
italiana: 1) Lo studio umanistico-erudito della classicità greco-romana che
diventa esemplare, modello di vita ecc. 2) Il fatto che tale riferimento al
mondo classico non è altro che l’involucro culturale in cui si sviluppa la
nuova concezione della vita e del mondo in concorrenza e spesso (poi sempre
piú) in opposizione alla concezione religiosa-medioevale. 3) Il movimento
originale che l’«uomo nuovo» realizza come tale, e che è nuovo e originale
nonostante l’involucro umanistico, esemplato sul mondo antico. A questo
riguardo è da osservare che spontaneità e vigore di arte si ha prima che
l’umanesimo si «sistemi», quindi la proposizione altrove prospettata che
l’umanesimo sia un fenomeno in gran parte reazionario, cioè rappresenti il
distacco degli intellettuali dalle masse che andavano nazionalizzandosi e
quindi un’interruzione della formazione politico-nazionale italiana, per
ritornare alla posizione (in altra forma) del cosmopolitismo imperiale e
medioevale.
Il parallelo tra Greci e Romani è un falso e inutile
problema, di origine e carattere politico. Hanno avuto i Romani una filosofia?
Hanno avuto un loro «modo di pensare» e di concepire l’uomo e la vita e questa
è stata la loro reale «filosofia», incorporata nelle dottrine giuridiche e
nella pratica politica. Si può dire (in un certo senso) per i Romani e i Greci
ciò che Hegel dice a proposito della politica francese e della filosofia
tedesca.
Riforma e Rinascimento. Le osservazioni sparsamente fatte sulla diversa portata
storica della Riforma protestante e del Rinascimento italiano, della
Rivoluzione francese e del Risorgimento (la Riforma sta al Rinascimento come la Rivoluzione francese
al Risorgimento) possono essere raccolte in un saggio unico con un titolo che
potrebbe essere anche «Riforma e Rinascimento» e che potrebbe prendere lo
spunto dalle pubblicazioni avvenute dal 20 al 25 intorno appunto a questo
argomento: «della necessità che in Italia abbia luogo una riforma intellettuale
e morale» legata alla critica del Risorgimento come «conquista regia» e non
movimento popolare per opera di Gobetti, Missiroli e Dorso. (Ricordare
l’articolo di Ansaldo nel «Lavoro» di Genova contro Dorso e contro me). Perché
in questo periodo si pose questo problema? Esso scaturiva dagli avvenimenti...
(Episodio comico: articoli di Mazzali in «Conscientia» di Gangale in cui si ricorreva
ad Engels). Precedente storico nel saggio di Masaryk sulla Russia (nel 1925
tradotto in italiano dal Lo Gatto): il Masaryk poneva la debolezza politica del
popolo russo nel fatto che in Russia non c’era stata la Riforma religiosa.
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