II.
Il Risorgimento
L’Età del Risorgimento
L’Età del Risorgimento di Adolfo Omodeo (ed.
Principato, Messina). Questo libro di Adolfo Omodeo pare sia fallito nel suo
complesso. Esso è il rifacimento di un manuale scolastico e del manuale
conserva molti caratteri. I fatti (gli eventi) sono semplicemente descritti
come pure enunciazioni da catalogo, senza nessi di necessità storica. Lo stile
del libro è sciatto, spesso irritante; i giudizi sono tendenziosi, talvolta
pare che l’Omodeo abbia una quistione personale con certi protagonisti della
storia (per esempio coi giacobini francesi). Per ciò che si riferisce alla
penisola italiana, pare che l’intenzione dell’Omodeo sarebbe dovuta essere
quella di mostrare che il Risorgimento è fatto essenzialmente italiano, le cui
origini devono trovarsi in Italia e non solo o prevalentemente negli sviluppi
europei della Rivoluzione francese e dell’invasione napoleonica. Ma questa
intenzione non è attuata in altro modo che nell’iniziare la narrazione dal 1740
invece che dal 1789 o dal 1796 o dal 1815.
Il periodo delle monarchie illuminate non è in Italia un
fatto autoctono, e non è «originale» italiano il movimento di pensiero connesso
(Giannone e i regalisti). La monarchia illuminata pare possa dirsi la piú
importante derivazione politica dell’età del mercantilismo, che annunzia i
tempi nuovi, la civiltà moderna nazionale; ma in Italia c’è stata un’età del
mercantilismo come fenomeno nazionale? Il mercantilismo avrebbe, se
organicamente sviluppato, rese ancora piú profonde e forse definitive, le
divisioni in Stati regionali; lo stato informe e disorganico in cui le diverse
parti d’Italia vennero a trovarsi dal punto di vista economico, la non
formazione di forti interessi costituiti intorno a un forte sistema
mercantilistico-statale, permisero o resero piú facile l’unificazione dell’età
del Risorgimento.
Pare poi che nella conversione del suo lavoro da manuale
scolastico a libro di cultura generale col titolo di Età del Risorgimento,
l’Omodeo avrebbe dovuto mutarne tutta l’economia (la struttura), riducendo la
parte europea e dilatando la parte italiana. Dal punto di vista europeo, l’età
è quella della Rivoluzione francese e non del Risorgimento italiano, del
liberalismo come concezione generale della vita e come nuova forma di civiltà
statale e di cultura, e non solo dell’aspetto «nazionale» del liberalismo. È
certo possibile parlare di un’età del Risorgimento, ma allora occorre
restringere la prospettiva e mettere a fuoco l’Italia e non l’Europa, svolgendo
della storia europea e mondiale solo quei nessi che modificano la struttura
generale dei rapporti di forza internazionali che si opponevano alla formazione
di un grande Stato unitario nella penisola, mortificando ogni iniziativa in
questo senso e soffocandola in sul nascere e svolgendo la trattazione di quelle
correnti che invece dal mondo internazionale influivano in Italia,
incoraggiandone le forze autonome e locali della stessa natura e rendendole piú
valide. Esiste cioè un’Età del Risorgimento nella storia svoltasi nella
penisola italiana, non esiste nella storia dell’Europa come tale: in questa
corrisponde l’Età della Rivoluzione Francese e del liberalismo (come è stata
trattata dal Croce, in modo manchevole, perché nel quadro del Croce manca la premessa,
la rivoluzione in Francia e le guerre successive: le derivazioni storiche sono
presentate come fatti a sé, autonomi, che hanno in sé le proprie ragioni di
essere e non come parte di uno stesso nesso storico, di cui la Rivoluzione francese e
le guerre non possono non essere elemento essenziale e necessario).
Cosa significa o può significare il fatto che l’Omodeo
inizia la sua narrazione dalla pace di Aquisgrana, che pone termine alla guerra
per la successione di Spagna? L’Omodeo non «ragiona», non «giustifica» questo
suo criterio metodico, non mostra che esso sia l’espressione di ciò che un
determinato nesso storico europeo è nello stesso tempo nesso storico italiano,
da inserire necessariamente nello sviluppo della vita nazionale italiana. Ciò
invece può e deve essere «dichiarato». La personalità nazionale (come la
personalità individuale) è una mera astrazione, se considerata fuori dal nesso
internazionale (o sociale). La personalità nazionale esprime un «distinto» del
complesso internazionale, pertanto è legata ai rapporti internazionali. C’è un
periodo di dominio straniero in Italia, per un certo tempo dominio diretto,
posteriormente di carattere egemonico (o misto, di dominio diretto e di
egemonia). La caduta della penisola sotto la dominazione straniera nel
Cinquecento aveva già provocato una reazione: quella di indirizzo
nazionale-democratico del Machiavelli che esprimeva nello stesso tempo il
rimpianto per la perduta indipendenza in una determinata forma (quella
dell’equilibrio interno fra gli Stati italiani sotto l’egemonia della Firenze
di Lorenzo il Magnifico) e la volontà iniziale di lottare per riacquistarla in
una forma storicamente superiore, come principato assoluto sul tipo della
Spagna e della Francia. Nel Settecento l’equilibrio europeo, Austria-Francia,
entra in una fase nuova per rispetto all’Italia: c’è un indebolimento reciproco
delle due grandi potenze e sorge una terza grande potenza, la Prussia. Pertanto,
le origini del moto del Risorgimento, cioè del processo di formazione delle condizioni
e dei rapporti internazionali che permetteranno all’Italia di riunirsi in
nazione e alle forze interne nazionali di svilupparsi ed espandersi, non sono
da ricercare in questo o quell’evento concreto registrato sotto una o altra
data, ma appunto nello stesso processo storico per cui l’insieme del sistema
europeo si trasforma. Questo processo intanto non è indipendente dagli eventi
interni della penisola e dalle forze che in essa hanno la sede. Un elemento
importante e talvolta decisivo dei sistemi europei era sempre stato il Papato.
Nel corso del Settecento l’indebolimento della posizione del Papato come
potenza europea è addirittura catastrofico. Con la Controriforma, il
Papato aveva modificato essenzialmente la struttura della sua potenza: si era alienato
le masse popolari, si era fatto fautore di guerre sterminatrici, si era confuso
con le classi dominanti in modo irrimediabile. Aveva cosí perduto la capacità
di influire sia direttamente sia indirettamente sui governi attraverso la
pressione delle masse popolari fanatiche e fanatizzate: è degno di nota che
proprio mentre il Bellarmino elaborava la sua teoria del dominio indiretto
della Chiesa, la Chiesa,
con la sua concreta attività, distruggeva le condizioni di ogni suo dominio,
anche indiretto, staccandosi dalle masse popolari. La politica regalista delle
monarchie illuminate è la manifestazione di questo esautoramento della Chiesa
come potenza europea e quindi italiana, e inizia anch’essa il Risorgimento, se
è vero, come è vero, che il Risorgimento era possibile solo in funzione di un
indebolimento del Papato sia come potenza europea che come potenza italiana,
cioè come possibile forza che riorganizzasse gli Stati della penisola sotto la
sua egemonia. Ma tutti questi sono elementi condizionanti; una dimostrazione,
storicamente valida, che già nel Settecento si fossero costituite in Italia
delle forze che tendessero concretamente a fare della penisola un organismo
politico unitario e indipendente non è stata ancora fatta.
[Quando incomincia il Risorgimento?] Quando si deve
porre l’inizio del movimento storico che ha preso il nome di Risorgimento
italiano? Le risposte sono diverse e contraddittorie, ma in generale esse si
raggruppano in due serie: 1) di quelli che vogliono sostenere l’origine
autonoma del movimento nazionale italiano e addirittura sostengono che la Rivoluzione francese
ha falsificato la tradizione italiana e l’ha deviata; 2) e di quelli che
sostengono che il movimento nazionale italiano è strettamente dipendente dalla
Rivoluzione francese e dalle sue guerre.
La quistione storica è turbata da interferenze sentimentali
e politiche e da pregiudizi di ogni genere. È già difficile far capire al senso
comune che un’Italia come quella che si è formata nel ’70 non era mai esistita
prima e non poteva esistere: il senso comune è portato a credere che ciò che
oggi esiste sia sempre esistito e che l’Italia sia sempre esistita come nazione
unitaria, ma sia stata soffocata da forze estranee, ecc. Numerose ideologie
hanno contribuito a rafforzare questa credenza, alimentata dal desiderio di
apparire eredi del mondo antico, ecc.; queste ideologie, d’altronde, hanno
avuto un ufficio notevole come terreno di organizzazione politica e culturale,
ecc.
Mi pare che bisognerebbe analizzare tutto il movimento
storico partendo da diversi punti di vista, fino al momento in cui gli elementi
essenziali dell’unità nazionale si unificano e diventano una forza sufficiente
per raggiungere lo scopo, ciò che mi pare avvenga solo dopo il ’48. Questi
elementi sono negativi (passivi) e positivi (attivi), nazionali e
internazionali. Un elemento abbastanza antico è la coscienza dell’«unità
culturale» che è esistita fra gli intellettuali italiani almeno dal 1200 in poi, cioè da quando
si è sviluppata una lingua letteraria unificata (il volgare illustre di Dante):
ma è questo un elemento senza efficacia diretta sugli avvenimenti storici,
sebbene sia il piú sfruttato dalla retorica patriottica, né d’altronde esso
coincide o è l’espressione di un sentimento nazionale concreto e operante.
Altro elemento è la coscienza della necessità dell’indipendenza della penisola
italiana dall’influenza straniera, molto meno diffuso del primo, ma certo
politicamente piú importante e storicamente piú fecondo di risultati pratici;
ma anche di questo elemento non deve essere esagerata l’importanza e il
significato e specialmente la diffusione e la profondità. Questi due elementi
sono proprii di piccole minoranze di grandi intellettuali, e mai si sono
manifestati come espressione di una diffusa e compatta coscienza nazionale
unitaria.
Condizioni per l’unità nazionale: 1) esistenza di un certo
equilibrio delle forze internazionali che fosse la premessa della unità
italiana. Ciò si verificò dopo il 1748, dopo cioè la caduta della egemonia
francese e l’esclusione assoluta dell’egemonia spagnola austriaca, ma sparí
nuovamente dopo il 1815: tuttavia il periodo dal 1748 al 1815 ebbe una grande
importanza nella preparazione dell’unità, o meglio per lo sviluppo degli
elementi che dovevano condurre all’unità. Tra gli elementi internazionali
occorre considerare la posizione del Papato, la cui forza nell’ambito italiano
era legata alla forza internazionale: il regalismo e il giuseppinismo, cioè la
prima affermazione liberale e laica dello Stato, sono elementi essenziali per
la preparazione dell’unità. Da elemento negativo e passivo, la situazione
internazionale diventa elemento attivo dopo la Rivoluzione francese e
le guerre napoleoniche, che allargano l’interesse politico e nazionale alla piccola
borghesia e ai piccoli intellettuali, che dànno una certa esperienza militare e
creano un certo numero di ufficiali italiani. La formula: «repubblica una e
indivisibile» acquista una certa popolarità e, nonostante tutto, il Partito
d’Azione ha origine dalla Rivoluzione francese e dalle sue ripercussioni in
Italia; questa formula si adatta in «Stato unico e indivisibile», in monarchia
unica e indivisibile, accentrata ecc.
L’unità nazionale ha avuto un certo sviluppo e non un altro
e di questo sviluppo fu motore lo Stato piemontese e la dinastia Savoia.
Occorre perciò vedere quale sia stato lo svolgimento storico in Piemonte dal
punto di vista nazionale. Il Piemonte aveva avuto interesse dal 1492 in poi (cioè nel
periodo delle preponderanze straniere) a che ci fosse un certo equilibrio
interno fra gli Stati italiani, come premessa dell’indipendenza (cioè del
non-influsso dei grandi Stati stranieri): naturalmente lo Stato piemontese
avrebbe voluto essere l’egemone in Italia, almeno nell’Italia settentrionale e
centrale, ma non riuscí: troppo forte era Venezia, ecc.
Lo Stato piemontese diventa motore reale dell’unità dopo il
’48, dopo cioè la sconfitta della destra e del centro politico piemontese e
l’avvento dei liberali con Cavour. La
Destra: Solaro della Margarita, cioè i «nazionalisti
piemontesi esclusivisti» o municipalisti (l’espressione «municipalismo» dipende
dalla concezione di una unità italiana latente e reale, secondo la retorica
patriottica); il Centro: Gioberti e i neoguelfi. Ma i liberali di Cavour non
sono dei giacobini nazionali: essi in realtà superano la Destra del Solaro, ma non
qualitativamente, perché concepiscono l’unità come allargamento dello Stato
piemontese e del patrimonio della dinastia, non come movimento nazionale dal
basso, ma come conquista regia. Elemento piú propriamente nazionale è il
Partito d’Azione, ecc. (Vedi altre note).
Sarebbe interessante e necessario raccogliere tutte le
affermazioni sulla quistione dell’origine del Risorgimento in senso proprio
cioè del moto che portò all’unità territoriale e politica dell’Italia,
ricordando che molti chiamano Risorgimento anche il risveglio delle forze
«indigene» italiane dopo il Mille, cioè il moto che portò ai Comuni e al
Rinascimento. Tutte queste quistioni sulle origini hanno la loro ragione per il
fatto che l’economia italiana era molto debole, e il capitalismo incipiente:
non esisteva una forte e diffusa classe di borghesia economica, ma invece molti
intellettuali e piccoli borghesi, ecc. Il problema non era tanto di liberare le
forze economiche già sviluppate dalle pastoie giuridiche e politiche antiquate,
quanto di creare le condizioni generali perché queste forze economiche
potessero nascere e svilupparsi sul modello degli altri paesi. La storia
contemporanea offre un modello per comprendere il passato italiano: esiste oggi
una coscienza culturale europea ed esiste una serie di manifestazioni di
intellettuali e uomini politici che sostengono la necessità di una unione
europea: si può anche dire che il processo storico tende a questa unione e che
esistono molte forze materiali che solo in questa unione potranno svilupparsi:
se fra x anni questa unione sarà realizzata la parola «nazionalismo»
avrà lo stesso valore archeologico che l’attuale «municipalismo».
Altro fatto contemporaneo che spiega il
passato è la «non resistenza e non cooperazione» sostenuta da Gandhi: esse
possono far capire le origini del cristianesimo e le ragioni del suo sviluppo
nell’Impero Romano. Il tolstoismo aveva le stesse origini nella Russia zarista,
ma non divenne una «credenza popolare» come il gandhismo: attraverso Tolstoi
anche Gandhi si riallaccia al cristianesimo primitivo, rivive in tutta l’India
una forma di cristianesimo primitivo, che il mondo cattolico e protestante non
riesce neppure piú a capire. Il rapporto tra gandhismo e Impero inglese è
simile a quello tra cristianesimo-ellenismo e Impero romano. Paesi di antica
civiltà, disarmati e tecnicamente (militarmente) inferiori, dominati da paesi
tecnicamente sviluppati (i Romani avevano sviluppato la tecnica governativa e
militare), sebbene come numero di abitanti trascurabili. Che molti uomini che
si credono civili siano dominati da pochi uomini ritenuti meno civili ma
materialmente invincibili, determina il rapporto cristianesimo primitivo-gandhismo.
La coscienza dell’impotenza materiale di una gran massa contro pochi oppressori
porta all’esaltazione dei valori puramente spirituali ecc., alla passività,
alla non resistenza, alla cooperazione, che però di fatto è una resistenza
diluita e penosa, il materasso contro la pallottola.
Anche i movimenti religiosi popolari del Medio Evo,
francescanesimo, ecc., rientrano in uno stesso rapporto di impotenza politica
delle grandi masse di fronte a oppressori poco numerosi, ma agguerriti e
centralizzati: gli «umiliati e offesi» si trincerano nel pacifismo evangelico
primitivo, nella nuda «esposizione» della loro «natura umana» misconosciuta e
calpestata nonostante le affermazioni di fraternità in Dio padre e di
uguaglianza ecc. Nella storia delle eresie medioevali Francesco ha una sua
posizione individuale ben distinta: egli non vuole lottare, cioè egli non pensa
neppure a una qualsiasi lotta, a differenza degli altri innovatori (Valdo, ecc.
e gli stessi francescani). La sua posizione è ritratta in un aneddoto raccontato
dagli antichi testi francescani. «Ad un teologo domenicano che gli chiede come
si debba intendere il verbo di Ezechia “Se non manifesterete all’empio la sua
iniquità, io chiederò conto a voi della sua anima”, cosí risponde Francesco:
“Il servo di Dio deve comportarsi nella sua vita e nel suo amore alla virtú
cosí che con la luce del buon esempio e l’unzione della parola riesca di
rimprovero a tutti gli empi; e cosí avverrà, credo, che lo splendore della
vita di lui e l’odore della sua buona fama annunzieranno ai tristi la loro
iniquità...”»(cfr. Antonio Viscardi, Francesco d’Assisi e la legge della
povertà evangelica, nella «Nuova Italia» del gennaio 1931).
Le Origini del Risorgimento. Le ricerche sulle
origini del moto nazionale del Risorgimento sono quasi sempre viziate dalla
tendenziosità politica immediata, non solo da parte degli scrittori italiani,
ma anche da parte di quelli stranieri, specialmente francesi (o sotto
l'influsso della cultura francese). C’è una «dottrina» francese sulle origini del
Risorgimento, secondo la quale la nazione italiana deve la sua fortuna alla
Francia, specialmente ai due Napoleoni, e questa dottrina ha anche il suo
aspetto polemico-negativo: i nazionalisti monarchici (Bainville) muovono ai due
Napoleoni (e alle tendenze democratiche in genere suscitate dalla Rivoluzione)
il rimprovero di avere indebolito la posizione relativa della Francia in Europa
con la loro politica «nazionalitaria», cioè di essere stati contro la
tradizione e gli interessi della nazione francese, rappresentati dalla
monarchia e dai partiti di destra (clericali) sempre antitaliani, e che
consisterebbero nell’avere per vicini conglomerati di staterelli, come erano la Germania e l'Italia nel
Settecento.
In Italia le quistioni «tendenziali e tendenziose» poste a
questo proposito sono: 1) la tesi democratica francofila, secondo cui il moto è
dovuto alla Rivoluzione francese e ne è una derivazione diretta, che ha
determinato la tesi opposta; 2) la Rivoluzione francese col suo intervento nella
penisola ha interrotto il movimento «veramente» nazionale, tesi che ha un
doppio aspetto: a) quello gesuitico (per i quali i sanfedisti erano il
solo elemento «nazionale» rispettabile e legittimo), e b) quello
moderato che si riferisce piuttosto ai principi riformatori, alle monarchie
illuminate. Qualcuno poi aggiunge: c) il movimento riformatore era stato
interrotto per il panico suscitato dagli avvenimenti di Francia, quindi
l’intervento degli eserciti francesi in Italia non interruppe il movimento
indigeno, ma anzi ne rese possibile la ripresa e il compimento.
Molti di questi elementi sono svolti in quella letteratura a
cui si accenna sotto la rubrica «Interpretazioni del Risorgimento italiano»,
letteratura che se ha un significato nella storia della cultura politica, non
ne ha che scarso in quello della storiografia.
In un articolo assai notevole di Gioacchino Volpe, Una
scuola per la storia dell’Italia moderna (nel «Corriere della Sera», 9
gennaio 1932) è scritto: «Tutti lo sanno: per capire il “Risorgimento” non basta
spingersi al 1815 e neppure al 1796, l’anno in cui Napoleone irruppe nella
Penisola e vi suscitò la tempesta. Il “Risorgimento”, come ripresa di vita
italiana, come formazione di una nuova borghesia, come consapevolezza crescente
di problemi non solo municipali e regionali ma nazionali, come sensibilità a
certe esigenze ideali, bisogna cercarlo parecchio prima della Rivoluzione: è
anche esso sintomo, uno dei sintomi, di una rivoluzione in marcia, non solo
francese, ma, in certo senso, mondiale. Tutti egualmente sanno che la storia
del Risorgimento non si studia solo coi documenti italiani, e come fatto
solamente italiano, ma nel quadro della vita europea; trattasi di correnti di
cultura, di trasformazioni economiche, di situazioni internazionali nuove, che
sollecitano gli italiani a nuovi pensieri, a nuove attività, a nuovo assetto
politico».
In queste parole del Volpe è riassunto ciò che avrebbe
voluto essere il fine dell’Omodeo nel suo libro, ma che nell’Omodeo rimane
sconnesso ed esteriore. Si ha l’impressione che sia per il titolo, sia per
l’impostazione cronologica, il libro dell’Omodeo abbia solo voluto rendere un
omaggio «polemico» alla tendenziosità storica e non alla storia, per ragioni di
«concorrenza» opportunistica poco chiare e in ogni modo poco pregevoli.
Nel Settecento, mutate le condizioni relative della penisola
nel quadro dei rapporti europei, sia per ciò che riguarda la pressione
egemonica delle grandi potenze che non potevano permettere il sorgere di uno
Stato italiano unitario, sia per ciò che riguarda la posizione di potenza
politica (in Italia) e culturale (in Europa) del Papato (e tanto meno le grandi
potenze europee potevano permettere uno Stato unificato italiano sotto la
supremazia del Papa, cioè permettere che la funzione culturale della Chiesa e
la sua diplomazia, già abbastanza ingombranti e limitatrici del potere statale
nei paesi cattolici, si rafforzassero appoggiandosi a un grande Stato
territoriale e a un esercito corrispondente), muta anche l’importanza e il
significato della tradizione letterario-rettorica esaltante il passato romano,
la gloria dei Comuni e del Rinascimento, la funzione universale del Papato
italiano. Questa atmosfera culturale italiana era rimasta fino allora
indistinta e generica, essa giovava specialmente al Papato, formava il terreno
ideologico della potenza papale nel mondo, l’elemento discriminativo per la
scelta e l’educazione del personale ecclesiastico e laico-ecclesiastico, di cui
il Papato aveva bisogno per la sua organizzazione pratico-amministrativa, per
centralizzare l’organismo chiesastico e il suo influsso, per tutto l’insieme
dell’attività politica, filosofica, giuridica, pubblicistica, culturale che
costituiva la macchina per l’esercizio del potere indiretto, dopo che, nel
periodo precedente la Riforma,
era servita all’esercizio del potere diretto o di quelle funzioni di potere
diretto che potevano concretamente attuarsi nel sistema di rapporti di forza
interni di ogni singolo paese cattolico. Nel Settecento si inizia un processo
di distinzione in questa corrente tradizionale: una parte sempre piú
coscientemente (per programma esplicito) si connette con l’istituto del Papato
come espressione di una funzione intellettuale (etico-politica, di egemonia
intellettuale e civile) dell’Italia nel mondo e finirà con l’esprimere il Primato
giobertiano (e il neoguelfismo, attraverso una serie di movimenti piú o
meno equivoci, come il sanfedismo e il primo periodo del lamennesismo, che sono
esaminati nella rubrica dell’«Azione cattolica» e le sue origini) e
successivamente con il concretarsi in forma organica, sotto la direzione
immediata dello stesso Vaticano, del movimento di Azione Cattolica, in cui la
funzione dell’Italia come nazione è ridotta al minimo (all’opposto di quella
parte del personale centrale vaticano che è italiano, ma non può mettere in
prima linea, come una volta, il suo essere italiano); e si sviluppa una parte
«laica», anzi in opposizione al Papato, che cerca rivendicare una funzione di
primato italiano e di missione italiana nel mondo indipendentemente dal Papato.
Questa seconda parte, che non può mai riferirsi a un organismo ancora cosí
potente come la Chiesa
romana e manca pertanto di un punto unico di centralizzazione, non ha la stessa
compattezza, omogeneità, disciplina dell’altra, ha varie linee spezzate di
sviluppo e si può dire confluisca nel mazzinianismo.
Ciò che è importante storicamente è che nel Settecento
questa tradizione cominci a disgregarsi, per meglio concretarsi, e a muoversi
con una intima dialettica: significa che tale tradizione letterario-retorica
sta diventando un fermento politico, il suscitatore e l’organizzatore del
terreno ideologico in cui le forze politiche effettive riusciranno a
determinare lo schieramento, sia pure tumultuario, delle piú grandi masse popolari
necessarie per raggiungere certi fini, riusciranno a mettere in iscacco e lo
stesso Vaticano e le altre forze di reazione esistenti nella penisola accanto
al Papato. Che il movimento liberale sia riuscito a suscitare la forza
cattolico-liberale e a ottenere che lo stesso Pio IX si ponesse, sia pure per
poco, nel terreno del liberalismo (quanto fu sufficiente per disgregare
l’apparato politico-ideologico del cattolicismo e togliergli la fiducia in se
stesso) fu il capolavoro politico del Risorgimento e uno dei punti piú
importanti di risoluzione dei vecchi nodi che avevano impedito fino allora di
pensare concretamente alla possibilità di uno Stato unitario italiano.
(Se questi elementi della trasformazione della tradizione
culturale italiana si pongono come elemento necessario nello studio delle
origini del Risorgimento, e il disfacimento di tale tradizione è concepito come
fatto positivo, come condizione necessaria per il sorgere e lo svilupparsi
dell’elemento attivo liberale-nazionale, allora acquistano un certo
significato, non trascurabile, movimenti come quello «giansenistico», che
altrimenti apparirebbero come mere curiosità da eruditi. Si tratterebbe insomma
di uno studio dei «corpi catalitici» nel campo storico-politico italiano,
elementi catalitici, che non lasciano traccia di sé ma hanno avuto una
insostituibile e necessaria funzione strumentale nella creazione del nuovo
organismo storico).
Alberto Pingaud, autore di un libro su Bonaparte,
président de la République
italienne e che sta preparando un altro libro su Le premier Royaume
d’Italie (che è già stato pubblicato quasi tutto sparsamente in diversi
periodici), è tra quelli che «collocano nel 1814 il punto di partenza e in
Lombardia il focolare del movimento politico che ebbe termine nel 1870 con la
presa di Roma». Baldo Peroni, che nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1932
passa in rassegna questi scritti ancora sparsi del Pingaud, osserva: «Il nostro
Risorgimento – inteso come risveglio politico – comincia quando l’amor di
patria cessa di essere una vaga aspirazione sentimentale o un motivo letterario
e diventa pensiero consapevole, passione che tende a tradursi in realtà
mediante un’azione che si svolge con continuità e non s’arresta dinanzi ai piú
duri sacrifici. Ora, siffatta trasformazione è già avvenuta nell’ultimo
decennio del Settecento, e non soltanto in Lombardia, ma anche a Napoli, in
Piemonte, in quasi tutte le regioni d’Italia. I «patrioti» che tra l’89 e il
’96 sono mandati in esilio o salgono il patibolo, hanno cospirato, oltre che
per istaurare la repubblica, anche per dare all’Italia indipendenza e unità; e
negli anni successivi è l’amore dell’indipendenza che ispira e anima l’attività
di tutta la classe politica italiana, sia che collabori coi francesi e sia che
tenti dei moti insurrezionali allorché appare evidente che Napoleone non vuole
concedere la libertà solennemente promessa». Il Peroni, in ogni modo, non
ritiene che il moto italiano sia da ricercarsi prima del 1789, cioè afferma una
dipendenza del Risorgimento dalla Rivoluzione francese, tesi che non è
accettata dalla storiografia nazionalistica. Tuttavia, appare vero quanto il
Peroni afferma, se si considera il fatto specifico e di importanza decisiva,
del primo aggruppamento di elementi politici che si svilupperà fino a formare
l’insieme dei partiti che saranno i protagonisti del Risorgimento. Se nel corso
del Settecento cominciano ad apparire e a consolidarsi le condizioni obiettive,
internazionali e nazionali, che fanno dell’unificazione nazionale un compito
storicamente concreto (cioè non solo possibile, ma necessario), è certo che
solo dopo l’89 questo compito diventa consapevole in gruppi di cittadini
disposti alla lotta e al sacrificio. La Rivoluzione francese, cioè, è uno degli eventi
europei che maggiormente operano per approfondire un movimento già iniziato
nelle «cose», rafforzando le condizioni positive (oggettive e soggettive) del
movimento stesso e funzionando come elemento di aggregazione e centralizzazione
delle forze umane disperse in tutta la penisola e che altrimenti avrebbero
tardato di piú a «incentrarsi» e comprendersi tra loro.
Su questo stesso argomento è da vedere l’articolo di
Gioacchino Volpe: Storici del Risorgimento a congresso nell’«Educazione
Fascista» del luglio 1932. Il Volpe informa sul 20° Congresso della Società
Nazionale per la Storia
del Risorgimento, tenuto a Roma nel maggio-giugno 1932. La storia del
Risorgimento fu prima concepita prevalentemente come «storia del patriottismo
italiano». Poi essa cominciò ad approfondirsi, «ad essere vista come vita
italiana del XIX secolo e quasi dissolta nel quadro di quella vita, presa tutta
in un processo di trasformazione, coordinazione, unificazione, ideali e vita
pratica, cultura e politica, interessi privati e pubblici». Dal secolo XIX si
risalí al secolo XVIII e si videro nessi prima nascosti, ecc. Il secolo XVIII
«fu visto dall’angolo visuale del Risorgimento, anzi come Risorgimento
anch’esso; con la sua borghesia ormai nazionale: con il suo liberalismo che
investe la vita economica e la vita religiosa e poi quella politica e che non è
tanto un “principio” quanto una esigenza di produttori; con quelle prime
concrete aspirazioni ad “una qualche forma di unità” (Genovesi), per la
insufficienza dei singoli Stati, ormai riconosciuta, a fronteggiare, con la
loro ristretta economia, la invadente economia di paesi tanto piú vasti e
forti. Nello stesso secolo si delineava anche una nuova situazione
internazionale. Entravano cioé nel pieno giuoco forze politiche europee
interessate ad un assetto piú indipendente e coerente e meno staticamente
equilibrato della penisola italiana. Insomma, una “realtà” nuova italiana ed
europea, che dà significato e valore anche al nazionalismo dei letterati,
riemerso dopo il cosmopolitismo dell’età precedente».
Il Volpe non accenna specificatamente al rapporto nazionale
e internazionale rappresentato dalla Chiesa, che anch’essa subisce nel secolo
XVIII una radicale trasformazione: lo scioglimento della Compagnia di Gesú in
cui culmina il rafforzarsi dello Stato laico contro l’ingerenza ecclesiastica,
ecc. Si può dire che oggi, per la storiografia del Risorgimento, dato il nuovo
influsso esercitato dopo il Concordato, il Vaticano è diventato una delle
maggiori, se non la maggiore, forze di remora scientifica e di «malthusianismo»
metodico. Precedentemente, accanto a questa forza, che è stata sempre molto
rilevante, esercitavano una funzione restrittiva dell’orizzonte storico la
monarchia e la paura del separatismo. Molti lavori storici non furono
pubblicati per questa ragione (per es., qualche libro di storia della Sardegna
del barone Manno, l’episodio Bollea durante la guerra ecc.). I pubblicisti
repubblicani si erano specializzati nella storia «libellistica», sfruttando
ogni opera storica che ricostruisse scientificamente gli avvenimenti del
Risorgimento: ne conseguí una limitazione delle ricerche, un prolungarsi della
storiografia apologetica, la impossibilità di sfruttare gli archivi, ecc.;
insomma, tutta la meschinità della storiografia del Risorgimento quando la si
paragoni a quella della Rivoluzione francese. Oggi le preoccupazioni
monarchiche e separatiste si sono andate assottigliando, ma sono cresciute
quelle vaticanesche e clericali. Una gran parte degli attacchi alla Storia
d’Europa del Croce hanno avuto evidentemente questa origine: cosí si spiega
anche l’interruzione dell’opera di Francesco Salata Per la storia
diplomatica della Questione Romana, il cui primo volume è del 1929
ed è rimasto senza seguito.
Nel Ventesimo Congresso della Società Nazionale per la Storia del Risorgimento
sono stati trattati argomenti che interessano in sommo grado questa rubrica. Lo
studio di Pietro Silva: Il problema italiano nella diplomazia europea del
XVIII secolo è cosí riassunto dal Volpe (nell’articolo citato): «Il secolo
XVIII vuol dire influenza di grandi potenze in Italia, ma anche loro contrasti;
e perciò, progressiva diminuzione del dominio diretto straniero e sviluppo di
due forti organismi statali a nord e a sud. Col trattato di Aranjuez tra
Francia e Spagna, 1752, e subito dopo, col ravvicinamento Austria-Spagna, si
inizia una stasi di quarant’anni per i due regni, pur con molti sforzi di
rompere il cerchio austro-francese, tentando approcci con Prussia, Inghilterra,
Russia. Ma il quarantennio segna anche lo sviluppo di quelle forze autonome
che, con la Rivoluzione
e con la rottura del sistema austro-francese, scenderanno in campo per una
soluzione in senso nazionale ed unitario del problema italiano. Ed ecco le
riforme ed i principi riformatori, oggetto, gli ultimi tempi, di molti studi,
per il regno di Napoli e di Sicilia, per la Toscana, Parma e Piacenza, Lombardia».
Carlo Morandi (Le riforme settecentesche nei risultati
della recente storiografia) ha studiato la posizione delle riforme italiane
nel quadro del riformismo europeo, e il rapporto tra riforme e Risorgimento.
Per il rapporto tra Rivoluzione francese e Risorgimento il
Volpe scrive: «È innegabile che la Rivoluzione, vuoi come ideologie, vuoi come
passioni, vuoi come forza armata, vuoi come Napoleone, immette elementi nuovi
nel flusso in movimento della vita italiana. Non meno innegabile che l’Italia
del Risorgimento, organismo vivo, assimilando l’assimilabile di quel che veniva
dal di fuori e che, in quanto idee, era anche rielaborazione altrui di ciò che
già si era elaborato in Italia, reagisce, insieme, ad esso, lo elimina e lo
integra, in ogni modo lo supera. Essa ha tradizioni proprie, mentalità propria,
problemi propri, soluzioni proprie: che son poi la vera e profonda radice, la
vera caratteristica del Risorgimento, costituiscono la sua sostanziale
continuità con l’età precedente, lo rendono capace alla sua volta di esercitare
anche esso una sua azione su altri paesi: nel modo come tali azioni si possono,
non miracolisticamente ma storicamente, esercitare, entro il cerchio di popoli
vicini e affini».
Queste osservazioni del Volpe non sono sempre esatte: come
si può parlare di «tradizioni, mentalità, problemi, soluzioni» propri
dell’Italia? O almeno, cosa ciò significa concretamente? Le tradizioni, le
mentalità, i problemi, le soluzioni erano molteplici, contraddittori, di natura
spesso solo individuale e arbitraria e non erano allora mai visti
unitariamente. Le forze tendenti all’unità erano scarsissime, disperse, senza
nesso tra loro e senza capacità di suscitare legami reciproci e ciò non solo
nel secolo XVIII, ma si può dire fino al 1848. Le forze contrastanti a quelle
unitarie (o meglio tendenzialmente unitarie) erano invece potentissime,
coalizzate, e, specialmente come Chiesa, assorbivano la maggior parte delle capacità
ed energie individuali che avrebbero potuto costituire un nuovo personale
dirigente nazionale, dando loro invece un indirizzo e un’educazione
cosmopolitico-clericale. I fattori internazionali e specialmente la Rivoluzione francese,
stremando queste forze reazionarie e logorandole, potenziano per contraccolpo
le forze nazionali in se stesse scarse e insufficienti. È questo il contributo
piú importante della Rivoluzione francese, molto difficile da valutare e
definire, ma che si intuisce di peso decisivo nel dare l’avviata al moto del
Risorgimento.
Tra le altre memorie presentate al Congresso è da notare
quella di Giacomo Lumbroso su La reazione popolare contro i Francesi alla
fine del 1700. Il Lumbroso sostiene che «le masse popolari, specialmente contadinesche,
reagiscono non perché sobillate dai nobili e neppur per amor di quieto vivere
(difatti, impugnarono le armi!) ma, in parte almeno, per un oscuro e confuso
amor patrio o attaccamento alla loro terra, alle loro istituzioni, alla loro
indipendenza (!?): donde il frequente appello al sentimento nazionale degli
italiani, che fanno i “reazionari”, già nel 1799», ma la quistione è mal posta
cosí e piena di equivoci. Intanto non si parla della «sobillazione» dei preti
molto piú efficace di quella dei nobili (che non erano cosí contrari alle nuove
idee come appare dalla Repubblica partenopea); e poi cosa significa la
parentesi ironica del Volpe secondo il quale pare non si possa parlare di amore
del quieto vivere quando si impugnano le armi? La contraddizione è solo
verbale: «quieto vivere» è inteso in senso politico di misoneismo e
conservatorismo e non esclude per nulla la difesa armata delle proprie
posizioni sociali. Inoltre la quistione dell’atteggiamento delle masse popolari
non può essere impostata indipendentemente da quella delle classi dirigenti,
perché le masse popolari possono insorgere per ragioni immediate e contingenti
contro «stranieri» invasori in quanto nessuno ha loro insegnato a conoscere e
seguire un indirizzo politico diverso da quello localistico e ristretto. Le
reazioni spontanee (in quanto lo sono) delle masse popolari possono solo
servire a indicare la «forza» di direzione delle classi alte; in Italia i
liberali-borghesi trascurarono sempre le masse popolari. Il Volpe avrebbe dovuto
a questo punto prendere posizione a proposito di quella letteratura sul
Risorgimento equivoca e unilaterale, di cui il Lumbroso ha dato lo specimen
piú caratteristico: chi è «patriota» o «nazionale» nel senso del Lumbroso,
l’ammiraglio Caracciolo impiccato dagli Inglesi o il contadino che insorge
contro i francesi? Domenico Cirillo o Fra Diavolo? E perché la politica
filoinglese e il denaro inglese devono essere piú nazionali delle idee
politiche francesi?
Interpretazioni del Risorgimento. Esiste una notevole
quantità di interpretazioni, le piú disparate, del Risorgimento. La stessa
quantità di esse è un segno caratteristico della letteratura storico-politica
italiana e della situazione degli studi sul Risorgimento. Perché un evento o un
processo di avvenimenti storici possa dar luogo a un tal genere di letteratura
occorre pensare: che esso sia poco chiaro e giustificato nel suo sviluppo per
la insufficienza delle forze «intime» che pare lo abbiano prodotto, per la
scarsità degli elementi oggettivi «nazionali» ai quali fare riferimento, per la
inconsistenza e gelatinosità dell’organismo studiato (e infatti spesso si è
sentito accennare al «miracolo» del Risorgimento). Né può giustificare una
simile letteratura la scarsezza dei documenti (difficoltà di ricerche negli
archivi, ecc.), poiché, in tal caso, l’intero corso dello svolgimento potrebbe
essere documento di se stesso: anzi è appunto evidente che la debolezza
organica di un complesso «vertebrato» in questo corso di svolgimento è la
origine di questo sfrenarsi del «soggettivismo» arbitrario, spesso bizzarro e
strampalato. In generale si può dire che il significato dell’insieme di queste
interpretazioni è di carattere politico immediato e ideologico e non storico.
Anche la loro portata nazionale è scarsa, sia per la troppa tendenziosità, sia
per l’assenza di ogni apporto costruttivo, sia per il carattere troppo
astratto, spesso bizzarro e romanzato. Si può notare che tale letteratura
fiorisce nei momenti piú caratteristici di crisi politico-sociale, quando il
distacco tra governanti e governati si fa piú grave e pare annunziare eventi
catastrofici per la vita nazionale; il panico si diffonde tra certi gruppi
intellettuali piú sensibili e si moltiplicano i conati per determinare una
riorganizzazione delle forze politiche esistenti, per suscitare nuove correnti
ideologiche nei logori e poco consistenti organismi di partito o per esalare
sospiri e gemiti di disperazione e di nero pessimismo. Una classificazione
razionale di questa letteratura sarebbe necessaria e piena di significato. Per
ora si può fissare provvisoriamente qualche punto di riferimento: 1) un gruppo
di interpretazioni in senso stretto, come può essere quella contenuta nella Lotta
politica in Italia e negli altri scritti di polemica politico-culturale di
Alfredo Oriani, che ne ha determinato tutta una serie attraverso gli scritti di
Mario Missiroli; come quelle di Piero Gobetti e di Guido Dorso; 2) un gruppo di
carattere piú sostanziale e serio, con pretese di serietà e rigore
storiografico, come quelle del Croce, del Solmi, del Salvatorelli; 3) le
interpretazioni di Curzio Malaparte (sull’Italia Barbara, sulla lotta
contro la Riforma
protestante ecc.), di Carlo Curcio (L’eredità del Risorgimento, Firenze,
La Nuova Italia,
1931, pp. 114, L.
12) ecc.
Occorre ricordare gli scritti di F. Montefredini
(confrontare il saggio del Croce in proposito nella Letteratura della nuova
Italia) fra le «bizzarrie» e quelli di Aldo Ferrari (in volumi e
volumetti e in articoli della «Nuova Rivista Storica») come bizzarrie e romanzo
nel tempo stesso; cosí il volumetto di Vincenzo Cardarelli, Parole
all’Italia (ed. Vallecchi, 1931).
Un altro gruppo importante è rappresentato da libri come
quello di Gaetano Mosca, Teorica dei governi e governo parlamentare,
pubblicato la prima volta nel 1883 e ristampato nel 1925 (Milano, Soc. An.
Istituto Editoriale Scientifico, in 8°, pp. 301, L. 25); come il libro
di Pasquale Turiello, Governo e governati; di Leone Carpi, L’Italia
vivente; di Luigi Zini, Dei criteri e dei modi di governo [nel regno
d’Italia]; di Giorgio Arcoleo, Il Gabinetto nei governi parlamentari;
di Marco Minghetti, I partiti politici e l’ingerenza loro nella giustizia e
nell’amministrazione; libri di stranieri, (come quello del Laveleye, Lettere
d’Italia; del von Loher, La nuova Italia e anche del Brachet, L’Italie
qu’on voit et l’Italie qu’on ne voit pas; oltre ad articoli della «Nuova
Antologia» e della «Rassegna Settimanale» (del Sonnino), di Pasquale Villari,
di R. Bonghi, di G. Palma ecc., fino all’articolo famoso del Sonnino nella
«Nuova Antologia», Torniamo allo Statuto!
Questa letteratura è una conseguenza della caduta della
Destra storica, dell’avvento al potere della cosí detta Sinistra e delle
innovazioni «di fatto» introdotte nel regime costituzionale per avviarlo a una
forma di regime parlamentare. In gran parte sono lamentele, recriminazioni,
giudizi pessimistici e catastrofici sulla situazione nazionale e a tale
fenomeno accenna il Croce nei primi capitoli della sua Storia d’Italia dal
1871 al 1915; a questa manifestazione si contrappone la letteratura degli
epigoni del Partito d’Azione (tipico il libro postumo dell’abate Luigi Anelli,
stampato recentemente, con note e commenti, da Arcangelo Ghisleri) sia in
volumi che in opuscoli e in articoli di rivista, compresi i piú recenti
pubblicisti del Partito repubblicano.
Si può notare questo nesso tra le varie epoche di fioritura
di tale letteratura pseudo-storica e pseudo-critica: 1) letteratura dovuta ad
elementi conservatori, furiosi per la caduta della Destra e della Consorteria
(cioè per la diminuita importanza nella vita statale di certi gruppi di grandi
proprietari terrieri e dell’aristocrazia, ché di una sostituzione di classe non
si può parlare), fegatosa, biliosa, acrimoniosa, senza elementi costruttivi,
senza riferimenti storici a una tradizione qualsiasi, perché nel passato non
esiste nessun punto di riferimento reazionario che possa essere proposto per
una restaurazione con un certo pudore e qualche dignità: nel passato ci sono i
vecchi regimi regionali e le influenze del Papa e dell’Austria. L’«accusa»
fatta al regime parlamentare di non essere «nazionale» ma copiato da esemplari
stranieri rimane una vuota recriminazione senza costrutto, che nasconde solo il
panico per un anche piccolo intervento delle masse popolari nella vita dello
Stato; il riferimento a una «tradizione» italiana di governo è necessariamente
vago e astratto perché una tale tradizione non ha prospettive storicamente
apprezzabili: in tutto il passato non è mai esistita una unità territoriale-statale
italiana, la prospettiva dell’egemonia papale (propria del Medio Evo fino al
periodo del dominio straniero) è già stata travolta col neoguelfismo ecc.
(Questa prospettiva, infine, sarà trovata nell’epoca romana, con oscillazioni,
secondo i partiti, tra la Roma
repubblicana e la Roma
cesarea, ma il fatto avrà un nuovo significato e sarà caratteristico di nuovi
indirizzi impressi alle ideologie popolari).
Questa letteratura reazionaria precede quella del gruppo
Oriani-Missiroli, che ha un significato piú popolare-nazionale, e quest’ultima
precede quella del gruppo Gobetti-Dorso, che ha ancora un altro significato piú
attuale. In ogni modo, anche queste due nuove tendenze mantengono un carattere
astratto e letterario. Uno dei punti piú interessanti trattati da esse è il
problema della mancanza di una Riforma religiosa in Italia come quella
protestante, problema che è posto in modo meccanico ed esteriore e ripete uno
dei motivi che guidano il Masaryk nei suoi studi di storia russa.
L’insieme di questa letteratura ha importanza «documentaria»
per i tempi in cui è apparsa. I libri dei «destri» dipingono la corruzione
politica e morale nel periodo della Sinistra al potere, ma le pubblicazioni
degli epigoni del Partito d’Azione non presentano come migliore il periodo di
governo della Destra. Risulta che non c’è stato nessun cambiamento essenziale
nel passaggio dalla Destra alla Sinistra: il marasma in cui si trova il paese
non è dovuto al regime parlamentare (che rende solo pubblico e notorio ciò che
prima rimaneva nascosto o dava luogo a pubblicazioni clandestine
libellistiche), ma alla debolezza e inconsistenza organica della classe
dirigente e alla grande miseria e arretratezza del paese. Politicamente la
situazione è assurda: a destra stanno i clericali, il partito del Sillabo, che
nega in tronco tutta la civiltà moderna e boicotta lo Stato legale, non solo
impedendo che si costituisca un vasto partito conservatore ma mantenendo il
paese sotto l’impressione della precarietà e insicurezza del nuovo Stato
unitario; nel centro stanno tutte le gamme liberali, dai moderati ai
repubblicani, sui quali operano tutti i ricordi degli odii del tempo delle
lotte e che si dilaniano implacabilmente; a sinistra il paese misero,
arretrato, analfabeta esprime in forma sporadica, discontinua, isterica, una
serie di tendenze sovversive-anarcoidi, senza consistenza e indirizzo politico
concreto, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire costruttivo. Non
esistono «partiti economici» ma gruppi di ideologi déclassés di tutte le
classi, galli che annunziano un sole che mai vuole spuntare.
I libri del gruppo Mosca-Turiello
cominciarono a essere rimessi in voga negli anni precedenti la guerra (si può
vedere nella «Voce» il richiamo continuo al Turiello) e il libro giovanile del
Mosca fu ristampato nel 1925 con qualche nota dell’autore per ricordare che si
tratta di idee del 1883 e che l’autore nel ’25 non è piú d’accordo con lo
scrittore ventiquattrenne del 1883. La ristampa del libro del Mosca è uno dei
tanti episodi dell’incoscienza e del dilettantismo politico dei liberali nel
primo e secondo dopoguerra. Del resto il libro è rozzo, incondito, scritto
affrettatamente da un giovane che vuole «distinguersi» nel suo tempo con un
atteggiamento estremista e con parole grosse e spesso triviali in senso
reazionario. I concetti politici del Mosca sono vaghi e ondeggianti, la sua
preparazione filosofica è nulla (e tale è rimasta in tutta la carriera
letteraria del Mosca), i suoi principii di tecnica politica sono anch’essi vaghi
e astratti e hanno carattere piuttosto giuridico. Il concetto di «classe
politica», la cui affermazione diventerà il centro di tutti gli scritti di
scienza politica del Mosca, è di una labilità estrema e non è ragionato né
giustificato teoricamente. Tuttavia, il libro del Mosca è utile come documento.
L’autore vuole essere spregiudicato per programma, non avere peli sulla lingua
e cosí finisce per mettere in vista molti aspetti della vita italiana del tempo
che altrimenti non avrebbero trovato documentazione. Sulla burocrazia civile e
militare, sulla polizia ecc., il Mosca offre dei quadri talvolta di maniera, ma
con una sostanza di verità (per esempio, sui sottufficiali dell’esercito, sui
delegati di pubblica sicurezza ecc.). Le sue osservazioni sono specialmente
valevoli per la Sicilia,
per l’esperienza diretta del Mosca di quell’ambiente. Nel 1925 il Mosca aveva
mutato punto di vista e prospettive, il suo materiale era sorpassato, tuttavia
egli ristampò il libro per vanità letteraria, pensando di immunizzarlo con
qualche noterella palinodica.
Sulla situazione politica italiana proprio nel 1883 e
sull’atteggiamento dei clericali si può trovare qualche spunto interessante nel
libro del maresciallo Lyautey, Lettres de jeunesse (Parigi, Grasset,
1931). Secondo il Lyautey molti italiani, tra i piú devoti al Vaticano, non
credevano nell’avvenire del regno; ne prevedevano la decomposizione, da cui
sarebbe nata un’Alta Italia con Firenze capitale, un’Italia Meridionale con
capitale Napoli, e Roma in mezzo, con sbocco al mare. Sull’esercito italiano
d’allora, che in Francia era poco apprezzato, il Lyautey riferisce il giudizio
del conte di Chambord: «Ne vous y trompez pas. Tout ce que j’en sais, me la (l’armée italiana) fait
juger très sérieuse, très digne d’attention. Sous leurs façons un peu
théâtrales et leurs plumets, les officiers y sont fort instruits,
fort appliqués. C’est d’ailleurs l’opinion de mon neveu de Parme, qui n’est pas
payé pour les aimer».
Tutto il lavorio di interpretazione del passato italiano e
la serie di costruzioni ideologiche e di romanzi storici che ne sono derivati è
prevalentemente legato alla «pretesa» di trovare una unità nazionale, almeno di
fatto, in tutto il periodo da Roma ad oggi (e spesso anche prima di Roma, come
nel caso dei «Pelasgi» del Gioberti e in altri piú recenti). Come è nata questa
pretesa, come si è mantenuta e perché persiste tuttora? È un segno di forza o
di debolezza? È il riflesso di formazioni sociali nuove, sicure di sé e che
cercano e si creano titoli di nobiltà nel passato, oppure è invece il riflesso
di una torbida «volontà di credere», un elemento di fanatismo (e di
fanatizzazione) ideologico, che deve appunto «risanare» le debolezze di
struttura e impedire un temuto tracollo? Quest’ultima pare la giusta interpretazione,
unita al fatto della eccessiva importanza (relativamente alle formazioni
economiche) degli intellettuali, cioè dei piccoli borghesi in confronto delle
classi economiche arretrate e politicamente incapaci. Realmente l’unità
nazionale è sentita come aleatoria, perché forze «selvagge», non conosciute con
precisione, elementarmente distruttive, si agitano continuamente alla sua base.
La dittatura di ferro degli intellettuali e di alcuni gruppi urbani con la
proprietà terriera mantiene la sua compattezza solo sovraeccitando i suoi
elementi militanti con questo mito di fatalità storica, piú forte di ogni
manchevolezza e di ogni inettitudine politica e militare. È su questo terreno
che all’adesione organica delle masse popolari-nazionali allo Stato si sostituisce
una selezione di «volontari» della «nazione» concepita astrattamente. Nessuno
ha pensato che appunto il problema posto dal Machiavelli col proclamare la
necessità di sostituire milizie nazionali ai mercenari avventizi e infidi, non
è risolto finché anche il «volontarismo» non sarà superato dal fatto
«popolare-nazionale» di massa, poiché il volontarismo è soluzione intermedia,
equivoca, altrettanto pericolosa che il mercenarismo.
Il modo di rappresentare gli avvenimenti storici nelle
interpretazioni ideologiche della formazione italiana si potrebbe chiamare
«storia feticistica»: per essa infatti diventano protagonisti della storia
«personaggi» astratti e mitologici. Nella Lotta politica dell’Oriani si
ha il piú popolare di questi schemi mitologici, quello che ha partorito una piú
lunga serie di figli degeneri. Vi troviamo la Federazione, l’Unità,
la Rivoluzione,
l’Italia ecc. Nell’Oriani è chiara una delle cause di questo modo di
concepire la storia per figure mitologiche. Il canone critico che tutto lo
sviluppo storico è documento di se stesso, che il presente illumina e
giustifica il passato, viene meccanicizzato ed esteriorizzato e ridotto a una
legge deterministica di rettilineità e di «unilinearità» (anche perché
l’orizzonte storico viene ristretto ai confini geografici nazionali e l’evento
avulso dal complesso della storia universale, dal sistema dei rapporti
internazionali cui invece è necessariamente saldato). Il problema di ricercare
le origini storiche di un evento concreto e circostanziato, la formazione dello
Stato moderno italiano nel secolo XIX, viene trasformato in quello di vedere
questo Stato, come Unità o come Nazione o genericamente come Italia, in tutta
la storia precedente cosí come il pollo deve esistere nell’uovo fecondato.
Per la trattazione di questo argomento sono da vedere le
osservazioni critiche di Antonio Labriola negli Scritti vari (pp.
487-90, pp. 317-442 passim, e nel primo dei suoi Saggi a pp.
50-52). Su questo punto è anche da vedere il Croce nella Storia della
Storiografia, II, pp. 227-28 della Iª edizione e in tutta questa opera lo
studio dell’origine «sentimentale e pratica» e la «critica impossibilità» di
una «storia generale d’Italia». Altre osservazioni connesse a queste sono
quelle di Antonio Labriola a proposito di una storia generale del
cristianesimo, che al Labriola sembrava inconsistente come tutte le costruzioni
storiche che assumono a soggetto «enti» inesistenti (cfr. III Saggio, p. 113).
Una reazione concreta nel senso indicato dal Labriola si può
studiare negli scritti storici (e anche politici) del Salvemini, il quale non
vuol sapere di «guelfi» e «ghibellini», uno partito della nobiltà e dell’Impero
e l’altro del popolo e del Papato, perché egli dice di conoscerli solo come
«partiti locali», combattenti per ragioni affatto locali, che non coincidevano
con quelle del Papato e dell’Impero. Nella prefazione al suo volume sulla Rivoluzione
francese si può vedere teorizzato questo atteggiamento del Salvemini con
tutte le esagerazioni antistoriche che porta con sé (il volume sulla Rivoluzione
francese è criticabile anche da altri punti di vista: che la Rivoluzione possa
dirsi compiuta con la
Battaglia di Valmy è affermazione non sostenibile):
«L’innumerevole varietà degli eventi rivoluzionari» si suole attribuire in
blocco a un ente «Rivoluzione», invece di «assegnare ciascun fatto
all’individuo o ai gruppi di individui reali, che ne furono autori». Ma se la
storia si riducesse solo a questa ricerca, sarebbe ben misera cosa e
diventerebbe, tra l’altro, incomprensibile. Sarà da vedere come il Salvemini
concretamente risolve le incongruenze che risultano dalla sua impostazione
troppo unilaterale del problema metodologico, tenendo conto di questa cautela
critica: se non si conoscesse da altre opere la storia qui raccontata, e
avessimo solo questo libro, ci sarebbe comprensibile la serie degli eventi
descritta? Cioè si tratta di una storia «integrale» o di una storia «polemica»
e polemicamente complementare, che si propone solo (od ottiene senza
proporselo, necessariamente) di aggiungere qualche pennellata a un quadro già
abbozzato da altri? Questa cautela dovrebbe sempre essere presente in ogni
critica, poiché infatti spesso si ha da fare con opere che da «sole» non
sarebbero soddisfacenti, ma che possono essere molto utili nel quadro generale
di una determinata cultura, come «integrative e complementari» di altri lavori
o ricerche.
Scrive Adolfo Omodeo nella «Critica» del 20 luglio 1932, p.
280: «Ai patrioti offriva la tesi che allora aveva rimessa in circolazione il
Salvemini: della storia del Risorgimento come piccola storia, non
sufficientemente irrorata di sangue; dell’unità, dono piú di una propizia
fortuna che meritato acquisto degli italiani; del Risorgimento, opera di
minoranze contro l’apatia della maggioranza. Questa tesi generata
dall’incapacità del materialismo storico di apprezzare in sé la grandezza
morale, senza la statistica empirica delle bigonce di sangue versato e il
computo degli interessi (aveva una speciosità facile ed era destinata a correre
fra tutte le riviste e i giornali e a far denigrare dagli ignoranti l’opera
dura del Mazzini e del Cavour), questa tesi serviva di base al Marconi per
un’argomentazione moralistica di stile vociano». (L’Omodeo scrive di
Piero Marconi, morto nella guerra, e della sua pubblicazione Io udii il
comandamento, Firenze, s. d.).
Ma l’Omodeo stesso, nel suo libro L’Età del Risorgimento non
è riuscito a dare una interpretazione e una ricostruzione che non sia
estrinseca e di parata. Che il Risorgimento sia stato l’apporto italiano al
grande movimento europeo del secolo XIX non significa senz’altro che l’egemonia
del movimento fosse in Italia, e non significa neanche che anche dalla
«maggioranza della minoranza» attiva il movimento stesso non sia stato seguito
con riluttanza e obtorto collo. La grandezza individuale del Cavour e del
Mazzini spicca ancor piú grande nella prospettiva storica come la palma nel
deserto. Le osservazioni critiche dell’Omodeo alla concezione del Risorgimento
come «piccola storia» sono malevole e triviali, né egli riesce a comprendere
come tale concezione sia stata l’unico tentativo un po’ serio di
«nazionalizzare» le masse popolari, cioè di creare un movimento democratico con
radici italiane e con esigenze italiane. (È strano che il Salvatorelli, accennando
in una nota della «Cultura» alla Storia d’Europa del Croce e all’Età
del Risorgimento dell’Omodeo, trovi questa l’espressione di un indirizzo
democratico e la storia crociana di un indirizzo piú strettamente liberale
conservatore).
Del resto si può osservare: se la storia del passato non si
può non scrivere con gli interessi e per gli interessi attuali, la formula
critica che bisogna fare la storia di ciò che il Risorgimento è stato
concretamente (se non significa un richiamo al rispetto e alla completezza
della documentazione) non è insufficiente e troppo ristretta? Spiegare come il
Risorgimento si è fatto concretamente, quali sono le fasi del processo storico
necessario che hanno culminato in quel determinato evento può essere solo un
nuovo modo di ripresentare la cosí detta «obiettività» esterna e meccanica. Si
tratta spesso di una rivendicazione «politica» di chi è soddisfatto e nel
processo al passato vede giustamente un processo al presente, una critica al
presente e un programma per l’avvenire. Il gruppo Croce-Omodeo e C. sta
santificando untuosamente (l’untuosità è specialmente dell’Omodeo) il periodo
liberale e lo stesso libro dell’Omodeo, Momenti della vita di guerra,
ha questo significato: mostrare come il periodo giolittiano, tanto «diffamato»,
covasse nel suo intimo un «insuperabile» tesoro di idealismo e di eroismo.
Del resto queste discussioni, in quanto sono puramente di
metodologia empirica, sono inconcludenti. E se scrivere storia significa fare
storia del presente, è grande libro di storia quello che nel presente aiuta le
forze in isviluppo a divenire piú consapevoli di se stesse e quindi piú
concretamente attive e fattive.
Il difetto massimo di tutte queste interpretazioni
ideologiche del Risorgimento italiano consiste in ciò che esse sono state
meramente ideologiche, cioè che non si rivolgevano a suscitare forze politiche
attuali. Lavori di letterati, di dilettanti, costruzioni acrobatiche di uomini
che volevano fare sfoggio di talento se non d’intelligenza; oppure rivolte a piccole
cricche intellettuali senza avvenire, oppure scritte per giustificare forze
reazionarie in agguato, imprestando loro intenzioni che non avevano e fini
immaginari, e, pertanto, piccoli servizi da lacchè intellettuali (il tipo piú
compiuto di questi lacchè è Mario Missiroli) e da mercenari della scienza.
Queste interpretazioni ideologiche della formazione
nazionale e statale italiana sono anche da studiare da un altro punto di vista:
il loro succedersi «acritico», per spinte individuali di persone piú o meno
«geniali», è un documento della primitività dei partiti politici,
dell’empirismo immediato di ogni azione costruttiva (compresa quella dello
Stato), dell’assenza nella vita italiana di ogni movimento «vertebrato» che
abbia in sé possibilità di sviluppo permanente e continuo. La mancanza di
prospettiva storica nei programmi di partito, prospettiva costruita
«scientificamente» cioè con serietà scrupolosa, per basare su tutto il passato
i fini da raggiungere nell’avvenire e da proporre al popolo come una necessità
cui collaborare consapevolmente, ha permesso appunto il fiorire di tanti
romanzi ideologici, che sono in realtà la premessa (il manifesto) di movimenti
politici che sono astrattamente supposti necessari, ma per suscitare i quali in
realtà non si fa niente di pratico. È questo un modo di procedere molto utile
per facilitare le «operazioni» di quelle che sono spesso chiamate le «forze
occulte» o «irresponsabili» che hanno per portavoce i «giornali indipendenti»:
esse hanno bisogno ogni tanto di creare movimenti occasionali di opinione
pubblica, da mantenere accesi fino al raggiungimento di determinati scopi e da
lasciar poi illanguidire e morire. Sono manifestazioni come «le compagnie di
ventura», vere e proprie compagnie di ventura ideologiche, pronte a servire i
gruppi plutocratici o d’altra natura, spesso appunto fingendo di lottare contro
la plutocrazia, ecc. Organizzatore tipico di tali «compagnie» è stato Pippo
Naldi, discepolo anch’egli di Oriani e regista di Mario Missiroli e delle sue
improvvisazioni giornalistiche.
Sarebbe utile compilare una bibliografia completa di Mario
Missiroli. Alcuni dei suoi libri sono: La Monarchia socialista (del 1913), Polemica
liberale, Opinioni, Il colpo di Stato (del 1925), Una
battaglia perduta, Italia d’oggi (del 1932), La repubblica degli
accattoni (su Molinella). Amore e fame, Date a Cesare... (1929).
Un libro sul Papa, del 1917, ecc.
I motivi principali posti in circolazione
dal Missiroli sono: 1) che il Risorgimento è stato una conquista regia e non un
movimento popolare; 2) che il Risorgimento non ha risolto il problema dei
rapporti tra Stato e Chiesa, motivo che è legato al primo, poiché «un popolo
che non aveva sentito la libertà religiosa non poteva sentire la libertà
politica. L’ideale dell’indipendenza e della libertà diventò patrimonio e
programma di una minoranza eroica, che concepí l’unità contro l’acquiescenza
delle moltitudini popolari». La mancanza della Riforma protestante in Italia
spiegherebbe in ultima analisi tutto il Risorgimento e la storia moderna
nazionale. Il Missiroli applica all’Italia il criterio ermeneutico applicato
dal Masaryk alla storia russa (sebbene il Missiroli abbia detto di accettare la
critica di Antonio Labriola contro il Masaryk storico). Come il Masaryk, il
Missiroli (nonostante le sue relazioni con G. Sorel) non comprende che la
«riforma» intellettuale e morale (cioè «religiosa») di portata popolare nel
mondo moderno c'è stata in due tempi: nel primo tempo con la diffusione dei
principii della Rivoluzione francese, nel secondo tempo con la diffusione di
una serie di concetti ricavati dalla filosofia della prassi e spesso
contaminati con la filosofia dell'illuminismo e poi dell'evoluzionismo
scientifista. Che una tale «riforma» sia stata diffusa in forme grossolane e sotto
forma di opuscoletti non è istanza valevole contro il suo significato storico:
non è da credere che le masse popolari influenzate dal calvinismo assorbissero
concetti relativamente piú elaborati e raffinati di quelli offerti da questa
letteratura di opuscoli: si presenta invece la quistione dei dirigenti di tale
riforma, della loro inconsistenza e assenza di carattere forte ed energico.
Né il Missiroli tenta di analizzare il perché la minoranza
che ha guidato il moto del Risorgimento non sia «andata al popolo», né
«ideologicamente», assumendo in proprio il programma democratico che pure
giungeva al popolo attraverso le traduzioni dal francese, né «economicamente»
con la riforma agraria. Ciò che «poteva» avvenire, poiché il contadiname era
quasi tutto il popolo d’allora e la riforma agraria era un’esigenza fortemente
sentita, mentre la Riforma
protestante coincise appunto con una guerra di contadini in Germania e con
conflitti tra nobili e borghesi in Francia ecc. (non bisogna dimenticare che
sulla riforma agraria speculò invece l’Austria per aizzare i contadini contro i
patrioti latifondisti e che i liberali conservatori, con le scuole di mutuo
insegnamento e con istituzioni di mutuo soccorso o di piccolo credito su pegni
popolari, cercarono solo di acquistarsi la simpatia degli artigiani e degli
scarsi nuclei operai di città: l’Associazione generale degli operai di Torino
ebbe tra i fondatori il Cavour). «L’unità non aveva potuto attuarsi col Papato,
di sua natura universale ed organicamente ostile a tutte le libertà moderne; ma
non era neppure riuscita a trionfare del Papato, contrapponendo all’idea
cattolica un’idea altrettanto universale che rispondesse ugualmente alla
coscienza individuale e alla coscienza del mondo rinnovato dalla Riforma e
dalla Rivoluzione». Affermazioni astratte e in gran parte prive di senso. Quale
idea universale contrappose al cattolicismo la Rivoluzione francese?
Perché dunque in Francia il moto fu popolare e in Italia no? La famosa
minoranza italiana, «eroica» per definizione (in questi scrittori l’espressione
«eroico» ha un significato puramente «estetico» o retorico e si applica a don
Tazzoli come ai nobili milanesi che strisciarono dinanzi all’imperatore
d’Austria, tanto che fu anche scritto un libro sul Risorgimento come di rivoluzione
«senza eroi», con senso altrettanto letterario e cartaceo), che condusse il
moto unitario, in realtà si interessava di interessi economici piú che di
formule ideali e combatté piú per impedire che il popolo intervenisse nella
lotta e la facesse diventare sociale (nel senso di una riforma agraria) che non
contro i nemici dell’unità. Il Missiroli scrive che il nuovo fattore apparso
nella storia italiana dopo l’unità, il socialismo, è stato la forma piú potente
assunta dalla reazione antiunitaria e antiliberale (ciò che è una sciocchezza,
e non coincide con altri giudizi dello stesso Missiroli, secondo i quali il
socialismo avrebbe immesso nello Stato le forze popolari prima assenti e
indifferenti). Come il Missiroli stesso scrive: «Il socialismo non solo non
ringagliardí la passione politica (!?), ma aiutò potentemente ad estinguerla;
fu il partito dei poveri e delle plebi affamate: le questioni economiche
dovevano prendere rapidamente il sopravvento, i principî politici cedere il
campo (!?) agli interessi materiali»; veniva creata una «remora, lanciando le
masse alle conquiste economiche ed evitando tutte le questioni istituzionali».
Il socialismo, cioè, fece l’errore (alla rovescia) della famosa minoranza:
questa parlava solo di idee astratte e di istituzioni politiche, quello
trascurò la politica per la mera economia. È vero che altrove il Missiroli,
proprio per ciò loda i capi riformisti, ecc.; questi motivi sono di origine
orianesca e repubblicana, assunti superficialmente e senza senso di responsabilità.
Il Missiroli è, in realtà, solo quello che si chiama uno
scrittore brillante; si ha l’impressione fondata che egli si infischi delle sue
idee, dell’Italia e di tutto: lo interessa solo il gioco momentaneo di alcuni
concetti astratti e lo interessa di cadere sempre in piedi con una nuova
coccarda in petto. (Missiroli il misirizzi).
Il moto politico che condusse all’unificazione nazionale e
alla formazione dello Stato italiano deve necessariamente sboccare nel nazionalismo
e nell’imperialismo militaristico? Si può sostenere che questo sbocco è
anacronistico e antistorico (cioè artificioso e di non lungo respiro), esso è
realmente contro tutte le tradizioni italiane, romane prima, cattoliche poi. Le
tradizioni sono cosmopolitiche. Che il moto politico dovesse reagire contro le
tradizioni e dar luogo a un nazionalismo da intellettuali può essere spiegato,
ma non si tratta di una reazione organico-popolare. D’altronde, anche nel
Risorgimento, Mazzini-Gioberti cercano di innestare il moto nazionale nella
tradizione cosmopolitica, di creare il mito di una missione dell’Italia rinata
in una nuova Cosmopoli europea e mondiale, ma si tratta di un mito verbale e
retorico, fondato sul passato e non sulle condizioni del presente, già formate
o in processo di sviluppo (tali miti sono sempre stati un fermento di tutta la
storia italiana, anche la piú recente, da Q. Sella a Enrico Corradini, a
D’Annunzio). Poiché un evento si è prodotto nel passato non significa che debba
riprodursi nel presente e nell’avvenire; le condizioni di una espansione
militare nel presente e nell’avvenire non esistono e non pare siano in processo
di formazione. L’espansione moderna è di ordine finanziario-capitalistico. Nel
presente italiano l’elemento «uomo» o è l’«uomo-capitale» o è l’«uomo-lavoro».
L’espansione italiana può essere solo dell’uomo-lavoro e l’intellettuale che
rappresenta l’uomo-lavoro non è quello tradizionale, gonfio di retorica e di
ricordi cartacei del passato. Il cosmopolitismo tradizionale italiano dovrebbe
diventare un cosmopolitismo di tipo moderno, cioè tale da assicurare le
condizioni migliori di sviluppo all’uomo-lavoro italiano, in qualsiasi parte
del mondo egli si trovi. Non il cittadino del mondo in quanto civis romanus
o in quanto cattolico, ma in quanto produttore di civiltà. Perciò si può
sostenere che la tradizione italiana si continua dialetticamente nel popolo
lavoratore e nei suoi intellettuali, non nel cittadino tradizionale e
nell’intellettuale tradizionale. Il popolo italiano è quel popolo che
«nazionalmente» è piú interessato a una moderna forma di cosmopolitismo. Non
solo l’operaio, ma il contadino e specialmente il contadino meridionale.
Collaborare a ricostruire il mondo economicamente in modo unitario è nella tradizione
del popolo italiano e della storia italiana, non per dominarlo egemonicamente e
appropriarsi il frutto del lavoro altrui, ma per esistere e svilupparsi appunto
come popolo italiano: si può dimostrare che Cesare è all’origine di questa
tradizione. Il nazionalismo di marca francese è una escrescenza anacronistica
nella storia italiana, proprio di gente che ha la testa volta all’indietro come
i dannati danteschi. La «missione» del popolo italiano è nella ripresa del
cosmopolitismo romano e medioevale, ma nella sua forma piú moderna e avanzata.
Sia pure nazione proletaria, come voleva il Pascoli; proletaria come nazione
perché è stata l’esercito di riserva dei capitalismi stranieri, perché ha dato
maestranze a tutto il mondo insieme ai popoli slavi. Appunto perciò deve
inserirsi nel fronte moderno di lotta per riorganizzare il mondo anche non
italiano, che ha contribuito a creare col suo lavoro, ecc.
Criteri introduttivi. La storia come «biografia»
nazionale. Questo modo di scrivere la storia comincia col nascere del
sentimento nazionale ed è uno strumento politico per coordinare e rinsaldare
nelle grandi masse gli elementi che appunto costituiscono il sentimento
nazionale. 1) Si presuppone che ciò che si desidera, sia sempre esistito e non
possa affermarsi e manifestarsi apertamente per l’intervento di forze esterne o
perché le virtú intime erano «addormentate»; 2) ha dato luogo alla storia
popolare oleografica: l’Italia è veramente pensata come qualcosa di astratto e
concreto (troppo concreto) nello stesso tempo, come la bella matrona delle
oleografie popolari, che influiscono piú che non si creda nella psicologia di
certi strati del popolo, positivamente e negativamente (ma sempre in modo
irrazionale), come la madre di cui gli italiani sono i «figli». Con un
passaggio che sembra brusco e irrazionale, ma ha indubbiamente efficacia, la
biografia della «madre» si trasforma nella biografia collettiva dei «figli
buoni», contrapposti ai figli degeneri, deviati ecc. Si capisce che un tal modo
di scrivere e declamare la storia è nato per ragioni pratiche, di propaganda:
ma perché si continua ancora in tale tradizione? Oggi questa presentazione
della storia d’Italia è doppiamente antistorica: 1) perché è in contraddizione
con la realtà; 2) perché impedisce di valutare adeguatamente lo sforzo compiuto
dagli uomini del Risorgimento, sminuendone la figura e l’originalità, sforzo
che non fu solo verso i nemici esterni, ma specialmente contro le forze interne
conservatrici che si opponevano all’unificazione.
Per comprendere le ragioni «pedagogiche» di questa forma di
storia, anche in questo caso può servire il paragone con la situazione francese
nello stesso tempo in cui si attuò il Risorgimento. Napoleone si chiamò
imperatore dei Francesi e non della Francia, e cosí Luigi Filippo, re dei
Francesi. La denominazione ha un carattere nazionale-popolare profondo, e
significa un taglio netto con l’epoca dello stato patrimoniale, una maggiore
importanza data agli uomini invece che al territorio. «Marianna» perciò in
Francia può essere canzonata anche dai piú accesi patrioti, mentre in Italia
mettere in caricatura la figura stilizzata dell’Italia significherebbe
senz’altro essere antipatrioti come lo furono i sanfedisti e i gesuiti prima e
dopo il 1870.
Una derivazione delle diverse «dottrine» sul Risorgimento
italiano è quel certo particolare settarismo che caratterizza la mentalità
italiana e che si manifesta in una certa mania di persecuzione, nel credersi
sempre mal giudicati e malcontenti, nel credersi le vittime di congiure internazionali,
nel credere di avere particolari diritti storici misconosciuti e calpestati,
ecc. Questa mentalità è diffusa sia nelle correnti democratiche di origine
mazziniana, sia in quelle conservatrici di origine neoguelfa e giobertiana, ed
è legata all’idea di una «missione» nazionale, nebulosamente intesa e
misticamente intuita; in ogni caso si cristallizza in gallofobia, poiché appare
che sia stata la Francia
a carpire all’Italia la primogenitura civile dell’eredità di Roma. Nel periodo
del Risorgimento, la lotta contro l’Austria attutí questo sentimento, ma oggi,
dopo la scomparsa dell’Impero austriaco, esso ha ripreso e si è ancora acuito
per le quistioni balcaniche, che sono viste come un riflesso del malanimo
francese.
Nella formazione dello Stato unitario italiano c’è stata
«eredità» di tutte le funzioni politico-culturali svolte dai singoli staterelli
precedenti o c’è stata, da questo punto di vista, una perdita secca? Cioè la
posizione internazionale che venne ad occupare il nuovo Stato riassumeva le
singole posizioni particolari degli Stati regionali precedenti, oppure accanto
a ciò che fu guadagnato ci fu anche qualcosa di perduto? E le perdite ebbero
una conseguenza negli anni di vita unitaria dal ’61 al 1914? La quistione non
pare sia oziosa. È evidente, per esempio, che altro era il rapporto verso la Francia del Piemonte con la Savoia e altro quello
dell’Italia senza la Savoia
e Nizza; ciò si dica anche per la
Svizzera e per la posizione di Ginevra. Cosí per il regno di
Napoli: l’influenza del Napoletano nel Mediterraneo orientale, i rapporti con la Russia e con l’Inghilterra,
non potevano essere quelli dell’Italia. Ciò che poteva permettersi a uno Stato
come quello borbonico, di scarsa potenzialità militare e relativamente piccolo,
non poteva permettersi al nuovo Stato italiano. Però pare si esageri in questi
ultimi anni molto sull’influenza napoletana in Oriente, per ragioni diverse
(per trovare precedenti storici all’attuale politica, ma anche per riabilitare
i Borboni di Napoli). Per lo Stato della Chiesa la quistione è piú complessa.
Ma anche Venezia italiana ereditò la funzione che aveva Venezia austriaca o
questa funzione passò completamente a Trieste? In quale misura l’atteggiamento
dei governi inglesi verso il problema dell’unificazione italiana fu
determinato, oltre che dalla funzione dell’Austria in Europa (equilibrio verso la Francia e verso la Russia) anche dai rapporti
tra Napoli e la Russia
nel Mediterraneo? E in che misura l’opposizione della Russia alla politica
coloniale italiana (verso l’Abissinia) fu determinata dalla formazione del
nuovo Stato italiano e dalla sua dipendenza dall’Inghilterra?
Il problema della direzione politica nella formazione e
nello sviluppo della nazione e dello Stato moderno in Italia. Tutto il
problema della connessione tra le varie correnti politiche del Risorgimento,
cioè dei loro rapporti reciproci e dei loro rapporti con i gruppi sociali
omogenei o subordinati esistenti nelle varie sezioni (o settori) storiche del
territorio nazionale, si riduce a questo dato di fatto fondamentale: i moderati
rappresentavano un gruppo sociale relativamente omogeneo, per cui la loro
direzione subí oscillazioni relativamente limitate (e in ogni caso secondo una
linea di sviluppo organicamente progressivo), mentre il cosí detto Partito
d’Azione non si appoggiava specificamente a nessuna classe storica e le
oscillazioni subite dai suoi organi dirigenti in ultima analisi si componevano
secondo gli interessi dei moderati; cioè storicamente il Partito d’Azione fu
guidato dai moderati: l’affermazione attribuita a Vittorio Emanuele II di
«avere in tasca» il Partito d’Azione o qualcosa di simile è praticamente esatta
e non solo per i contatti personali del Re con Garibaldi, ma perché di fatto il
Partito d’Azione fu diretto «indirettamente» da Cavour e dal Re. Il criterio
metodologico su cui occorre fondare il proprio esame è questo: che la
supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come «dominio» e come
«direzione intellettuale e morale». Un gruppo sociale è dominante dei gruppi
avversari che tende a «liquidare» o a sottomettere anche con la forza armata ed
è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve
essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una
delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando
esercita il potere e anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante
ma deve continuare ad essere anche «dirigente». I moderati continuarono a
dirigere il Partito d’Azione anche dopo il 1870 e il 1876 e il cosí detto
«trasformismo» non è stato che l’espressione parlamentare di questa azione
egemonica intellettuale, morale e politica. Si può anzi dire che tutta la vita
statale italiana dal 1848 in
poi è caratterizzata dal trasformismo, cioè dall’elaborazione di una sempre piú
larga classe dirigente nei quadri fissati dai moderati dopo il 1848 e la caduta
delle utopie neoguelfe e federalistiche, con l’assorbimento graduale ma
continuo e ottenuto con metodi diversi nella loro efficacia, degli elementi
attivi sorti dai gruppi alleati e anche da quelli avversari e che parevano
irreconciliabilmente nemici. In questo senso la direzione politica è diventata
un aspetto della funzione di dominio, in quanto l’assorbimento delle élites
dei gruppi nemici porta alla decapitazione di questi e al loro annichilimento
per un periodo spesso molto lungo. Dalla politica dei moderati appare chiaro
che ci può e ci deve essere una attività egemonica anche prima dell’andata al
potere e che non bisogna contare solo sulla forza materiale che il potere dà
per esercitare una direzione efficace: appunto la brillante soluzione di questi
problemi ha reso possibile il Risorgimento nelle forme e nei limiti in cui esso
si è effettuato, senza «Terrore», come «rivoluzione senza rivoluzione» ossia
come «rivoluzione passiva» per impiegare un’espressione del Cuoco in un senso
un po’ diverso da quello che il Cuoco vuole dire.
In quali forme e con quali mezzi i moderati riuscirono a
stabilire l’apparato (il meccanismo) della loro egemonia intellettuale, morale
e politica? In forme e con mezzi che si possono chiamare «liberali», cioè
attraverso l’iniziativa individuale, «molecolare», «privata» (cioè non per un
programma di partito elaborato e costituito secondo un piano precedentemente
all’azione pratica e organizzativa). D’altronde, ciò era «normale», date la
struttura e la funzione dei gruppi sociali rappresentati dai moderati, dei
quali i moderati erano il ceto dirigente, gli intellettuali in senso organico.
Per il Partito d’Azione il problema si poneva in modo
diverso e diversi sistemi organizzativi avrebbero dovuto essere impiegati. I
moderati erano intellettuali «condensati» già naturalmente dall’organicità dei
loro rapporti con i gruppi sociali di cui erano l’espressione (per tutta una
serie di essi si realizzava l’identità di rappresentato e rappresentante, cioè
i moderati erano un’avanguardia reale, organica delle classi alte, perché essi
stessi appartenevano economicamente alle classi alte: erano intellettuali e organizzatori
politici e insieme capi d’azienda, grandi agricoltori o amministratori di
tenute, imprenditori commerciali e industriali; ecc.). Data questa
condensazione o concentrazione organica, i moderati esercitavano una potente
attrazione, in modo «spontaneo», su tutta la massa d’intellettuali d’ogni grado
esistenti nella penisola allo stato «diffuso», «molecolare», per le necessità,
sia pure elementarmente soddisfatte, della istruzione e dell’amministrazione.
Si rileva qui la consistenza metodologica di un criterio di ricerca
storico-politica: non esiste una classe indipendente di intellettuali, ma ogni
gruppo sociale ha un proprio ceto di intellettuali o tende a formarselo; però
gli intellettuali della classe storicamente (e realisticamente) progressiva, nelle
condizioni date, esercitano un tale potere d’attrazione che finiscono, in
ultima analisi, col subordinarsi gli intellettuali degli altri gruppi sociali e
quindi col creare un sistema di solidarietà fra tutti gli intellettuali con
legami di ordine psicologico (vanità ecc.) e spesso di casta
(tecnico-giuridici, corporativi, ecc.).
Questo fatto si verifica «spontaneamente» nei periodi
storici in cui il gruppo sociale dato è realmente progressivo, cioè fa avanzare
realmente l’intera società, soddisfacendo non solo alle sue esigenze
esistenziali, ma ampliando continuamente i propri quadri per la continua presa
di possesso di nuove sfere d’attività economico-produttiva. Appena il gruppo
sociale dominante ha esaurito la sua funzione, il blocco ideologico tende a
sgretolarsi e allora alla «spontaneità» può sostituirsi la «costrizione» in
forme sempre meno larvate e indirette, fino alle misure vere e proprie di
polizia e ai colpi di Stato.
Il Partito d’Azione non solo non poteva avere, data la sua
natura, un simile potere di attrazione, ma era esso stesso attratto e
influenzato, sia per l’atmosfera di intimidazione (panico di un ’93
terroristico rinforzato dagli avvenimenti francesi del ’48-49) che lo rendeva
esitante ad accogliere nel suo programma determinate rivendicazioni popolari
(per esempio la riforma agraria), sia perché alcune delle sue maggiori
personalità (Garibaldi) erano, sia pure saltuariamente (oscillazioni), in
rapporto personale di subordinazione coi capi dei moderati. Perché il Partito
d’Azione fosse diventato una forza autonoma e, in ultima analisi, fosse
riuscito per lo meno a imprimere al moto del Risorgimento un carattere piú
marcatamente popolare e democratico (piú in là non poteva forse giungere date
le premesse fondamentali del moto stesso), avrebbe dovuto contrapporre
all’attività «empirica» dei moderati (che era empirica solo per modo di dire
poiché corrispondeva perfettamente al fine) un programma organico di governo
che riflettesse le rivendicazioni essenziali delle masse popolari, in primo
luogo dei contadini: all’«attrazione spontanea» esercitata dai moderati avrebbe
dovuto contrapporre una resistenza e una controffensiva «organizzata» secondo
un piano.
Come esempio tipico di attrazione spontanea dei moderati è
da ricordare il formarsi e lo sviluppo del movimento «cattolico-liberale», che
tanto impressionò il papato e in parte riuscí a paralizzarne le mosse,
demoralizzandolo, in un primo tempo spingendolo troppo a sinistra – con le
manifestazioni liberaleggianti di Pio IX – e in un secondo tempo cacciandolo in
una posizione piú destra di quella che avrebbe potuto occupare e in definitiva
determinandone l’isolamento nella penisola e in Europa. Il papato ha dimostrato
successivamente di aver appreso la lezione e ha saputo nei tempi piú recenti
manovrare brillantemente: il modernismo prima e il popolarismo poi sono
movimenti simili a quello cattolico-liberale del Risorgimento, dovuti in gran
parte al potere di attrazione spontanea esercitata dallo storicismo moderno
degli intellettuali laici delle classi alte da una parte e dall’altra dal
movimento pratico della filosofia della prassi. Il Papato ha colpito il
modernismo come tendenza riformatrice della Chiesa e della religione cattolica,
ma ha sviluppato il popolarismo, cioè la base economico-sociale del modernismo
e oggi con Pio XI fa di esso il fulcro della sua politica mondiale.
Invece il Partito d’Azione mancò addirittura di un programma
concreto di governo. Esso, in sostanza, fu sempre, piú che altro, un organismo
di agitazione e propaganda al servizio dei moderati. I dissidi e i conflitti
interni del Partito d’Azione, gli odî tremendi che Mazzini suscitò contro la
sua persona e la sua attività da parte dei piú gagliardi uomini d’azione
(Garibaldi, Felice Orsini, ecc.) furono determinati dalla mancanza di una ferma
direzione politica. Le polemiche interne furono in gran parte tanto astratte
quanto lo era la predicazione del Mazzini, ma da esse si possono trarre utili
indicazioni storiche (e valgano per tutti gli scritti del Pisacane, che d’altronde
commise errori politici e militari irreparabili, come l’opposizione alla
dittatura militare di Garibaldi nella Repubblica Romana). Il Partito d’Azione
era imbevuto della tradizione retorica della letteratura italiana: confondeva
l’unità culturale esistente nella penisola – limitata però a uno strato molto
sottile della popolazione e inquinata dal cosmopolitismo vaticano – con l’unità
politica e territoriale delle grandi masse popolari che erano estranee a quella
tradizione culturale e se ne infischiavano dato che ne conoscessero l’esistenza
stessa. Si può fare un confronto tra i giacobini e il Partito d’Azione. I
giacobini lottarono strenuamente per assicurare un legame tra città e campagna
e ci riuscirono vittoriosamente. La loro sconfitta come partito determinato fu
dovuta al fatto che a un certo punto si urtarono contro le esigenze degli
operai parigini, ma essi in realtà furono continuati in altra forma da
Napoleone e oggi, molto miseramente, dai radico-socialisti di Herriot e
Daladier.
Nella letteratura politica francese la necessità di
collegare la città (Parigi) con la campagna era sempre stata vivamente sentita
ed espressa; basta ricordare la collana di romanzi di Eugenio Sue, diffusissimi
anche in Italia (il Fogazzaro nel Piccolo mondo antico, mostra
come Franco Maironi ricevesse clandestinamente dalla Svizzera le dispense dei Misteri
del Popolo, che furono bruciati per mano del carnefice in alcune città
europee, per esempio a Vienna) e che insistono con particolare costanza sulla
necessità di occuparsi dei contadini e di legarli a Parigi; e il Sue fu il
romanziere popolare della tradizione politica giacobina e un «incunabolo» di
Herriot e Daladier per tanti punti di vista (leggenda napoleonica,
anticlericalismo e antigesuitismo, riformismo piccolo-borghese, teorie
penitenziarie, ecc.). È vero che il Partito d’Azione fu sempre implicitamente
antifrancese per l’ideologia mazziniana (confrontare nella «Critica», anno
1929, pp. 223 sgg., il saggio dell’Omodeo su Primato francese e iniziativa
italiana), ma aveva nella storia della penisola la tradizione a cui
risalire e ricollegarsi. La storia dei Comuni è ricca di esperienze in
proposito: la borghesia nascente cerca alleati nei contadini contro l’Impero e
contro il feudalismo locale (è vero che la quistione è resa complessa dalla
lotta tra borghesi e nobili per contendersi la mano d’opera a buon mercato: i
borghesi hanno bisogno di mano d’opera abbondante ed essa può solo essere data
dalle masse rurali, ma i nobili vogliono legati al suolo i contadini: fuga di
contadini in città, dove i nobili non possono catturarli. In ogni modo, anche
in situazione diversa, appare, nello sviluppo della civiltà comunale, la
funzione della città come elemento direttivo, della città che approfondisce i
conflitti interni nella campagna e se ne serve come strumento politico-militare
per abbattere il feudalismo). Ma il piú classico maestro di arte politica per i
gruppi dirigenti italiani, il Machiavelli, aveva anch’egli posto il problema,
naturalmente nei termini e con le preoccupazioni del tempo suo; nelle scritture
politico-militari del Machiavelli è vista abbastanza bene la necessità di
subordinare organicamente le masse popolari ai ceti dirigenti per creare una
milizia nazionale capace di eliminare le compagnie di ventura. A questa
corrente del Machiavelli deve forse essere legato Carlo Pisacane, per il quale
il problema di soddisfare le rivendicazioni popolari (dopo averle suscitate con
la propaganda) è visto prevalentemente dal punto di vista militare. A proposito
del Pisacane occorre analizzare alcune antinomie della sua concezione: il
Pisacane, nobile napoletano, era riuscito a impadronirsi di una serie di
concetti politico-militari posti in circolazione dalle esperienze guerresche
della rivoluzione francese e di Napoleone, trapiantati a Napoli sotto i regni
di Giuseppe Buonaparte e di Gioacchino Murat, ma specialmente per l’esperienza
viva degli ufficiali napoletani che avevano militato con Napoleone (nella
commemorazione di Cadorna fatta da M. Missiroli nella «Nuova Antologia» [1°
marzo 1929] si insiste sull’importanza che tale esperienza e tradizione
militare napoletana, attraverso il Pianell, per esempio, ebbe nella
riorganizzazione dell’esercito italiano dopo il 1870); Pisacane comprese che
senza una politica democratica non si possono avere eserciti nazionali a
coscrizione obbligatoria, ma è inspiegabile la sua avversione contro la
strategia di Garibaldi e la sua diffidenza contro Garibaldi; egli ha verso
Garibaldi lo stesso atteggiamento sprezzante che avevano verso Napoleone gli
Stati Maggiori dell’antico regime.
L’individualità che piú occorre studiare per questi problemi
del Risorgimento è Giuseppe Ferrari, ma non tanto nelle sue opere cosí dette
maggiori, veri zibaldoni farraginosi e confusi, quanto negli opuscoli
d’occasione e nelle lettere. Il Ferrari però era in gran parte fuori della
concreta realtà italiana: si era troppo infranciosato. Spesso i suoi giudizi
paiono piú acuti di ciò che realmente sono, perché egli applicava all’Italia
schemi francesi, i quali rappresentavano situazioni ben piú avanzate di quelle
italiane. Si può dire che il Ferrari si trovava, nei confronti con l’Italia,
nella posizione di un «postero», e che il suo fosse in un certo senso un «senno
del poi». Il politico invece deve essere un realizzatore effettuale ed attuale;
il Ferrari non vedeva che tra la situazione italiana e quella francese mancava
un anello intermedio e che proprio questo anello importava saldare per passare
a quello successivo. Il Ferrari non seppe «tradurre» il francese in italiano e
perciò la sua stessa «acutezza» diventava un elemento di confusione, suscitava
nuove sètte e scolette ma non incideva nel movimento reale.
Se si approfondisce la quistione, appare
che, per molti riguardi, la differenza tra molti uomini del Partito d’Azione e
i moderati era piú di «temperamento» che di carattere organicamente politico.
Il termine di «giacobino» ha finito per assumere due significati: uno è quello
proprio, storicamente caratterizzato, di un determinato partito della Rivoluzione
francese, che concepiva lo svolgimento della vita francese in un modo
determinato, con un programma determinato, sulla base di forze sociali
determinate e che esplicò la sua azione di partito e di governo con un metodo
determinato che era caratterizzato da una estrema energia, decisione e
risolutezza, dipendente dalla credenza fanatica della bontà e di quel programma
e di quel metodo. Nel linguaggio politico i due aspetti del giacobinismo furono
scissi e si chiamò «giacobino» l’uomo politico energico, risoluto e fanatico,
perché fanaticamente persuaso delle virtú taumaturgiche delle sue idee,
qualunque esse fossero: in questa definizione prevalsero gli elementi
distruttivi derivati dall’odio contro gli avversari e i nemici, piú che quelli
costruttivi, derivati dall’aver fatto proprie le rivendicazioni delle masse
popolari, l’elemento settario, di conventicola, di piccolo gruppo, di sfrenato
individualismo, piú che l’elemento politico nazionale. Cosí, quando si legge
che Crispi fu un giacobino, è in questo significato deteriore che occorre
intendere l’affermazione. Per il suo programma Crispi fu un moderato puro e
semplice. La sua «ossessione» giacobina piú nobile fu l’unità
politico-territoriale del paese. Questo principio fu sempre la sua bussola
d’orientamento, non solo nel periodo del Risorgimento, in senso stretto, ma
anche nel periodo successivo, della sua partecipazione al governo. Uomo
fortemente passionale, egli odia i moderati come persone: vede nei moderati gli
uomini dell’ultima ora, gli eroi della sesta giornata, gente che avrebbe fatto
la pace coi vecchi regimi se essi fossero divenuti costituzionali, gente, come
i moderati toscani, che si erano aggrappati alla giacca del granduca per non
farlo scappare; egli si fidava poco di una unità fatta da non-unitari. Perciò
si lega alla monarchia, che egli capisce sarà risolutamente unitaria per
ragioni dinastiche, e abbraccia il principio dell’egemonia piemontese con una
energia e una foga che non avevano gli stessi politici piemontesi. Cavour aveva
avvertito di non trattare il Mezzogiorno con gli stati d’assedio: Crispi invece
subito stabilisce lo stato d’assedio e i tribunali marziali in Sicilia per il
movimento dei Fasci e accusa i dirigenti dei Fasci di tramare con l’Inghilterra
per il distacco della Sicilia (pseudo-trattato di Bisacquino). Si lega
strettamente ai latifondisti siciliani, perché è il ceto piú unitario per paura
delle rivendicazioni contadine, nello stesso tempo in cui la sua politica
generale tende a rafforzare l’industrialismo settentrionale con la guerra di
tariffe contro la Francia
e con protezionismo doganale: egli non esita a gettare il Mezzogiorno e le
isole in una crisi commerciale paurosa, pur di rafforzare l’industria che
poteva dare al paese una indipendenza reale e avrebbe allargato i quadri del
gruppo sociale dominante; è la politica di fabbricare il fabbricante. Il
governo della destra dal ’61 al ’76 aveva solo e timidamente creato le
condizioni generali esterne per lo sviluppo economico: sistemazione
dell’apparato governativo, strade, ferrovie, telegrafi e aveva sanato le
finanze oberate dai debiti per le guerre del Risorgimento. La Sinistra aveva cercato di
rimediare all’odio suscitato nel popolo dal fiscalismo unilaterale della
Destra, ma non era riuscita che ad essere una valvola di sicurezza: aveva
continuato la politica della Destra con uomini e frasi di sinistra. Crispi
invece dette un reale colpo in avanti alla nuova società italiana, fu il vero
uomo della nuova borghesia. La sua figura è caratterizzata tuttavia dalla sproporzione
tra i fatti e le parole, tra le repressioni e l’oggetto da reprimere, tra lo
strumento e il colpo vibrato; maneggiava una colubrina arrugginita come fosse
stato un moderno pezzo d’artiglieria. Anche la politica coloniale di Crispi è
legata alla sua ossessione unitaria e in ciò seppe comprendere l’innocenza
politica del Mezzogiorno; il contadino meridionale voleva la terra e Crispi che
non gliela voleva (e poteva) dare in Italia stessa, che non voleva fare del
«giacobinismo economico», prospettò il miraggio delle terre coloniali da
sfruttare. L’imperialismo di Crispi fu un imperialismo passionale, oratorio,
senza alcuna base economico-finanziaria. L’Europa capitalistica, ricca di mezzi
e giunta al punto in cui il saggio del profitto cominciava a mostrare la
tendenza alla caduta, aveva la necessità di ampliare l’area di espansione dei
suoi investimenti redditizi: cosí furono creati dopo il 1890 i grandi imperi
coloniali. Ma l’Italia ancora immatura, non solo non aveva capitali da
esportare, ma doveva ricorrere al capitale estero per i suoi stessi
strettissimi bisogni. Mancava dunque una spinta reale all’imperialismo italiano
e ad essa fu sostituita la passionalità popolare dei rurali ciecamente tesi
verso la proprietà della terra: si trattò di una necessità di politica interna
da risolvere, deviandone la soluzione all’infinito. Perciò la politica di
Crispi fu avversata dagli stessi capitalisti (settentrionali) che piú
volentieri avrebbero visto impiegate in Italia le somme ingenti spese in
Africa; ma nel Mezzogiorno Crispi fu popolare per aver creato il «mito» della
terra facile.
Crispi ha dato una forte impronta a un vasto gruppo di
intellettuali siciliani (specialmente, poiché ha influenzato tutti gli
intellettuali italiani, creando le prime cellule di un socialismo nazionale che
doveva svilupparsi piú tardi impetuosamente); ha creato quel fanatismo unitario
che ha determinato una permanente atmosfera di sospetto contro tutto ciò che
può arieggiare a separatismo. Ciò però non ha impedito (e si comprende) che,
nel 1920, i latifondisti siciliani si riunissero a Palermo e pronunziassero un
vero ultimatum contro il governo «di Roma», minacciando la separazione,
come non ha impedito che parecchi di questi latifondisti abbiano continuato a
mantenere la cittadinanza spagnola e abbiano fatto intervenire diplomaticamente
il governo di Madrid (caso del duca di Bivona nel 1919) per la tutela dei loro
interessi minacciati dall’agitazione dei contadini ex-combattenti.
L’atteggiamento dei vari gruppi sociali del Mezzogiorno dal ’19 al ’26 serve a
mettere in luce e in rilievo alcune debolezze dell’indirizzo ossessionatamente
unitario di Crispi e a mettere in rilievo alcune correzioni apportatevi da
Giolitti (poche in realtà, perché Giolitti si mantenne essenzialmente nel solco
di Crispi; al giacobinismo di temperamento del Crispi, Giolitti sostituí la
solerzia e la continuità burocratica; mantenne il «miraggio della terra» nella
politica coloniale, ma in piú sorresse questa politica con una concezione
«difensiva» militare e con la premessa che occorre creare le condizioni di
libertà d’espansione per il futuro).
L’episodio dell’ultimatum dei latifondisti siciliani
nel 1920 non è isolato e di esso potrebbe darsi altra interpretazione, per il
precedente delle alte classi lombarde che in qualche occasione avevano
minacciato «di far da sé» ricostituendo l’antico ducato di Milano (politica di
ricatto momentaneo verso il governo), se non trovasse una interpretazione
autentica nelle campagne fatte dal «Mattino» dal 1919 fino alla defenestrazione
dei fratelli Scarfoglio, che sarebbe troppo semplicistico ritenere del tutto
campate in aria, cioè non legate in qualche modo a correnti d’opinione pubblica
e a stati d’animo rimasti sotterranei, latenti, potenziali per l’atmosfera
d’intimidazione creata dall’unitarismo ossessionato. Il «Mattino» a due riprese
sostenne questa tesi: che il Mezzogiorno è entrato a far parte dello Stato
italiano su una base contrattuale, lo Statuto albertino, ma che
(implicitamente) continua a conservare una sua personalità reale, di fatto, e
ha il diritto di uscire dal nesso statale unitario se la base contrattuale
viene, in qualsiasi modo, menomata, se cioè viene mutata la costituzione del
’48. Questa tesi fu svolta nel ’19-20 contro un mutamento costituzionale in un
certo senso, e fu ripresa nel ’24-25 contro un mutamento in altro senso.
Bisogna tener presente l’importanza che aveva il «Mattino» nel Mezzogiorno (era
intanto il giornale piú diffuso); il «Mattino» fu sempre crispino,
espansionista, dando il tono all’ideologia meridionale, creata dalla fame di
terra e dalle sofferenze dell’emigrazione, tendente verso ogni vaga forma di
colonialismo di popolamento. Del «Mattino» occorre ricordare inoltre: 1) la
violentissima campagna contro il Nord a proposito del tentativo di manomissione
da parte dei tessili lombardi di alcune industrie cotoniere meridionali, giunto
fino al punto in cui si stava per trasportare le macchine in Lombardia,
truccate da ferro vecchio per eludere la legislazione sulle zone industriali, tentativo
sventato appunto dal giornale che giunse fino a fare una esaltazione dei
Borboni e della loro politica economica (ciò avvenne nel 1923); 2) la
commemorazione «accorata» e «nostalgica» di Maria Sofia fatta nel 1925 e che
destò scalpore e scandalo.
È certo che per apprezzare questo atteggiamento del
«Mattino» occorre tener conto di alcuni elementi di controllo metodico: il
carattere avventuroso e la venalità degli Scarfoglio (è da ricordare che Maria
Sofia cercò continuamente di intervenire nella politica interna italiana, per
spirito di vendetta se non con la speranza di restaurare il regno di Napoli,
spendendo anche quattrini come non pare dubbio: nell’«Unità» del 1914 o ’15 fu
pubblicato un trafiletto contro Errico Malatesta in cui si affermava che gli
avvenimenti del giugno 1914 potevano essere stati patrocinati e sussidiati
dallo Stato Maggiore austriaco per il tramite di Zita di Borbone, dati i
rapporti di «amicizia», pare non interrotta mai, tra il Malatesta e Maria
Sofia; nell’opera Uomini e cose della vecchia Italia, B. Croce ritorna
su tali rapporti a proposito di un tentativo per far evadere un anarchico che
aveva commesso un attentato, seguito da un passo diplomatico del governo
italiano presso il governo francese per far cessare queste attività di Maria
Sofia; ricordare inoltre gli aneddoti su Maria Sofia raccontati dalla signora
B. che nel 1919 frequentò l’ex regina per farle il ritratto; infine Malatesta
non rispose mai a queste accuse, come era suo obbligo, a meno non sia vero che
egli vi abbia risposto in una lettera a un giornaletto clandestino, stampato in
Francia da P. Schicchi e intitolato «Il Picconiere», cosa molto dubbia), il
dilettantismo politico e ideologico degli Scarfoglio. Ma occorre insistere sul
fatto che il «Mattino» era il giornale piú diffuso del Mezzogiorno e che gli
Scarfoglio erano dei giornalisti nati, cioè possedevano quell’intuizione rapida
e «simpatica» delle correnti passionali popolari piú profonde che rende
possibile la diffusione della stampa gialla.
Un altro elemento per saggiare la portata reale della
politica unitaria ossessionata di Crispi è il complesso di sentimenti creatosi
nel Settentrione per riguardo al Mezzogiorno. La «miseria» del Mezzogiorno era
«inspiegabile» storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano
che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del
Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il
Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che
il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con
l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. Il popolano
dell’Alta Italia pensava invece che, se il Mezzogiorno non progrediva dopo
essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il
regime borbonico, ciò significava che le cause della miseria non erano esterne,
da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne,
innate nella popolazione meridionale, tanto piú che era radicata la persuasione
della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione,
l’incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità
biologica. Queste opinioni già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una
leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai
sociologhi del positivismo (Niceforo, Sergi, Ferri, Orano, ecc.), assumendo la
forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione della scienza. Si
ebbe cosí una polemica Nord-Sud sulle razze e sulla superiorità e inferiorità
del Nord e del Sud (confrontare i libri di N. Colajanni in difesa del
Mezzogiorno da questo punto di vista, e la collezione della «Rivista
popolare»). Intanto rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una «palla
di piombo» per l’Italia, la persuasione che piú grandi progressi la civiltà
industriale moderna dell’Alta Italia avrebbe fatto senza questa «palla di
piombo», ecc. Nei principii del secolo si inizia una forte reazione meridionale
anche su questo terreno. Nel Congresso Sardo del 1911, tenuto sotto la
presidenza del generale Rugiu, si calcola quante centinaia di milioni siano
stati estorti alla Sardegna nei primi 50 anni di Stato unitario, a favore del
continente. Campagne del Salvemini, culminate nella fondazione dell’«Unità», ma
condotte già nella «Voce» (cfr. numero unico della «Voce» sulla «Quistione
meridionale», ristampato poi in opuscolo): in Sardegna si inizia un movimento
autonomistico, sotto la direzione di Umberto Cau, che ebbe anche un giornale
quotidiano «Il Paese». In questo inizio di secolo si realizza anche un certo
«blocco intellettuale», «panitaliano», con a capo B. Croce e Giustino
Fortunato, che cerca di imporre la quistione meridionale come problema
nazionale capace di rinnovare la vita politica e parlamentare. In ogni rivista
di giovani che abbiano tendenze liberali democratiche e in generale si
propongano di svecchiare e sprovincializzare la vita e la cultura nazionale, in
tutti i campi, nell’arte, nella letteratura, nella politica, appare non solo
l’influsso del Croce e del Fortunato, ma la loro collaborazione; cosí nella
«Voce» e nell’«Unità», ma anche nella «Patria» di Bologna, nell’«Azione
Liberale» di Milano, nel movimento giovanile liberale guidato da Giovanni
Borelli ecc.. L’influsso di questo blocco si fa strada nel fissare la linea
politica del «Corriere della Sera» di Albertini e nel dopoguerra, data la nuova
situazione, appare nella «Stampa» (attraverso Cosmo, Salvatorelli, e anche
Ambrosini) e nel giolittismo, con l’assunzione del Croce nell’ultimo governo
Giolitti.
Di questo movimento, certo molto complesso e multilaterale,
viene data oggi una interpretazione tendenziosa anche da G. Prezzolini che pure
ne fu una tipica incarnazione; ma rimane la prima edizione della Cultura
italiana (1923) dello stesso Prezzolini, specialmente con le sue omissioni,
come documento autentico.
Il movimento si sviluppa fino al suo maximum che è
anche il suo punto di dissoluzione: questo punto è da identificare nella
particolare presa di posizione di P. Gobetti e nelle sue iniziative culturali:
la polemica di Giovanni Ansaldo (e dei suoi collaboratori come «Calcante»,
ossia Francesco Ciccotti) contro Guido Dorso è il documento piú espressivo di
tale punto d’approdo e di risoluzione, anche per la comicità che ormai appare
evidente negli atteggiamenti gladiatori e di intimidazione dell’unitarismo
ossessionato (che l’Ansaldo, nel ’25-26, credesse di poter far credere a un
ritorno dei Borboni a Napoli, sembrerebbe inconcepibile senza la conoscenza di
tutti gli antecedenti della quistione e delle vie sotterranee attraverso cui
avvenivano le polemiche, per sottinteso e per riferimento enigmistico ai non
«iniziati»: tuttavia è notevole che anche in alcuni elementi popolari, che
avevano letto Oriani, esisteva allora la paura che a Napoli fosse possibile una
restaurazione borbonica e quindi una dissoluzione piú estesa del nesso statale
unitario).
Da questa serie di osservazioni e di analisi di alcuni
elementi della storia italiana dopo l’unità si possono ricavare alcuni criteri
per apprezzare la posizione di contrasto tra i moderati e il Partito d’Azione,
e per ricercare la diversa «saggezza» politica di questi due partiti e delle
diverse correnti che si contesero la direzione politica e ideologica dell’ultimo
di essi. È evidente che, per contrapporsi efficacemente ai moderati, il Partito
d’Azione doveva legarsi alle masse rurali, specialmente meridionali, essere
«giacobino» non solo per la «forma» esterna, di temperamento, ma specialmente
per il contenuto economico-sociale: il collegamento delle diverse classi rurali
che si realizzava in un blocco reazionario attraverso i diversi ceti
intellettuali legittimisti-clericali poteva essere dissolto per addivenire ad
una nuova formazione liberale-nazionale solo se si faceva forza in due
direzioni: sui contadini di base, accettandone le rivendicazioni elementari e
facendo di esse parte integrante del nuovo programma di governo, e sugli
intellettuali degli strati medi e inferiori, concentrandoli e insistendo sui
motivi che piú li potevano interessare (e già la prospettiva della formazione
di un nuovo apparato di governo, con le possibilità di impiego che offre, era
un elemento formidabile di attrazione su di essi, se la prospettiva si fosse
presentata come concreta perché poggiata sulle aspirazioni dei rurali). Il
rapporto tra queste due azioni era dialettico e reciproco: l’esperienza di
molti paesi, e prima di tutto della Francia nel periodo della grande
Rivoluzione, ha dimostrato che se i contadini si muovono per impulsi
«spontanei», gli intellettuali cominciano a oscillare e, reciprocamente, se un
gruppo di intellettuali si pone sulla nuova base di una politica filocontadina
concreta, esso finisce col trascinare con sé frazioni di massa sempre piú
importanti. Si può dire però che, data la dispersione e l’isolamento della
popolazione rurale e la difficoltà quindi di concentrarla in solide
organizzazioni, conviene iniziare il movimento dai gruppi intellettuali; in
generale però è il rapporto dialettico tra le due azioni che occorre tener
presente. Si può anche dire che partiti contadini nel senso stretto della
parola è quasi impossibile crearne: il partito contadino si realizza in
generale solo come forte corrente di opinioni, non già in forme schematiche
d’inquadramento burocratico; tuttavia l’esistenza anche solo di uno scheletro
organizzativo è di utilità immensa, sia per una certa selezione di uomini, sia
per controllare i gruppi intellettuali e impedire che gli interessi di casta li
trasportino impercettibilmente in altro terreno.
Questi criteri devono essere tenuti presenti nello studio
della personalità di Giuseppe Ferrari che fu lo «specialista» inascoltato di
quistioni agrarie nel Partito d’Azione. Nel Ferrari occorre anche studiare bene
l’atteggiamento verso il bracciantato agricolo, cioè i contadini senza terra e
viventi alla giornata, sui quali egli fonda una parte cospicua delle sue
ideologie, per le quali egli è ancora ricercato e letto da determinate correnti
(opere del Ferrari ristampate dal Monanni con prefazioni di Luigi Fabbri).
Occorre riconoscere che il problema del bracciantato è difficilissimo e anche
oggi di ardua soluzione. In generale occorre tener presenti questi criteri: i
braccianti sono ancora oggi, nella maggior parte, ed erano quindi tanto piú nel
periodo del Risorgimento, dei semplici contadini senza terra, non degli operai
di una industria agricola sviluppata con capitale concentrato e con la
divisione del lavoro; nel periodo del Risorgimento era piú diffuso, in modo
rilevante, il tipo dell’obbligato in confronto a quello dell’avventizio. La
loro psicologia perciò è, con le dovute eccezioni, la stessa del colono e del
piccolo proprietario (è da ricordare la polemica tra i senatori Tanari e
Bassini nel «Resto del Carlino» e nella «Perseveranza» avvenuta verso la fine
del 1917 o ai primi del ’18 a proposito della realizzazione della formula la
«terra ai contadini», lanciata in quel torno di tempo: il Tanari era pro, il
Bassini contro e il Bassini si fondava sulla sua esperienza di grande
industriale agricolo, di proprietario di aziende agricole in cui la divisione
del lavoro era già talmente progredita da rendere indivisibile la terra per la
sparizione del contadino-artigiano e l’emergere dell’operaio moderno). La questione
si poneva in forma acuta non tanto nel Mezzogiorno dove il carattere
artigianesco del lavoro agricolo era troppo evidente, ma nella valle padana
dove esso è piú velato. Anche in tempi recenti però l’esistenza di un problema
acuto del bracciantato nella valle padana era dovuta in parte a cause
«extraeconomiche»: 1) sovrappopolazione che non trovava uno sbocco
nell’emigrazione come nel Sud, ed era mantenuta artificialmente con la politica
dei lavori pubblici; 2) politica dei proprietari che non volevano consolidare
in un’unica classe di braccianti e di mezzadri la popolazione lavoratrice,
alternando alla mezzadria la conduzione ad economia servendosi di questo
alternare per determinare una migliore selezione di mezzadri privilegiati che
fossero i loro alleati (in ogni congresso di agrari della regione padana si
discuteva sempre se conveniva meglio la mezzadria o la conduzione diretta ed
era chiaro che la scelta veniva fatta per motivi di ordine politico-sociale).
Durante il Risorgimento il problema del bracciantato padano appariva sotto la
forma di un fenomeno pauroso di pauperismo. Cosí si è visto dall’economista
Tullio Martello nella sua Storia dell’Internazionale, scritta nel
1871-72, lavoro che occorre tener presente perché riflette le posizioni
politiche e le preoccupazioni sociali del periodo precedente.
La posizione del Ferrari è indebolita poi dal suo
«federalismo» che specialmente in lui, vivente in Francia, appariva ancora piú
come un riflesso degli interessi nazionali e statali francesi. È da ricordare
il Proudhon e i suoi libelli contro l’unità italiana combattuta dal confessato
punto di vista degli interessi statali francesi e della democrazia. In realtà
le principali correnti della politica francese erano aspramente contrarie
all’unità italiana. Ancora oggi i monarchici (Bainville e C.) «rimproverano»
retrospettivamente ai due Napoleoni di aver creato il mito nazionalitario e di
aver contribuito a farlo realizzare in Germania e in Italia, abbassando cosí la
statura relativa della Francia, che «dovrebbe» essere circondata da un
pulviscolo di staterelli tipo Svizzera per essere «sicura».
Ora è proprio sulla parola d’ordine di «indipendenza e
unità», senza tener conto del concreto contenuto politico di tali formule
generiche, che i moderati dopo il ’48 formarono il blocco nazionale sotto la
loro egemonia, influenzando i due capi supremi del Partito d’Azione, Mazzini e
Garibaldi, in diversa forma e misura. Come i moderati fossero riusciti nel loro
intento di deviare l’attenzione dal nocciolo alla buccia dimostra, tra le tante
altre, questa espressione del Guerrazzi in una lettera a uno studente siciliano
(pubblicata nell’«Archivio Storico Siciliano» da Eugenio de Carlo carteggio di
F. D. Guerrazzi col notaio Francesco Paolo Sardofontana di Riella, riassunto
nel «Marzocco» del 29 novembre 1929): «Sia che vuolsi – o dispotismo o
repubblica o che altro – non cerchiamo di dividerci; con questo cardine, caschi
il mondo, ritroveremo la via». Del resto, tutta l’operosità di Mazzini è stata
concretamente riassunta nella continua e permanente predicazione dell’unità.
A proposito del giacobinismo e del Partito d’Azione un
elemento da porre in primo piano è questo: che i giacobini conquistarono con la
lotta senza quartiere la loro funzione di partito dirigente; essi in realtà si
«imposero» alla borghesia francese, conducendola su una posizione molto piú
avanzata di quella che i nuclei borghesi primitivamente piú forti avrebbero
voluto «spontaneamente» occupare e anche molto piú avanzata di quella che le
premesse storiche dovevano consentire, e per ciò i colpi di ritorno e la
funzione di Napoleone I. Questo tratto, caratteristico del giacobinismo (ma
prima anche di Cromwell e delle «teste rotonde») e quindi di tutta la grande
Rivoluzione, del forzare la situazione (apparentemente) e del creare fatti
compiuti irreparabili, cacciando avanti i borghesi a calci nel sedere, da parte
di un gruppo di uomini estremamente energici e risoluti, può essere cosí
«schematizzato»: il terzo stato era il meno omogeneo degli stati; aveva una élite
intellettuale molto disparata e un gruppo economicamente molto avanzato ma
politicamente moderato. Lo sviluppo degli avvenimenti segue un processo dei piú
interessanti. I rappresentanti del terzo stato inizialmente pongono solo le
quistioni che interessano i componenti fisici attuali del gruppo sociale, i
loro interessi «corporativi» immediati (corporativi, nel senso tradizionale, di
immediati ed egoistici in senso gretto di una determinata categoria): i
precursori della Rivoluzione sono infatti dei riformatori moderati, che fanno
la voce grossa ma in realtà domandano ben poco. A mano a mano si viene
selezionando una nuova élite che non si interessa unicamente di riforme
«corporative» ma tende a concepire la borghesia come il gruppo egemone di tutte
le forze popolari e questa selezione avviene per l’azione di due fattori: la
resistenza delle vecchie forze sociali e la minaccia internazionale. Le vecchie
forze non vogliono cedere nulla e se cedono qualche cosa lo fanno con la
volontà di guadagnare tempo e preparare una controffensiva. Il terzo stato
sarebbe caduto in questi «tranelli» successivi senza l’azione energica dei
giacobini, che si oppongono ad ogni sosta «intermedia» del processo
rivoluzionario e mandano alla ghigliottina non solo gli elementi della vecchia
società dura a morire, ma anche i rivoluzionari di ieri, oggi diventati
reazionari. I giacobini, pertanto, furono il solo partito della rivoluzione in
atto, in quanto non solo essi rappresentavano i bisogni e le aspirazioni
immediate delle persone fisiche attuali che costituivano la borghesia francese,
ma rappresentavano il movimento rivoluzionario nel suo insieme, come sviluppo
storico integrale, perché rappresentavano i bisogni anche futuri e, di nuovo,
non solo di quelle determinate persone fisiche, ma di tutti i gruppi nazionali
che dovevano essere assimilati al gruppo fondamentale esistente. Occorre
insistere, contro una corrente tendenziosa, e in fondo antistorica, che i
giacobini furono dei realisti alla Machiavelli e non degli astrattisti. Essi
erano persuasi dell’assoluta verità delle formule sull’uguaglianza, la
fraternità, la libertà e, ciò che importa di piú, di tale verità erano persuase
le grandi masse popolari che i giacobini suscitavano e portavano alla lotta. Il
linguaggio dei giacobini, la loro ideologia, i loro metodi d’azione,
riflettevano perfettamente le esigenze dell’epoca, anche se «oggi», in una
diversa situazione e dopo piú di un secolo di elaborazione culturale, possono
parere «astrattisti» e «frenetici». Naturalmente le riflettevano secondo la
tradizione culturale francese e di ciò è una prova l’analisi che del linguaggio
giacobino si ha nella Sacra Famiglia e l’ammissione di Hegel che pone
come paralleli e reciprocamente traducibili il linguaggio giuridico-politico dei
giacobini e i concetti della filosofia classica tedesca, alla quale invece oggi
si riconosce il massimo di concretezza e che ha originato lo storicismo
moderno. La prima esigenza era quella di annientare le forze avversarie o
almeno ridurle all’impotenza per rendere impossibile una controrivoluzione; la
seconda esigenza era quella di allargare i quadri della borghesia come tale e
di porla a capo di tutte le forze nazionali, identificando gli interessi e le
esigenze comuni a tutte le forze nazionali, per mettere in moto queste forze e
condurle alla lotta ottenendo due risultati: a) di opporre un bersaglio
piú largo ai colpi degli avversari, cioè di creare un rapporto
politico-militare favorevole alla rivoluzione; b) di togliere agli
avversari ogni zona di passività in cui fosse possibile arruolare eserciti
vandeani. Senza la politica agraria dei giacobini, Parigi avrebbe avuto la Vandea già alle sue porte.
La resistenza della Vandea propriamente detta è legata alla questione nazionale
inasprita nelle popolazioni brettoni, e in generale allogene, dalla formula
della «repubblica una e indivisibile» e dalla politica di accentramento
burocratico-militare, alle quali i giacobini non potevano rinunziare senza
suicidarsi. I girondini cercarono di far leva sul federalismo per schiacciare
Parigi giacobina, ma le truppe provinciali condotte a Parigi passarono ai
rivoluzionari. Eccetto alcune zone periferiche, dove la distinzione nazionale
(e linguistica) era grandissima, la questione agraria ebbe il sopravvento sulle
aspirazioni all’autonomia locale: la
Francia rurale accettò l’egemonia di Parigi, cioè comprese
che per distruggere definitivamente il vecchio regime doveva far blocco con gli
elementi piú avanzati del terzo stato e non con i moderati girondini. Se è vero
che i giacobini «forzarono» la mano, è anche vero che ciò avvenne sempre nel
senso dello sviluppo storico reale, perché non solo essi organizzarono un
governo borghese, cioè fecero della borghesia la classe dominante, ma fecero di
piú, crearono lo Stato borghese, fecero della borghesia la classe nazionale
dirigente, egemone, cioè dettero allo Stato nuovo una base permanente, crearono
la compatta nazione moderna francese.
Che, nonostante tutto, i giacobini siano sempre rimasti sul
terreno della borghesia, è dimostrato dagli avvenimenti che segnarono la loro
fine come partito di formazione troppo determinata e irrigidita e la morte di
Robespierre: essi non vollero riconoscere agli operai il diritto di coalizione,
mantenendo la legge Chapelier, e come conseguenza dovettero promulgare la legge
del «maximum». Spezzarono cosí il blocco urbano di Parigi: le loro forze
d’assalto, che si raggruppavano nel comune, si dispersero deluse, e il
Termidoro ebbe il sopravvento. La Rivoluzione aveva trovato i limiti piú larghi di
classe; la politica delle alleanze e della rivoluzione permanente aveva finito
col porre quistioni nuove che allora non potevano essere risolte, aveva
scatenato forze elementari che solo una dittatura militare sarebbe riuscita a
contenere.
Nel Partito d’Azione non si trova niente che rassomigli a
questo indirizzo giacobino, a questa inflessibile volontà di diventare il
partito dirigente. Certo occorre tener conto delle differenze: in Italia la
lotta si presentava come lotta contro i vecchi trattati e l’ordine
internazionale vigente e contro una potenza straniera, l’Austria, che li
rappresentava e li sosteneva in Italia, occupando una parte della penisola e
controllando il resto. Anche in Francia questo problema si presentò, almeno in
un certo senso, perché ad un certo punto la lotta interna divenne lotta
nazionale combattuta alla frontiera, ma ciò avvenne dopo che tutto il
territorio era conquistato alla rivoluzione e i giacobini seppero dalla
minaccia esterna trarre elementi per una maggiore energia all’interno: essi
compresero bene che per vincere il nemico esterno dovevano schiacciare
all’interno i suoi alleati e non esitarono a compiere i massacri di settembre.
In Italia questo legame che pur esisteva, esplicito ed implicito, tra l’Austria
e una parte almeno degli intellettuali, dei nobili e dei proprietari terrieri,
non fu denunziato dal Partito d’Azione o almeno non fu denunziato con la dovuta
energia e nel modo praticamente piú efficace, non divenne elemento politico
attivo. Si trasformò «curiosamente» in una quistione di maggiore o minore
dignità patriottica e dette poi luogo a uno strascico di polemiche acrimoniose
e sterili fin dopo il 1898 (cfr. gli articoli di «Rerum Scriptor» nella
«Critica Sociale» dopo la ripresa delle pubblicazioni, e il libro di Romualdo
Bonfadini, Cinquanta anni di patriottismo). È da ricordare a questo
proposito la quistione dei «costituti» di Federico Confalonieri: il Bonfadini,
nel libro su citato, afferma in una nota di aver visto la raccolta dei
«costituti» nell’Archivio di Stato di Milano e accenna a circa 80 fascicoli.
Altri hanno sempre negato che la raccolta dei costituti esistesse in Italia e
cosí ne spiegavano la non pubblicazione; in un articolo del senatore Salata,
incaricato di far ricerche negli archivi di Vienna sui documenti riguardanti
l’Italia, articolo pubblicato nel 1925 (?), si diceva che i costituti erano
stati rintracciati e sarebbero stati pubblicati. Ricordare il fatto che in un
certo periodo la «Civiltà Cattolica» sfidò i liberali a pubblicarli, affermando
che essi, conosciuti, avrebbero, nientemeno, fatto saltare in aria l’unità
dello Stato. Nella quistione Confalonieri il fatto piú notevole consiste in
ciò, che a differenza di altri patriotti graziati dall’Austria, il
Confalonieri, che pure era un rimarchevole uomo politico, si ritirò dalla vita
attiva e mantenne dopo la sua liberazione un contegno molto riservato. Tutta la
quistione Confalonieri è da riesaminare criticamente, insieme con
l’atteggiamento tenuto da lui e dai suoi compagni, con un esame approfondito
delle memorie scritte dai singoli, quando le scrissero: per le polemiche che
suscitò sono interessanti le memorie del francese Alessandro Andryane che
tributa molto rispetto e ammirazione per il Confalonieri, mentre attacca G.
Pallavicino per la sua debolezza.
A proposito delle difese fatte anche recentemente
dell’atteggiamento tenuto dall’aristocrazia lombarda verso l’Austria,
specialmente dopo il tentativo insurrezionale di Milano del febbraio 1853 e
durante il viceregno di Massimiliano, è da ricordare che Alessandro Luzio, la
cui opera storica è sempre tendenziosa e acrimoniosa contro i democratici,
giunge fino a legittimare i fedeli servizi resi all’Austria dal Salvotti: altro
che spirito giacobino! La nota comica in argomento è data da Alfredo Panzini,
che, nella Vita di Cavour, fa tutta una variazione altrettanto
leziosa quanto stomachevole e gesuitica su una «pelle di tigre» esposta da una
finestra aristocratica durante una visita a Milano di Francesco Giuseppe!
Da tutti questi punti di vista devono essere considerate le
concezioni di Missiroli, Gobetti, Dorso ecc. sul Risorgimento italiano come
«conquista regia».
Se in Italia non si formò un partito giacobino ci sono le
sue ragioni da ricercare nel campo economico, cioè nella relativa debolezza
della borghesia italiana e nel clima storico diverso dell’Europa dopo il 1815.
Il limite trovato dai giacobini, nella loro politica di forzato risveglio delle
energie popolari francesi da alleare alla borghesia, con la legge Chapelier e
quella sul «maximum», si presentava nel ’48 come uno «spettro» già minaccioso,
sapientemente utilizzato dall’Austria, dai vecchi governi e anche dal Cavour
(oltre che dal Papa). La borghesia non poteva (forse) piú estendere la sua
egemonia sui vasti strati popolari che invece poté abbracciare in Francia (non
poteva per ragioni soggettive, non oggettive), ma l’azione sui contadini era
certamente sempre possibile.
Differenze tra la
Francia, la
Germania e l’Italia nel processo di presa del potere da parte
della borghesia (e Inghilterra). In Francia si ha il processo piú ricco di
sviluppi e di elementi politici attivi e positivi. In Germania il processo si
svolge per alcuni aspetti in modi che rassomigliano a quelli italiani, per
altri a quelli inglesi. In Germania il movimento del ’48 fallisce per la scarsa
concentrazione borghese (la parola d’ordine di tipo giacobino fu data
dall’estrema sinistra democratica: «rivoluzione in permanenza») e perché la
quistione del rinnovamento statale è intrecciata con la quistione nazionale; le
guerre del ’64, del ’66 e del ’70 risolvono insieme la quistione nazionale e
quella di classe in un tipo intermedio: la borghesia ottiene il governo
economico-industriale, ma le vecchie classi feudali rimangono come ceto
governativo dello Stato politico con ampi privilegi corporativi nell’esercito,
nell’amministrazione e sulla terra: ma almeno, se queste vecchie classi
conservano in Germania tanta importanza e godono di tanti privilegi, esse
esercitano una funzione nazionale, diventano gli «intellettuali» della
borghesia, con un determinato temperamento dato dall’origine di casta e dalla
tradizione. In Inghilterra, dove la rivoluzione borghese si è svolta prima che
in Francia, abbiamo un fenomeno simile a quello tedesco di fusione tra il
vecchio e il nuovo, nonostante l’estrema energia dei «giacobini» inglesi, cioè
le «teste rotonde» di Cromwell; la vecchia aristocrazia rimane come ceto
governativo, con certi privilegi, diventa anch’essa il ceto intellettuale della
borghesia inglese (del resto l’aristocrazia inglese è a quadri aperti e si
rinnova continuamente con elementi provenienti dagli intellettuali e dalla
borghesia). In proposito sono da vedere alcune osservazioni contenute nella
prefazione alla traduzione inglese di Utopia e Scienza che occorre ricordare
per la ricerca sugli intellettuali e le loro funzioni storico-sociali.
La spiegazione data da Antonio Labriola sulla permanenza al
potere in Germania degli Junker e del kaiserismo nonostante il grande sviluppo
capitalistico, adombra la giusta spiegazione: il rapporto di classi creato
dallo sviluppo industriale col raggiungimento del limite dell’egemonia borghese
e il rovesciamento delle posizioni delle classi progressive, ha indotto la
borghesia a non lottare a fondo contro il vecchio regime, ma a lasciarne
sussistere una parte della facciata dietro cui velare il proprio dominio reale.
Questa differenza di processo nel manifestarsi dello stesso
sviluppo storico nei diversi paesi è da legare non solo alle diverse
combinazioni dei rapporti interni alla vita delle diverse nazioni, ma anche ai
diversi rapporti internazionali (i rapporti internazionali sono di solito
sottovalutati in questo ordine di ricerche). Lo spirito giacobino, audace,
temerario, è certamente legato all’egemonia esercitata cosí a lungo dalla
Francia in Europa, oltre che all’esistenza di un centro urbano come Parigi e
all’accentramento conseguito in Francia per opera della monarchia assoluta. Le
guerre di Napoleone, invece, con l’enorme distruzione di uomini, tra i piú
audaci e intraprendenti, hanno indebolito non solo l’energia politica militante
francese, ma anche quella delle altre nazioni, sebbene intellettualmente siano
state cosí feconde per la rinnovazione dell’Europa.
I rapporti internazionali hanno certo avuto una grande
importanza nel determinare la linea di sviluppo del Risorgimento italiano, ma
essi sono stati esagerati dal partito moderato e da Cavour a scopo di partito.
È notevole, a questo proposito, il fatto di Cavour che teme come il fuoco
l’iniziativa garibaldina prima della spedizione di Quarto e del passaggio dello
Stretto, per le complicazioni internazionali che poteva creare e poi è spinto
egli stesso dall’entusiasmo creato dai Mille nell’opinione europea fino a
vedere come fattibile una immediata nuova guerra contro l’Austria. Esisteva in
Cavour una certa deformazione professionale del diplomatico, che lo portava a
vedere «troppe» difficoltà e lo induceva a esagerazioni «cospirative» e a
prodigi, che sono in buona parte funamboleschi, di sottigliezza e di intrigo. In
ogni caso il Cavour operò egregiamente come uomo di partito: che poi il suo
partito rappresentasse i piú profondi e duraturi interessi nazionali, anche
solo nel senso della piú vasta estensione da dare alla comunità di esigenze
della borghesia con la massa popolare, è un’altra quistione.
A proposito della parola d’ordine «giacobina» formulata nel
’48-49 [rivoluzione permanente] è da studiarne la complicata fortuna. Ripresa,
sistematizzata, elaborata, intellettualizzata dal gruppo Parvus-Bronstein
[Helphand-Trotzkij] si manifestò inerte e inefficace nel 1905, e in seguito:
era diventata una cosa astratta, da gabinetto scientifico. La corrente
[leninista] che la avversò in questa sua manifestazione letteraria, invece
senza impiegarla «di proposito», la applicò di fatto in una forma aderente alla
storia attuale, concreta, vivente, adatta al tempo e al luogo, come scaturiente
da tutti i pori della determinata società che occorreva trasformare, come
alleanza di due gruppi sociali [proletariato e contadini] con l’egemonia del
gruppo urbano.
Nell’un caso si ebbe il temperamento giacobino senza un
contenuto politico adeguato; nel secondo, temperamento e contenuto «giacobino»
secondo i nuovi rapporti storici, e non secondo un’etichetta letteraria e
intellettualistica.
Nell’esame della direzione politica e militare impressa al
moto nazionale prima e dopo il ’48 occorre fare alcune preventive osservazioni
di metodo e di nomenclatura. Per direzione militare non deve intendersi solo la
direzione militare in senso stretto, tecnico, cioè con riferimento alla
strategia e alla tattica dell’esercito piemontese, o delle truppe garibaldine o
delle varie milizie improvvisate nelle insurrezioni locali (Cinque giornate di
Milano, difesa di Venezia, difesa della Repubblica Romana, insurrezione di
Palermo nel ’48 ecc.); deve intendersi invece in senso molto piú largo e piú
aderente alla direzione politica vera e propria. Il problema essenziale che si
imponeva dal punto di vista militare era quello di espellere dalla penisola una
potenza straniera, l’Austria, che disponeva di uno dei piú grandi eserciti
dell’Europa d’allora e che aveva inoltre non pochi e deboli aderenti nella
penisola stessa, persino nel Piemonte. Pertanto il problema militare era
questo: come riuscire a mobilitare una forza insurrezionale che fosse in grado
di espellere dalla penisola l’esercito austriaco non solo, ma anche di impedire
che esso potesse ritornare con una controffensiva dato che l’espulsione
violenta avrebbe messo in pericolo la compagine dell’Impero e quindi ne avrebbe
galvanizzato tutte le forze di coesione per una rivincita. Le soluzioni che del
problema furono presentate astrattamente erano parecchie, tutte contraddittorie
e inefficienti. «L’Italia farà da sé» fu la parola d’ordine piemontese del ’48,
ma volle dire la sconfitta disastrosa. La politica incerta, ambigua, timida e
nello stesso tempo avventata dei partiti di destra piemontesi fu la cagione
principale della sconfitta: essi furono di una astuzia meschina, essi furono la
causa del ritirarsi degli eserciti degli altri Stati italiani, napoletani e
romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non
una confederazione italiana; essi non favorirono, ma osteggiarono, il movimento
dei volontari; essi, insomma, volevano che solo armati vittoriosi fossero i
generali piemontesi, inetti al comando di una guerra tanto difficile. L’assenza
di una politica popolare fu disastrosa: i contadini lombardi e veneti arruolati
dall’Austria furono uno degli strumenti piú efficaci per soffocare la
rivoluzione di Vienna e quindi anche italiana; per i contadini il moto del
Lombardo-Veneto era una cosa di signori e di studenti come il moto viennese.
Mentre i partiti nazionali italiani avrebbero dovuto, con la loro politica,
determinare o aiutare il disgregamento dell’Impero austriaco, con la loro
inerzia ottennero che i reggimenti italiani fossero uno dei migliori puntelli
della reazione austriaca. Nella lotta tra il Piemonte e l’Austria il fine
strategico non poteva essere quello di distruggere l’esercito austriaco e
occupare il territorio del nemico, che sarebbe stato fine irraggiungibile e
utopistico, ma poteva essere quello di disgregare la compagine interna
austriaca e aiutare i liberali ad andare al potere stabilmente per mutare la
struttura politica dell’impero in federalistica o almeno per crearvi uno stato
prolungato di lotte interne che desse respiro alle forze nazionali italiane e
permettesse loro di concentrarsi politicamente e militarmente (lo stesso errore
fu commesso da Sonnino nella guerra mondiale e ciò contro le insistenze del
Cadorna: Sonnino non voleva la distruzione dell’impero absburgico e si rifiutò
a ogni politica di nazionalità; anche dopo Caporetto, una politica
nazionalitaria fu fatta obtorto collo e malthusianamente e perciò non dette i
piú rapidi risultati che avrebbe potuto dare). Dopo aver iniziato la guerra col
motto «l’Italia farà da sé», dopo la sconfitta, quando tutta l’impresa era
compromessa, si cercò di avere l’aiuto francese, proprio quando, anche per
effetto del rinvigorimento austriaco, al governo in Francia erano andati i
reazionari, nemici di uno Stato italiano unitario e forte e anche di una
espansione piemontese: la
Francia non volle dare al Piemonte neanche un generale
provetto e si ricorse al polacco Chrzanowsky.
La direzione militare era una quistione piú vasta della
direzione dell’esercito e della determinazione del piano strategico che
l’esercito doveva eseguire; essa comprendeva in piú la mobilitazione
politico-insurrezionale di forze popolari che fossero insorte alle spalle del
nemico e ne avessero intralciato i movimenti e i servizi logistici, la
creazione di masse ausiliarie e di riserva da cui trarre nuovi reggimenti e che
dessero all’esercito «tecnico» l’atmosfera di entusiasmo e di ardore. La politica
popolare non fu fatta neanche dopo il ’49; anzi sugli avvenimenti del ’49 si
cavillò stoltamente per intimidire le tendenze democratiche: la politica
nazionale di destra si impegnò nel secondo periodo del Risorgimento nella
ricerca dell’aiuto della Francia bonapartista e con l’alleanza francese si
equilibrò la forza austriaca. La politica della Destra nel ’48 ritardò
l’unificazione della penisola di alcuni decenni.
Le incertezze nella direzione politico-militare, le continue
oscillazioni tra dispotismo e costituzionalismo ebbero i loro contraccolpi
disastrosi anche nell’esercito piemontese. Si può affermare che quanto piú un
esercito è numeroso, in senso assoluto, come massa reclutata, o in senso
relativo, come proporzioni di uomini reclutati sulla popolazione totale, tanto
piú aumenta l’importanza della direzione politica su quella meramente
tecnico-militare. La combattività dell’esercito piemontese era altissima
all’inizio della campagna del ’48: i destri credettero che tale combattività
fosse espressione di un puro spirito militare e dinastico astratto, e
cominciarono a intrigare per restringere le libertà popolari e smorzare le
aspettative in un avvenire democratico. Il «morale» dell’esercito decadde. La
polemica sulla fatal Novara è tutta qui. A Novara l’esercito non volle
combattere, perciò fu sconfitto. I destri accusarono i democratici di aver
portato la politica nell’esercito e d’averlo disgregato: accusa inetta, perché
il costituzionalismo appunto «nazionalizzava» l’esercito, ne faceva un elemento
della politica generale e con ciò lo rafforzava militarmente. Tanto piú inetta
l’accusa, in quanto l’esercito si accorge di un mutamento di direzione
politica, senza bisogno di «disgregatori», da una molteplicità di piccoli
cambiamenti, ognuno dei quali può parere insignificante e trascurabile, ma che
nell’insieme formano una nuova atmosfera asfissiante. Responsabili della
disgregazione sono pertanto quelli che hanno mutato la direzione politica,
senza prevederne le conseguenze militari, hanno cioè sostituito una cattiva
politica a quella precedente che era buona, perché conforme al fine. L’esercito
è anche uno «strumento» per un fine determinato, ma esso è costituito di uomini
pensanti e non di automi che si possono impiegare nei limiti della loro coesione
meccanica e fisica. Se si può e si deve, anche in questo caso, parlare di
opportuno e di conforme al fine, occorre però includere anche la distinzione:
secondo la natura dello strumento dato. Se si batte un chiodo con una mazza di
legno con lo stesso vigore con cui si batterebbe con un martello d’acciaio, il
chiodo penetra nella mazza invece che nella parete. La direzione politica
giusta è necessaria anche con un esercito di mercenari professionisti (anche
nelle compagnie di ventura c’era un minimo di direzione politica oltre a quella
tecnico-militare); tanto piú è necessaria con un esercito nazionale di leva. La
quistione diventa ancora piú complessa e difficile nelle guerre di posizione,
fatte da masse enormi che solo con grandi riserve di forze morali possono
resistere al grande logorio muscolare, nervoso, psichico: solo un’abilissima
direzione politica, che sappia tener conto delle aspirazioni e dei sentimenti
piú profondi delle masse umane, ne impedisce la disgregazione e lo sfacelo.
La direzione militare deve essere sempre subordinata alla
direzione politica, ossia il piano strategico deve essere l’espressione
militare di una determinata politica generale. Naturalmente può darsi che in
una condizione data, gli uomini politici siano inetti, mentre nell’esercito ci
siano dei capi che alla capacità militare congiungano la capacità politica: è
il caso di Cesare e di Napoleone. Ma in Napoleone si è visto come il mutamento
di politica, coordinato alla presunzione di avere uno strumento militare
astrattamente militare, abbia portato alla sua rovina: anche nei casi in cui la
direzione politica e quella militare si trovano unite nella stessa persona, è
il momento politico che deve prevalere su quello militare. I Commentari
di Cesare sono un classico esempio di esposizione di una sapiente combinazione
di arte politica e arte militare: i soldati vedevano in Cesare non solo un
grande capo militare, ma specialmente il loro capo politico, il capo della
democrazia. È da ricordare come Bismarck, sulle traccie del Clausewitz,
sosteneva la supremazia del momento politico su quello militare, mentre
Guglielmo II, come riferisce Ludwig, annotò rabbiosamente un giornale in cui
l’opinione del Bismarck era riportata: cosí i Tedeschi vinsero brillantemente
quasi tutte le battaglie, ma perdettero la guerra.
Esiste una certa tendenza a sopravalutare l’apporto delle
classi popolari al Risorgimento, insistendo specialmente sul fenomeno del
volontariato. Le cose piú serie e ponderate in proposito sono state scritte da
Ettore Rota nella «Nuova Rivista Storica» del 1928-29. A parte l’osservazione
fatta in altra nota sul significato da dare ai volontari, è da rilevare che gli
scritti stessi del Rota mostrano come i volontari fossero mal visti e sabotati
dalle autorità piemontesi, ciò che appunto conferma la cattiva direzione
politico-militare. Il governo piemontese poteva arruolare obbligatoriamente
soldati nel suo territorio statale, in rapporto alla popolazione, come
l’Austria poteva fare nel suo e in rapporto a una popolazione enormemente piú
grande: una guerra a fondo, in questi termini, sarebbe sempre stata disastrosa
per il Piemonte dopo un certo tempo. Posto il principio che «l’Italia fa da sé»
bisognava o accettare subito la Confederazione con gli altri Stati italiani o
proporsi l’unità politica territoriale su una tale base radicalmente popolare
che le masse fossero state indotte a insorgere contro gli altri governi, e
avessero costituito eserciti volontari che fossero accorsi accanto ai
piemontesi. Ma appunto qui stava la quistione: le tendenze di destra piemontesi
o non volevano ausiliari, pensando di poter vincere gli austriaci con le sole
forze regolari piemontesi (e non si capisce come potessero avere una tale
presunzione), o avrebbero voluto essere aiutati a titolo gratuito (e anche qui
non si capisce come politici seri potessero pretendere un tale assurdo): nella
realtà non si può pretendere entusiasmo, spirito di sacrifizio, ecc., senza una
contropartita neppure dai propri sudditi di uno Stato; tanto meno si può
pretenderla da cittadini estranei allo Stato su un programma generico e
astratto e per una fiducia cieca in un governo lontano. Questo è stato il
dramma del ’48-49, ma non è certo giusto deprezzare perciò il popolo italiano;
la responsabilità del disastro è da attribuire sia ai moderati, sia al Partito
d’Azione, cioè, in ultima analisi, alla immaturità e alla scarsissima
efficienza delle classi dirigenti.
Le osservazioni fatte sulla deficienza di direzione
politico-militare nel Risorgimento potrebbero essere ribattute con un argomento
molto triviale e frusto: «quegli uomini non furono demagoghi, non fecero della
demagogia». Un’altra trivialità molto diffusa per parare il giudizio negativo
sulla capacità direttiva dei capi del moto nazionale è quella di ripetere in
vari modi e forme che il moto nazionale si poté operare per merito delle
sole classi colte. Dove sia il merito è difficile capire. Merito di una
classe colta, perché sua funzione storica, è quello di dirigere le masse
popolari e svilupparne gli elementi progressivi; se la classe colta non è stata
capace di adempiere alla sua funzione, non deve parlarsi di merito, ma di
demerito, cioè di immaturità e debolezza intima. Cosí occorre intendersi sulla
parola e sul concetto di demagogia. Quegli uomini effettivamente non seppero
guidare il popolo, non seppero destarne l’entusiasmo e la passione, se si
intende demagogia nel suo significato primordiale. Raggiunsero essi almeno il
fine che si proponevano? Essi dicevano di proporsi la creazione dello Stato
moderno in Italia e produssero un qualcosa di bastardo, si proponevano di
suscitare una classe dirigente diffusa ed energica e non ci riuscirono, di
inserire il popolo nel quadro statale e non ci riuscirono. La meschina vita
politica dal ’70 al ’900, il ribellismo elementare ed endemico delle classi
popolari, l’esistenza gretta e stentata di un ceto dirigente scettico e
poltrone sono la conseguenza di quella deficienza: e ne sono conseguenza la
posizione internazionale del nuovo Stato, privo di effettiva autonomia perché
minato all’interno dal Papato e dalla passività malevola delle grandi masse.
In realtà poi i destri del Risorgimento furono dei grandi
demagoghi: essi fecero del popolo-nazione uno strumento, un oggetto,
degradandolo e in ciò consiste la massima e piú spregevole demagogia, proprio
nel senso che il termine ha assunto in bocca ai partiti di destra in polemica
con quei di sinistra, sebbene siano i partiti di destra ad avere sempre
esercitato la peggiore demagogia e ad aver fatto spesso appello alla feccia
popolare (come Napoleone III in Francia).
Vincenzo Cuoco e la rivoluzione
passiva. Vincenzo Cuoco ha chiamato
rivoluzione passiva quella avutasi in Italia per contraccolpo delle guerre
napoleoniche. Il concetto di rivoluzione passiva mi pare esatto non solo per l’Italia,
ma anche per gli altri paesi che ammodernarono lo Stato attraverso una serie di
riforme o di guerre nazionali, senza passare per la rivoluzione politica di
tipo radicale-giacobino. Vedere nel Cuoco come egli svolge il concetto per
l’Italia.
Il rapporto città-campagna nel Risorgimento e nella
struttura nazionale italiana. I rapporti tra popolazione urbana e
popolazione rurale non sono di un solo tipo schematico, specialmente in Italia.
Occorre pertanto stabilire cosa si intende per «urbano» e per «rurale» nella
civiltà moderna e quali combinazioni possono risultare dalla permanenza di
forme antiquate e retrive nella composizione generale della popolazione,
studiata dal punto di vista del suo maggiore o minore agglomerarsi. Talvolta si
verifica il paradosso che un tipo rurale sia piú progressivo di un tipo
sedicente urbano.
Una città «industriale» è sempre piú progressiva della
campagna che ne dipende organicamente. Ma in Italia non tutte le città sono «industriali»
e ancor piú poche sono le città tipicamente industriali. Le «cento» città
italiane sono città industriali, l’agglomeramento della popolazione in centri
non rurali, che è quasi doppio di quello francese, dimostra che esiste in
Italia una industrializzazione doppia che in Francia? In Italia l’urbanesimo
non è solo, e neppure «specialmente» un fenomeno di sviluppo capitalistico e
della grande industria. Quella che fu per molto tempo la piú grande città
italiana e continua ad essere delle piú grandi, Napoli, non è una città
industriale: neppure Roma, l’attuale maggiore città italiana, è industriale.
Tuttavia anche in queste città, di un tipo medioevale, esistono forti nuclei di
popolazione del tipo urbano moderno: ma qual è la loro posizione relativa? Essi
sono sommersi, premuti, schiacciati dall’altra parte, che non è di tipo moderno
ed è la grandissima maggioranza. Paradosso delle «città del silenzio».
In questo tipo di città esiste, tra tutti i gruppi sociali,
una unità ideologica urbana contro la campagna, unità alla quale non sfuggono
neppure i nuclei piú moderni per funzione civile, che pur vi esistono: c’è
l’odio e il disprezzo contro il «villano», un fronte unico implicito contro le
rivendicazioni della campagna, che, se realizzate, renderebbero impossibile
l’esistenza di questo tipo di città. Reciprocamente esiste una avversione
«generica» ma non perciò meno tenace e appassionata della campagna contro la
città, contro tutta la città, tutti i gruppi che la costituiscono. Questo
rapporto generale, che in realtà è molto complesso e si manifesta in forme che
apparentemente sembrano contraddittorie, ha avuto una importanza primordiale
nello svolgersi delle lotte per il Risorgimento, quando esso era ancor piú
assoluto e operante che non sia oggi. Il primo esempio clamoroso di queste
apparenti contraddizioni è da studiare nell’episodio della Repubblica
Partenopea del 1799: la città fu schiacciata dalla campagna organizzata nelle
orde del cardinale Ruffo, perché la Repubblica, sia nella sua prima fase aristocratica,
che nella seconda borghese, trascurò completamente la campagna da una parte, ma
dall’altra, prospettando la possibilità di un rivolgimento giacobino per il
quale la proprietà terriera, che spendeva la rendita agraria a Napoli, poteva
essere spossessata, privando la grande massa popolare dei suoi cespiti di
entrata e di vita, lasciò freddi se non avversi i popolani napoletani. Nel
Risorgimento inoltre si manifesta già, embrionalmente, il rapporto storico tra
Nord e Sud, come un rapporto simile a quello di una grande città e una grande
campagna: essendo questo rapporto non già quello organico normale di provincia
e capitale industriale, ma risultando tra due vasti territori di tradizione
civile e culturale molto diversa, si accentuano gli aspetti e gli elementi di
un conflitto di nazionalità. Ciò che nel periodo del Risorgimento è
specialmente notevole è il fatto che nelle crisi politiche, il Sud ha
l’iniziativa dell’azione: 1799 Napoli, ’20-21 Palermo, ’47 Messina e la Sicilia, ’47-48 Sicilia e Napoli.
Altro fatto notevole è l’aspetto particolare che ogni movimento assume
nell’Italia Centrale, come una via di mezzo tra Nord e Sud: il periodo delle
iniziative popolari (relative) va dal 1815 al 1849 e culmina in Toscana e negli
Stati del Papa (la Romagna
e la Lunigiana
occorre sempre considerarle come appartenenti al Centro). Queste peculiarità
hanno un riscontro anche successivamente: gli avvenimenti del giugno 1914 hanno
culminato in alcune regioni del Centro (Romagna e Marche); la crisi che si inizia
nel 1893 in
Sicilia e si ripercuote nel Mezzogiorno e in Lunigiana, culmina a Milano nel
1898; nel 1919 si hanno le invasioni di terre nel Mezzogiorno e in Sicilia, nel
1920 l’occupazione delle fabbriche nel Settentrione. Questo relativo
sincronismo e simultaneità mostra l’esistenza già dopo il 1815 di una struttura
economico-politica relativamente omogenea, da una parte, e dall’altra mostra
come nei periodi di crisi sia la parte piú debole e periferica a reagire per la
prima.
La relazione di città e campagna tra Nord e Sud può anche
essere studiata nelle diverse concezioni culturali e atteggiamenti mentali.
Come è stato accennato, B. Croce e G. Fortunato, all’inizio del secolo, sono
stati a capo di un movimento culturale che, in un modo o nell’altro, si
contrapponeva al movimento culturale del Nord (idealismo contro positivismo,
classicismo o classicità contro futurismo). È da rilevare il fatto che la Sicilia si stacca dal
Mezzogiorno anche per il rispetto culturale: se Crispi è l’uomo
dell’industrialismo settentrionale, Pirandello nelle linee generali è piú
vicino al futurismo, Gentile e l’attualismo sono anch’essi piú vicini al
movimento futurista (inteso in senso largo, come opposizione al classicismo
tradizionale, come forma di un romanticismo contemporaneo). Diversa è la
struttura e l’origine dei ceti intellettuali: nel Mezzogiorno predomina ancora
il tipo del «paglietta», che pone a contatto la massa contadina con quella dei
proprietari e con l’apparato statale; nel Nord domina il tipo del «tecnico»
d’officina, che serve di collegamento tra la massa operaia e gli imprenditori:
il collegamento con lo Stato era funzione delle organizzazioni sindacali e dei
partiti politici, diretti da un ceto intellettuale completamente nuovo
(l’attuale sindacalismo di Stato, con la conseguenza della diffusione
sistematica su scala nazionale di questo tipo sociale, in modo piú coerente e
conseguente che non fosse possibile al vecchio sindacalismo, è fino a un certo
punto e in un certo senso uno strumento di unificazione morale e politica).
Questo complesso rapporto città-campagna può essere studiato
nei programmi politici generali che cercavano di affermarsi prima dell’avvento
fascista al governo: il programma di Giolitti e dei liberali democratici
tendeva a creare nel Nord un blocco «urbano» (di industriali e operai) che
fosse la base di un sistema protezionistico e rafforzasse l’economia e
l’egemonia settentrionale. Il Mezzogiorno era ridotto a un mercato di vendita
semicoloniale, a una fonte di risparmio e di imposte ed era tenuto
«disciplinato» con due serie di misure: misure poliziesche di repressione
spietata di ogni movimento di massa con gli eccidi periodici di contadini
(nella commemorazione di Giolitti, scritta da Spectator – Missiroli – nella
«Nuova Antologia» [1° agosto 1928], si fa le meraviglie perché Giolitti si sia
sempre strenuamente opposto a ogni diffusione del socialismo e del sindacalismo
nel Mezzogiorno, mentre la cosa è naturale e ovvia, poiché un protezionismo
operaio – riformismo, cooperative, lavori pubblici – è solo possibile se
parziale; cioè ogni privilegio presuppone dei sacrificati e spogliati); misure
poliziesche-politiche: favori personali al ceto degli «intellettuali» o
«paglietta», sotto forma di impieghi nelle pubbliche amministrazioni, di
permessi di saccheggio impunito delle amministrazioni locali, di una
legislazione ecclesiastica applicata meno rigidamente che altrove, lasciando al
clero la disponibilità di patrimoni notevoli ecc., cioè incorporamento a
«titolo personale» degli elementi piú attivi meridionali nel personale
dirigente statale, con particolari privilegi «giudiziari», burocratici ecc.
Cosí lo strato sociale che avrebbe potuto organizzare l’endemico malcontento
meridionale, diventava invece uno strumento della politica settentrionale, un
suo accessorio di polizia privata. Il malcontento non riusciva, per mancanza di
direzione, ad assumere una forma politica normale e le sue manifestazioni,
esprimendosi solo in modo caotico e tumultuario, venivano presentate come
«sfera di polizia» giudiziaria. In realtà a questa forma di corruzione
aderivano sia pure passivamente e indirettamente uomini come il Croce e il
Fortunato per la concezione feticistica dell’«unità» (cfr. episodio
Fortunato-Salvemini a proposito dell’«Unità», raccontato dal Prezzolini nella
prima edizione della Cultura italiana).
Non bisogna dimenticare il fattore politico-morale della
campagna di intimidazione che si faceva contro ogni anche obiettivissima
constatazione di motivi di contrasto tra Nord e Sud. È da ricordare la
conclusione dell’inchiesta Pais-Serra sulla Sardegna, dopo la crisi commerciale
del decennio ’90-900, e l’accusa già ricordata, mossa da Crispi ai fasci
siciliani di essere venduti agli inglesi. Specialmente tra gli intellettuali
siciliani esisteva questa forma di esasperazione unitaria (conseguenza della
formidabile pressione contadina sulla terra signorile e della popolarità
regionale di Crispi) che si è manifestata anche di recente nell’attacco del
Natoli contro il Croce per un accenno innocuo al separatismo siciliano dal
Regno di Napoli (cfr. risposta del Croce nella «Critica»).
Il programma di Giolitti fu «turbato» da due fattori: 1)
l’affermarsi degl’intransigenti nel partito socialista sotto la direzione di
Mussolini e il loro civettare coi meridionalisti (libero scambio, elezioni di
Molfetta, ecc.), che distruggeva il blocco urbano settentrionale; 2)
l’introduzione del suffragio universale, che allargò in modo inaudito la base
parlamentare del Mezzogiorno e rese difficile la corruzione individuale (troppi
da corrompere alla liscia e quindi apparizione dei mazzieri).
Giolitti mutò «partenaire», al blocco urbano sostituí (o
meglio contrappose per impedirne il completo sfacelo) il «patto Gentiloni»,
cioè, in definitiva, un blocco tra l’industria settentrionale e i rurali della
campagna «organica e normale» (le forze elettorali cattoliche coincidevano con
quelle socialiste geograficamente: erano diffuse cioè nel Nord e nel Centro)
con estensione degli effetti anche nel Sud, almeno nella misura immediatamente
sufficiente per «rettificare» utilmente le conseguenze dell’allargamento della
massa elettorale.
L’altro programma o indirizzo politico generale è quello che
si può chiamare del «Corriere della Sera» o di Luigi Albertini e può
identificarsi in una alleanza tra una parte degli industriali del Nord (con a
capo i tessili, cotonieri, setaioli, esportatori e quindi libero scambisti) col
blocco rurale del Mezzogiorno: il «Corriere» sostenne Salvemini contro Giolitti
nelle elezioni di Molfetta del 1913 (campagna di Ugo Ojetti), sostenne il
ministero Salandra prima e quello Nitti in seguito, cioè i primi due governi
formati da statisti meridionali (i siciliani sono da considerarsi a parte: essi
hanno sempre avuto una parte leonina in tutti i ministeri dal ’60 in poi, e
hanno avuto parecchi presidenti del Consiglio, a differenza del Mezzogiorno, il
cui primo leader fu Salandra; questa «invadenza» siciliana è da
spiegarsi con la politica di ricatto dei partiti dell’isola, che sottomano
hanno sempre mantenuto uno spirito «separatista» a favore dell’Inghilterra:
l’accusa di Crispi era, in forma avventata, la manifestazione di una
preoccupazione che ossessionava realmente il gruppo dirigente nazionale piú
responsabile e sensibile).
L’allargamento del suffragio nel 1913 aveva già suscitato i
primi accenni di quel fenomeno che avrà la massima espressione nel ’19-20-21 in conseguenza
dell’esperienza politico-organizzativa acquistata dalle masse contadine in
guerra, cioè la rottura relativa del blocco rurale meridionale e il distacco
dei contadini, guidati da una parte degli intellettuali (ufficiali in guerra),
dai grandi proprietari; si ha cosí il sardismo, il partito riformista siciliano
(il cosí detto gruppo parlamentare Bonomi era costituito dal Bonomi e da 22 deputati
siciliani) con l’ala estrema separatista rappresentata da «Sicilia Nuova», il
gruppo del «Rinnovamento» nel Mezzogiorno costituito da combattenti che tentò
costituire partiti regionali d’azione sul tipo sardo (cfr. la rivista «Volontà»
del Torraca, la trasformazione del «Popolo Romano», ecc.). In questo movimento
l’importanza autonoma delle masse contadine è graduata dalla Sardegna al
Mezzogiorno alla Sicilia, a seconda della forza organizzata, del prestigio e
della pressione ideologica esercitata dai grandi proprietari, che hanno in
Sicilia un massimo di organizzazione e di compattezza e hanno invece
un’importanza relativamente piccola in Sardegna. Altrettanto graduata è
l’indipendenza relativa dei rispettivi ceti intellettuali, naturalmente in
senso inverso a quello dei proprietari. (Per intellettuali occorre intendere
non solo quei ceti comunemente intesi con questa denominazione, ma in generale
tutto lo strato sociale che esercita funzioni organizzative in senso lato, sia
nel campo della produzione, sia in quello della cultura, e in quello
politico-amministrativo: corrispondono ai sotto-ufficiali e ufficiali
subalterni nell’esercito e anche in parte agli ufficiali superiori di origine
subalterna). Per analizzare la funzione politico-sociale degli intellettuali
occorre ricercare ed esaminare il loro atteggiamento psicologico verso le
classi fondamentali che essi mettono a contatto nei diversi campi: hanno un
atteggiamento «paternalistico» verso le classi strumentali? o credono di
esserne una espressione organica? hanno un atteggiamento «servile» verso le
classi dirigenti o si credono essi stessi dirigenti, parte integrante delle
classi dirigenti?
Nello sviluppo del Risorgimento, il cosí detto Partito
d’Azione aveva un atteggiamento «paternalistico», perciò non è riuscito che in
misura molto limitata a mettere le grandi masse popolari a contatto dello
Stato. Il cosí detto «trasformismo» non è che l’espressione parlamentare del
fatto che il Partito d’Azione viene incorporato molecolarmente dai moderati e le
masse popolari vengono decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo Stato.
Dal rapporto città-campagna deve muovere l’esame delle forze
motrici fondamentali della storia italiana e dei punti programmatici da cui
occorre studiare e giudicare l’indirizzo del Partito d’Azione nel Risorgimento.
Schematicamente si può avere questo quadro: 1) la forza urbana settentrionale;
2) la forza rurale meridionale; 3) la forza rurale settentrionale-centrale;
4-5) la forza rurale della Sicilia e della Sardegna.
Restando ferma la funzione di «locomotiva» della prima
forza, occorre esaminare le diverse combinazioni «piú utili» atte a costruire
un «treno» che avanzi il piú speditamente nella storia. Intanto la prima forza
comincia con l’avere dei problemi propri, interni, di organizzazione, di
articolazione per omogeneità, di direzione politico-militare (egemonia
piemontese, rapporto tra Milano e Torino ecc.); ma rimane fissato che, già
«meccanicamente», se tale forza ha raggiunto un certo grado di unità e di
combattività, essa esercita una funzione direttiva «indiretta» sulle altre. Nei
diversi periodi del Risorgimento appare che il porsi di questa forza in una
posizione di intransigenza e di lotta contro il dominio straniero, determina
una esaltazione delle forze progressive meridionali: da ciò il sincronismo
relativo, ma non la simultaneità, nei movimenti del ’20-21, del ’31, del ’48.
Nel ’59-60 questo «meccanismo» storico-politico agisce con tutto il rendimento
possibile, poiché il Nord inizia la lotta, il Centro aderisce pacificamente o
quasi e nel Sud lo Stato borbonico crolla sotto la spinta dei garibaldini,
spinta relativamente debole. Questo avviene perché il Partito d’Azione
(Garibaldi) interviene tempestivamente, dopo che i moderati (Cavour) avevano
organizzato il Nord e il Centro; non è cioè la stessa direzione
politico-militare (moderati o Partito d’Azione) che organizza la simultaneità
relativa, ma la collaborazione (meccanica) delle due direzioni, che si
integrano felicemente.
La prima forza doveva quindi porsi il problema di
organizzare intorno a sé le forze urbane delle altre sezioni nazionali e
specialmente del Sud. Questo problema era il piú difficile, irto di
contraddizioni e di motivi che scatenavano ondate di passioni (una soluzione
burletta di queste contraddizioni fu la cosí detta rivoluzione parlamentare del
1876). Ma la sua soluzione, appunto per questo, era uno dei punti cruciali
dello sviluppo nazionale. Le forze urbane sono socialmente omogenee, quindi
devono trovarsi in una posizione di perfetta uguaglianza. Ciò era vero
teoricamente, ma storicamente la quistione si poneva diversamente: le forze
urbane del Nord erano nettamente alla testa della loro sezione nazionale,
mentre per le forze urbane del Sud ciò i non si verificava, per lo meno in
egual misura. Le forze urbane del Nord dovevano quindi ottenere da quelle del
Sud che la loro funzione direttiva si limitasse ad assicurare la direzione del
Nord verso il Sud nel rapporto generale di città-campagna, cioè la funzione
direttiva delle forze urbane del Sud non poteva essere altro che un momento
subordinato della piú vasta funzione direttiva del Nord. La contraddizione piú
stridente nasceva da questo ordine di fatti: la forza urbana del Sud non poteva
essere considerata come qualcosa a sé, indipendente da quella del Nord; porre
la quistione cosí avrebbe significato affermare pregiudizialmente un insanabile
dissidio «nazionale», dissidio tanto grave che neanche la soluzione
federalistica avrebbe potuto comporre; si sarebbe affermata l’esistenza di
nazioni diverse, tra le quali avrebbe potuto realizzarsi solo un’alleanza
diplomatico-militare contro il comune nemico, l’Austria (l’unico elemento di
comunità e solidarietà, insomma, sarebbe consistito solo nell’avere un «comune»
nemico). In realtà, però, esistevano solo alcuni «aspetti» della quistione
nazionale, non «tutti» gli aspetti e neanche quelli piú essenziali. L’aspetto
piú grave era la debole posizione delle forze urbane meridionali in rapporto
alle forze rurali, rapporto sfavorevole che si manifestava talvolta in una vera
e propria soggezione della città alla campagna. Il collegamento stretto tra
forze urbane del Nord e del Sud, dando alle seconde la forza rappresentativa
del prestigio delle prime, doveva aiutare quelle a rendersi autonome, ad
acquistare coscienza della loro funzione storica dirigente in modo «concreto» e
non puramente teorico e astratto, suggerendo le soluzioni da dare ai vasti
problemi regionali. Era naturale che si trovassero forti opposizioni nel Sud
all’unità: il compito piú grave per risolvere la situazione spettava in ogni
modo alle forze urbane del Nord, che non solo dovevano convincere i loro
«fratelli» del Sud, ma dovevano incominciare [a convincere] se stesse di questa
complessità di sistema politico: praticamente quindi la quistione si poneva
nell’esistenza di un forte centro di direzione politica, al quale
necessariamente avrebbero dovuto collaborare forti e popolari individualità
meridionali e delle isole. Il problema di creare una unità Nord-Sud era
strettamente legato e in gran parte assorbito nel problema di creare una
coesione e una solidarietà tra tutte le forze urbane nazionali. (Il
ragionamento svolto piú sopra è infatti valido per tutte e tre le sezioni
meridionali, Napoletano, Sicilia, Sardegna).
Le forze rurali settentrionali-centrali ponevano alla loro
volta una serie di problemi che la forza urbana del Nord doveva porsi per
stabilire un rapporto normale città-campagna, espellendo le interferenze e gli
influssi di origine estranea allo sviluppo del nuovo Stato. In queste forze
rurali occorreva distinguere due correnti: quella laica e quella
clericale-austriacante. La forza clericale aveva il suo peso massimo nel
Lombardo-Veneto, oltre che in Toscana e in una parte dello Stato pontificio;
quella laica nel Piemonte, con interferenze piú o meno vaste nel resto
d’Italia, oltre che nelle legazioni, specialmente in Romagna, anche nelle altre
sezioni, fino al Mezzogiorno e alle Isole. Risolvendo bene questi rapporti
immediati, le forze urbane settentrionali avrebbero dato un ritmo a tutte le
quistioni simili su scala nazionale.
Su tutta questa serie di problemi complessi il Partito
d’Azione fallí completamente: esso si limitò infatti a fare quistione di
principio e di programma essenziale quello che era semplicemente quistione del
terreno politico su cui tali problemi avrebbero potuto accentrarsi e trovare
una soluzione legale; la quistione della Costituente. Non si può dire che abbia
fallito il partito moderato, che si proponeva l’espansione organica del
Piemonte, voleva soldati per l’esercito piemontese e non insurrezioni o armate
garibaldine troppo vaste.
Perché il Partito d’Azione non pose in tutta la sua
estensione la quistione agraria? Che non la ponessero i moderati era ovvio:
l’impostazione data dai moderati al problema nazionale domandava un blocco di
tutte le forze di destra, comprese le classi dei grandi proprietari terrieri,
intorno al Piemonte come Stato e come esercito. La minaccia fatta dall’Austria
di risolvere la quistione agraria a favore dei contadini, minaccia che ebbe
effettuazione in Galizia contro i nobili polacchi a favore dei contadini
ruteni, non solo gettò lo scompiglio tra gli interessati in Italia,
determinando tutte le oscillazioni dell’aristocrazia (fatti di Milano del
febbraio ’53 e atto di omaggio delle piú illustri famiglie milanesi a Francesco
Giuseppe proprio alla vigilia delle forche di Belfiore), ma paralizzò lo stesso
Partito d’Azione, che in questo terreno pensava come i moderati e riteneva
«nazionali» l’aristocrazia e i proprietari e non i milioni di contadini. Solo
dopo il febbraio ’53 Mazzini ebbe qualche accenno sostanzialmente democratico
(vedi Epistolario di quel periodo), ma non fu capace di una
radicalizzazione decisiva del suo programma astratto. È da studiare la condotta
politica dei garibaldini in Sicilia nel 1860, condotta politica che era dettata
da Crispi: i movimenti di insurrezione dei contadini contro i baroni furono
spietatamente schiacciati e fu creata la Guardia nazionale anticontadina; è tipica la
spedizione repressiva di Nino Bixio nella regione catanese, dove le
insurrezioni furono piú violente. Eppure anche nelle Noterelle di G. C.
Abba ci sono elementi per dimostrare che la quistione agraria era la molla per
far entrare in moto le grandi masse: basta ricordare i discorsi dell’Abba col
frate che va incontro ai garibaldini subito dopo lo sbarco di Marsala. In
alcune novelle di G. Verga ci sono elementi pittoreschi di queste sommosse
contadine, che la Guardia
nazionale soffocò col terrore e con la fucilazione in massa. (Questo aspetto
della spedizione dei Mille non è stato mai studiato e analizzato).
La non impostazione della quistione agraria portava alla
quasi impossibilità di risolvere la quistione del clericalismo e
dell’atteggiamento antiunitario del Papa. Sotto questo riguardo i moderati
furono molto piú arditi del Partito d’Azione: è vero che essi non distribuirono
i beni ecclesiastici fra i contadini, ma se ne servirono per creare un nuovo
ceto di grandi e medi proprietari legati alla nuova situazione politica, e non
esitarono a manomettere la proprietà terriera, sia pure solo quella delle
Congregazioni. Il Partito d’Azione, inoltre, era paralizzato, nella sua azione
verso i contadini, dalle velleità mazziniane di una riforma religiosa, che non
solo non interessava le grandi masse rurali, ma al contrario le rendeva
passibili di una sobillazione contro i nuovi eretici. L’esempio della
Rivoluzione francese era lí a dimostrare che i giacobini, che erano riusciti a
schiacciare tutti i partiti di destra fino ai girondini sul terreno della
quistione agraria e non solo a impedire la coalizione rurale contro Parigi ma a
moltiplicare i loro aderenti nelle province, furono danneggiati dai tentativi
di Robespierre di instaurare una riforma religiosa, che pure aveva, nel
processo storico reale, un significato e una concretezza immediati.
(Bisognerebbe studiare attentamente la politica agraria reale della Repubblica
Romana e il vero carattere della missione repressiva data da Mazzini a Felice
Orsini nelle Romagne e nelle Marche: in questo periodo e fino al ’70 – anche
dopo – col nome di brigantaggio si intendeva quasi sempre il movimento caotico,
tumultuario e punteggiato di ferocia, dei contadini per impadronirsi della
terra).
I moderati e gli intellettuali. Perché i moderati
dovevano avere il sopravvento nella massa degli intellettuali. Gioberti e
Mazzini. Gioberti offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come
originale e nel tempo stesso nazionale, tale da porre l’Italia almeno allo
stesso livello delle nazioni piú progredite e dare una nuova dignità al
pensiero italiano. Mazzini invece offriva solo delle affermazioni nebulose e
degli accenni filosofici che a molti intellettuali, specialmente napoletani,
dovevano apparire come vuote chiacchiere (l’abate Galiani aveva insegnato a
sfottere quel modo di pensare e di ragionare).
Quistione della scuola: attività dei moderati per introdurre
il principio pedagogico dell’insegnamento reciproco (Confalonieri, Capponi
ecc.); movimento di Ferrante Aporti e degli asili, legato al problema del
pauperismo. Nei moderati si affermava il solo movimento pedagogico concreto
opposto alla scuola «gesuitica»; ciò non poteva non avere efficacia sia tra i
laici, ai quali dava nella scuola una propria personalità, sia nel clero
liberaleggiante e antigesuitico (ostilità accanita contro Ferrante Aporti,
ecc.; il ricovero e l’educazione dell’infanzia abbandonata era un monopolio
clericale e queste iniziative spezzavano il monopolio). Le attività scolastiche
di carattere liberale o liberaleggiante hanno un gran significato per afferrare
il meccanismo dell’egemonia dei moderati sugli intellettuali. L’attività
scolastica, in tutti i suoi gradi, ha un’importanza enorme, anche economica,
per gli intellettuali di tutti i gradi: l’aveva allora anche maggiore di oggi,
data la ristrettezza dei quadri sociali e le scarse strade aperte
all’iniziativa dei piccoli borghesi (oggi: giornalismo, movimento dei partiti,
industria, apparato statale estesissimo ecc., hanno allargato in modo inaudito
le possibilità di impiego).
L’egemonia di un centro direttivo sugli intellettuali si
afferma attraverso due linee principali: 1) una concezione generale della vita,
una filosofia (Gioberti), che offra agli aderenti una «dignità» intellettuale
che dia un principio di distinzione e un elemento di lotta contro le vecchie
ideologie dominanti coercitivamente; 2) un programma scolastico, un principio
educativo e pedagogico originale che interessi e dia un’attività propria, nel
loro campo tecnico, a quella frazione degli intellettuali che è la piú omogenea
e la piú numerosa (gli insegnanti, dal maestro elementare ai professori di
università).
I Congressi degli scienziati che furono organizzati
ripetutamente nel periodo del primo Risorgimento ebbero una doppia efficacia:
1) riunire gli intellettuali del grado piú elevato, concentrandoli e
moltiplicando il loro influsso; 2) ottenere una piú rapida concentrazione e un
piú deciso orientamento negli intellettuali dei gradi inferiori, che sono
portati normalmente a seguire gli Universitari e i grandi scienziati per
spirito di casta.
Lo studio delle riviste enciclopediche e specializzate dà un
altro aspetto dell’egemonia dei moderati. Un partito come quello dei moderati
offriva alla massa degli intellettuali tutte le soddisfazioni per le esigenze
generali che possono essere offerte da un governo (da un partito al governo),
attraverso i servizi statali. (Per questa funzione di partito italiano di
governo, serví ottimamente dopo il ’48-49 lo Stato piemontese, che accolse gli
intellettuali esuli e mostrò in modello ciò che avrebbe fatto un futuro Stato
unificato).
[La funzione del Piemonte, I.] La funzione del
Piemonte nel Risorgimento italiano è quella di una «classe dirigente». In
realtà non si tratta del fatto che in tutto il territorio della penisola
esistessero nuclei di classe dirigente omogenea la cui irresistibile tendenza a
unificarsi abbia determinato la formazione del nuovo Stato nazionale italiano.
Questi nuclei esistevano, indubbiamente, ma la loro tendenza a unirsi era molto
problematica, e ciò che piú conta, essi, ognuno nel suo ambito, non erano
«dirigenti». Il dirigente presuppone il «diretto», e chi era diretto da questi
nuclei? Questi nuclei non volevano «dirigere» nessuno, cioè non volevano
accordare i loro interessi e aspirazioni con gli interessi ed aspirazioni di
altri gruppi. Volevano «dominare» non «dirigere» e ancora: volevano che
dominassero i loro interessi, non le loro persone, cioè volevano che una forza
nuova, indipendente da ogni compromesso e condizione, divenisse l’arbitra della
Nazione: questa forza fu il Piemonte e quindi la funzione della monarchia. Il
Piemonte ebbe pertanto una funzione che può, per certi aspetti, essere
paragonata a quella del partito, cioè del personale dirigente di un gruppo
sociale (e si parlò sempre infatti di «partito piemontese»); con la
determinazione che si trattava di uno Stato, con un esercito, una diplomazia
ecc.
Questo fatto è della massima importanza per il concetto di
«rivoluzione passiva», che cioè non un gruppo sociale sia il dirigente di altri
gruppi, ma che uno Stato, sia pure limitato come potenza, sia il «dirigente»
del gruppo che esso dovrebbe essere dirigente, e possa porre a disposizione di
questo un esercito e una forza politico-diplomatica. Si può riferirsi a quella
che è stata chiamata la funzione del «Piemonte» nel linguaggio politico-storico
internazionale. La Serbia
prima della guerra si atteggiava a «Piemonte» dei Balcani. (Del resto la Francia, dopo il 1789 e
per molti anni, fino al colpo di Stato di Luigi Napoleone fu in questo senso,
il Piemonte dell’Europa). Che la
Serbia non sia riuscita come è riuscito il Piemonte è dovuto
al fatto che nel dopoguerra si è avuto un risveglio politico dei contadini
quale non esisteva dopo il 1848. Se si studia da vicino ciò che avviene nel
regno jugoslavo, si vede che in esso le forze «serbiste» o favorevoli
all’egemonia serba, sono le forze contrarie alla riforma agraria. Troviamo un
blocco rurale-intellettuale antiserbo, e le forze conservatrici favorevoli alla
Serbia sia in Croazia che nelle altre regioni non serbe. Anche in questo caso
non esistono nuclei locali «dirigenti», ma diretti dalla forza serba, mentre le
forze sovvertitrici non hanno, come funzione sociale, una grande importanza.
Per chi osserva superficialmente le cose serbe, sarebbe da domandare cosa
sarebbe avvenuto se il cosí detto brigantaggio che si ebbe nel Napoletano e in
Sicilia dal ’60 al ’70 si fosse avuto dopo il 1919. Indubbiamente il fenomeno è
lo stesso, ma il peso sociale e l’esperienza politica delle masse contadine è
ben diverso dopo il 1919, da quelli che erano dopo il 1848.
L’importante è di approfondire il significato che ha una
funzione tipo «Piemonte» nelle rivoluzioni passive, cioè il fatto che uno Stato
si sostituisce ai gruppi sociali locali nel dirigere una lotta di rinnovamento.
È uno dei casi in cui si ha la funzione di «dominio» e non di «dirigenza» in
questi gruppi: dittatura senza egemonia. L’egemonia sarà di una parte del
gruppo sociale sull’intiero gruppo, non di questo su altre forze per potenziare
il movimento, radicalizzarlo ecc. sul modello «giacobino».
II. Studi rivolti a cogliere le analogie tra il periodo
successivo alla caduta di Napoleone e quello successivo alla guerra del ’14-18.
Le analogie sono viste solo sotto due punti di vista: la divisione territoriale
e quella, piú vistosa e superficiale, del tentativo di dare una organizzazione
giuridica stabile ai rapporti internazionali (Santa Alleanza e Società delle
Nazioni). Pare invece che il tratto piú importante da studiare sia quello che
si è detto della «rivoluzione passiva», problema che non appare vistosamente
perché manca un parallelismo esteriore alla Francia del 1789-1815. E tuttavia
tutti riconoscono che la guerra del ’14-18 rappresenta una frattura storica,
nel senso che tutta una serie di quistioni che molecolarmente si accumulavano
prima del 1914 hanno appunto fatto «mucchio», modificando la struttura generale
del processo precedente: basta pensare all’importanza che ha assunto il
fenomeno sindacale, termine generale in cui si assommano diversi problemi e
processi di sviluppo di diversa importanza e significato (parlamentarismo,
organizzazione industriale, democrazia, liberalismo, ecc.), ma che
obiettivamente riflette il fatto che una nuova forza sociale si è costituita,
ha un peso non piú trascurabile, ecc.
[Il nodo storico 1848-49.] Mi pare che gli
avvenimenti degli anni 1848-49, data la loro spontaneità, possano essere
considerati come tipici per lo studio delle forze sociali e politiche della
nazione italiana. Troviamo in quegli anni alcune formazioni fondamentali: i
reazionari moderati, municipalisti – i neoguelfi-democrazia cattolica – e il
Partito d’Azione-democrazia liberale di sinistra borghese nazionale. Le tre forze
sono in lotta fra loro e tutte e tre sono successivamente sconfitte nel corso
dei due anni. Dopo la sconfitta avviene una riorganizzazione delle forze verso
destra dopo un processo interno in ognuno dei gruppi di chiarificazione e
scissione. La sconfitta piú grave è quella dei neoguelfi, che muoiono come
democrazia cattolica e si riorganizzano come elementi sociali borghesi della
campagna e della città insieme ai reazionari costituendo la nuova forza di
destra liberale conservatrice. Si può istituire un parallelo tra i neoguelfi e
il Partito Popolare, nuovo tentativo di creare una democrazia cattolica,
fallito allo stesso modo e per ragioni simili. Cosí come il fallimento del
Partito d’Azione rassomiglia a quello del «sovversivismo» del ’19-20.
Ricostruire ed analizzare minutamente il succedersi dei
governi e delle combinazioni di partiti (costituzionali e assolutisti) nel
Piemonte dall’inizio del nuovo regime fino al proclama di Moncalieri, da Solaro
della Margarita a Massimo d’Azeglio. Funzione del Gioberti e del Rattazzi e
loro effettivo potere sulla macchina statale, che era rimasta immutata o quasi
dal tempo dell’assolutismo.
Significato del così detto connubio Cavour-Rattazzi:
fu il primo passo della disgregazione democratica? ma fino a qual punto il Rattazzi
poteva dirsi un liberale-democratico?
Il federalismo di Ferrari-Cattaneo. Fu l’impostazione
politico-storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia. La
Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al Piemonte: era piú
progredita, intellettualmente, politicamente, economicamente, del Piemonte.
Aveva fatto, con forze e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le
Cinque giornate: era, forse, piú italiana del Piemonte, nel senso che
rappresentava l’Italia meglio del Piemonte. Che il Cattaneo presentasse il
federalismo come immanente in tutta la storia italiana non è altro che elemento
ideologico, mitico, per rafforzare il programma politico attuale. Perché accusare
il federalismo di aver ritardato il moto nazionale e unitario? Bisogna ancora
insistere sul criterio metodologico che altro è la storia del Risorgimento e
altro l’agiografia delle forze patriottiche e anzi di una frazione di esse,
quelle unitarie. Il Risorgimento è uno svolgimento storico complesso e
contraddittorio, che risulta integrale da tutti i suoi elementi antitetici, dai
suoi protagonisti e dai suoi antagonisti, dalle loro lotte, dalle modificazioni
reciproche che le lotte stesse determinano e anche dalla funzione delle forze
passive e latenti come le grandi masse agricole, oltre, naturalmente, la
funzione eminente dei rapporti internazionali.
La lega doganale, promossa da Cesare Balbo e stretta a
Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e
dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della Confederazione
politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo, facendo abortire anche la lega
doganale. La
Confederazione era desiderata dagli Stati minori italiani; i
reazionari piemontesi (fra cui il Balbo) credendo ormai assicurata l’espansione
territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che
l’avrebbero ostacolata (il Balbo nelle Speranze d’Italia aveva sostenuto
che la Confederazione
era impossibile finché una parte d’Italia fosse stata in mano agli stranieri!?)
e disdissero la
Confederazione dicendo che le leghe si stringono prima o dopo
le guerre (!?): la
Confederazione fu respinta nel ’48, nei primi mesi
(confrontare).
Gioberti, con altri, vedevano nella Confederazione politica
e doganale, stretta anche durante la guerra, la necessaria premessa per rendere
possibile l’attuazione del motto «l’Italia farà da sé». Questa politica infida
nei rapporti della Confederazione, con le altre direttive altrettanto fallaci a
proposito dei volontari e della Costituente, mostra che il moto del ’48 fallí
per gli intrighi furbescamente meschini dei destri, che furono i moderati del
periodo successivo. Essi non seppero dare un indirizzo, né politico, né
militare, al moto nazionale.
Novara. Nel febbraio 1849 Silvio Spaventa visitò a
Pisa il D’Azeglio, e del colloquio fa ricordo in uno scritto politico composto
nel 1856, mentre era all’ergastolo: «Un uomo di Stato piemontese dei piú
illustri diceva a me un mese innanzi: noi non possiamo vincere, ma combatteremo
di nuovo: la nostra sconfitta sarà la sconfitta di quel partito che oggi ci
risospinge alla guerra; e tra una sconfitta e una guerra civile noi scegliamo
la prima: essa ci darà la pace interna e la libertà e l’indipendenza del
Piemonte, che non può darci l’altra. Le previsioni di quel saggio (!) uomo si
avverarono. La battaglia di Novara fu perduta per la causa dell’indipendenza e
guadagnata per la libertà del Piemonte. E Carlo Alberto fece, secondo me, il
sacrifizio della sua corona piú a questa che a quella» (cfr. Silvio Spaventa, Dal
1848 al 1861. Lettere, scritti, documenti, pubblicati da B. Croce, 2ª ed.,
Laterza, p. 58, nota). È da domandare se si avverarono le «previsioni», o se fu
preparata la sconfitta da uomini tanto saggi quanto il D’Azeglio.
In un articolo pubblicato nel «Corriere della Sera» del 14
maggio 1934 (Onoranze americane a Filippo Caronti), Antonio Monti
riporta dalle Memorie del Caronti (inedite e possedute dal Museo del
Risorgimento di Milano) questi due episodi: il Caronti, dopo aver vinto gli
Austriaci a Como nel 1848, formò una compagnia di volontari e andò a Torino per
avere le armi. Il ministro Balbo gli dette questa risposta che il Monti dice
«stupefacente»: «È inutile ormai l’armarsi, giacché un esercito regolare e
forte debellerà il nemico. Volete forse servirvi delle armi fra voi onde le
discordie fra Comaschi e Milanesi risorgano a danno del buon esito della causa
italiana?» (Non è inutile ricordare che poco prima della guerra del ’48 il
Piemonte si era sguarnito di armi per inviarle in Isvizzera ai cattolici
reazionari insorti del Sonderbund). Sulla «preparazione» della sconfitta di
Novara il Caronti narra che mentre si preparava febbrilmente una ripresa della
lotta armata a Como e si organizzavano volontari, giunse la notizia
dell’armistizio concluso dopo Novara dal generale Chrzanowsky (il Monti scrive
Czarnowsky). Il Caronti affrontò il generale che disse: «Nous avons conclu un
armistice honorable. – Comment, honorable? – Oui, très honorable avec une armée
qui ne se bat pas». Il colloquio è confermato da Gabriele Camozzi.
Ma non importano le parole del generale polacco, che era una
festuca presa nella tormenta, ma l’indirizzo dato alla politica militare dal
governo piemontese, che preferiva la sconfitta a una insurrezione generale
italiana.
Risorgimento e quistione orientale. In tutta una
serie di scritti (tendenziosi a favore dei moderati) si dà un significato
trascendentale alle manifestazioni letterarie del periodo del Risorgimento, in
cui la quistione orientale è prospettata in funzione dei problemi italiani:
disegni di inorientamento e balcanizzazione dell’Austria per compensarla del
Lombardo-Veneto ceduto pacificamente a profitto della rinascita nazionale
italiana, ecc. Non pare che tali disegni siano prova di grande capacità
politica, come si pretende: pare piuttosto debbano essere interpretati come
espressione di passività politica e di scoramento dinanzi alle difficoltà
dell’impresa nazionale, scoramento che si vela di disegni tanto piú grandiosi
quanto piú astratti e vaghi in quanto non dipendeva dalle forze italiane il
portarli a compimento «Balcanizzare» l’Austria significava infatti creare una
situazione politico-diplomatica europea (e implicitamente militare) in forza
della quale l’Austria si fosse lasciata «balcanizzare»; significava avere
l’egemonia politica e diplomatica dell’Europa, una cosa da nulla! Non si
comprende perché l’Austria non potesse, conservando il Lombardo-Veneto, cioè la
supremazia in Italia e una posizione dominante nel Mediterraneo centrale,
conquistare anche una maggiore influenza nei Balcani e quindi nel Mediterraneo
orientale: questo anzi sarebbe stato l’interesse dell’Inghilterra, che fondava
sull’Austria un sistema di equilibrio contro la Francia e contro la Russia. Lo stesso
scarso sentimento di iniziativa politica autonoma e la sfiducia nelle proprie
forze, – che erano impliciti nel disegno del Balbo – dovevano rendere sorda
l’Inghilterra a tali suggerimenti. Solo un forte Stato italiano, che avesse
potuto sostituire l’Austria nella sua funzione antifrancese nel Mediterraneo
centrale, avrebbe potuto muovere l’Inghilterra a simpatie verso l’Italia, come
avvenne infatti dopo le annessioni nell’Italia centrale e l’impresa dei Mille
contro i Borboni: prima di questi fatti reali, solo un grande partito pieno di
decisione e di audacia e sicuro delle proprie mosse perché radicato nelle
grandi masse popolari, avrebbe ottenuto forse lo stesso risultato, ma ciò
appunto non esisteva e anzi il Balbo coi suoi amici non volevano si formasse.
La balcanizzazione dell’Austria dopo la perdita dell’egemonia nella penisola e
rimanendo i Borboni a Napoli (secondo il piano neoguelfo) avrebbe avuto
conseguenze gravi per la politica inglese nel Mediterraneo. Lo Stato napoletano
sarebbe diventato un feudo russo, cioè la Russia avrebbe avuto la possibilità di un’azione
militare proprio nel centro del Mediterraneo. (La quistione dei rapporti tra i
Borboni di Napoli e lo zarismo è tutto un aspetto della storia dal 1799 al 1860
da esaminare e approfondire: dal libro del Nitti sul Capitale straniero in
Italia, stampato nel 1915 da Laterza, si vede che ancora esistevano
nell’Italia Meridionale per circa 150 milioni di obbligazioni statali russe,
residuo non trascurabile della connessione che si era venuta formando tra Napoli
e la Russia
prima del 1860, contro l’Inghilterra). Non bisogna dimenticare che la Quistione orientale, se
aveva il suo nodo strategico nei Balcani e nell’Impero turco, era specialmente
la forma politico-diplomatica della lotta tra Russia e Inghilterra: era cioè la
quistione del Mediterraneo, dell’Asia prossima e centrale, dell’India,
dell’Impero Inglese. Il libro in cui il Balbo sostenne la sua tesi, Le
Speranze d’Italia, fu pubblicato nel 1844 e la tesi stessa non ebbe
altra efficacia se non quella di far conoscere la quistione orientale attirando
l’attenzione su di essa, e quindi di facilitare (forse) la politica di Cavour a
proposito della guerra di Crimea. Non ebbe nessuna efficacia nel ’59 (quando il
Piemonte e la Francia
pensarono di suscitare nemici all’Austria nei Balcani per illanguidirne le
forze militari) perché una tale azione fu circoscritta, di poco respiro e in
ogni caso si ridusse a un episodio di organizzazione dell’attività militare
franco-piemontese: lo stesso si dica per il 1866, quando una simile diversione
fu pensata dal governo italiano e da Bismark per la guerra contro l’Austria.
Cercare, in tempo di guerra, di indebolire il nemico suscitandogli nemici
all’interno e su tutto il perimetro dei confini politico-militari non è elemento
di un piano politico per l’Oriente ma fatto di ordinaria amministrazione della
condotta bellica. Del resto, dopo il ’60 e la formazione di uno Stato italiano
di notevole importanza, l’inorientamento dell’Austria aveva un ben diverso
significato internazionale e trovava consenzienti tanto l’Inghilterra che la Francia.
Qualche pubblicazione recente si è occupata dei progetti
borbonici, rimasti progetti, di espansione in Oriente, per trarne argomento di
riabilitazione del governo napoletano; tali progetti saranno stati visti
volentieri dalla Russia e impediti dall’Inghilterra, che sulla quistione di
Malta fu intrattabile verso Napoli. (Sarà da vedere il volume di Pietro Silva
sul Mediterraneo).
Momenti di vita intensamente collettiva e unitaria nello
sviluppo nazionale del popolo italiano. Esaminare nello svolgimento della
vita nazionale dal 1800 in
poi tutti i momenti in cui al popolo italiano si è posto da risolvere un
compito almeno potenzialmente comune, in cui avrebbero potuto verificarsi
perciò un’azione o un moto di carattere collettivo (in profondità e in
estensione) e unitario. Questi momenti, nelle diverse fasi storiche, possono
essere stati di diversa natura e di diversa importanza nazionale-popolare. Ciò
che importa nella ricerca è il carattere potenziale (e quindi la misura in cui
la potenzialità si è tradotta in atto) di collettività e di unitarietà, cioè la
diffusione territoriale (la regione risponde a questa esigenza, se non
addirittura la provincia) e la intensità di massa (cioè la maggiore o minore
moltitudine di partecipanti, la maggiore o minore ripercussione positiva e
anche attivamente negativa che il moto ha avuto nei diversi strati della
popolazione).
Questi momenti possono aver avuto carattere e natura
diversi: guerre, rivoluzioni, plebisciti, elezioni generali di particolare
significato. Guerre: 1848-49, 1859, 1860, 1866, 1870, guerre d’Africa (Eritrea
e Libia), guerra mondiale. Rivoluzioni: 1820-21, 1831, 1848-49, 1860, fasci
siciliani, 1898, 1904, 1914, 1919-20, 1924-25. Plebisciti per la formazione del
Regno: 1859-60, 1866, 1870. Elezioni generali con diversa estensione di
suffragio. Elezioni tipiche: quella che porta la Sinistra al potere nel
1876, quella dopo l’allargamento del suffragio dopo il 1880, quella dopo il
1898. L’elezione del 1913 è la prima con caratteri popolari spiccati per la
larghissima partecipazione dei contadini; quella del 1919 è la piú importante
di tutte per il carattere proporzionale e provinciale del voto che obbliga i
partiti a raggrupparsi e perché in tutto il territorio, per la prima volta, si
presentano gli stessi partiti con gli stessi (all’ingrosso) programmi. In
misura molto maggiore e piú organica che nel 1913 (quando il collegio
uninominale restringeva le possibilità e falsificava le posizioni politiche di
massa per l’artificiosa delimitazione dei collegi) nel 1919 in tutto il
territorio, in uno stesso giorno, tutta la parte piú attiva del popolo italiano
si pone le stesse quistioni e cerca di risolverle nella sua coscienza
storico-politica. Il significato delle elezioni del 1919 è dato dal complesso
di elementi «unificatori», positivi e negativi, che vi confluiscono: la guerra
era stata un elemento unificatore di primo ordine in quanto aveva dato la
coscienza alle grandi masse dell’importanza che ha anche per il destino di ogni
singolo individuo la costruzione dell’apparato governativo, oltre all’aver
posto una serie di problemi concreti, generali e particolari, che riflettevano
l’unità popolare-nazionale. Si può affermare che le elezioni del 1919 ebbero
per il popolo un carattere di Costituente (questo carattere lo ebbero anche le
elezioni del 1913, come può ricordare chiunque abbia assistito alle elezioni
nei centri regionali dove maggiore era stata la trasformazione del corpo
elettorale e come fu dimostrato dall’alta percentuale di partecipazione al
voto: era diffusa la convinzione mistica che tutto sarebbe cambiato dopo il
voto, di una vera e propria palingenesi sociale: cosí almeno in Sardegna)
sebbene non l’abbiano avuto per «nessun» partito del tempo: in questa
contraddizione e distacco tra il popolo e i partiti è consistito il dramma
storico del 1919, che fu capito immediatamente solo da alcuni gruppi dirigenti
piú accorti e intelligenti (e che avevano piú da temere per il loro avvenire).
È da notare che proprio il partito tradizionale della costituente in Italia, il
repubblicano, dimostrò il minimo di sensibilità storica e di capacità politica
e si lasciò imporre il programma e l’indirizzo (cioè una difesa astratta e
retrospettiva dell’intervento in guerra) dai gruppi dirigenti di Destra. Il
popolo, a suo modo, guardava all’avvenire (anche nella quistione
dell’intervento in guerra) e in ciò è il carattere implicito di costituente che
il popolo diede alle elezioni del 1919; i partiti guardavano al passato (solo
al passato) concretamente e all’avvenire «astrattamente», «genericamente», come
«abbiate fiducia nel vostro partito» e non come concezione storico-politica
costruttiva. Tra le altre differenze tra il 1913 e il 1919 occorre ricordare la
partecipazione attiva dei cattolici, con uomini propri, con un proprio partito,
con un proprio programma. Anche nel 1913 i cattolici avevano partecipato alle
elezioni, ma attraverso il patto Gentiloni, in modo sornione e che falsificava
il significato dello schieramento e dell’influsso delle forze politiche
tradizionali. Per il 1919 è da ricordare il discorso tenuto da Giolitti di
intonazione costituentistica (retrospettiva) e l’atteggiamento dei giolittiani
verso i cattolici quale risulta dagli articoli di Luigi Ambrosini nella
«Stampa». In realtà i giolittiani furono i vincitori delle elezioni, nel senso
che essi impressero il carattere di costituente senza costituente alle elezioni
stesse e riuscirono ad attrarre l’attenzione dall’avvenire al passato.
Serie di interpretazioni. A proposito del libro del
Rosselli su Pisacane. Le interpretazioni del passato, quando del passato
stesso si ricercano le deficienze e gli errori (di certi partiti o correnti)
non sono «storia» ma politica attuale in nuce. Ecco perché anche i «se» spesso
non tediano. È da dire che le «interpretazioni» del Risorgimento in Italia sono
legate a una serie di fatti: 1) a spiegare perché sia avvenuto il cosí detto
«miracolo» del Risorgimento: cioè si riconosce che le forze attive per l’unità
e l’indipendenza erano scarse e che l’evento non può essere spiegato solo con
tali forze, ma d’altronde non si vuole riconoscerlo apertamente per ragioni di
politica nazionale, e si costruiscono romanzi storici; 2) per non toccare il
Vaticano; 3) per non spiegare razionalmente il «brigantaggio» meridionale; 4)
piú tardi per spiegarsi la debolezza statale durante le guerre d’Africa (da ciò
prese lo spunto Oriani specialmente e quindi gli orianisti), per spiegare
Caporetto e il sovversivismo elementare del dopoguerra con le sue conseguenze
dirette e indirette.
La debolezza di tale tendenza «interpretativa» consiste in
ciò che rimase puro fatto intellettuale, non divenne la premessa a un movimento
politico nazionale. Solo con Piero Gobetti ciò stava delineandosi e in una
biografia del Gobetti bisognerebbe ricordarlo: perciò il Gobetti si stacca
dall’orianesimo e da Missiroli. Col Gobetti occorre porre il Dorso e come ombra
nel gioco Giovanni Ansaldo che è piú intellettuale del Missiroli. (Ansaldo è
«l’uomo del Guicciardini» divenuto esteta e letterato e che ha letto le pagine
del De Sanctis sull’uomo del Guicciardini. Si potrebbe dire dell’Ansaldo: «Un
giorno l’uomo del Guicciardini lesse le pagine del De Sanctis su se stesso e si
cammuffò da G. Ansaldo, prima e da stelletta nera piú tardi: ma il suo
“particulare” non riuscí a camuffarlo...»).
Una quistione che il Rosselli non pone bene nel Pisacane è
questa: come una classe dirigente possa dirigere le masse popolari, cioè essere
«dirigente»; il Rosselli non ha studiato cosa sia stato il «giacobinismo»
francese e come la paura del giacobinismo abbia appunto paralizzato l’attività
nazionale. Non spiega poi perché si sia formato il mito del «Mezzogiorno
polveriera d’Italia» in Pisacane e quindi in Mazzini. Tuttavia, questo punto è
basilare per comprendere Pisacane e l’origine delle sue idee che sono le stesse
che in Bakunin ecc. Cosí non si può vedere in Pisacane un «precursore» in atto
del Sorel, ma semplicemente un esemplare del «nichilismo» di origine russa e
della teoria della «pandistruzione» creatrice (anche con la malavita).
L’«iniziativa popolare» da Mazzini a Pisacane si colora delle tendenze
«populiste» estreme. (Forse il filone Herzen indicato da Ginzburg nella
«Cultura» del 1932 è da approfondire). Anche la lettera ai parenti dopo la fuga
con una donna maritata potrebbe essere sottoscritta dal Bazàrov di Padri e
figli (la lettera è pubblicata integralmente nella «Nuova Antologia» del
1932): c’è tutta la morale dedotta dalla natura come la rappresenta la scienza
naturale e il materialismo filosofico. Deve essere quasi impossibile
ricostruire la «cultura libresca» del Pisacane e fissare le «fonti» dei suoi
concetti: il solo modo di procedere è quello di ricostruire un certo ambiente
intellettuale di una certa emigrazione politica di dopo il ’48 in Francia e in
Inghilterra, di una «cultura parlata» di comunicazioni ideologiche avvenute
attraverso le discussioni e le conversazioni.
Cfr. la recensione di A. Omodeo (nella «Critica» del 20
luglio 1933) del libro di N. Rosselli su Carlo Pisacane, che è
interessante per molti aspetti. L’Omodeo ha l’occhio acuto nel rilevare non
solo le deficienze organiche del libro, ma anche le deficienze organiche
dell’impostazione che il Pisacane dava al problema del Risorgimento. Ma questa
acutezza gli viene dal fatto che egli si pone dal punto di vista «conservatore
e retrivo». Non pare esatta l’affermazione dell’Omodeo che il Pisacane sia
stato «un frammento del ’48 francese inserito nella storia d’Italia», cosí come
non è esatto il riaccostamento fatto dal Rosselli del Pisacane coi sindacalisti
moderni (Sorel ecc., in azione). Il Pisacane è da avvicinare ai rivoluzionari
russi, ai narodnichi, e perciò è interessante l’accenno fatto dal Ginzburg
all’influsso di Herzen sugli emigrati italiani. Che Bakunin, piú tardi, abbia
avuto tanta fortuna nel Mezzogiorno e in Romagna non è senza significato per
comprendere ciò che il Pisacane espresse al suo tempo, e pare strano che
proprio il Rosselli non abbia visto il nesso.
Il rapporto tra Pisacane e le masse plebee non è da vedere
nell’espressione socialistica né in quella sindacalistica, ma piuttosto in
quelle di tipo giacobino, sia pure estremo. La critica dell’Omodeo è troppo
facile all’impostazione del problema del Risorgimento su basi
plebee-socialistiche, ma non sarebbe altrettanto facile a quella su basi
«giacobine-riforma agraria», né sarebbe facile smentire l’egoismo gretto,
angusto, antinazionale delle classi dirigenti, che in realtà erano
rappresentate in questo caso dai nobili terrieri e dalla borghesia rurale
assenteista, e non dalla borghesia urbana di tipo industriale e dagli
intellettuali «ideologi», i cui interessi non erano «fatalmente» legati a
quelli dei terrieri, ma avrebbero dovuto essere legati a quelli dei contadini,
cioè furono scarsamente nazionali.
Cosí non è «tutto oro» l’osservazione dell’Omodeo che avere
dei programmi definiti era nel periodo del Risorgimento una debolezza, poiché
non si era elaborata la «tecnica» per realizzare i programmi stessi. A parte il
fatto che in Pisacane programmi definiti non ci furono, ma solo una «tendenza
generale» piú definita che in Mazzini (e in realtà piú nazionale che in
Mazzini), la teoria contro i programmi definiti è di carattere
schiettamente retriva e conservatrice. Che i programmi definiti debbano essere
elaborati tecnicamente per essere applicabili è certo, e che i programmi
definiti senza una elaborazione del processo tecnico per cui essi si
realizzeranno siano una vuotaggine è anche certo, ma è anche certo che i
politici come Mazzini, che non hanno «programmi definiti» lavorano solo per il
re di Prussia, sono fermenti di riscossa che infallantemente sarà monopolizzata
dagli elementi piú retrivi che attraverso la «tecnica» finiranno col prevalere
su tutti. In conclusione anche per il Pisacane è da dire che non rappresentava
nel Risorgimento una tendenza «realistica» perché isolato, senza un partito,
senza quadri predisposti per il futuro Stato, ecc. Ma la quistione non è tanto
di storia del Risorgimento, quanto di storia del passato vista con interessi
contemporanei molto immediati e da questo punto di vista la recensione
dell’Omodeo, come altri scritti dello stesso autore, è tendenziosa in senso
conservatore e retrivo. Del resto, questa recensione è interessante per
l’argomento delle «ideologie» moderne suscitate dal ripensamento sulla storia
del Risorgimento, che tanta importanza hanno per comprendere la cultura
italiana degli ultimi decenni.
Un argomento interessante, che è stato accennato dal
Gioberti (nel Rinnovamento per es.) è quello delle possibilità tecniche
della Rivoluzione nazionale in Italia durante il Risorgimento: quistione della
capitale rivoluzionaria (come Parigi per la Francia), della disposizione regionale delle
forze insurrezionali, ecc. L’Omodeo critica il Rosselli per non aver indagato
l’organizzazione meridionale, che non doveva essere tanto inefficiente nel
1857, se nel 1860 fu sufficiente a immobilizzare le forze borboniche, ma la
critica non pare molto fondata. Nel 1860 la situazione era completamente mutata
e bastò la passività per immobilizzare i Borboni, mentre nel 1857 la passività
e i quadri sulla carta erano inefficienti. Non si tratta dunque di confrontare
l’organizzazione del ’60 con quella del ’57, ma le diverse situazioni specialmente
«internazionali». È probabile anzi che come organizzazione nel ’60 si stesse
peggio che nel ’57 per la reazione avvenuta.
Dalla recensione dell’Omodeo è opportuno citare questo
brano: «Il Rosselli si entusiasma della maggiore ricchezza dei programmi. Ma il
programma, riferito a un’ipotetica situazione futura, è spesso un ingombrante e
inutile bagaglio: ciò che sopra tutto importa è la direzione, non la materiale
specificazione delle opere. Abbiam veduto tutti quel che valevano i programmi
per il dopoguerra, studiati quando non si sapeva ancora come si sarebbe usciti
dal cimento, in quali stati d’animo, con quali bisogni incalzanti! Falsa
concretezza, perciò, al disotto della indeterminatezza tanto rimproverata al
Mazzini. Inoltre, non pochi punti delle rivendicazioni socialistiche erano (e
sono) postulati senza la determinazione del processo tecnico per conseguirli, e
provocavano e provocano non solo o non tanto la reazione delle classi lese,
quanto la repugnanza di chi, libero dagli interessi (!) di classe, sente che
non è maturo né un nuovo ordine morale né un nuovo ordine giuridico: situazione
nettamente antitetica a quella della Rivoluzione francese che i diversi
socialismi vogliono esemplare: perché l’ordine nuovo giuridico-morale nel 1789
era vivo nella coscienza di tutti e si presentava di piana attuazione».
(«Critica», 20 luglio 1933, pp. 283-84). L’Omodeo è molto superficiale e
corrivo: le sue opinioni sono da porre a confronto col saggio del Croce sul Partito
come giudizio e come pregiudizio, pubblicato nel 1911. La verità è
che il programma del Pisacane era altrettanto indeterminato di quello del
Mazzini e anch’esso segnava solo una tendenza generale, che come tendenza era
un po’ piú precisa di quella del Mazzini. Ogni specificazione «concreta» di
programma e ogni determinazione del processo tecnico per conseguirne i punti
presuppongono un partito e un partito molto selezionato e omogeneo: il partito
mancava sia al Mazzini che al Pisacane. L’assenza di programma concreto, con
tendenza generale, è una forma di «mercenarismo» fluido, i cui elementi
finiscono collo schierarsi col piú forte, con chi paga meglio ecc. L’esempio
del dopoguerra, invece che ragione, dà torto all’Omodeo: 1) perché programmi
concreti in realtà non esistettero mai in quegli anni, ma appunto solo tendenze
generali piú o meno vaghe e fluttuanti; 2) perché appunto in quel periodo non
esistettero partiti selezionati e omogenei, ma solo bande zingaresche
fluttuanti e incerte, che erano appunto simbolo dell’indeterminatezza dei programmi
e non viceversa. Né il confronto con la Rivoluzione francese del 1789 è calzante, perché
allora Parigi svolse un ruolo che nell’Italia del dopo ’48 nessuna città poteva
svolgere con qualsiasi programma. La quistione deve essere impostata nei termini
della «guerra di movimento-guerra d’assedio», cioè per cacciare gli austriaci e
i loro ausiliari italiani era necessario: 1) un forte partito italiano omogeneo
e coerente: 2) che questo partito avesse un programma concreto e specificato;
3) che tale programma fosse condiviso dalle grandi masse popolari (che allora
non potevano essere che agricole) e le avesse educate a insorgere
«simultaneamente» su tutto il paese. Solo la profondità popolare del movimento
e la simultaneità potevano rendere possibile la sconfitta dell’esercito
austriaco e dei suoi ausiliari. Da questo punto di vista non tanto giova il
contrapporre Pisacane al Mazzini, quanto il Pisacane al Gioberti, che aveva una
visione strategica della rivoluzione italiana, strategica non nel senso strettamente
militare (come il Mazzini riconosceva al Pisacane), ma politico-militare. Ma
anche al Gioberti mancava un partito, e non solo nel senso moderno della
parola, ma anche nel senso che allora aveva la parola, cioè nel senso della
Rivoluzione francese di movimento degli «spiriti». Del resto il programma del
Mazzini politicamente era, per il tempo, troppo «determinato» e concreto in
senso repubblicano e unitario, a differenza di quello del Gioberti che piú si
avvicina al tipo di giacobino quale era necessario all’Italia d’allora. Anche
l’Omodeo, in fondo (e ciò è il suo antistoricismo), si pone implicitamente dal
punto di vista di una Italia preesistente al suo formarsi, quale esiste oggi e
nella forma in cui si è costituita nel 1870. (Nonostante la sua avversione per
la tendenza economico-giuridica, l’Omodeo si pone dal punto di vista che è
quello del Salvemini nel suo opuscolo sul Mazzini: la predicazione
genericamente unitaria del Mazzini è il nucleo solido del mazzinianismo, il suo
contributo reale al Risorgimento). Per ciò che riguarda l’atteggiamento dei
«liberi dagli interessi di classe» essi nel dopoguerra si comportarono come nel
Risorgimento: non seppero mai decidersi e si accodarono al vincitore, che,
d’altronde, col non decidersi, avevano aiutato a vincere, perché si trattava di
chi rappresentava la loro classe in senso angusto e meschino.
Recensione del libro di Nello Rosselli su Pisacane pubblicata
nella «Nuova Rivista Storica» del 1933 (pp. 156 sgg.). Appartiene alla serie
delle «interpretazioni» del Risorgimento cosí come il libro del Rosselli. Anche
l’autore della recensione (come il Rosselli) non intende come ciò che è mancato
nel Risorgimento sia stato un fermento «giacobino» nel senso classico della
parola e come il Pisacane sia figura altamente interessante perché dei pochi
che intese tale assenza, sebbene egli stesso non sia stato «giacobino» cosí
come era necessario all’Italia. Si può osservare ancora che lo spauracchio che
dominò l’Italia prima del 1859 non fu quello del comunismo, ma quello della
Rivoluzione francese e del terrore, non fu «panico» di borghesi, ma panico di
«proprietari terrieri», e del resto comunismo, nella propaganda di Metternich,
era semplicemente la quistione e la riforma agraria.
Luzio e la storiografia tendenziosa e faziosa dei
moderati.
[1)] È da porre in rilievo come il modo di scrivere la
storia del Risorgimento di A. Luzio è stato spesso lodato dai gesuiti della
«Civiltà Cattolica». Non sempre, ma piú spesso di quanto si crede, l’accordo
tra il Luzio e i gesuiti è possibile. Cfr. nella «Civiltà Cattolica» del 4
agosto 1928 le pp. 216-217 dell’articolo Processo politico e condanna
dell’abate Gioberti nell’anno 1833. Il Luzio deve difendere la politica di
Carlo Alberto (nel libro Mazzini carbonaro, p. 498) e non esita a
giudicare aspramente l’atteggiamento del Gioberti nel processo per i fatti del
’31, d’accordo coi gesuiti. È da rilevare come dagli articoli pubblicati dalla
«Civiltà Cattolica» nel 1928 sul processo di Gioberti risulta dai documenti
vaticani che il Papa aveva già dato preventivamente, in forma loiolesca, il suo
placet alla condanna capitale e all’esecuzione del Gioberti, mentre nel
1821, per esempio, la condanna a morte di un ecclesiastico in Piemonte era
stata trasformata nell’ergastolo per l’intervento vaticano.
2) Sulla letteratura «storica» del Luzio riguardante i
processi del Risorgimento sono da fare parecchi rilievi di ordine
politico-fazioso, di metodo e di mentalità. Troppo spesso il Luzio (per ciò che
riguarda gli arrestati dei partiti democratici) pare che rimproveri gli
imputati di non essersi fatti condannare e impiccare. Anche da un punto di
vista giuridico o giudiziario, il Luzio imposta le quistioni in modo falso e
tendenzioso, ponendosi dal punto di vista del «giudice» e non da quello degli
imputati: quindi i suoi tentativi (inetti e stolti) di «riabilitare» i giudici
reazionari, come il Salvotti. Anche ammesso che il Salvotti sia da giudicare
irreprensibile sia personalmente, sia come funzionario austriaco, ciò non muta
che i processi da lui imbastiti fossero contrari alla nuova coscienza giuridica
rappresentata dai patrioti rivoluzionari e apparissero loro mostruosi. La
condizione dell’imputato era difficilissima e delicatissima: anche una piccola
ammissione poteva avere conseguenze catastrofiche non solo per l’imputato
singolo, ma per tutta una serie di persone, come si vide nel caso del
Pallavicino. Alla «giustizia» stataria, che è una forma di guerra, non importa
nulla della verità e della giustizia obiettiva: importa solo distruggere il
nemico, ma in modo che appaia che il nemico merita di essere distrutto e
ammette egli stesso di meritarselo. Un esame degli scritti «storico-giudiziari»
del Luzio potrebbe dar luogo a tutta una serie di osservazioni di metodo
storico interessanti psicologicamente e fondamentali scientificamente (è da
confrontare l’articolo di Mariano d’Amelio Il successo e il diritto nel
«Corriere della Sera» del 3 settembre 1934).
3) Questo modo di fare la storia del Risorgimento alla Luzio
ha mostrato il suo carattere fazioso specialmente nella seconda metà del secolo
scorso (e piú determinatamente dopo il 1876, cioè dopo l’avvento della sinistra
al potere): esso è stato addirittura un tratto caratteristico della lotta
politica tra cattolici-moderati (o moderati che desideravano riconciliarsi coi
cattolici e trovare il terreno per la formazione di un gran partito di destra
che attraverso il clericalismo avesse una base larga nelle masse rurali) e i
democratici, che per ragioni analoghe, volevano distruggere il clericalismo. Un
episodio tipico è stato l’attacco sferrato contro Luigi Castellazzo per il suo
presunto atteggiamento nel processo di Mantova che portò alle impiccagioni di
Belfiore di don Tazzoli, di Carlo Poma, di Tito Speri, di Montanari e del
Frattini. La campagna era puramente faziosa, perché le accuse fatte al
Castellazzo non furono fatte ad altri che nei processi notoriamente si
comportavano certo peggio di quanto si affermava per il Castellazzo e non
persuasivamente, perché uomini come il Carducci si mantennero solidali con
l’attaccato; ma il Castellazzo era repubblicano, massone (capo della
Massoneria?) e aveva persino manifestato simpatia per la Comune. Il Castellazzo
si comportò peggio di Giorgio Pallavicino al processo Confalonieri?
(confrontare attacchi del Luzio contro l’Andryane per la sua ostilità al
Pallavicino). È vero che il processo di Mantova si concluse con esecuzioni
capitali, mentre ciò non avvenne per il Confalonieri e compagni, ma a parte che
ciò non deve modificare il giudizio sulle azioni dei singoli individui, si può
dire che le esecuzioni di Belfiore siano dovute al presunto comportamento del
Castellazzo e non furono invece la fulminea risposta all’insurrezione milanese
del 3 febbraio 1853? E non contribuí a rafforzare la volontà spietata di
Francesco Giuseppe l’atteggiamento vile dei nobili milanesi che strisciarono ai
piedi dell’imperatore proprio alla vigilia dell’esecuzione? (cfr. le date). È
da vedere come il Luzio si comporta verso questa serie complessa di
avvenimenti. I moderati cercarono di attenuare la responsabilità dei nobili
milanesi in forma veramente sconcia (cfr. il Mezzo secolo di patriottismo di
R. Bonfadini). Vedere come il Luzio si atteggia nella quistione dei Costituti
Confalonieri e in quella del comportamento del Confalonieri dopo la sua
liberazione. Sulla quistione del Castellazzo cfr. Luzio: I Martiri di
Belfiore nelle diverse edizioni (la 4ª è del 1924); I processi politici
di Milano e di Mantova restituiti dall’Austria, Milano, Cogliati, 1919
(questo libretto dovrebbe parlare dei Costituti Confalonieri che il senatore
Salata scriveva di aver «scoperto» negli archivi viennesi); La Massoneria e
il Risorgimento Italiano, 2 voll., Bocca (pare che questo lavoro sia giunto
alla 4ª edizione in pochissimo tempo, ciò che sarebbe meraviglioso); cfr.
ancora P. L. Rambaldi, Luci ed ombre nei processi di Mantova,
nell’«Archivio Storico Italiano», a. XLIII, pp. 257-331 e Giuseppe Fatini, Le
elezioni di Grosseto e la
Massoneria, in «Nuova Antologia» del 16 dicembre 1928
(parla dell’elezione a deputato del Castellazzo nel settembre 1883 e della
campagna che si scatenò: il Carducci sostenne il Castellazzo e scrisse contro
l’«accanimento fariseo moderato»).
4) Cosa si proponevano e in parte si propongono ancora (ma
in questo campo da alcuni anni molte cose sono cambiate) gli storici e i
pubblicisti moderati con questo loro indefesso, accortissimo e molto bene
organizzato (pare talvolta che ci sia stato un centro direttivo per questa
attività, una specie di massoneria moderata, tanto è grande lo spirito di
sistema) lavoro di propaganda? «Dimostrare» che l’unificazione della penisola è
stata opera precipua dei moderati alleati alla dinastia e legittimare
storicamente il monopolio del potere. Occorre ricordare che ai moderati
appartenevano le maggiori personalità della cultura, mentre la Sinistra non brillava
(salvo poche eccezioni) per troppa serietà intellettuale, specialmente nel
campo degli studi storici e della pubblicistica di medio grado. L’attività
polemica dei moderati, attraverso la sua «dimostrazione» addomesticata riusciva
a disgregare ideologicamente la democrazia, assorbendone molti elementi
individuali e specialmente influendo sull’educazione delle generazioni giovani,
formandole con le loro concezioni, con le loro parole d’ordine, coi loro
programmi. Inoltre: 1) i moderati, nella loro propaganda, erano senza scrupoli,
mentre gli uomini del Partito d’Azione erano pieni di «generosità» patriottica,
nazionale ecc., e rispettavano tutti quelli che per il Risorgimento avevano realmente
sofferto, anche se in qualche momento erano stati deboli; 2) il regime degli
archivi pubblici era favorevole ai moderati, ai quali era permesso
individualmente fare ricerche di documenti contro i loro avversari politici e
mutilare o tacere dei documenti che sarebbero stati sfavorevoli ai loro; solo
da pochi anni è stato possibile pubblicare epistolari completi, per esempio di
moderati toscani, che ancora nel ’59 si aggrappavano alle falde del granduca
per non farlo scappare, ecc. I moderati non riconoscono sistematicamente una
forza collettiva agente e operante nel Risorgimento all’infuori della dinastia
e dei moderati: del Partito d’Azione riconoscono la benemerenza di personalità
singole che vengono esaltate tendenziosamente per catturarle; altre sono
diffamate, ottenendo in ogni caso di spezzare il vincolo collettivo. In realtà
il Partito d’Azione non seppe contrapporre nulla di efficace a questa
propaganda, che attraverso la scuola, divenne insegnamento ufficiale:
lamentazioni o sfoghi cosí puerilmente settari e partigiani che non potevano
convincere i giovani colti e lasciavano indifferenti i popolani, cioè erano
senza efficacia sulle nuove generazioni: cosí il Partito d’Azione fu disgregato
e la democrazia borghese non seppe mai crearsi una base popolare. La sua
propaganda non doveva basarsi sul passato, sulle polemiche del passato, che
interessano sempre poco le grandi masse e sono utili solo, entro certi limiti,
a costituire e rafforzare i quadri dirigenti, ma sul presente e sull’avvenire,
cioè su programmi costruttivi in opposizione (o integrativi) dei programmi
ufficiali. La polemica del passato era specialmente difficile e pericolosa per
il Partito d’Azione, perché esso era stato vinto, e il vincitore, per il solo
fatto di essere tale, ha dei grandi vantaggi nella lotta ideologica. Non è
senza significato che nessuno abbia mai pensato a scrivere una storia del
Partito d’Azione, nonostante l’indubbia importanza che esso ebbe nello
svolgersi degli eventi: basta pensare ai tentativi democratici del ’48-49 in Toscana, nel Veneto, a
Roma, e all’impresa dei Mille.
In un certo periodo tutte le forze della democrazia si
allearono e la Massoneria
divenne il perno di tale alleanza: è questo un periodo ben determinato nella
storia della Massoneria, divenuta una delle forze piú efficienti dello Stato
nella società civile, per arginare le pretese e i pericoli del clericalismo, e
questo periodo finí con lo svilupparsi delle forze operaie. La Massoneria divenne il
bersaglio dei moderati, che evidentemente speravano di conquistare cosí almeno
una parte delle forze cattoliche specialmente giovanili: ma in realtà i
moderati valorizzarono le forze cattoliche controllate dal Vaticano e cosí la
formazione dello Stato moderno e di una coscienza laica nazionale (in definitiva
il sentimento patriottico) ne subí un fiero contraccolpo come si vide in
seguito. (Osservazioni da approfondire).
Caratteri della cultura italiana. Si potrebbero
raccogliere, in uno stesso saggio, diverse serie di note, scritte partendo da
interessi intellettuali diversi, ma che in realtà sono espressione di uno
stesso problema fondamentale. Cosí le note sulle quistioni: della lingua, del
romanticismo italiano (se sia esistito), del perché la letteratura italiana non
sia popolare, dell’esistenza o meno di un teatro italiano, ecc., con le note
sulle varie interpretazioni che sono state date del moto del Risorgimento fino
alle discussioni piú recenti sulla «razionalità» e sul significato del presente
regime (psicosi di guerra, ecc.). Tutti questi argomenti sono strettamente
collegati e sono da connettere come blocco alle discussioni e alle
interpretazioni che della passata storia svoltasi nella penisola italiana si
ebbero in tutto il secolo XIX e di cui una parte almeno è documentata nel libro
del Croce sulla Storia della Storiografia italiana nel secolo XIX (di
cui occorrerà vedere l’ultima edizione, specialmente per la parte che riguarda
il Volpe, e la sua Italia in cammino, cosí come occorrerà vedere la
prefazione del Volpe alla terza edizione di questo suo libro, in cui si
polemizza col Croce. Del Volpe sono poi da vedere tutti gli scritti di storia e
di teoria o storia della storia). Che tali polemiche e tanta varietà di
interpretazione dei fatti siano state e siano ancora possibili, è fatto di per
se stesso molto importante e caratteristico di una determinata situazione
politico-culturale. Non pare che una cosa simile sia avvenuta per nessun altro
paese, almeno con tale assiduità, abbondanza e pertinacia. (Si potrebbe forse
ricordare per la Francia
l’opera del Jullian sull’elemento celtico nella storia francese, sul suo
antiromanesimo, ecc., ma è da notare che in Francia stessa il Jullian ha
colpito come una stranezza, nonostante le sue doti di erudito e di scrittore.
Forse qualcosa di simile si ha in Ispagna, con le discussioni se la Spagna sia Europa o Africa,
ecc.; è da vedere questo lato della coltura spagnola).
In questo fenomeno caratteristico italiano sono da
distinguere vari aspetti: 1) il fatto che gli intellettuali sono disgregati,
senza gerarchia, senza un centro di unificazione e centralizzazione ideologica
e intellettuale, ciò che è risultato di una scarsa omogeneità, compattezza e
«nazionalità» della classe dirigente; 2) il fatto che queste discussioni sono,
in realtà, la prospettiva e il fondamento storico di programmi politici
impliciti, che rimangono impliciti, retorici, perché l’analisi del passato non
è fatta obbiettivamente, ma secondo pregiudizi letterari o di nazionalismo
letterario (anche di antinazionalismo letterario, come nel caso del
Montefredini).
Alla serie di quistioni aggiungere: la quistione meridionale
(nell’impostazione del Fortunato, per esempio, o del Salvemini, col relativo
concetto di «unità»), la quistione siciliana (da vedere Le piú belle pagine di
Michele Amari raccolte da V. E. Orlando in modo da fare apparire la Sicilia come un «momento»
della storia mondiale); la quistione sarda (carte di Arborea, da paragonare col
simile tentativo boemo verso il ’48, cioè contemporaneamente).
Che la politica nazionale sia «teorizzata» in forme cosí
astratte, dai letterati, senza che a questi teorici corrisponda un gruppo
adeguato di tecnici della politica che sappiano porre le quistioni in termini
di «effettuabilità», è il carattere piú spiccato della situazione politica
italiana; gli affari reali sono nelle mani dei funzionari specializzati, uomini
indubbiamente di valore e di capacità dal punto di vista tecnico-professionale
burocratico, ma senza legami continuati con l’«opinione pubblica», cioè con la
vita nazionale. Si è avuto in Italia qualcosa di simile a ciò che si aveva
nella Germania guglielmina, con questa differenza: che nella Germania dietro la
burocrazia c’erano gli Junker, una classe sociale sia pure mummificata e
mutilata, mentre in Italia una forza di tal genere non esisteva: la burocrazia
italiana può essere paragonata alla burocrazia papale, o meglio ancora, alla
burocrazia cinese dei mandarini. Essa certamente faceva gli interessi di gruppi
ben precisi (in primo luogo gli agrari, poi l’industria protetta, ecc.), ma
senza piano e sistema, senza continuità, sulla base, per dirla rapidamente,
dello «spirito di combinazione» che era necessario per «armonizzare» le tante
contraddizioni della vita nazionale che non si cercò mai di risolvere
organicamente e secondo un indirizzo conseguente. Questa burocrazia non poteva
non essere specialmente «monarchica»; per cui si può dire che la monarchia
italiana è stata essenzialmente una «monarchia burocratica» e il re il primo
dei funzionari, nel senso che la burocrazia era la sola forza «unitaria» del
paese, permanentemente «unitaria».
Altro problema tipico italiano: il papato, che anch’esso
dette origini a interpretazioni dinamiche del Risorgimento che non sono state
senza effetto nella coltura nazionale e lo sono anche ora: basta ricordare il
giobertismo e la teoria del Primato, che entra anche oggi nel guazzetto
ideologico di moda. Occorre ricordare l’atteggiamento dei cattolici in
politica, il non expedit e il fatto che nel dopoguerra il Partito
Popolare era un partito che ubbidiva a interessi anazionali, una forma
paradossale di ultramontanismo poiché il Papato era in Italia e non poteva
apparire politicamente come appariva in Francia e in Germania, cioè nettamente
fuori dello Stato.
Tutti questi elementi contradditori si sintetizzano nella
posizione internazionale del paese, estremamente debole e precaria, senza
possibilità di una linea a lunga prospettiva, situazione che ebbe la sua
espressione nella guerra del ’14 e nel fatto che l’Italia combatté nel campo
opposto a quello delle sue alleanze tradizionali.
Altro documento di interpretazione della storia italiana il
volume di Nello Quilici, Origine, sviluppo e insufficienza della borghesia
italiana (Edizione dei «Nuovi Problemi», Ferrara).
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