Note sparse e recensioni
L’impresa di Lepanto. A. Salimei, Gli italiani a
Lepanto (Roma, auspice la
Lega navale). Il Salimei ha raccolto diligentemente tutti i
dati che si riferiscono alla organizzazione delle forze che parteciparono
all’impresa di Lepanto e ha dimostrato che esse, dalle navi agli uomini, furono
in maggioranza italiane. Negli Archivi Vaticani esistono i documenti coi conti
per la ripartizione delle spese tra il re di Spagna e la repubblica di Venezia per
la lega cristiana del 1571, rimessi al successore di Pio V perché decidesse
sulle controversie insorte nello stabilire l’ammontare del rispettivo credito e
debito. Con tali documenti è possibile precisare il numero e il nome delle
galee, delle navi, delle fregate, ecc. e il numero dei reggimenti e delle
rispettive compagnie con i nomi dei colonnelli e dei capitani tanto per la
flotta e le fanterie che si trovarono alla battaglia di Lepanto, quanto per
quelle che non vi si trovarono ma furono egualmente mobilitate per la
spedizione nello stesso anno 1571.
Delle piú che duecento navi partecipanti alla battaglia solo
14 erano spagnole, tutte le altre erano italiane; dei 34 mila armati, solo 5000
fanti «vennero dalla Spagna», e 6000 erano tedeschi (ma 1000 di questi non
parteciparono al combattimento), tutti gli altri erano di «nazionalità»
italiana. Dall’elenco degli «ufficiali, venturieri e militi» distinti secondo
le nazionalità e, «per quanto riguarda l’Italia» anche secondo le regioni e le
città di origine il Salimei deduce che non c’è parte della penisola e delle
isole, dalle Alpi alla Calabria, compresa la Dalmazia e le isole di
dominio veneto, dalla Sicilia alla Sardegna alla Corsica a Malta, che non vi
partecipi. Questa ricerca è molto interessante e potrebbe essere analizzata
opportunamente. Il Salimei la inquadra in una cornice retorica, perché si serve
di concetti moderni per fatti non omogenei. Rivendica il carattere «nazionale»
di Lepanto, che è attribuito di solito alla cristianità (cioè al Papa) con
prevalenza alla Spagna e afferma che a Lepanto per l’ultima volta gli italiani,
anzi tutti gli italiani, «combatterono per una causa che non fosse quella degli
stranieri» e che «con Lepanto si chiude l’èra della nostra efficienza navale e
militare come popolo italiano, fino al 1848». Sarebbe da vedere, a questo
proposito, perché nacquero le controversie tra Venezia e Spagna per dividersi
le spese, e sotto quali bandiere erano arruolati i soldati che avevano origine
da paesi italiani.
Sulla lega di Lepanto cfr.: A. Dragonetti De Torres, La
lega di Lepanto nel carteggio diplomatico di don Luys de Torres nunzio
straordinario di S. S. Pio V a Filippo II, Torino, Bocca, 1931. Dalla
preparazione diplomatica della Lega dovrebbe apparire piú concretamente il carattere
dell’impresa.
La Romagna e la sua funzione nella storia italiana. Cfr. l’articolo di Luigi Cavina, Fiorentini e
Veneziani in Romagna, nella «Nuova Antologia» del 16 giugno 1929.
Tratta la quistione specialmente nel periodo immediatamente precedente alla
lega di Cambrai contro i veneziani, dopo la morte di Alessandro VI Borgia e la
malattia del Valentino. La
Romagna era elemento essenziale dell’equilibrio interno
italiano, specialmente dell’equilibrio tra Venezia e Firenze e tra Venezia e il
Papa: tanto Firenze che il Papa non potevano sopportare un’egemonia veneziana
sulla Romagna. (Machiavelli e il Valentino durante la campagna di questi per la
conquista della Romagna; Machiavelli e il Valentino dopo la morte di Alessandro
VI, durante il Conclave e nei primi tempi di Giulio II: al Valentino era venuta
a mancare la base statale; tutta la sua figura politica e anche la «capacità»
politico-militare crolla; egli è diventato un comune «capitano di ventura» e,
ancora, in cattive acque).
In questo articolo del Cavina c’è uno spunto «curioso». Egli
cita il principio del Machiavelli: «Alcuna provincia non fu mai unita e felice,
se la non viene tutta alla obedienza d’una repubblica o d’uno principe, come è
avvenuto alla Francia ed alla Spagna» e continua: «E che questo non sia
avvenuto all’Italia è bensí da imputarsi, con giudizio empirico, specialmente
alla Chiesa – che non fu mai tanto forte da potere occupare essa tutta la
penisola, né mai tanto debole da dover permettere che un altro l’occupasse,
come dice il Machiavelli – e in parte anche agli altri Stati; ma è soprattutto
da imputarsi al sistema dell’equilibrio delle potenze italiane. Qui è da
vedersi la ragione storica e nazionale della mancata unione della patria, in
quanto essa derivava non già da un pensiero individuale, ma da un effettivo
pensiero universale, tramandatosi da generazione a generazione, lungo i secoli,
e rispondente dunque al genio nazionale». Cosa vuol dire tutto ciò? che il
«genio nazionale» consisteva nel non essere «nazionale»? E il «sistema di
equilibrio» delle potenze italiane non era in gran parte determinato dalle
necessità di esistenza dello Stato pontificio, che era potenza mondiale e
italiana nello stesso tempo?
Una grande confusione viene in questa serie di problemi dal
fatto che si cercano le cause del perché un certo evento storico (unità
territoriale-politica della penisola italiana) non si è verificato prima del
1870. Ora se è difficile trovare e mettersi d’accordo sulle cause di un evento
determinato, è certo molto difficile e quasi assurdo voler trovare le cause del
perché la storia si sia sviluppata in un senso piuttosto che in un altro. In
realtà non si tratta di un problema storico, ma di una necessità di carattere
sentimentale e politico. Si parte dal presupposto (di carattere sentimentale e
pratico immediato) che la nazione italiana sia sempre stata una nazione nei
quadri attuali geografici ed ecco che allora ci si domanda perché non ha
conseguito prima l’unità politica territoriale, come la Francia o la Spagna, ecc.
Tuttavia il problema non è
completamente assurdo, purché sia inteso e circoscritto esattamente nel suo
carattere attuale, cioè per spiegare certi sviluppi storici legati alla vita
moderna, o come elemento per studiare determinati criteri di metodo. L’accenno
del Cavina all’«effettivo pensiero universale» è uno spunto interessante, se
precisato e svolto nel senso che io ho fatto in altre note. Cioè, l’Italia, per
la sua funzione «cosmopolita» durante il periodo dell’Impero Romano e durante
il Medio Evo subí passivamente i rapporti internazionali; cioè nello sviluppo
della sua storia i rapporti internazionali prevalsero sui rapporti nazionali.
Ma il Papato appunto è l’espressione di questo fatto; dato il carattere duplice
del regno papale, di essere sede di una monarchia spirituale universale e di un
principato temporale, è certo che la sua potenza terrena doveva essere limitata
(il Machiavelli vide benissimo ciò, come si rileva dal III capitolo del Principe
e da ciò che egli riporta d’aver detto al cardinale di Roano; il Roano, al
tempo in cui il Valentino veniva occupando la Romagna, gli aveva detto
che gli italiani non si intendevano di guerra, ed egli rispose, che i francesi
non si intendevano di Stato – di politica – «perché se sen’intendessino, non
lascerebbano venire la Chiesa
in tanta grandezza», ecc. ecc.). È certo che, se la Chiesa avesse avuto come
principato terreno tutta la penisola, l’indipendenza degli Stati europei
avrebbe corso serio pericolo: il potere spirituale può essere rispettato finché
non rappresenta una egemonia politica e tutto il Medio Evo è pieno delle lotte
contro il potere politico del Papa.
È vero dunque che negli italiani la tradizione
dell’universalità romana e medioevale impedí lo sviluppo delle forze nazionali
(borghesi) oltre il campo puramente economico-municipale, cioè le «forze»
nazionali non divennero «forza» nazionale che dopo la Rivoluzione francese e
la nuova posizione che il papato ebbe ad occupare in Europa, posizione
irrimediabilmente subordinata, perché limitata e contesa nel campo spirituale
dal laicismo trionfante. Tuttavia, questi elementi internazionali
«passivamente» prementi sulla vita italiana continuarono a operare fino al 1914
e anche (sempre meno forti) fino alla conciliazione del febbraio 1929 e
continuano anche oggi in una certa misura, determinando i rapporti esterni tra
Stato italiano e Pontefice, costringendo a un certo linguaggio, ecc.
(Bisognerebbe poter fare, per
comprendere esattamente il grado di sviluppo raggiunto dalle forze nazionali in
Italia nel periodo che va dal nascere dei Comuni al sopravvento del dominio
straniero, una ricerca del tipo di quella del Groethuysen nelle Origines de
l’esprit bourgeois en France. Bisognerebbe ricercare questi elementi nelle
«Cronache», negli «Epistolari», nei libri di politica, nella letteratura amena,
e nei libri dei pedagogisti o dei trattatisti di morale, ecc. Un libro molto
interessante è quello di Leon Battista Alberti, per esempio. Si potrebbe vedere
per la bibliografia le storie della pedagogia in Italia, ecc. Il Cortegiano di
B. Castiglione indica già il prevalere di un altro tipo sociale, come modello,
che non sia il borghese delle Repubbliche comunali, ecc. Un posto a parte i
grandi scrittori di politica, come il Machiavelli e il Guicciardini. Cosí un
posto a parte gli scritti religiosi, prediche, trattati, ecc.).
L’Italia nel Settecento. L’influenza francese nella
politica, nella letteratura, nella filosofia, nell’arte, nei costumi.
I Borboni regnano a Napoli e nel ducato di Parma. Sugli
influssi francesi a Parma sono da vedere le pubblicazioni minuziose di Henri
Bédarida: Parme dans la politique française au XVIIIe siècle,
Paris, Alcan, e altre due precedenti. È da vedere anche: Giuseppe Ortolani, Italie
et France au XVIIIe siècle, nei Mélanges de littérature et
d’histoire publiés par l’Union intellectuelle franco-italienne, Parigi, éd.
Leroux.
Nella politica francese l’Italia, per la sua posizione
geografica, è destinata ad assumere la funzione di elemento di equilibrio
dinanzi alla crescente potenza dell’Austria: quindi la Francia, da Luigi XIV a
Luigi XVI, tende ad esercitare in Italia un’azione di predominio, anticipando
la politica dei Napoleoni, anticipazione che si palesa nei ripetuti progetti o
tentativi di federare gli Stati italiani a servizio della Francia. (Questi
elementi della politica francese sono da analizzare attentamente, per fissare
il rapporto tra i fattori internazionali e quelli nazionali nello sviluppo del
Risorgimento. È da notare come questa impostazione della politica francese sia
agli antipodi di quella sostenuta da Jacques Bainville nella critica della
politica napoleonica contrapposta a quella della monarchia).
La Rivoluzione francese e il Risorgimento. Un motivo che ricorre spesso nella letteratura italiana,
storica e non storica, è questo espresso da Decio Cortesi in un articolo, Roma
centotrent’anni fa («Nuova Antologia», 16 luglio 1928): «È da deplorare che
nella pacifica Italia, che s’incamminava verso un miglioramento graduale e
senza scotimenti (!!?), le teorie giacobine, figlie di un idealismo pedantesco,
che nei nostri cervelli non ha mai allignato, dessero occasione a tante scene
di violenze; ed è da deplorare tanto piú perché, se queste violenze, nella
Francia ancora oppressa dagli ultimi avanzi del feudalismo e da un dispotismo
regale, potevano, fino ad un certo punto, essere giustificate, in Italia, dai
costumi semplici e schiettamente democratici in pratica (!!?), non avevano
uguale (ragione) d’essere. I reggitori d’Italia potevano essere chiamati
“tiranni” nei sonetti dei letterati, ma chi senza passione prende a considerare
il benessere del quale godé il nostro paese nello splendido secolo XVIII non
potrà non pensare con qualche rimpianto a tutto quell’insieme di sentimenti e
di tradizioni che l’invasione straniera colpí a morte».
L’osservazione potrebbe essere vera se la restaurazione
stessa avvenuta dopo il ’15 non dimostrasse che anche in Italia la situazione
del secolo XVIII era tutt’altro da quella ritenuta. L’errore è di considerare
la superficie e non le condizioni reali delle grandi masse popolari. In ogni
modo, è giusto che senza l’invasione straniera i «patriotti» non avrebbero
acquistato quell’importanza e non avrebbero subito quel relativamente rapido
processo di sviluppo che poi ebbero. L’elemento rivoluzionario era scarso e
passivo.
La Repubblica partenopea e le classi rivoluzionarie nel Risorgimento. Nell’edizione Laterza delle «Memorie storiche del regno
di Napoli dal 1790 al 1815» di Francesco Pignatelli Principe di Strongoli (Nino
Cortese, Memorie di un generale della Repubblica e dell’Impero, 2 voll.
in 8° di pp. 136-CCCCXXV, 312,
L. 50), il Cortese pubblica un saggio, «Stato e ideali
politici nell’Italia meridionale nel Settecento e l’esperienza di una
rivoluzione» in cui si pone il problema: come mai, nel Mezzogiorno d’Italia, la
nobiltà apparisca dalla parte dei rivoluzionari e sia poi ferocemente
perseguitata dalla reazione, mentre in Francia nobiltà e monarchia sono unite
davanti al pericolo rivoluzionario. Il Cortese risale ai tempi di Carlo di
Borbone per trovare il punto di contatto tra la concezione degli innovatori
aristocratici e quella dei borghesi: per i primi la libertà e le necessarie
riforme devono essere garantite soprattutto da un parlamento aristocratico, mentre
sono disposti ad accettare la collaborazione dei migliori della borghesia; per
questa il controllo deve essere esercitato e la garanzia della libertà affidata
all’aristocrazia dell’intelligenza, del sapere, della capacità ecc., da
qualsiasi parte venga. Per ambedue lo Stato deve essere governato dal re,
circondato, illuminato e controllato da un’aristocrazia. Nel 1799, dopo la fuga
del re, si ha prima il tentativo di una repubblica aristocratica da parte dei
nobili e poi quello degli innovatori borghesi nella successiva repubblica
napoletana.
Pare che gli eventi napoletani non possano essere
contrapposti a quelli francesi; anche in Francia ci fu un tentativo di alleanza
tra monarchia, nobili e alta borghesia, dopo un inizio di rottura tra nobili e
monarchia. In Francia però la
Rivoluzione ebbe la forza motrice anche nelle classi popolari
che le impedirono di fermarsi ai primi stadi, ciò che mancò invece nell’Italia
meridionale e successivamente in tutto il Risorgimento. Occorre inoltre tener
presente che il movimento napoletano avvenne dopo quello francese, quando la
monarchia era sotto l’incubo del Terrore francese e vedeva un nemico in
chiunque parteggiasse per le idee innovatrici, fosse nobile o borghese. Il
libro del Cortese è da vedere.
Cfr. Antonio Manes, Un
cardinale condottiere. Fabrizio Ruffo e la Repubblica partenopea,
Aquila, Vecchioni, 1930. Il Manes cerca di «riabilitare» il cardinale Ruffo (il
fatto è da citare nella rubrica «Passato e Presente» in cui si citano
queste altre «riabilitazioni»: quella di Solaro della Margarita, di Fra Diavolo
ecc. e si accenna al fatto che alcuni insegnanti «polemizzano» con le Memorie
del Settembrini e vi trovano troppa «demagogia» contro i Borboni) addossando la
responsabilità delle repressioni e degli spergiuri sul Borbone e sul Nelson.
Pare che il Manes non sappia orientarsi bene per fissare le divisioni politiche
e sociali nel Napoletano; ora parla di taglio netto tra nobiltà e clero da una
parte e popolo dall’altra; ora il taglio sparisce e si vedono nobili e clero
nelle due parti. A un certo punto dice che il Ruffo «assume un carattere
tutt’affatto nazionale, se può essere usata questa parola di colore troppo
moderno e contemporaneo» e allora dovrebbe concludere che non erano nazionali i
patrioti sterminati dalle bande sanfedistiche. (Sui rapporti tra nobiltà, clero
e popolo cfr. il libro di N. Rodolico sull’Italia Meridionale e il suo articolo
nel «Marzocco», n. 11 del 1926.
Pubblicazione ed esame dei libri e delle memorie degli
antiliberali e antifrancesi nel periodo della Rivoluzione francese e di
Napoleone e reazionari nel periodo del Risorgimento. Sono necessari, in
quanto anche le forze avverse al moto liberale italiano furono una parte e un
aspetto non trascurabile della realtà, ma in essi occorre tener presenti alcuni
criteri: 1) alcune ristampe, come quella del Memorandum del Solaro della
Margarita e forse anche volumi curati dal Lovera di Castiglione e dal gesuita
Ilario Rinieri o hanno uno scopo attuale, di rafforzare certe tendenze
reazionarie nell’interpretazione del Risorgimento (rappresentate specialmente
dai gesuiti della «Civiltà Cattolica») o sono presentati come testi per
l’azione attuale (il Papa di de Maistre e lo stesso Memorandum del
Solaro, ecc.). 2) Le descrizioni degli interventi francesi nelle varie regioni
italiane sotto il Direttorio e successivamente, sono dovute molto spesso solo
ai reazionari: i «giacobini» si arruolavano e quindi avevano altro da fare che
scrivere memorie: i quadri pertanto sono sempre tendenziosi e sarebbe molto ingenuo
ricostruire la realtà su tale letteratura. Fra queste pubblicazioni confrontare
Ranuccio Ranieri, L’invasione francese degli Abruzzi nel 1798-99, ed una
memoria del tempo inedita di Giov. Batt. Simone, Pescara, Edizioni
dell’«Adriatico», 1931. Dalla narrazione del Simone, antigiacobino e
legittimista, appare che in Chieti città la forza giacobina era di una certa
efficienza, ma nella campagna (salvo eccezioni dovute a rivalità municipali e
al desiderio di aver l’occasione di fare delle vendette) prevalevano le forze
reazionarie nella lotta contro Chieti. Pare che piú della memoria del Simone,
enfatica e verbosa, sia interessante l’esposizione del Ranieri che ricostruisce
la situazione dell’Abruzzo in quel periodo di storia.
La
Costituzione spagnola del 1812. Perché fu tanto
popolare? Bisognerebbe confrontarla con le costituzioni elargite nel 1848. La
ragione della popolarità della Costituzione spagnola non pare debba ricercarsi
nella sua forma ultraliberale, o nella pigrizia intellettuale dei rivoluzionari
liberali italiani o in altre quistioni secondarie, ma nel fatto essenziale che
la situazione spagnola era «esemplare» per l’Europa assolutista e i liberali
spagnoli seppero trovare la soluzione giuridico-costituzionale piú appropriata
e piú generalizzata di problemi che non erano solo spagnoli, ma italiani,
specialmente del Mezzogiorno.
Perché i primi liberali italiani (nel ’21 e dopo) scelsero la Costituzione spagnola
come loro rivendicazione? Si trattò solamente di un fenomeno di mimetismo e
quindi di primitività politica? O di un fenomeno di pigrizia mentale? Senza
trascurare completamente l’influenza di questi elementi, espressione della
immaturità politica e intellettuale e quindi dell’astrattismo dei ceti dirigenti
della borghesia italiana, occorre non cadere nel giudizio superficiale che
tutte le istituzioni italiane siano importate dall’estero meccanicamente e
sovrapposte a un contenuto nazionale refrattario. Intanto occorre distinguere
tra l’Italia meridionale e il resto d’Italia: la rivendicazione della Carta
spagnola nasce nell’Italia meridionale ed è ripresa in altre parti d’Italia per
la funzione che ebbero i profughi napoletani nel resto d’Italia dopo la caduta
della Repubblica partenopea. Ora, le necessità politico-sociali dell’Italia
meridionale erano davvero molto diverse che quelle della Spagna? L’acuta
analisi fatta dal Marx della Carta spagnola (confrontare lo scritto sul
generale Espartero nelle opere politiche) e la dimostrazione chiara dell’essere
quella Carta l’espressione esatta di necessità storiche della società spagnola
e non un’applicazione meccanica dei principî della Rivoluzione francese
inducono a credere che la rivendicazione napoletana fosse piú «storicistica» di
quanto paia. Bisognerebbe riprendere quindi l’analisi di Marx, confrontare con
la costituzione siciliana del ’12 e con i bisogni meridionali: il confronto
potrebbe continuare con lo Statuto albertino.
Le sètte nel Risorgimento. Confrontare Pellegrino
Nicolli, La Carboneria
in Italia, Vicenza, Edizioni Cristofori, 1931. Il Nicolli cerca di
distinguere nella Carboneria le diverse correnti, che spesso la componevano, e
di dare un quadro delle diverse sètte che pullularono in Italia nella prima
parte del secolo XIX. Da una recensione del libro del Nicolli pubblicata nel
«Marzocco» del 25 ottobre 1931, si estrae questo brano: «È un groviglio di nomi
strani, di emblemi, di riti, di cui si ignorano il piú delle volte le origini;
un confuso mescolarsi di propositi disparati, che variano non soltanto da
società a società, ma nella stessa società, la quale, secondo i tempi e le
circostanze, muta metodi e programmi. Dal vago sentimento nazionale si arriva
alle aberrazioni del comunismo e, per converso, si hanno sètte che, ispirandosi
agli stessi sistemi dei rivoluzionari, assumono la difesa del trono e
dell’altare. Sembra che rivoluzione e reazione abbiano bisogno di battersi in
un campo chiuso, dove non penetra occhio profano, tramando congiure al lume di
fiaccole fumose e maneggiando pugnali. Un filo che ci guidi in mezzo a questo
labirinto non c’è ed è vano chiederlo al Nicolli, che pure ha fatto del suo
meglio per trovarlo. Si tenga anche soltanto presente la Carboneria, che è in
certo modo il gran fiume nel quale convogliano tutte le altre società segrete».
Il Nicolli si è proposto di «raccogliere sinteticamente quanto da valenti
storici è stato finora scritto» sulle società segrete nel Risorgimento.
Si può osservare: 1) che la molteplicità
delle sètte, dei programmi e dei metodi, oltre all’essere dovuta al carattere
clandestino del movimento settario, è certamente dovuta anche alla primitività
del movimento stesso, cioè all’assenza di tradizioni forti e radicate, e quindi
all’assenza di un organismo «centrale» saldo e con indirizzo fermo; 2) la molteplicità
può sembrare piú «morbosa» di quanto fosse realmente per la soverchia
pedanteria erudita del ricercatore: realmente in ogni tempo, esistono movimenti
«settari» bizzarri e curiosi, ai quali non si bada neanche, in maggior misura
di quanto non si supponga comunemente.
Articolo di A. Luzio, Le origini della Carboneria,
nel «Corriere della Sera» del 7 febbraio 1932. Il Luzio parla di due libri di
Eugenio Lennhoff, fr.: gerarca della Massoneria austriaca (del Lennhoff ha
parlato spesso lo scrittore di Massoneria della «Civiltà cattolica»): Die
Freimaurer e Politische Geheimbünde (Casa ed. Amalthea, Vienna). Il Luzio
incomincia col notare gli errori di lingua italiana contenuti nelle citazioni
politiche del Lennhoff e altri errori piú gravi (Mazzini confuso col gran
maestro Mazzoni, p. 204 dei Freimaurer, e quindi fatto diventare gran
maestro; ma si tratta di errore storico o di errore di stampa?). Come
recensione del Lennhoff, l’articolo del Luzio non vale nulla. Per le origini
della Carboneria: opere dell’Alberti sulle assemblee costituzionali italiane e
sulla rivoluzione napoletana del 1820, edite dai Lincei; studi del Soriga,
«Risorgimento italiano» gennaio-marzo 1928, e articolo del Soriga sulla
Carboneria nell’Enciclopedia Treccani (vol. VIII), libro del Luzio sulla
Massoneria. In questo articolo il Luzio riporta dalle memorie inedite del
generale Rossetti (di cui parla Guido Bustico nella «Nuova Antologia» del 1927)
un rapporto del Rossetti stesso a Gioacchino Murat (del giugno 1814) in cui si parla
dei primi tempi della Carboneria, che sarebbe stata conosciutissima in Francia,
soprattutto nella Franca Contea, e a cui il Rossetti si sarebbe affiliato nel
1802, essendo di stanza a Gray. (Ma sono cose vaghe e che si perdono nella
notte dei tempi, fra i fondatori della Carboneria sarebbe stato Francesco I,
ecc.). Secondo il Rossetti la
Carboneria nel reame di Napoli avrebbe cominciato a
propagarsi nella provincia di Avellino nel 1811, estendendosi solo verso la
metà del 1812.
Michele Amari e il sicilianismo. Confrontare l’articolo su Michele Amari di
Francesco Brandileone nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1929, che è
poi una lunga recensione polemica de Le piú belle pagine di Michele Amari scelte
da V. E. Orlando, con una prefazione molto interessante per capire l’origine
anche dell’attuale «sicilianismo», di cui l’Orlando è un rappresentante (a due
facce: una verso il continente velata dei sette veli dell’unitarismo, e una
verso la Sicilia,
piú franca: ricordare il discorso di Orlando a Palermo durante le elezioni
amministrative del 1925 e il suo elogio indiretto della mafia, presentata nel
suo aspetto sicilianista di ogni virtú e generosità popolana).
L’Amari nato nel 1806 a Palermo e cresciuto tra la Costituzione del 1812
e la rivoluzione del 1820 quando la Costituzione fu abolita, come tanti altri
siciliani del suo tempo, era persuaso che il bene dell’isola fosse da ricercare
nel ristabilimento della Costituzione, ma soprattutto nell’autonomia e nel
distacco da Napoli.
«L’aspirazione a costituire uno
Stato a sé fu il sentimento dominante fra gli isolani almeno fino al 1848»,
scrive il Brandileone. L’Amari, come scrisse egli stesso (cfr. Alessandro
D’Ancona, Carteggio di M. Amari raccolto e pubblicato coll’elogio di lui
letto nell’Accademia della Crusca, Torino, 1896-97, in 3 volumi; cfr. vol.
II, p. 371) si sentiva italiano (di cultura) ma la vita nazionale italiana gli
pareva un bel sogno e nulla piú. Volle raccontare gli avvenimenti del 1812-20
per preparare gli animi a una nuova rivoluzione, ma la ricerca dei nessi
storici lo spinse a risalire nel passato della storia costituzionale siciliana
e cosí si fissò sulla costituzione avuta dopo i Vespri, che gli parve «la forma
piú netta», la piú tipica. Ma la ricerca del passato lo portò ancor piú in là,
fino alla fase musulmana della storia di Sicilia.
L’Orlando, nella sua scelta, ha
disposto i brani in ordine cronologico, in modo da dare un racconto abbreviato
ma ininterrotto degli avvenimenti siciliani dei cinque secoli, dall’827, inizio
della conquista araba, al 1302, pace di Caltabellotta. Nella prefazione (a p.
23) l’Orlando afferma che quei cinque secoli «sembrano costituire un monolitico
periodo, durante il quale la storia ha bagliori di epopea» e che essi non
sono da riguardare come storia particolare, o locale che dir si voglia,
ma come storia universale, perché «se universale è la storia che
all’umanità si riferisce come un tutto ideale, sebbene abbia il suo centro
vitale solo in un determinato punto dello spazio, come Atene, Roma,
Gerusalemme, ecc., non si può negare che in quei cinque secoli la Sicilia fu un nodo
centrale, in cui si incontrarono, si urtarono, si elisero e si ricomposero
le forze dominatrici del tempo». Per il Brandileone, l’Orlando si lascia
«guidare un po’ troppo dalla carità del natio loco» (è il modo solito di
attutire e interpretare canonicamente i sentimenti politici centrifughi).
L’Orlando divide questi cinque secoli in due periodi, dei quali il primo
(dominio musulmano e normanno-svevo) sarebbe «statico», poiché in esso solo
«venne elaborandosi tutta una civiltà specifica che costituí un’èra e
culminò nella creazione dello Stato e nella massima potenza di esso»
e nel secondo, «piú dinamico», «di quello Stato avvenne la consacrazione storica
e cioè la passione per la difesa dell’indipendenza nel suo piú formidabile
cimento».
Il Brandileone polemizza sottilmente coll’Orlando e le cose
che dice sono molto interessanti per la storia siciliana e meridionale, ma in
questa rubrica interessa il punto di vista dell’Orlando in sé e per sé come
riflesso del sicilianismo nella forma intellettuale. Realmente l’Orlando è
d’accordo coll’Amari, ne sente lo stesso impulso intellettuale e morale di
valorizzare la storia siciliana, di affermare che la Sicilia è stata un momento
della storia universale, che il popolo siciliano ha avuto una fase creatrice di
Stato, che non può non essere l’espressione di una «nazionalità siciliana»
(anche se fino a questa affermazione l’Orlando non voglia arrivare come non arrivava
l’Amari, dicendo di essersi sentito italiano anche prima del ’48).
Il Brandileone oppone all’Orlando
il punto di vista espresso dal Croce nella Storia del Regno di Napoli,
cioè che «quella storia nella sua sostanza non è nostra o nostra è soltanto per
piccola parte e secondaria», «storia rappresentata nella nostra terra e non
generata dalle sue viscere»; è vero che il Croce si riferisce al periodo
normanno-svevo per il Mezzogiorno, ma secondo il Brandileone deve riferirsi
anche alla Sicilia. Il punto di vista del Croce genericamente è esatto, ma nel
tempo in cui quella storia si svolgeva era essa sentita dal popolo come propria
e in che misura? E quale era la parte creativa della popolazione? In ogni modo
questi avvenimenti impressero una certa direttiva alla storia del paese,
crearono certe condizioni che continuarono e continuano ancora ad operare in
certi limiti.
La
Sicilia. Luigi Natoli: Rivendicazioni (attraverso
le rivoluzioni siciliane del 1848-1860), Treviso, Cattedra italiana di
pubblicità, 1927, L.
14. «Il Natoli vuole reagire contro quella tendenza di studi e di studiosi che
ancor oggi o per scarsa padronanza delle testimonianze o per residui di antiche
prevenzioni politiche, mira a svalutare il contributo della Sicilia alla storia
unitaria del Risorgimento. L’autore polemizza specialmente con B. Croce, il
quale considera la rivoluzione siciliana del 1848 come un “moto separatista”
dannoso alla causa italiana, ecc.». Ciò che è interessante, in questa
letteratura siciliana giornalistica o libresca, è il tono fortemente polemico e
irritato (unitarismo ossessionato). La quistione invece dovrebbe essere molto
semplice, dal punto di vista storico: il separatismo o c’è stato o non c’è
stato o è stato solo tendenziale in una misura da determinarsi secondo un
metodo storicamente obiettivo, astraendo da ogni valutazione attuale di
polemica di partito, di corrente o di ideologia; la ricostruzione delle
difficoltà incontrate in Sicilia dal moto unitario che potrebbero non essere
maggiori o diverse da quelle incontrate in altre regioni, a cominciare dal
Piemonte. Se in Sicilia il separatismo ci fosse stato, ciò non dovrebbe essere
storicamente considerato né riprovevole, né immorale, né antipatriottico, ma
solo considerato come un nesso storico da giustificare storicamente e che in
ogni modo dovrebbe servire ad esaltare di piú l’energia politica degli unitari
che ne trionfarono.
Il fatto che la polemica continui accanita ed aspra
significa dunque che sono in gioco «interessi attuali» e non interessi storici,
significa in fondo che queste pubblicazioni tipo Natoli dimostrano esse stesse
proprio ciò che vorrebbero negare, cioè il fatto che lo strato sociale unitario
in Sicilia è molto sottile e che esso padroneggia a stento forze latenti
«demoniache» che potrebbero anche essere separatiste, se questa soluzione, in
determinate occasioni, si presentasse come utile per certi interessi. Il Natoli
non parla del moto del ’67 e tanto meno di certe manifestazioni del dopoguerra,
che hanno pure un valore di sintomo per rivelare l’esistenza di correnti
sotterranee, che mostrano un certo distacco tra le masse popolari e lo Stato
unitario, su cui speculavano certi gruppi dirigenti.
Pare che il Natoli sostenga che l’accusa di separatismo
giochi sull’equivoco, sfruttando il programma federalista che in un primo tempo
parve a taluni uomini insigni dell’isola e alle sue rappresentanze la soluzione
piú rispondente alle tradizioni politiche locali, ecc. In ogni modo il fatto
che il programma federalista abbia avuto piú forti sostenitori in Sicilia che
altrove e sia durato piú a lungo ha il suo significato.
Sulla rivoluzione passiva. Protagonisti i «fatti» per
cosí dire e non gli «uomini individuali». Come sotto un determinato involucro
politico necessariamente si modificano i rapporti sociali fondamentali e nuove
forze effettive politiche sorgono e si sviluppano, che influiscono
indirettamente, con la pressione lenta ma incoercibile, sulle forze ufficiali
che esse stesse si modificano senza accorgersene o quasi.
Accanto ai concetti di rivoluzione passiva, di
rivoluzione-restaurazione ecc., porre questa affermazione di Giuseppe Ferrari
(10 novembre 1864 in
Parlamento): «Noi siamo il governo piú libero che abbia mai avuto l’Italia da
cinquecento anni; se io esco da questo Parlamento, io cesso di appartenere alla
rivoluzione ordinata, legale, ufficiale».
A proposito della minaccia continua che il governo
austriaco faceva ai nobili del Lombardo-Veneto di promulgare una
legislazione agraria favorevole ai contadini (minaccia non vana, perché già
attuata in Galizia contro l’aristocrazia polacca), sono interessanti alcuni
spunti di storia della Polonia contenuti in un articolo della «Pologne
Littéraire» riassunto dal «Marzocco» del 1° dicembre 1929. Il giornale polacco,
ricercando le cause storiche dello spirito militare dei polacchi, per cui si
trovano volontari polacchi in tutte le guerre e le guerriglie, in tutte le
insurrezioni e in tutte le rivoluzioni del secolo scorso, risale a questo
fatto: il 13 luglio 1792 «una nazione che contava 9 milioni di abitanti, che
aveva 70.000 soldati sotto le armi, fu conquistata senza essere stata vinta».
Il 3 maggio 1791 era stata proclamata una costituzione il cui spirito
largamente democratico poteva divenire un pericolo per i vicini, il re di Prussia,
l’imperatore d’Austria, e lo zar di Russia, e che aveva parecchi punti di
contatto con la
Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino votata
dalla Costituente francese nell’agosto 1789. La Polonia fu conquistata con
la piena connivenza dei nobili polacchi, i quali, piú previdenti dei loro
confratelli di Francia, non avevano atteso l’applicazione della carta
costituzionale per provocare l’intervento straniero. Costoro preferirono
vendere la nazione al nemico piuttosto che cedere la benché minima parte delle
terre ai contadini. Preferirono cadere in servitú essi medesimi, anziché
concedere la libertà al popolo. Secondo l’autore dell’articolo, Z. St.
Klingsland, i 70.000 soldati presero la via dell’esilio e si diressero verso la Francia, ciò che è per lo
meno esagerato. Il nocciolo degli avvenimenti polacchi è tuttavia altamente
istruttivo e spiega molta parte degli avvenimenti fino al 1859 anche in Italia.
È da rilevare il fatto che una pubblicazione polacca scritta
in francese per la propaganda all’estero (cosí almeno pare) spieghi la
spartizione della Polonia del 1792 specialmente col tradimento dei nobili
piuttosto che con la debolezza militare polacca, nonostante che la nobiltà
abbia ancora in Polonia una funzione molto rilevante e Pilsudsky si sia ben
guardato anche lui dal procedere a una radicale riforma agraria. Strano «punto
d’onore» nazionale. Darwin, nel Viaggio intorno al mondo di un naturalista,
racconta un episodio simile per la Spagna: i suoi interlocutori sostenevano che una
sconfitta della flotta alleata franco-spagnola era stata dovuta alla slealtà
degli spagnoli, i quali se avessero combattuto davvero, non avrebbero potuto
essere stati vinti. Meglio sleali e traditori che «senza spirito militare
invincibile».
Federico Confalonieri. Per capire l’impressione
«penosa» che produceva tra gli esuli italiani l’atteggiamento di inerzia del
Confalonieri durante la sua dimora all’estero, dopo la liberazione dallo
Spielberg, occorre tener presente un brano della lettera scritta dal Mazzini a Filippo
Ugoni il 15 novembre 1838, pubblicata da Ugo Da Como nella «Nuova Antologia»
del 16 giugno 1928 (Lettera inedita di Giuseppe Mazzini): «Mi sorprende
che Confalonieri rientri. Quando tu mi parli della guerra che susciterebbe nel
mio cuore il pensiero di mia madre, di mio padre, della sorella che mi rimane,
dici il vero; ma Confalonieri da che affetto prepotente è egli richiamato in
Italia? dopo la morte di Teresa sua moglie? Non capisco la vita se non
consacrata al dovere o all’amore che è anch’esso un dovere. Intendo, senza
approvare o disapprovare, l’individuo che rinunzia alla lotta pel vero e pel
bene a fronte della felicità o infelicità di persone care e sacre; non intendo
chi vi rinunzia per vivere, come si dice, quieto; otto o dieci anni di vita
d’individualismo, di sensazioni che passano e non producono cosa alcuna per
altri, conchiusi dalla morte, mi paiono cosa spregevole per chi non ha credenza
di vita futura, piú che spregevole rea forse per chi ne ha. Confalonieri, solo,
in età già inoltrata, senza forti doveri che lo leghino a una famiglia di
esseri amati, dovrebbe, secondo me, aver tutto a noia fuorché la idea di
contribuire all’emancipazione del suo paese e alla crociata contro l’Austria».
Il Da Como, nella sua introduzione alla lettera, scrive: «E
per questo è pure nella nostra lettera un accorato pensiero per Federico
Confalonieri. Egli era passato da Londra, un anno prima, diretto in Francia:
Mazzini aveva saputo che era mesto e silenzioso, ma i patimenti, secondo lui,
non dovevano mutare il fondo dell’anima. Lo seguiva con trepidazione, perché
voleva che fosse sempre un’alta diritta figura, un esempio. Pensava che se egli
stesso fosse uscito dallo Spielberg, trovandosi un deserto d’intorno, non
avrebbe ad altro inteso che al modo di ritentare qualche cosa a pro dell’antica
idea e finirvi. Non voleva che supplicasse, che volesse e ottenesse il ritorno
chi aveva sofferto quindici anni senza avvilirsi, senza indizi di cangiamento.
Voleva che fosse sempre un nuovo Farinata degli Uberti, come lo raffigurò
Gabriele Rosa, affettuoso e costante esaltatore, sino all’ultimo, del suo
compagno di prigionia».
Il Da Como è completamente fuori strada e le parole del
Mazzini, altro che accorate, sono aspre e dure. L’agiografia impedisce al Da
Como di rilevare il tono giusto delle parole del Mazzini. Altri accenni al
Confalonieri nell’epistolario mazziniano e nelle lettere degli altri esuli: il
giudizio reale bisogna cercarlo appunto in queste lettere private, perché si
comprende che gli esuli non abbiano voluto pubblicamente gettare ombre sulla
figura del Confalonieri. Una ricerca indispensabile è da farsi nelle relazioni
degli informatori austriaci al governo di Vienna dai paesi dove il Confalonieri
dimorò dopo la liberazione e nelle istruzioni che questi informatori ricevevano
da Metternich.
Silvio d’Amico, in un capitolo del suo libro Certezze
(Treves-Treccani-Tuminelli, di prossima pubblicazione; il capitolo è riportato
dai giornali del 16 marzo 1932, «Resto del Carlino») scrive che in una raccolta
del museo dello Spielberg è conservata la «supplica rivolta a Francesco I dal
conte Confalonieri di Milano entrato in carcere, come si sa, fiorente di
gagliardissima giovinezza: egli scrive all’imperatore come un uomo fiaccato,
chiedendo grazia e pietà. Documento spaventevole, dico, perché anche lasciando
la debita parte alle forme servili del tempo (? da parte del Confalonieri?), di
fatto qui le parole imploranti denunciano una violazione spirituale cento volte
piú turpe di una condanna a morte, gemono la disfatta di una tempra spezzata in
due: non è piú il baldo patrizio che parla, è il fanciullo che un gigante ha
costretto a scrivere a proprio talento, schiacciandogli l’esile mano nel pugno
d’acciaio, è il «meschinissimo che è stato stordito e ubbriacato per vederlo
delirare». Scrive il D’Amico che questo museo dello Spielberg è stato messo
insieme, col permesso del governo ceco, dal dottor Aldo Zaniboni, un medico
italiano che viveva o vive ancora a Brno. Avrà fatto qualche pubblicazione in
proposito? E questa supplica del Confalonieri è stata pubblicata?
Dal libretto: A. F. Andryane, Memorie di un prigioniero
di Stato allo Spielberg, capitoli scelti e annotati da Rosolino Guastalla,
Firenze, Barbera, 1916, tolgo alcune indicazioni bibliografiche su Federico
Confalonieri: Rosolino Guastalla, Letteratura spielberghese in Le mie
prigioni commentate, Livorno, Giusti, 1912; Giorgio Pallavicino, Spilbergo
e Gradisca (1856), ristampato nelle Memorie (Loescher, 1882);
Federico Confalonieri, Memorie e Lettere (Milano, Hoepli, 1890);
Alessandro Luzio, Antonio Salvotti e i processi del Ventuno, Roma, 1901;
Domenico Chiattone, commento alle Mie Prigioni del Pellico. I Mémoires
dell’Andryane sono stati tradotti in italiano da F. Regonati (quattro
volumi, 1861, Milano) corredati da documenti.
Posizione del Luzio contro Andryane, mentre giustifica il
Salvotti (!); confrontare altre osservazioni del Luzio e il carattere
tendenzioso e acrimonioso dei suoi scritti sul Risorgimento. Confrontare G.
Trombadori, Il giudizio del De Sanctis sul Guicciardini, nella
«Nuova Italia» del 20 novembre 1931; scrive il Trombadori: «La legittima
ammirazione che tutti tributiamo al Luzio, soprattutto per l’opera da lui
svolta nel campo degli studi sul nostro Risorgimento, non deve essere scompagnata
dalla conoscenza dei limiti entro cui è chiusa la sua visione della storia, che
sono un moralismo piuttosto esclusivistico e quella mentalità cosí
schiettamente giuridica (ma è esatto dire giuridica? o non è piuttosto “giudiziaria”?)
che lo ha fatto impareggiabile indagatore di carte processuali ecc.» (vedi il
testo in caso di bisogno). Ma non si tratta solo di temperamento, si tratta
specialmente di tendenziosità politica. Il Luzio potrebbe chiamarsi il Cesare
Cantú del moderatismo conservatore (cfr. Croce su Cantú nella Storia della
storiografia italiana nel secolo XIX). Continuo la citazione sul Luzio del
Trombadori: «Sono due atteggiamenti che si integrano e si completano a vicenda,
per cui qualche volta ti sembra che la sua portentosa perizia nel sottoporre
all’analisi deposizioni e testimonianze e “costituti” abbia l’unico fine di
liberare qualcuno dalla taccia di vigliacco o di traditore, o di ribadirgliela,
di condannare o di assolvere. Cosí avviene che raramente egli si sottragga al
gusto di accompagnare ai nomi di uomini che nella storia ebbero la loro parte
grande o piccola, aggettivi come: vile, generoso, nobile, indegno e via
dicendo». Perciò il Luzio partecipò alla polemica che si svolse negli anni
scorsi sul Guicciardini, contro il giudizio del De Sanctis, naturalmente per difendere
il Guicciardini, credendo che ci fosse bisogno di difenderlo, come se il De
Sanctis avesse fatto una requisitoria da procuratore contro di lui e non avesse
invece rappresentato un periodo della cultura italiana, quello dell’«Uomo del
Guicciardini»; l’intervento del Luzio anche in questo caso non è un fatto
di «temperamento» di studioso, ma un fatto politico tendenziale: in realtà
l’«uomo del Guicciardini» è il rappresentante ideale del «moderato italiano»
sia esso lombardo, toscano o piemontese tra il 1848 e il 1870 e del moderno
clerico-moderato, di cui il Luzio è l’aspetto «istoriografico».
È da notare che il Croce non cita, neppure per incidenza, il
nome del Luzio nella sua Storia della storiografia italiana nel secolo XIX,
edizione del 1921, sebbene una parte dell’opera del Luzio risalga agli anni
precedenti il 1900: mi pare ne parli però nell’appendice pubblicata
recentemente nella «Critica» e incorporata poi nella nuova edizione del libro.
Il Confalonieri prima di essere tradotto allo Spielberg e
dopo la liberazione, prima di essere tradotto nel carcere di Gradisca, per
essere poi deportato, andò a Vienna. Vedere se anche in questo secondo
soggiorno a Vienna, che si disse fatto per ragioni di salute, ebbe colloqui con
uomini politici austriaci. I dati esterni sulla vita del Confaloníeri si
possono trovare nelle pubblicazioni del D’Ancona.
Come curiosità sarà da vedere il dramma di Rino Alessi, Il
conte Aquila. Ma perché l’Alessi ha creduto di chiamare il Confalonieri il
conte «Aquila»?
Confidenti e agenti provocatori dell’Austria. I
confidenti che operavano all’estero e che dipendevano dalla Cancelleria di
Stato di Vienna, non dovevano fare gli agenti provocatori: ciò risulta dalle
precise istruzioni del principe di Metternich che in un dispaccio segreto
dell’8 febbraio 1844 indirizzato al conte Appony, ambasciatore d’Austria a
Parigi, cosí si esprimeva in merito al servizio che prestava nella capitale
francese il famigerato Attilio Partesotti: «Il grande fine che il Governo
imperiale si propone non è di trovare dei colpevoli nè di provocare delle
imprese criminali... Partesotti deve di conseguenza considerarsi come un
osservatore attento e fedele ed evitare con cura di essere agente provocatore».
(Documenti della Staatskanzlei di Vienna).
Il brano è riportato da Augusto Sandonà nello studio Il
preludio delle cinque giornate di Milano – Nuovi documenti, pubblicato
nella «Rivista d’Italia» del 15 gennaio 1927 e sgg., con riferimento all’accusa
lanciata dal dott. Carlo Casati (Nuove Rivelazioni sui fatti di Milano del
1847-48, Milano, Hoepli, 1885) e dall’«Archivio triennale delle cose
d’Italia» (vol. I, Capolago, Tip. Elvetica, 1850) contro il barone Carlo
Torresani, direttore generale della polizia di Milano dal 1822 al 1848, di aver
organizzato un servizio di agenti provocatori che inscenassero i tumulti.
È da osservare però, che nonostante le disposizioni del
Metternich, gli agenti provocatori potevano operare lo stesso o per necessità
delle polizie locali o anche per necessità personale dei medesimi
«osservatori».
[I galeotti politici napoletani] Cfr. Attilio
Monaco, I galeotti politici napoletani dopo il Quarantotto, Roma,
Libreria Internazionale Treves-Treccani-Tumminelli, 1933, pp. 873, in 2 volumi, L. 50. Quando
nel 1849 cominciò la reazione borbonica nel napoletano, gli inscritti nelle
liste degli «attendibili», cioè colpiti dalla sorveglianza poliziesca, furono
31.062 e raggiunsero fino alla fine i 100.000. La maggior parte incorsero nelle
pene minori del domicilio forzoso, dell’esilio, della detenzione, della
reclusione o scontarono semplicemente il carcere preventivo per mesi e anche
anni.
Il Monaco ha cercato di ricostruire la lista di questi
lottatori, ma ha dovuto limitarsi ai condannati alle pene piú gravi e
specialmente ai condannati dalle Grandi Corti speciali e che passarono lunghi
anni nelle galere. Questi sono stati circa un migliaio, di varia origine
sociale: possidenti e commercianti, medici e avvocati, sarti e falegnami,
contadini e braccianti... Il libro del Monaco deve essere molto interessante
per varie ragioni: 1) perché mostra che gli elementi attivi politici furono nel
Napoletano piú numerosi di quanto si potesse pensare (100.000 sospetti e
sottoposti a misure di polizia è un bel numero in tempi in cui i partiti erano
embrionali); 2) perché dà informazioni sul regime carcerario borbonico per i
politici e per i comuni (che si trovavano insieme): 157 politici morirono in
galera, almeno 10 divennero pazzi; 3) si può, dal libro, vedere quale partecipazione
dettero all’attività politica le diverse categorie sociali. Il bagno di Procida
fu il piú popolato di politici: nel 1854 ve ne erano 398.
L’episodio dell’arresto dei
fratelli La Gala
nel 1863. Nell’articolo Ricordi
personali di politica interna («Nuova Antologia», 1° aprile 1929), Tommaso
Tittoni dà alcuni particolari inediti sull’arresto dei La Gala a Genova. I La Gala, rifugiatisi negli Stati
pontifici, si erano stabiliti a Oriolo Romano, paesello prossimo a Manziana
dove era nato Vincenzo Tittoni (padre di Tommaso). Un amico di Vincenzo e
corrispondente del Comitato Nazionale romano avvertí il Comitato stesso che i La Gala si erano imbarcati a
Civitavecchia sul vapore francese «Aunis» che si recava a Marsiglia facendo
scalo a Livorno e a Genova. Il Comitato avvertí a Livorno Vincenzo Tittoni al
quale la notizia pervenne mentre l’«Aunis» salpava per Genova. Il Tittoni corse
dal prefetto e lo indusse a telegrafare al prefetto di Genova, il quale, senza
attendere le istruzioni del ministero, prese su di sé la responsabilità di
arrestare i La Gala
a bordo dell’«Aunis». Sull’affare La
Gala cfr. Isaia Ghiron, Annali d’Italia in continuazione
al Muratori e al Coppi («Rassegna storica del Risorgimento» 1927, fasc. 1°)
e cfr. specialmente la «Civiltà Cattolica» del 1863 (i La Gala furono arrestati nel
luglio 1863).
[Carlo Alberto] Niccolò Rodolico, La prima
giovinezza di Carlo Alberto, nel «Pègaso» del novembre 1930. (Del Rodolico
è annunziato presso il Le Monnier, un libro su Carlo Alberto Principe di Carignano,
del quale l’articolo di «Pègaso» è forse un estratto). Da studiare
l’elaborazione, che avviene nella classe politica piemontese, durante l’impero
napoleonico, ma specialmente dopo la sua caduta, del gruppo che si stacca dai
conservatori municipalisti per indicare alla dinastia un compito di
unificazione nazionale, gruppo che avrà la sua massima estrinsecazione nei
neoguelfi del ’48. Carattere dinastico e non nazionale di questo nuovo gruppo
(di cui il De Maistre è elemento notevolissimo): politica furbesca, piú che
machiavellica, di esso, che però diventerà la politica prevalente dei dirigenti
fino al ’70 e anche dopo: sua debolezza organica che si mostra specialmente nel
nodo ’48-49 e che è legata a questa politica di furberia meschina e angusta.
Vedi nel «Corriere della Sera» del
16 ottobre 1931 l’articolo di Gioacchino Volpe, Quattro anni di governo nel
diario autografo del Re (sul libro di Francesco Salata, Carlo Alberto
inedito). Il Volpe è anodino e prudente all’eccesso nei suoi giudizi e nella
sua esposizione. Un capitoletto è intitolato «Contro le ingerenze straniere»,
ma quali sono queste ingerenze? Carlo Alberto è favorevolissimo all’intervento
dell’Austria nelle Legazioni; è contro l’ingerenza (?) negli affari interni del
Piemonte dell’ambasciatore francese e del ministro inglese che vorrebbero una
conferenza a Torino per regolare le faccende dello Stato e della Chiesa: Carlo
Alberto preferí l’intervento armato dell’Austria nelle Legazioni piuttosto che
fare intervenire le proprie truppe come il Papa desiderava, perché non voleva
che i soldati piemontesi si contagiassero di liberalismo o nei Romagnoli
nascesse il desiderio di unirsi al Piemonte.
Tradizioni militari del Piemonte. Non esistevano in
Piemonte fabbriche di armi: le armi dovevano tutte essere comprate all’estero.
Come «tradizione» militare non c’è male. Su questo argomento sarà bene fare
delle ricerche. Le armi che Carlo Alberto mandò al Sonderbund svizzero,
e che sguarnirono il Piemonte prima del ’48, furono vendute e a quanto o
regalate? Il Piemonte ci perdette? Quando fu impiantata la prima fabbrica
d’armi?
Nel discorso di Cavour al Senato del 23 maggio 1851, si dice
appunto che non esistono fabbriche e che si spera, dopo il ribasso del prezzo
del ferro che sarà determinato dalla politica liberista (trattato con
l’Inghilterra) che fabbriche di armi potranno nascere.
Solaro della Margarita. Il Memorandum del Solaro della Margarita va
integrato con l’articolo Visita del Solaro della Margarita a Pio IX nel 1846,
con documenti inediti (tratti dagli Archivi Vaticani e dall’Archivio Solaro)
nella «Civiltà Cattolica» del 15 settembre 1928. La conoscenza della
personalità politica di Solaro della Margarita è indispensabile per ricostruire
il «nodo storico ’48-49». Bisogna porre bene la quistione: Solaro della
Margarita era un reazionario piemontese, fortemente legato alla dinastia:
l’accusa di «austriacante» è puramente arbitraria, nel senso volgare della
parola. Solaro avrebbe voluto l’egemonia piemontese in Italia e la cacciata
degli Austriaci dall’Italia, ma solo con mezzi diplomatici normali, senza
guerra e specialmente senza rivoluzione popolare. Contro i liberali voleva
l’alleanza con l’Austria, si capisce. L’articolo della «Civiltà Cattolica» serve
anche per giudicare la politica di Pio IX fino al ’48. In questo articolo c’è
qualche indicazione bibliografica sul Solaro.
(Bisogna ricordare il fatto che il
governo piemontese dette armi ai cattolici del Sonderbund insorto,
svuotando i magazzini militari, nonostante che si preparasse il ’48. Solaro
voleva che il Piemonte estendesse la sua influenza in Isvizzera, cioè voleva
spostare l’asse della politica italiana).
Argomenti di cultura. Gioberti e il giacobinismo. Atteggiamento
del Gioberti verso il giacobinismo prima e dopo il ’48. Dopo il ’48, nel Rinnovamento,
non solo non c’è accenno al panico che il ’93 aveva diffuso nella prima metà
del secolo, ma anzi il Gioberti mostra chiaramente di avere simpatie per i
giacobini (egli giustifica lo sterminio dei girondini e la lotta su due fronti
dei giacobini: contro gli stranieri invasori e contro i reazionari interni,
anche se, molto temperatamente, accenna ai metodi giacobini che potevano essere
piú dolci, ecc.). Questo atteggiamento del Gioberti verso il giacobinismo francese
dopo il ’48 è da notare come fatto culturale molto importante: si giustifica
con gli eccessi della reazione dopo il ’48, che portavano a comprendere meglio
e a giustificare la selvaggia energia del giacobinismo francese.
Ma oltre a questo tratto è da notare che nel Rinnovamento
il Gioberti si manifesta un vero e proprio giacobino, almeno teoricamente,
e nella situazione data italiana. Gli elementi di questo giacobinismo possono a
grandi tratti cosí riassumersi: 1) Nell’affermazione dell’egemonia politica e
militare del Piemonte, che dovrebbe, come regione, essere quello che Parigi fu
per la Francia:
questo punto è molto interessante ed è da studiare nel Gioberti anche prima del
’48. Il Gioberti sentí l’assenza in Italia di un centro popolare di movimento
nazionale rivoluzionario come fu Parigi per la Francia e questa
comprensione mostra il realismo politico del Gioberti. Prima del ’48,
Piemonte-Roma dovevano essere i centri propulsori, per la politica-milizia il
primo, per l’ideologia-religione la seconda. Dopo il ’48, Roma non ha la stessa
importanza, anzi: il Gioberti dice che il movimento deve essere contro il
Papato. 2) Il Gioberti, sia pure vagamente, ha il concetto del
«popolare-nazionale» giacobino, dell’egemonia politica, cioè dell’alleanza tra
borghesi-intellettuali (ingegno) e il popolo; ciò in economia (e le idee del
Gioberti in economia sono vaghe ma interessanti) e nella letteratura (cultura),
in cui le idee sono piú distinte e concrete perché in questo campo c’è meno da
compromettersi. Nel Rinnovamento (Parte II, capitolo «Degli scrittori»)
scrive: «...Una letteratura non può essere nazionale se non è popolare; perché,
se bene sia di pochi il crearla, universale dee esserne l’uso e il godimento.
Oltre che, dovendo ella esprimere le idee e gli affetti comuni e trarre in luce
quei sensi che giacciono occulti e confusi nel cuore delle moltitudini, i suoi
cultori debbono non solo mirare al bene del popolo, ma ritrarre del suo
spirito; tanto che questo viene ad essere non solo il fine, ma in un certo modo
eziandio il principio delle lettere civili. E vedesi col fatto che esse non
salgono al colmo della perfezione e dell’efficacia se non quando s’incorporano
e fanno, come dire, una cosa colla nazione, ecc.».
In ogni modo che l’assenza di un «giacobinismo italiano»
fosse sentita, appare dal Gioberti. E il Gioberti è da studiare da questo punto
di vista. Ancora: è da notare come il Gioberti, sia nel Primato che nel Rinnovamento
si mostri uno stratega del movimento nazionale, e non solamente un
tattico. Il suo realismo lo porta ai compromessi, ma sempre nella cerchia del
piano strategico generale. La debolezza del Gioberti come uomo di Stato è da
cercare nel fatto che egli fu sempre esule, non conosceva quindi gli uomini che
doveva maneggiare e dirigere e non aveva amici fedeli (cioè un partito): quanto
piú egli fu stratega, tanto piú doveva appoggiarsi su forze reali e queste non
conosceva e non poteva dominare e dirigere. (Per il concetto di letteratura
nazionale-popolare bisogna studiare il Gioberti e il suo romanticismo
temperato). Cosí occorre studiare il Gioberti per analizzare quello che in
altre note è indicato come «nodo storico del ’48-49» e il Risorgimento in
generale, ma il punto culturale piú importante mi pare sia questo di «Gioberti
giacobino», giacobino teorico, s’intende, perché in pratica egli non ebbe modo
di applicare le sue dottrine.
L’ultimo paragrafo di un lungo
articolo della «Civiltà Cattolica» (2 marzo-16 marzo 1929), Il Padre
Saverio Bettinelli e l’abate Vincenzo Gioberti, può essere interessante
come spunto. Sempre in polemica col Gioberti, la «Civiltà Cattolica» ancora una
volta dice di voler smentire l’affermazione che i gesuiti del secolo XIX siano
stati avversari dell’Italia e anzi cospiranti coll’Austria. Secondo la «Civiltà
Cattolica»: «Cominciando da Pio IX fino al piú semplice prete di contado,
l’unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare
[perentoriamente] che all’invito di Pio IX, nel 1848, per una lega italiana e
per l’unione politica dell’Italia, chi si oppose fu il solo ministero
piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori di ogni dubbio, chi non
voglia negare la luce meridiana, non si oppose all’unità ma la voleva in modo
diverso in quanto all’esecuzione. Questa era l’idea di Pio IX, dell’alta
gerarchia de’ cardinali, e dello stesso antico partito conservatore piemontese,
capitanato dal conte Solaro della Margarita». Difende specificatamente i
gesuiti dall’accusa di antiunitarismo e austriacantismo contro un articolo di
Antonio Bruers pubblicato nella «Stirpe» dell’agosto 1928: il Bruers
recensisce sfavorevolmente il libro del prof. U. A. Padovani della Università
del Sacro Cuore, Vincenzo Gioberti e il Cattolicesimo, Milano, Soc. Ed.
«Vita e Pensiero», 1927, che appunto deve polemizzare col Gioberti per il suo
antigesuitismo. Scrive la «Civiltà Cattolica»: «In sentenza definitiva,
accertiamo che i gesuiti, come Pio IX e tutto in generale il clero italiano e
l’intero partito conservatore laicale che non era poco, non combatterono mai l’unità
in se stessa, ma l’unità violenta come si andava praticando, ossia il modo di
attuare quell’unità che era nel desiderio comune. Oh, che non si può amare la
patria se non alla stregua altrui?». Ricorda poi che «a far porre nell’Indice
dei libri proibiti le opere del Gioberti, fu lo stesso re Carlo Alberto» e nota
gesuitescamente «dunque il re Carlo Alberto avrebbe condannato la politica del
Gioberti, cioè la propria!»; ma probabilmente nel momento in cui Carlo Alberto
domandava i rigori della Chiesa contro Gioberti, la sua politica era quella di
Solaro della Margarita. In ogni modo è bellissimo il fatto paradossale che oggi
i gesuiti possano mettere nel sacco questi scrittorelli tipo Bruers.
Gioberti e il cattolicismo liberale. Nella prefazione
alle Letture del Risorgimento il Carducci scrive: «Staccatosi dalla Giovane
Italia nel 1834, tornò a quello che il Santarosa voleva e chiamava cospirazione
letteraria ed egli la fece con certa sua filosofia battagliera, che molto
alta portava la tradizione italiana, finché uscí nell’agone col Primato e
predicando la lega dei principi riformatori, capo il pontefice, attrasse le
anime timorose e gli ingegni timorosi, attrasse a sé il giovane clero, che alla
sua volta traevasi dietro il popolo credente anche della campagna». In altro
punto il Carducci scrive: «... l’abate italiano riformista e mezzo giacobino
col Parini, soprannuotato col Cesarotti e col Barbieri alla rivoluzione, che
s’era fatto col Di Breme banditore di romanticismo e soffiatore nel
carbonarismo del ’21, che aveva intinto col Gioberti nelle cospirazioni e
bandito il Primato d’Italia e il Rinnovamento, che aveva col
Rosmini additato le piaghe della Chiesa, che aveva coll’Andreoli e col Tazzoli
salito il patibolo...».
Risorgimento e Rinnovamento nel Gioberti. È da vedere
la distinzione che il Gioberti fa tra «Risorgimento» e «Rinnovamento», tra la
situazione prima del ’48 e dopo il ’48, sia interna – rapporti tra i vari Stati
italiani e le classi sociali italiane – sia internazionale, della posizione
dell’Italia nel complesso dei rapporti tra gli Stati europei e le forze
politiche di questi Stati.
I moderati toscani. Confrontare la conferenza di
Mario Puccioni, Uomini del Risorgimento in Toscana, pubblicata nella
«Miscellanza storica della Valdelsa» riassunta nel «Marzocco» del 15 novembre
1931. L’attività apologetica del Puccioni a favore dei moderati toscani è un
tratto interessante della cultura toscana moderna: dimostra come ancora sia
instabile la coscienza nazionale del ceto dirigente toscano e la sua «dignità e
prestigio» discussi. I moderati toscani trovarono aiuto e adesione soltanto
nella borghesia colta, nella piccola possidenza e nel popolo della città:
l’aristocrazia con la classe agricola rappresentò l’assenteismo e il quietismo.
«Scoppiata (!) la rivoluzione, fu provvidenziale che la sera del 27 aprile
Ubaldino Peruzzi accettasse di far parte del triunvirato, rassicurando i timidi
del granducato e le diplomazie, tutte avverse al movimento, che sotto di lui
non si sarebbero ripetuti gli eccessi del 1849». Cosa c’è di «nazionale» in
tutto ciò? I moderati erano espressione, dunque, dei «timori» dell’aristocrazia
e della gente per bene che aveva paura degli «eccessi» e delle diplomazie; cosa
c’è di «nazionale» in questa espressione? E perché le classi agricole erano
assenti? Non erano esse la maggioranza del popolo toscano, cioè la «forza
nazionale»? La paura degli «eccessi» non era la paura che tali classi
entrassero in movimento per le loro rivendicazioni progressive, e i «paurosi»
non erano i retrivi conservatori di uno statu quo antinazionale, tanto
vero che era quello dell’antico regime? Si tratta dunque di una ripetizione del
vecchio principio: Franza o Spagna, purché se magna. Granducato o Italia unita,
purché le cose rimangano come sono: il fatto politico e nazionale è
indifferente, ciò che conta è l’ordinamento economico-sociale che deve essere
conservato contro le forze nazionali progressive. Cosí è della paura delle
diplomazie. Come può una rivoluzione aver paura delle diplomazie? Questa paura
non significa coscienza di essere subordinati all’estero e di dover trascurare
le esigenze nazionali per le pretese straniere? L’apologetica del Puccioni
parte da concezioni ben meschine e basse: ma perché chiamare «nazionale» ciò
che è solo servile e subalterno? «Quanto piú avevan tardato i moderati ad
afferrare l’idea che ispirò i rivoluzionari ed a sentire la necessità
dell’adesione al Piemonte, tanto piú decisi (?), dopo un lavoro di
ricostruzione, furono nel sostenerla, predicarla, effettuarla, a dispetto (!)
delle contrarie diplomazie, a contrasto con le indebite (!) ingerenze dei
seguaci del sovrano fuggito. Non è il caso di preoccuparci (!) se i moderati
accederono a cose fatte (– o non furono precursori? –) alla rivoluzione:
constatiamo invece quanto fosse utile e indispensabile il loro appoggio, se non
altro (!) a mostrare (!) all’estero che i terribili rivoluzionari erano
rappresentati da uomini della migliore società, i quali avrebbero avuto tutto
da perdere e nulla da guadagnare da una rivoluzione, quando essa non fosse
riuscita seria e promettitrice di migliore avvenire». Migliore per chi?
e come? Il Puccioni diventa spassoso, ma è spassoso che egli sia invitato a
dire tali cose e che le sue proposizioni e il suo modo di pensare siano applauditi.
Politica e diplomazia. Cavour. (Cfr. nota a p. 38 bis
su Machiavelli e Guicciardini). Aneddoto riportato da Ferdinando Martini in Confessioni
e Ricordi, 1859-1892 (ed. Treves, 1928), pp. 150-51: per Crispi, il Cavour
non doveva essere considerato come un elemento di prima linea nella storia del
Risorgimento, ma solo Vittorio Emanuele, Garibaldi e Mazzini. «Il Cavour? Che
cosa fece il Cavour? Niente altro che diplomatizzare la rivoluzione...».
Il Martini annota: «Non osai dirlo, ma pensai: E scusate se è poco!» Mi pare
che il Crispi e il Martini seguano due ordini diversi di pensieri. Il Crispi
intende riferirsi agli elementi attivi, ai «creatori» del movimento
nazionale-rivoluzione, cioè ai politici propriamente detti. Pertanto la
diplomazia è per lui attività subalterna e subordinata: il diplomatico non crea
nuovi nessi storici, ma lavora a far sanzionare quelli che il politico ha
creato: Talleyrand non può essere paragonato con Napoleone.
In realtà il Crispi ha torto, ma non per ciò che il Martini
crede. Il Cavour non fu solo un diplomatico, ma anzi essenzialmente un politico
«creatore», solo che il suo modo di «creare» non era da rivoluzionario, ma da
conservatore: e in ultima analisi non il programma di Mazzini e di Garibaldi,
ma quello di Cavour trionfò. Né si capisce come il Crispi ponga accanto
Vittorio Emanuele a Mazzini e Garibaldi; Vittorio Emanuele sta con Cavour ed è
attraverso Vittorio Emanuele che Cavour domina Garibaldi e anche Mazzini. È
certo che Crispi non avrebbe potuto riconoscere giusta questa analisi per
«l’affetto che l’intelletto lega»; la sua passione settaria era ancor viva,
come rimase viva sempre in lui, pur nelle mutazioni radicali delle sue
posizioni politiche. D’altronde neanche il Martini avrebbe mai ammesso (almeno
in pubblico) che Cavour sia stato essenzialmente un «pompiere», o si potrebbe
dire «un termidoriano preventivo», poiché né in Mazzini né in Garibaldi né in
Crispi stesso c’era la stoffa dei giacobini del Comitato di Salute Pubblica.
Come ho notato altrove, Crispi era un temperamento giacobino, non un «giacobino
politico-economico», cioè non aveva un programma il cui contenuto potesse
essere paragonato a quello dei giacobini e neppure la loro feroce
intransigenza. D’altronde: c’erano in Italia alcune delle condizioni necessarie
per un movimento come quello dei giacobini francesi? La Francia da molti secoli
era una nazione egemonica: la sua autonomia internazionale era molto ampia. Per
l’Italia niente di simile: essa non aveva nessuna autonomia internazionale. In
tali speciali condizioni si capisce che la diplomazia fosse concretamente
superiore alla politica creativa, fosse la «sola politica creativa». Il
problema non era di suscitare una nazione che avesse il primato in Europa e nel
mondo, o uno Stato unitario che strappasse alla Francia l’iniziativa civile, ma
di rappezzare uno Stato unitario purchessia. I grandi programmi di Gioberti e
di Mazzini dovevano cedere al realismo politico e all’empirismo di Cavour.
Questa assenza di «autonomia internazionale» è la ragione che spiega molta
storia italiana e non solo delle classi borghesi. Si spiega anche cosí il
perché di molte vittorie diplomatiche italiane, nonostante la debolezza
relativa politica-militare: non è la diplomazia italiana che vince come tale,
ma si tratta di abilità nel saper trarre partito dall’equilibrio delle forze
internazionali: è un’abilità subalterna, tuttavia fruttuosa. Non si è forti per
sé, ma nessun sistema internazionale sarebbe il piú forte senza l’Italia.
A proposito del giacobinismo di Crispi è anche interessante
il capitolo Guerra di successione dello stesso libro del Martini (pp.
209-24, specialmente p. 224). Dopo la morte di Depretis i settentrionali non
volevano la successione di Crispi siciliano. Già Presidente del Consiglio,
Crispi si sfoga col Martini, proclama il suo unitarismo, ecc., afferma che non
esistono piú regionalismi, ecc. Sembra questa una dote positiva di Crispi: mi
pare invece giusto il giudizio contrario. La debolezza di Crispi fu appunto di
legarsi strettamente al gruppo settentrionale, subendone il ricatto e di avere
sistematicamente sacrificato il Meridione, cioè i contadini, cioè di non aver
osato, come i giacobini osarono, di posporre agli interessi corporativi del
piccolo gruppo dirigente immediato, gli interessi storici della classe futura,
risvegliandone le energie latenti con una riforma agraria. Anche il Crispi è un
termidoriano preventivo, cioè un termidoriano che non prende il potere quando
le forze latenti sono state messe in movimento, ma prende il potere per
impedire che tali forze si scatenino: un «fogliante» era nella Rivoluzione
francese un termidoriano in anticipo, ecc.
Sarà da ricercare attentamente se nel periodo del
Risorgimento sia apparso almeno qualche accenno di un programma in cui l’unità
della struttura economico-sociale italiana sia stata vista in questo modo
concreto: ho l’impressione che stringi, stringi, il solo Cavour ebbe una
concezione di tal genere, cioè nel quadro della politica nazionale, pose le
classi agrarie meridionali come fattore primario, classi agrarie e non
contadini naturalmente, cioè blocco agrario diretto da grandi proprietari e
grandi intellettuali. Sarà bene da studiare perciò il volume speciale dei
carteggi cavourriani dedicato alla «Quistione meridionale». (Altro da studiare
a questo riguardo: Giuseppe Ferrari, prima e dopo il ’60: dopo il ’60 i
discorsi parlamentari sui fatti del Mezzogiorno).
Cavour. Cosa significa nel libro di Alberto Cappa sul Cavour
l’insistere continuamente nell’affermare che la politica del Cavour rappresenta
il «giusto mezzo»? Perché «giusto»? Forse perché ha trionfato? La «giustezza»
della politica del Cavour non può essere teorizzata a priori; non può trattarsi
di una «giustezza» razionale, assoluta, ecc. In realtà non si può parlare di
una funzione da intermediario in Cavour, ciò che diminuirebbe la sua figura e
il suo significato. Cavour seguí una sua linea, che trionfò non perché mediasse
opposti estremismi, ma perché rappresentava la sola politica giusta dell’epoca,
appunto per l’assenza di validi e intelligenti (politicamente) competitori. Nel
Cappa il «giusto mezzo» rassomiglia molto al «giusto prezzo», all’«ottimo
governo», ecc. In realtà avviene che sfugge poi al Cappa quale sia stata la
reale politica cavourriana, la politica indipendente, originale, ecc.,
qualunque sia il giudizio che di essa si possa dare per i risultati che ha
avuto nell’epoca successiva, cioè anche se si debba dire che essa fu molto meno
«nazionale» di quanto il Cappa, secondo i figurini ufficiali, vuol far credere,
anche se essa fu una lotta vittoriosa contro le forze popolari (senza «giusto
mezzo»), ciò che contribuí a costituire uno Stato angusto, settario, senza
possibilità d’azione internazionale perché sempre minacciato dall’insorgere di
forze sovvertitrici elementari, che appunto Cavour non volle «nazionalizzare».
Che il Cavour abbia, come metodo di propaganda politica, assunto una posizione
da «giusto mezzo» non ha che un significato secondario. In realtà, le forze
storiche cozzano tra loro per il loro programma «estremo». Che tra queste
forze, una assuma la funzione di «sintesi» superatrice degli opposti estremismi
è una necessità dialettica, non un metodo aprioristico. E saper trovare volta
per volta il punto di equilibrio progressivo (nel senso del proprio programma)
è l’arte del politico, non del giusto mezzo, ma proprio del politico che ha una
linea molto precisa e di grande prospettiva per l’avvenire. Il Cappa può essere
portato come esempio nell’esposizione della forma italiana del «proudhonismo»
giobertiano, dell’antidialettica, dell’opportunismo empirico e di corta vista.
Il realismo di Cavour. Il peso relativamente preponderante
che i fattori internazionali ebbero nello sviluppo del Risorgimento risulta dal
particolare realismo del Cavour, che consisteva nel valutare in una misura che
sembrava mostruosa al Partito d’Azione l’attività diplomatica. Quando Crispi,
credendo di diminuire l’importanza di Cavour, disse a Ferdinando Martini, che
Cavour non aveva fatto altro che «diplomatizzare la rivoluzione» in realtà
egli, senza volerlo, riconosceva l’indispensabilità del Cavour. Ma, per Crispi,
ammettere che organizzare i rapporti internazionali fosse stato piú importante
ed essenziale che organizzare i rapporti interni, sarebbe stato impossibile:
avrebbe significato ammettere che le forze interne nazionali erano troppo
deboli in confronto dei compiti da risolvere e che, specialmente, esse si erano
mostrate impari alla loro missione e politicamente impreparate e abuliche
(abuliche nel terreno della volontà politica concreta e non del giacobinismo
formale). Perciò il «realismo di Cavour» è un argomento ancora da trattare,
senza pregiudizi e senza retorica.
Gli avvenimenti del febbraio 1853 a Milano e i moderati. Nell’articolo
su Francesco Brioschi («Marzocco» del 6 aprile 1930, capitolo del libro Rievocazioni
dell’Ottocento), Luca Beltrami ricorda come il Brioschi fu accusato di aver
firmato l’indirizzo di devozione a Francesco Giuseppe nel febbraio 1853 (dopo
l’attentato di un calzolaio viennese). Il Beltrami afferma che il Brioschi non
firmò (se c’è un Brioschi fra i firmatari, non si tratta dell’illustre
matematico, professore dell’Università di Pavia e futuro organizzatore del
Politecnico di Milano). Il Beltrami annota: «E non sarebbe nemmeno da definire
atto di cortigianeria quello dei funzionari del governo, “invitati” a firmare
la protesta contro l’atto insano e incosciente di un calzolaio viennese»,
dimenticando: 1) che l’indirizzo fu firmato dopo la repressione di Milano e
alla vigilia di Belfiore; 2) che i nobili milanesi firmatari non erano
«funzionari»; 3) che se il Brioschi funzionario, non firmò, senza essere
perseguitato, significa che non solo i nobili, ma anche i funzionari potevano
non firmare. Pertanto nella sua annotazione è implicita la condanna morale di
tutti i firmatari.
Massimo D’Azeglio. In questi anni molte pubblicazioni apologetiche di Massimo
D’Azeglio, specialmente del nominato Marcus De Rubris (vedere quanti titoli il
De Rubris ha inventato per il D’Azeglio: il cavaliere della nazione, l’araldo
della vigilia, ecc. ecc.). Raccogliere materiali per un capitolo di «fame
usurpate».
Nel 1860, il D’Azeglio,
governatore di Milano, impedí che fossero mandate armi e munizioni a Garibaldi per
l’impresa di Marsala, «sembrandogli poco leale (!) aiutare una insurrezione
contro il regno di Napoli, con cui si era in relazioni diplomatiche», come
scrive il senatore Mozziotti («Nuova Antologia», 1° marzo 1928, La
spedizione garibaldina del «Utile» Cfr. Luzio, Il milione di fucili e la
spedizione dei Mille nella «Lettura» dell’aprile 1910 e la letteratura su
Garibaldi in generale: come Garibaldi giudicò il D’Azeglio? Cfr. le Memorie).
Poiché il D’Azeglio, in altre occasioni non fu cosí attaccato alla «lealtà», il
suo atteggiamento deve essere spiegato con l’avversione cieca e settaria al
Partito d’Azione e a Garibaldi. L’atteggiamento del D’Azeglio spiega la
politica pavida e ondeggiante di Cavour nel ’60: D’Azeglio era un Cavour meno
intelligente e meno uomo di Stato, ma politicamente si rassomigliavano: non si
trattava tanto per loro di unificare l’Italia, quanto di impedire che
operassero i democratici.
Il 1849
a Firenze. Nella «Rassegna Nazionale» (riportato dal
«Marzocco» del 21 febbraio 1932), Aldo Romano pubblica una lettera di Ruggero
Bonghi e una di Cirillo Monzani scritte a Silvio Spaventa nel 1849 da Firenze,
durante il periodo della dittatura Guerrazzi-Montanelli, lettere che sono
interessanti per giudicare quale fosse l’atteggiamento dei moderati verso la
fase democratica del moto rivoluzionario del ’48-49. Colpisce il fatto come
questi due moderati si mostrino estranei agli avvenimenti, spettatori
incuriositi ma malevoli e non attori interessati. Ecco un brano del Bonghi,
scritto quindici giorni dopo la fuga del granduca: «La fazione repubblicana
intende a rizzare dovunque quell’albero con cosí poco concorso rizzato a
Firenze, insino dalla sera che si seppe il proclama di De Laugier, e mediante
l’opera di alcuni livornesi fatti venire a bella posta. Questo rizzamento ha
poco o nessun contrasto nelle città principali o piú popolose; ma ne ha molto
nelle piú piccole e moltissimo nelle campagne. Ier sera si voleva rizzare fuori
Porta Romana; furon grida di evviva; poi contrasto di chi voleva e di chi non
voleva; poi colpi di coltello e fucilate; infine un grande sconquasso. I
contadini dei dintorni, credendo che fosse una baldoria che si facesse per il
ritorno del granduca, o che fossero già istigati e preparati alla reazione, o
comechessia, cominciarono anch’essi a fare gli evviva a Leopoldo II, a tirar
fucilate, a cavar bandiere, ad agitar fazzoletti, a sparar mortaletti e cose
simili». Piú sintomatico è lo scritto del Monzani, che dà uno scampolo di
quella che doveva essere la propaganda disfattista dei moderati: «La cecità, e,
quel che è peggio, la mala fede, l’astuzia, il raggiro, mi paiono giunti al
colmo. Si parla molto di patria, di libertà, ma pochi hanno in cuore la patria
e saprebbero fare estremi sacrifizi ed esporre le vite a salvamento di essa.
Questi santissimi nomi sono purtroppo profanati, ed i piú se ne servono come
pala (!) ad ottenere o potenza o ricchezza. Forse m’ingannerò, ma l’aspettarsi
salvezza da costoro mi parrebbe il medesimo che aspettarla dal turco. Io non
sono avvezzo ad illudermi, né a correr dietro ai fantasmi, ché troppo gli
italiani si sono lasciati prendere al laccio delle chimere, e dalle utopie di
certi apostoli, i quali ormai sono troppo dannosi alla nostra disgraziata
patria».
Le due lettere furono sequestrate allo Spaventa al momento
dell’arresto. I Borboni erano troppo angusti di mente per servirsene contro i
liberali, facendole pubblicare e commentare dai loro pennaioli (odiavano troppo
i pennaioli per averne al proprio servizio), si limitarono a passarle agli atti
del processo Spaventa. (Tutta la spiritosaggine del Bonghi è concentrata in
quel continuo ripetere «rizzare» e «rizzamento» alla napoletana!).
[Stato e Chiesa.] Polemica tra B. Spaventa e il Padre
Taparelli della «Civiltà Cattolica» sui rapporti tra Stato e Chiesa. È da
confrontare la raccolta degli scritti dello Spaventa fatta da G. Gentile: La
politica dei Gesuiti nel secolo XVI e nel XIX, ediz. Albrighi e Segati,
1911. È da notare anche la prefazione del Gentile, che deve essere messa in
rapporto con gli atteggiamenti del Gentile stesso a proposito del Concordato.
A proposito dei rapporti tra Stato e Chiesa è da vedere
l’atteggiamento del gruppo del «Saggiatore» (nel febbraio 1933 un articolo in
proposito al quale si accenna nella «Critica Fascista» del 1° maggio). La
formula della religione «affare privato» è di origine liberale e non propria
della filosofia della praxis, come crede il collaboratore di «Critica».
Evidentemente è una formula politica immediata, che può essere fatta propria
come formula di compromesso, in quanto non si vuole scatenare una guerra
religiosa, né ricorrere alla forza materiale, ecc. Dalla polemica dello
Spaventa appare che neanche per i liberali la religione è un affare privato in
senso assoluto, ma liberalismo ha sempre piú significato un metodo di governo e
sempre meno una concezione del mondo e pertanto è nata la formula come formula
«permanente».
[Il movimento del Viesseux.] Un centro di propaganda
intellettuale per l’organizzazione e la «condensazione» del gruppo
intellettuale dirigente della borghesia italiana del Risorgimento è quello
costituito dal Vieusseux in Firenze, col Gabinetto letterario e le
pubblicazioni periodiche: l’«Antologia», l’«Archivio Storico Italiano», il
«Giornale Agrario», la «Guida dell’Educatore». Manca una pubblicazione tecnico-industriale,
come il «Politecnico» di Carlo Cattaneo (che nascerà, non a caso, a Milano). Le
iniziative del Vieusseux indicano quali fossero i problemi piú importanti che
interessavano gli elementi piú progressivi del tempo: la scuola e l’istruzione
pubblica, l’industria agricola, la cultura letteraria e storica. È vero che
l’«Antologia» riassumeva tutte queste attività, ma sarà da vedere se in essa ebbe
molta importanza (o quale) la tecnologia industriale. Manca anche un’attività
specializzata di «economia politica». (Bisogna vedere se in quel tempo
esistevano per l’economia politica e per la tecnologia riviste specializzate
negli altri paesi, specialmente Inghilterra e Francia, o se esse venivano
trattate e divulgate solo con libri. Il saggio di economia politica e di
tecnologia è forse piú tardo anche in questi paesi). Cfr. sul movimento del
Vieusseux: Francesco Baldasseroni, Il Rinnovamento civile in Toscana,
Firenze, Olschki, 1931.
Giuseppe Ferrari. Come il giacobinismo storico
(unione della città e della campagna) si è diluito e astrattizzato in Giuseppe
Ferrari. La «legge agraria» da punto programmatico concreto e attuale, ben
circoscritto nello spazio e nel tempo, è divenuta una vaga ideologia, un
principio di filosofia della storia. Da notare che nei giacobini francesi la
politica contadina non fu che un’intuizione politica immediata (arma di lotta
contro l’aristocrazia terriera e contro il federalismo girondino) e che essi si
opposero a ogni «esagerazione» utopistica degli «agraristi» astratti.
L’impostazione della «riforma agraria» nel Ferrari, spiega il fatto della
relativa popolarità che il Ferrari ebbe e continua ad avere fra i libertari: molti
punti di contatto tra il Ferrari e il Bakunin e in generale i narodniki russi;
i nullatenenti della campagna sono mitizzati per la «pandistruzione». Nel
Ferrari, a differenza del Bakunin, è però ancor viva la coscienza che si tratta
di una riforma liberalesca. Bisognerebbe confrontare le idee del Ferrari sulla
riforma agraria come punto d’innesto delle masse agricole nella rivoluzione
nazionale, con le idee di Carlo Pisacane. Il Pisacane si avvicina piú al
Machiavelli; concetto piú limitato e concretamente politico. (Il Ferrari contro
il principio d’eredità nel possesso terriero, contro residui di feudalismo, ma
non contro l’eredità nella forma capitalistica: cfr. con le idee di Eugenio
Rignano).
Campagna e città. Pare che da questo punto di vista
sia interessante il saggio di Carlo Cattaneo, La città considerata come
principio ideale delle istorie italiane, pubblicato da B. A. Belloni
presso l’edit. Vallecchi (1930 o ’31). Il saggio era apparso a puntate nel
«Crepuscolo» del 1858 e non fu mai raccolto nelle opere del Cattaneo curate dal
Bertani, da Gabriele Rosa e dalla Mario. Secondo il Belloni, il concetto
esposto dal Cattaneo della necessità dell’unione tra città e campagna per il
Risorgimento italiano era già stato affermato dal Romagnosi. Potrebbe il Cattaneo
averlo preso anche dalla letteratura francese democratica del tempo, che
seguiva la tradizione giacobina (cfr. per es. I Misteri del Popolo del
Sue che ebbero tanta diffusione anche in Italia). In ogni caso il fatto
importante sarebbe stato non di esprimere quel concetto, ma di dargli
un’espressione politica italiana immediata, ciò che appunto mancò e anzi fu
voluto evitare sistematicamente dai partiti democratici del Risorgimento.
Il Partito d’Azione. Per la storia del Partito
d’Azione e del «trasformismo» italiano in generale è molto interessante una
lettera di Francesco De Sanctis a Giuseppe Civinini pubblicata nel «Bullettino
Storico Pistoiese» da Filippo Civinini, e riassunta nel «Marzocco» del 4
ottobre 1931. La lettera è senza data, ma pare debba essere stata scritta tra
il secondo semestre del 1866 e i primi del 1868. Scrive il De Sanctis, tra
l’altro: «La trasformazione dei partiti, la costituzione di un partito
progressista di contro a un partito conservatore, è una mia vecchia idea per la
quale combatto da tre anni e che è la bandiera del mio giornale». «Per me
Partito moderato e Partito d’Azione avevano cessato di esistere fin dalla
catastrofe di Aspromonte. L’antica Sinistra morí il giorno che Mordini e Crispi
non vollero dimettersi, come molti dei loro compagni, per le cose di Sicilia.
Da quel tempo la Sinistra
entrava in una via di trasformazione e diventò un’opposizione costituzionale
progressista. Il programma del Mordini e l’altro di Crispi, al tempo delle
elezioni generali, confermarono questo indirizzo. E fu questo il partito che
uscí molto rinforzato dalle urne e a cui si accostarono in grandissimo numero
degli uomini nuovi venuti in Parlamento a costituire la consorteria. Ne’
programmi di quel tempo non piú traccia di odio napoleonico, di agitazioni di
piazza, di insurrezioni, senza e contro il governo, di velleità repubblicane»
ecc. La datazione mi pare errata, perché il De Sanctis scrive di sedere nella
Sinistra, «nella nuova Sinistra», e mi pare che il passaggio del De Sanctis alla
Sinistra sia avvenuto piú tardi.
Il trasformismo. Il trasformismo come una delle forme
storiche di ciò che è stato già notato sulla «rivoluzione-restaurazione» o
«rivoluzione passiva», a proposito del processo di formazione dello Stato
moderno in Italia. Il trasformismo come «documento storico reale» della reale
natura dei partiti che si presentavano come estremisti nel periodo dell’azione
militante (Partito d’Azione). Due periodi di trasformismo: 1) dal ’60 al ’900
trasformismo «molecolare», cioè le singole personalità politiche elaborate dai
partiti democratici d’opposizione si incorporano singolarmente nella «classe
politica» conservatrice-moderata (caratterizzata dall’avversione a ogni
intervento delle masse popolari nella vita statale, a ogni riforma organica che
sostituisse un’«egemonia» al crudo «dominio» dittatoriale); 2) dal ’900 in poi
trasformismo di interi gruppi di estrema che passano al campo moderato (il
primo avvenimento è la formazione del partito nazionalista, coi gruppi
ex-sindacalisti e anarchici, che culmina nella guerra libica in un primo tempo
e nell’interventismo in un secondo tempo). Tra i due periodi è da porre il
periodo intermedio – 1890-’900 – in cui una massa di intellettuali passa nei
partiti di sinistra, cosí detti socialistici, ma in realtà puramente
democratici. Guglielmo Ferrero nel suo opuscolo Reazione (Torino, Roux
edit., 1895) cosí rappresenta il movimento degli intellettuali italiani degli
anni novanta (il brano lo riporto dagli Elementi di scienza politica di
G. Mosca, 2a ed., 1923): «C’è sempre un certo numero di individui
che hanno bisogno di appassionarsi per qualche cosa di non immediato, di non
personale e di lontano; a cui la cerchia dei propri affari, della scienza,
dell’arte, non basta per esaurire tutta l’attività dello spirito. Che rimaneva
a costoro in Italia se non l’idea socialista? Veniva da lontano, ciò che seduce
sempre; era abbastanza complessa ed abbastanza vaga, almeno in certe sue parti,
per soddisfare ai bisogni morali cosí differenti dei molti proseliti; da un
lato portava uno spirito vasto di fratellanza e di internazionalismo, che
corrisponde ad un reale bisogno moderno; dall’altro era improntata a un metodo
scientifico che rassicurava gli spiriti educati alle scuole sperimentali. Dato
ciò, nessuna meraviglia che un gran numero di giovani si sia inscritto in un
partito dove almeno, se c’era pericolo di incontrare qualche umile uscito dal
carcere o qualche modesto repris de justice, non si poteva incontrare
nessun panamista, nessun speculatore della politica, nessun appaltatore di
patriottismo, nessun membro di quella banda di avventurieri senza coscienza e
senza pudore, che, dopo aver fatto l’Italia, l’hanno divorata. La piú
superficiale osservazione vi mostra subito che in Italia non esistono quasi in
nessun posto le condizioni economiche e sociali per la formazione di un vero e
grande partito socialista; inoltre, un partito socialista dovrebbe trovare
logicamente il nerbo delle sue reclute nelle classi operaie, non nella
borghesia, come era accaduto in Italia. Ora se un partito socialista si
sviluppava in Italia in condizioni sí sfavorevoli e in un modo cosí illogico,
si è perché rispondeva piú che altro a un bisogno morale di un certo numero di
giovani, nauseati di tanta corruzione, bassezza e viltà; e che si sarebbero
dati al diavolo pur di sfuggire ai vecchi partiti imputriditi sino nelle
midolla delle ossa».
Un punto da vedere è la funzione che ha svolto il Senato in
Italia come terreno per il trasformismo «molecolare». Il Ferrari, nonostante il
suo repubblicanesimo federalista, ecc. entra nel Senato e cosí tanti altri fino
al 1914: ricordare le affermazioni comiche del senatore Pullé entrato nel
Senato con Gerolamo Gatti e altri bissolatiani.
[Il governo inglese e l’arresto
dei fratelli Bandiera.] H. Nelson Gay, Mazzini e Antonio Gallenga
apostoli dell’Indipendenza italiana in Inghilterra (con nove lettere
inedite di Mazzini), «Nuova Antologia», 16 luglio 1928. Tratta specialmente
della violazione di segreto epistolare compiuta dal governo inglese a danno di
Mazzini nel 1844 prima della spedizione dei fratelli Bandiera e del servizio
reso dall’Inghilterra ai Borboni, comunicandogli i dati della congiura. I
fratelli Bandiera furono arrestati per «merito» del governo inglese o di un
mazziniano traditore (Boccheciampe)? Bisogna vedere con maggiore esattezza
perché l’arresto dei Bandiera domandò misure militari e spese cosí cospicue che
solo una grande autorità nella fonte d’informazione poteva decidere il governo
a fare, dato che non dovevano mancare le informazioni infondate da parte di
provocatori e speculatori su congiure, iniziative rivoluzionarie, ecc. Perciò
bisogna precisare meglio se la responsabilità del governo inglese (lord
Aberdeen) fu solo morale (in quanto realmente informò) o anche decisiva e
immediata (in quanto senza di essa non ci sarebbe stata la repressione cosí
come avvenne). Il deputato radicale Duncombe, che presentò in Parlamento la
petizione di Mazzini, in un discorso affermò: «Se un monumento dovesse essere
eretto in memoria di coloro che caddero a Cosenza, come spero sarà fatto, la
lapide commemorativa dovrebbe ricordare che essi caddero per la causa della
giustizia e della verità, vittime della bassezza e dell’inganno di un ministro
britannico».
Quintino Sella. (Articolo di Cesare Spellanzon nella «Rivista d’Italia» del
15 luglio 1927).
Quintino Sella è uno dei pochi borghesi, tecnicamente
industriali, che partecipano in prima fila alla formazione dello Stato moderno
in Italia. Egli si differenzia in modo notevolissimo dal rimanente personale
politico del suo tempo e della sua generazione: per la cultura specializzata (è
un grande ingegnere e anche un uomo di scienza); conosce l’inglese e il tedesco
oltre che il francese; ha viaggiato molto all’estero e si è tuffato nella vita
di altri paesi per conoscerne le abitudini di lavoro e di vita (non ha cioè
viaggiato come turista, visitando alberghi e salotti); ha una vasta cultura
umanistica oltre che tecnica; è uomo di forti convinzioni morali, anzi di un
certo puritanismo, e cerca di mantenersi indipendente dalla corte, che
esercitava una funzione degradante sugli uomini al governo (molti uomini di
Stato facevano i ruffiani come il D’Azeglio) fino a porsi apertamente contro il
re per la sua vita privata e a domandargli decurtazioni di lista civile (si sa
quanto la quistione della lista civile e delle oblazioni occasionali avesse
importanza nella scelta degli uomini di governo) e a staccarsi dalla cosí detta
Destra che era piú una cricca di burocrati, generali, proprietari terrieri, che
un partito politico (vedere meglio questo problema) per avvicinarsi ad altre
correnti piú progressive (il Sella partecipò al trasformismo, che significava
tentativo di creare un forte partito borghese all’infuori delle tradizioni
personalistiche e settarie delle formazioni del Risorgimento).
Quintino Sella tassatore spietato: il macinato; perché fu
scelta questa tassa? Per la facilità di riscossione o perché tra l’odio
popolare e il sabotaggio delle classi proprietarie si aveva piú paura di
questo?
Poca partecipazione al ’48 (egli aveva visto a Parigi la
caduta della monarchia di luglio). A Milano si trovò in una assemblea dove si
voleva votare un biasimo a Brescia che piemontesizzava: Sella sostenne Brescia
e fu fischiato. Apparteneva alla Destra, ma fu ministro la prima volta con
Rattazzi, capo del centro sinistro (1862), fu avversario del primo ministero
Minghetti (’63-64) e col Lanza combatté il ministero Menabrea (’68-69). Deciso
per la conquista di Roma. Il Lamarmora nel 1871 scrisse che il Sella «corre
sempre, ora in alto ora in basso, un po’ a destra, un po’ a sinistra; non si sa
mai da che parte egli sia e sovente non lo sa nemmeno lui».
Nel 1865 si reca alla reggia a chiedere al re il sacrificio
di tre milioni annui della lista civile per far fronte alle immediate
difficoltà di tesoreria. Come industriale, andato al governo, cessa i rapporti
di fornitura allo Stato. Nel Parlamento «osa rivolgersi con chiara allusione al
re, del quale deplora certe sregolatezze della vita intima, per ammonirlo che
il popolo non fa credito ai suoi governanti se essi non danno esempio costante
di moralità». Si oppone all’approvazione del disegno di legge per la Regía dei tabacchi,
presentato da un ministero di destra perché c’era odor di corruzione e di
loschi maneggi in quel grosso affare che il ministero Menabrea si accingeva a
convalidare. Sella si oppone risolutamente all’alleanza con la Francia nel ’70. Il re
intrigava per sostituire Lanza con Cialdini; Sella nel Senato rispose con
asprezza all’attacco sferrato da Cialdini. (Nato nel 1827, morto nell’84).
A Teodoro Mommsen che domandò con quale idea universale
l’Italia andasse a Roma, Quintino Sella rispose: «quella della scienza».
(Mommsen diceva che a Roma non si può stare senza un’idea universale. Questo
motivo è stato ripreso dal Capo del governo nel suo discorso sul Concordato
alla Camera dei deputati. La risposta del Sella è interessante e appropriata:
in quel periodo storico la scienza era la nuova «idea universale», la base
della nuova cultura che si andava elaborando. Ma Roma non divenne la città
della scienza; sarebbe stato necessario un grande programma industriale, ciò
che non fu. La parola d’ordine del Sella è tuttavia notevole per descrivere
l’uomo).
Tuttavia il Sella non era né un ateo né un positivista, che
volesse sostituire la scienza alla religione. (Vedere i documenti, scritti o
riportati da altri, del Sella stesso).
Il macinato. Nel discorso
tenuto da Alberto De Stefani a Biella per commemorare il centenario della
nascita del Sella (riportato nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927), si
accenna al macinato collegandolo al dazio doganale sul grano (si abolí il
balzello sulle farine, ma poco dopo il doganiere lasciò il mulino e andò sul confine
a riscuotere la gabella sul grano).
La quistione non è posta bene (è un epigramma, non una
critica o un giudizio). Il macinato era insopportabile dai piccoli contadini
che consumavano il poco grano prodotto da loro stessi; e la tassa sul macinato
era causa di svendite per procurarsi il denaro e occasione di pratiche usuraie
pesantissime. Bisogna collocare la tassa nel suo tempo, con una economia
famigliare molto piú diffusa di ora: per il mercato producevano i grandi e medi
proprietari; il piccolo contadino (piccolo proprietario o colono parziario)
produceva per il proprio consumo e non aveva mai numerario; tutte le imposte
erano per lui un dramma catastrofico; per il macinato si aggiungeva l’odiosità
immediata. Le rivolte contro la tassa sul macinato, le uccisioni e le
bastonature agli esattori non erano certo inspirate dalle agitazioni politiche:
erano spontanee.
L’Italia meridionale. Studiare le origini e le cause
della convinzione che esiste nel Mazzini che l’insurrezione nazionale dovesse
cominciare o fosse piú facile da fare incominciare nell’Italia meridionale
(fratelli Bandiera, Pisacane). Pare che tale convincimento fosse pure nel
Pisacane, che pure, come scrive Mazzini (Opere, vol. LVIII, Epist.,
XXXIV, 1931) aveva un «concetto strategico della guerra d’insurrezione». Si
trattò di un desiderio (contrapporre l’iniziativa popolare meridionale a quella
monarchica piemontese?) diventato convinzione o aveva delle origini razionali e
positive? E quali potevano essere?
Riallacciare questa convinzione a quella di Bakunin e dei
primi internazionalisti, già prima del ’70: ma in Bakunin rispondeva a una
concezione politica dell’efficienza sovvertitrice di certe classi sociali.
Questo concetto strategico della guerra d’insurrezione nazionale del Pisacane
dove occorre ricercarlo? Nei suoi saggi politico-militari, in tutti gli scritti
che ci rimangono di lui e in piú: negli scritti di Mazzini (in tutti gli
scritti, ma specialmente nell’Epistolario; si potrebbe scrivere un
saggio su Pisacane e Mazzini) e nei vari atteggiamenti pratici del Pisacane.
Uno dei momenti piú importanti mi pare debba essere l’avversione di Pisacane a
Garibaldi durante la
Repubblica Romana. Perché tale avversione? Era Pisacane
avverso in linea di principio alla dittatura militare? Oppure l’avversione era
di carattere politico-ideologico, cioè era contro il fatto che tale dittatura
sarebbe stata meramente militare, con un vago contenuto nazionale, mentre
Pisacane voleva alla guerra d’insurrezione dare oltre al contenuto nazionale
anzi e specialmente un contenuto sociale? In ogni caso, l’opposizione di
Pisacane fu un errore nel caso specifico, perché non si trattava di una
dittatura vaga e indeterminata ma di una dittatura in regime di repubblica già
instaurata, con un governo mazziniano in funzione (sarebbe stato un governo di
salute pubblica, di carattere piú strettamente militare, ma forse appunto i
pregiudizi ideologici di avversione alle esperienze della Rivoluzione francese
ebbero gran parte nel determinare tale avversione).
Il popolo nel Risorgimento. 1) Vedere il volume di
Niccolò Rodolico: Il popolo agli inizi del Risorgimento, Firenze, Le
Monnier, in 8°, pp. 312.
2) Nello statuto della Società segreta Esperia,
fondata dai fratelli Bandiera, si legge: «Non si facciano, se non con sommo
riguardo, affiliazioni tra la plebe, perché dessa quasi sempre per natura è
imprudente e per bisogno corrotta. È da rivolgersi a preferenza ai ricchi, ai
forti, e ai dotti, negligendo i poveri, i deboli, gli ignoranti» (da
verificare).
Occorre raccogliere tutte le osservazioni che nel primo
periodo del Risorgimento (prima del ’48) si riferiscono a questo argomento e
vedere l’origine di questa differenza. Una causa è da ricercare nei processi
che seguirono il tentativo di rivolta militare del ’21 in Piemonte e altrove:
differenza di atteggiamento tra soldati e ufficiali; i soldati o tradirono
spesso o si mostrarono molto deboli dinanzi ai giudizi nell’istruzione dei
processi.
Atteggiamento di Mazzini prima e dopo l’insurrezione del
febbraio 1853 a
Milano; dopo il 1853 sono da vedere le sue istruzioni a Crispi per la
fondazione di sezioni del Partito d’Azione in Portogallo, nelle quali si
raccomanda di mettere un operaio in ogni comitato di tre.
Nel «Marzocco» del 30 settembre
1928 è riassunto, col titolo La
Serenissima meritava di morire?, un opuscolo
miscellaneo di Antonio Pilot (Stabil. Grafico U. Bortoli), in cui si
estraggono, da diari e memorie di veneziani, opinioni sulla caduta della
Repubblica Veneta.
La responsabilità del patriziato
era idea fissa delle classi popolari. L’ultimo doge, Lodovico Manin racconta in
certe sue Memorie: «La cosa arrivò al grado che, passando un giorno per
una corticella a San Marcuola, una donna, conosendomi, disse: “Almeno venisse
la peste, che cosí moriressimo noi altre, ma morirebbero anche questi ricchi
che ci hanno venduti e che sono cagione che moriamo di freddo e di fame”». Il
vecchio desistette dalla passeggiata e si ritirò. Il Bertucci Balbi-Valier in
un sonetto intitolato I nobili veneti del 1797 non tradirono la Repubblica, scrive:
«No, no xe vero, i nobili tradio – No ga la patria nel novantasete» (ciò che
significa quanto profonda fosse la convinzione e come si cercasse di
combatterla).
Nella «Lettura» del 1928, Pietro Nurra pubblica il diario
inedito di un combattente delle Cinque Giornate di Milano, il mantovano
Giovanni Romani, stabilitosi una prima volta a Milano nel 1838 come cuoco alla
Croce d’Oro in contrada delle Asole, poi, dopo aver girato quasi tutta Italia,
ritornato a Milano, alla vigilia delle Cinque Giornate, all’osteria del Porto
di Mare in Santo Stefano. Il diario si compone di una specie di taccuino di 199
pagine numerate, delle quali 186 scritte con calligrafia grossolana, e dicitura
scorrettissima.
Mi pare molto interessante perché i popolani non sono soliti
scrivere di questi diari, tanto piú ottant’anni fa. Perciò è da studiare per il
suo valore psicologico e storico; forse si trova nel Museo del Risorgimento a
Milano: vedere nella «Lettura» se [sono] dati altri estremi bibliografici.
Carlo Bini (cfr. Le piú belle pagine di Carlo Bini,
raccolte da Dino Provenzal). Giovanni Rabizzani, in uno studio su Lorenzo
Sterne in Italia (forse nella collezione «L’Italia negli scrittori
stranieri» dell’editore Rocco Carabba) ricorda il Bini e rileva un notevole
contrasto tra i due: lo Sterne piú incline alle analisi sentimentali e meno
scettico, il Bini piú attento ai problemi sociali, tanto che il Rabizzani lo
chiama addirittura socialista. In ogni caso è da notare che Livorno fu delle
pochissime città che nel 1848-49 vide un profondo movimento popolare, un
intervento di masse plebee che ebbe vasta ripercussione in tutta la Toscana e che mosse a
spavento i gruppi moderati e conservatori (ricordare le Memorie di G.
Giusti). Il Bini è da vedere perciò, accanto al Montanelli, nel quadro del 1849
toscano.
Iniziative popolari. Confrontare nella
rivista «Irpinia» (di Avellino) del luglio 1931 (è riassunta nel «Marzocco» del
26 luglio 1931) la lettura di Nicola Valdimiro Testa sugli avvenimenti svoltisi
nella provincia di Avellino negli anni 1848-49. La narrazione pare molto
interessante per intendere quali fossero i sentimenti popolari e quali correnti
di passioni attraversassero le grandi masse, che però non avevano un indirizzo
e un programma e si esaurivano in tumulti e atti brutali di violenza
disordinata. Partecipazione di alcuni elementi del clero a queste passioni di
massa che spiegano l’atteggiamento di alcuni preti verso le cosí dette «Bande
di Benevento». Si verifica la solita confusione tra «comunismo» e «riforma
agraria» che il Testa (da ciò che appare nel riassunto del «Marzocco») non sa
criticamente presentare (come del resto non sanno fare la maggior parte dei
ricercatori di archivio e degli storici). Sarebbe interessante raccogliere la
bibliografia di tutte le pubblicazioni come queste per gli anni del
Risorgimento.
I volontari nel Risorgimento. Paulo
Fambri scrisse un articolo sui volontari nella «Nuova Antologia» (o
«Antologia») del 1867 (?). Nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1928, L’Archivio
inedito di Paulo Fambri (di A. F. Guidi) è riportata una lettera diretta al
Fambri del generale C. di Robilant che era direttore della Scuola superiore di
Guerra di Torino (la lettera è del 31 gennaio 1868) in cui si approva la prima
parte dell’articolo del Fambri. Il Di Robilant aggiunge che dei 21.000
volontari del 1859 solo la metà o poco piú era presente nelle file combattenti
(cfr. i giudizi di Plon-Plon contro i volontari in questa stessa guerra del
’59).
Volontari e intervento popolare. Nel numero del 24
maggio di «Gioventú Fascista» (riportato dal «Corriere della sera» del 21
maggio 1932), è pubblicato questo messaggio dell’on. Balbo: «Le creazioni
originali della storia e della civiltà italiana, dal giorno in cui risorse dal
letargo secolare ad oggi, sono dovute al volontariato della giovinezza. La
santa canaglia di Garibaldi, l’eroico interventismo del ’15, le Camicie Nere
della Rivoluzione fascista hanno dato unità e potenza all’Italia, hanno fatto,
di un popolo disperso, una nazione. Alle generazioni che oggi si affacciano
alla vita sotto il segno del Littorio, il compito di dare al secolo nuovo il
nome di Roma». L’affermazione che l’Italia moderna è stata caratterizzata dal
volontariato è giusta (si può aggiungere l’arditismo di guerra), ma occorre
notare che il volontariato, pur nel suo pregio storico, che non può essere
diminuito, è stato un surrogato dell’intervento popolare, e in questo senso è
una soluzione di compromesso con la passività delle grandi masse.
Volontariato-passività vanno insieme piú di quanto si creda. La soluzione col
volontariato è una soluzione di autorità, dall’alto, legittimata formalmente
dal consenso, come suol dirsi, dei «migliori». Ma per costruire storia duratura
non bastano i «migliori», occorrono le piú vaste e numerose energie
nazionali-popolari.
L’Italia e il carciofo. L’immagine dell’Italia come
di un carciofo, le cui foglie si mangiano ad una ad una, viene attribuita a parecchi
principi italiani, non solo della casa Savoia. L’ultima attribuzione è quella a
Vittorio Emanuele II (e ciò non sarebbe contrario al suo carattere, come mostra
l’aneddoto di Quintino Sella, riportato da Ferdinando Martini; cfr. altra
nota). Secondo Amerigo Scarlatti (nell’«Italia che scrive» del febbraio 1928),
l’immagine sarebbe dovuta a Vittorio Amedeo II, come risulta dal Voyage
d’Italie del Misson, stampato all’Aia nel 1703.
Garibaldi e la frase del «metro cubo di letame».
Nell’articolo Garibaldi e Pio IX («Corriere della Sera» del 15 aprile
1932) A. Luzio scrive che «va escluso assolutamente che fosse sua (di
Garibaldi) una lettera in cui il vecchio Pontefice veniva oltraggiato con
l’epiteto volgare di “metro cubo di letame”». Il Luzio ricorda di aver già
scritto in proposito (Profili, I, 485). G. C. Abba avrebbe detto al
Luzio d’aver udito da Garibaldi «le piú sdegnose proteste per l’inqualificabile
abuso del proprio nome».
La quistione non è chiara, perché si tratterebbe del fatto
che qualcuno avrebbe scritto una «intera lettera» col nome di Garibaldi, senza
che questi protestasse immediatamente per l’abuso, mentre le «sdegnose
proteste» le fece privatamente all’Abba in conversazione privata di cui l’Abba
non avrebbe lasciato altra traccia che la conversazione privata col Luzio.
Poiché l’articolo del Luzio è un tentativo di riabilitazione
popolare di Pio IX, non molto d’accordo con altre ricostruzioni del carattere
di Pio IX, è da pensare che il Luzio, pur non inventando completamente, abbia
alquanto «esagerato» qualche espressione di Garibaldi che attenuava la sua
drastica frase.
Il Luzio scrive a proposito di Pio IX: «Documenti
diplomatici insospettabili confermano, a ogni modo, qualche cosa di piú che la
“deserta volontà d’amare” cantata dal Carducci in Pio IX: la realtà era
fors’anche piú poetica (sic!) e drammatica. Ci mostra infatti il Papa,
circuito dal cardinal Antonelli e da altri intransigenti, chieder loro
affannosamente (!!), con mal repressa (!!) ribellione (!): – Ma se la Provvidenza ha
decretato l’Unità italiana, devo esser io a contrastarla, a frastornare (!) le
decisioni divine, col mostrarmi inconciliabile?».
Pare invece, da altri documenti, che
l’influsso dell’Antonelli fosse molto piccolo, ecc. In ogni modo il carattere
«romanzato» e da romanzo d’appendice della ricostruzione del Luzio è troppo in
rilievo, fino a mancare di rispetto alla personalità del Papa, che non poteva
porre in quel modo la quistione di un possibile decreto della Provvidenza e
parlare di «frastornamenti» di divine decisioni.
[Ebraismo e antisemitismo.] In una recensione («Nuova
Italia» del 20 aprile 1933) del libro di Cecil Roth (Gli Ebrei in Venezia,
trad. di Dante Lattes, ed. Cremonese, Roma, 1933, pp. VII-446, L. 20) Arnaldo
Momigliano fa alcune giuste osservazioni sull’ebraismo in Italia. «La storia
degli Ebrei di Venezia, come la storia degli Ebrei di qualsiasi città italiana
in genere, è essenzialmente appunto la storia della formazione della loro
coscienza nazionale italiana. Né, si badi, questa formazione è posteriore alla
formazione della coscienza nazionale italiana in genere, in modo che gli Ebrei
si sarebbero venuti a inserire in una coscienza nazionale già precostituita. La
formazione della coscienza nazionale italiana negli Ebrei è parallela alla
formazione della coscienza nazionale nei Piemontesi o nei Napoletani o nei
Siciliani: è un momento dello stesso processo e vale a caratterizzarlo. Come
dal XVII al XIX secolo, a prescindere dalle tracce anteriori, i Piemontesi o i
Napoletani si sono fatti Italiani, cosí nel medesimo tempo gli Ebrei abitanti
in Italia si sono fatti Italiani. Il che naturalmente non ha impedito che essi
nella loro fondamentale italianità conservassero in misura maggiore o minore
peculiarità ebraiche, come ai Piemontesi o ai Napoletani il diventare Italiani
non ha impedito di conservare caratteristiche regionali». Questa tesi,
storicamente esatta nella sua essenza, è da confrontare con quella di un altro
ebreo, Giacomo Lumbroso, nel libro I moti popolari contro i Francesi alla
fine del secolo XVIII, (1796-1800), Firenze, Le Monnier, 1932, in 8°, pp. VIII-228
(e in proposito vedi «Critica» del 20 marzo 1933, pp. 140 sgg.). Che nei moti
popolari registrati dal Lumbroso ci fosse qualsiasi traccia di spirito
nazionale è un’allegra trovata, anche se tali moti siano degni di studio e di
interpretazione. In realtà essi furono popolari per modo di dire e solo per un
aspetto molto secondario e meschino: il misoneismo e la passività conservatrice
delle masse contadine arretrate e imbarbarite. Presero significato dalle forze
consapevoli che li istigavano e li guidavano piú o meno apertamente e queste
forze erano nettamente reazionarie e antinazionali o anazionali. Solo
recentemente i gesuiti hanno preso a sostenere la tesi dell’italianismo dei
sanfedisti che solo «volevano unificare l’Italia a modo loro».
Un’altra osservazione notevole è accennata nella recensione
del Momigliano: che cioè nel tormento e negli squilibri di Leone Ebreo ci fosse
una complicata insoddisfazione della cultura ebraica come di quella profana,
insoddisfazione che «è tra i piú importanti indizi che il Seicento ci offre
della trasformazione che stava avvenendo nelle coscienze ebraiche».
In Italia non esiste antisemitismo proprio per le ragioni
accennate dal Momigliano, che la coscienza nazionale si costituí e doveva
costituirsi dal superamento di due forme culturali: il particolarismo
municipale e il cosmopolitismo cattolico, che erano in stretta connessione fra
loro e costituivano la forma italiana piú caratteristica di residuo medioevale
e feudale. Che il superamento del cosmopolitismo cattolico e in realtà quindi
la nascita di uno spirito laico, non solo distinto ma in lotta col
cattolicismo, dovesse negli Ebrei avere come manifestazione una loro
nazionalizzazione, un loro disebreizzarsi, pare chiaro e pacifico. Ecco perché
può essere giusto ciò che scrive il Momigliano, che la formazione della
coscienza nazionale italiana negli Ebrei vale a caratterizzare l’intero
processo di formazione della coscienza nazionale italiana, sia come
dissoluzione del cosmopolitismo religioso che del particolarismo, perché negli
Ebrei il cosmopolitismo religioso diventa particolarismo nella cerchia degli
Stati nazionali.
Nelle Confessioni e professioni di fede di Letterati,
Filosofi, uomini politici, ecc. (in 3 voll., Bocca, Torino, 1921) è
pubblicata una scorribanda lirico-sentimentale di Raffaele Ottolenghi, che
riferisce alcuni suoi ricordi di «ebreo» piemontese, da cui possono estrarsi
alcune notizie sulla condizione degli ebrei nel periodo del primo Risorgimento.
Un ebreo, veterano di Napoleone, ritornò al suo paese con
una donna francese: il vescovo, saputo che la donna era cristiana, contro la
sua volontà, la fece portar via dai gendarmi. Il vescovo si impadroniva, manu
militari, dei fanciulli ebrei che, durante qualche litigio coi genitori,
avessero minacciato di farsi cristiani (il Brofferio registra una serie di
questi fatti nella sua storia).
Dopo il 1815 gli ebrei furono cacciati dalle Università e
quindi dalle professioni liberali.
Nel 1799, durante l’invasione austro-russa, avvennero dei pogrom;
ad Acqui solo l’intervento del vescovo riuscí a salvare il bisavolo
dell’Ottolenghi dai fucili della folla. A Siena, durante un pogrom,
degli ebrei furono mandati al rogo, senza che il vescovo volesse intervenire a
loro favore.
Nel ’48 il padre dell’Ottolenghi tornò ad
Acqui da Torino, vestito da guardia nazionale: irritazione dei reazionari, che
sparsero la voce del sacrifizio rituale di un bambino cristiano da parte
dell’Ottolenghi; campane a stormo, venuta dei villani dalla campagna per
saccheggiare il Ghetto. Il vescovo si rifiutò di intervenire e l’Ottolenghi fu
salvato dal sindaco con un simulato arresto fino all’arrivo delle truppe. I
reazionari e i clericali volevano fare apparire le innovazioni liberali del ’48
come una invenzione degli ebrei. (Bisognerebbe ricostruire la storia del
fanciullo Mortara che ebbe tanta clamorosa eco nelle polemiche contro il
clericalismo).
Femminismo. Cfr. l’articolo di Vittorio Cian, Femminismo
patriottico del Risorgimento nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1930.
Tipo retorico, ma interessante per le indicazioni obbiettive sulla
partecipazione delle donne alla vita politica nel Risorgimento.
In una nota è citato questo brano del Gioberti preso dall’Apologia
del libro intitolato «Il Gesuita Moderno ecc.», cap. III della parte
I: «La partecipazione della donna alla causa nazionale è un fatto quasi nuovo
in Italia e che verificandosi in tutte le sue provincie, vuol essere
specialmente avvertito, perché esso è, al parer mio, uno dei sintomi piú atti a
dimostrare che siamo giunti a maturità civile e a pieno essere di coscienza
come nazione». L’osservazione del Gioberti non è valida solo per la vita
nazionale: ogni movimento storico innovatore è maturo solo in quanto vi
partecipano non solo i vecchi, ma i giovani e i maturi e le donne, cosicché
esso ha persino un riflesso nella fanciullezza.
Prospero Merimée e il ’48 italiano. Nella «Revue des
deux mondes» (fasc. del 15 maggio 1932) è pubblicato un manipolo di lettere di
Prospero Merimée alla contessa De Boigne (autrice di Memorie famose).
Sul ’48 in Italia: «i Piemontesi non si preoccupano affatto del nostro aiuto e
noi impediamo agli Italiani di aiutarli col promettere il rinforzo del nostro
invincibile esercito: un viaggiatore che viene di Lombardia racconta che il
paese, come in pieno Medioevo, è diviso in tante piccole repubbliche, quanti
sono i borghi e i villaggi, ostili l’uno all’altro nell’attesa di prendere le
armi».
Il Merimée era fautore dell’unità italiana. (Racconta
aneddoti piccanti sulla situazione francese: per esempio, i contadini, votando
per Luigi Napoleone, credevano di votare per Napoleone I. Inutilmente si
cercava di spiegar loro che la salma dell’Imperatore è sepolta agli Invalidi).
Che la speranza di un possibile aiuto dell’esercito francese
abbia nel ’48 influito a restringere il movimento di volontari, ecc. è
possibile, tuttavia non spiega il fatto che i volontari presentatisi furono
male impiegati e male trattati, non spiega l’inerzia militare dello stesso
Piemonte e l’assenza di una chiara direzione politico-militare, nel senso
spiegato nelle note successive; non spiega neanche il motto dell’«Italia farà
da sé».
[La stampa periodica.] Martino Beltrani Scalfa: Giornali
di Palermo nel 1848-1849, con brevi accenni a quelli delle altre principali
città d’Italia nel medesimo periodo, a cura del figlio Vito Beltrani,
Palermo, Sandron, 1931. Si tratta di una esposizione condensata in poche linee
del contenuto dei singoli periodici pubblicati a Palermo nel 1848 e 1849 e
anche dell’anno precedente, nonché di numerosi giornali del continente (di
Napoli, di Roma, della Toscana, del Piemonte e della Svizzera, cioè
dell’«Italia del Popolo» di Mazzini), esposizione fatta generalmente giorno per
giorno. Per i giornali non siciliani si dà importanza a ciò che riguarda la Sicilia. Nel 1847, i
giornali palermitani erano appena sei; nel ’48-49 il Beltrani Scalfa ne
annovera centoquarantuno e non è da escludere che gliene sia sfuggito qualcuno.
Dai sunti del B. S. appare l’assenza dei partiti permanenti: si tratta per lo
piú di opinioni personali, spesso contraddittorie nello stesso foglio. Pare che
il saggio del B. S. dimostri che aveva ragione il La Farina, quando, nella Storia
documentata della Rivoluzione siciliana, scrisse che «la stampa periodica,
salvo scarse e onorevoli eccezioni, non rispose mai all’altezza del suo
ministero: fu scandalo, non forza».
[Confessioni e ricordi di F. Martini.] Cfr. per
alcuni episodi il libro di F. Martini, Confessioni e Ricordi (1859-1892),
Treves, Milano, 1928. Del libro sono interessanti alcuni capitoli: il primo,
«Per cominciare e per finire» è interessante per l’atteggiamento politico dei
moderati toscani nel 1859, che non è stato solo un mero fatto di psicologia da
descrivere bonariamente, come fa il Martini, ma un netto atteggiamento
politico, legato a convinzioni e a una linea precisa, come dimostrano i
documenti recentemente pubblicati (cfr. articolo di Panella nel «Marzocco» e
polemica col Puccioni). I moderati toscani non volevano la fine del granducato,
erano federalisti reazionari. Gli episodi di abulia militare in Toscana nel ’59
non sono solo da collegare con la «psicologia» del popolo toscano, come fa il
Martini: fu un sabotaggio della guerra nazionale o per lo meno una forma di
«neutralità» sabotatrice. Lo scarso numero dei «volontari» fu una conseguenza
della cattiva volontà dei moderati.
Anche l’importanza dell’intervento francese nel ’59 è messa
piú in rilievo da questi fatti: come, dalle parole testuali del Martini, è
posta in rilievo l’assenza completa di coscienza e orgoglio nazionale nei
moderati, i quali dicevano che l’«imperatore deve far lui la guerra», cioè che
non l’Italia deve liberarsi da sé, ma la Francia deve liberare l’Italia. Si capisce come
nella tradizione burocratica francese della politica estera si siano formate
certe convinzioni e si sia costituita una linea nei riguardi dell’apprezzamento
del personale dirigente italiano.
Altro capitolo interessante è «Parlamentum indoctum»,
dove si possono trovare spunti sulla preparazione intellettuale di molti uomini
politici del tempo. Il Martini bonariamente giustifica l’ignoranza crassa di
uomini come Nicotera, affermando che le congiure e l’ergastolo non avevano loro
lasciato il tempo di studiare. Certo, la vita del Nicotera non era fatta per
permettere studi «regolari»; ma il Settembrini fu anch’egli all’ergastolo e
pure non perse il tempo. Qualche meridionale, seccato dalla letteratura
retorica contro i Borboni (già prima della guerra, ricordo un articolo di
Oreste Mosca nella «Vela latina» di F. Russo) scrisse che in Piemonte (con 5
milioni di abitanti) c’erano cinque ergastoli come a Napoli con 10 milioni di
abitanti, per cui, o in Piemonte c’era piú reazione, o c’era piú delinquenza;
in ogni caso Napoli non ci faceva poi tanto cattiva figura. Detto in forma
paradossale, il fatto è giusto: negli ergastoli napoletani i patrioti stavano
relativamente meglio che negli ergastoli piemontesi, dove dominarono i gesuiti
per molto tempo e una burocrazia militare e civile ben piú fiscale e
«regolamentatrice» di quella napoletana. Gli ergastolani non avevano la catena
ai piedi ed erano in compagnia: la loro condanna era «psicologicamente e
moralmente» piú grave di quella ai lavori forzati a tempo, ma non
«materialmente»: la gravità consisteva che molti ergastolani erano stati
condannati a morte, avevano «realmente» creduto di stare per essere giustiziati
e poi, all’ultimo momento, furono graziati: per altro, l’ergastolo non poteva
essere ritenuto veramente tale da uomini politici che non potevano ritenere che
il regime borbonico sarebbe durato quanto la loro vita. Ciò sia detto senza
togliere nulla alla valutazione dei loro patimenti. Di fatto essi «potevano
studiare», ma alcuni lo fecero (Settembrini per es.), altri no (Nicotera per
es.) e quindi la ragione addotta dal Martini, per non essere universale, non è
valida. La ragione deve essere ricercata altrove, e cioè nella scarsa coscienza
di classe rivoluzionaria di molti di quegli uomini e dei doveri che spettavano
a ogni elemento di tale classe; cioè scarsa passione politica da non
confondersi col fanatismo e settarismo, che invece abbondavano.
Su Vittorio Emanuele II, il Martini racconta a pp. 152-153
questo aneddoto riferitogli da Quintino Sella: nell’ottobre 1870 Vittorio
Emanuele ricevette a Palazzo Pitti la deputazione romana che gli portava il
plebiscito di Roma. Presenti Lanza e Sella. Il Sella gli disse: «Vostra Maestà
deve essere oggi molto lieta». Vittorio Emanuele rispose: «Ca staga ciutu; am
resta nen aut che tireme un coulp de revolver; per l’on c’am resta da vive ai
sarà pi nen da piè». Perciò il Sella chiamava Vittorio Emanuele «l’ultimo dei
conquistatori».
T. Tittoni, Ricordi personali
di politica interna, «Nuova Antologia», 1°aprile-16 aprile 1929. Il Tittoni
ha scritto queste sue memorie subito dopo la conciliazione, per dimostrare come
questo evento abbia corrisposto a tutta l’attività politica della sua carriera
di liberale moderato, ossia di conservatore clericale. L’interesse dei Ricordi
è tutto qui, si può dire: nel cercare di ricostruire la storia italiana dal
’70 ad oggi come una lotta tra conservatori clericali e democrazia o demagogia,
per il ripristino dell’influsso clericale nella vita del paese, ponendo
pertanto in luce l’attività della corrente conservatrice in quanto
rappresentata da Tittoni. Annoto qualcuno degli spunti offerti dal Tittoni:
Per la storia dell’Azione
Cattolica. Nel novembre 1871 l’Unione
Romana per le elezioni amministrative coll’assenso di Pio IX, per il quale la
partecipazione dei cattolici all’amministrazione comunale e provinciale era
compatibile coll’ossequio alla Santa Sede. Cfr. Paolo Campello della Spina, Ricordi
di piú che cinquant’anni, Roma, Loescher, 1910. Vi si legge: «Pio IX, a
quel gruppo di visitatori che usava andare alla sua udienza del mattino e lo
accompagnava talvolta alla passeggiata nei giardini, disse: “Ma sí, ma sí, non
l’hanno capito e pure l’ho detto tante volte, che mi fa piacere che vadano alle
elezioni amministrative”». Notizie intorno al tentativo, fatto da Roberto
Stuart e da altri, di creare un partito conservatore cattolico e quindi di un
gruppo cattolico alla Camera, tentativo stroncato dal Vaticano (che tuttavia
lasciò fare per qualche tempo, il che è da notare).
Positivismo e reazione. Dice Tittoni: «Per molto tempo il Cours de philosophie
positive di Augusto Comte è stato il mio breviario filosofico e politico. A
mio avviso nessuno meglio di Comte ha risolto il preteso conflitto tra la
scienza e la religione, assegnando la prima alla ragione e la seconda al
sentimento, e separando nettamente il campo del libero esame da quello
riservato alla fede. Comte considerava il Papato come un grande elemento
conservatore della società. Egli aveva immaginato negli ultimi anni della sua
vita una lega di difesa religiosa e sociale presieduta dal Pontefice. A questa
epoca appartiene il volumetto Catéchisme positiviste. In un esemplare
che io comprai in Roma da un venditore ambulante di libri, trovai la seguente
dedica: “A Monsieur Bex, Général des Jésuites, offert par l’auteur Auguste
Comte, Paris le 10 aristote 69”.
Littré, al quale scrissi, inviandogli il facsimile dell’autografo, mi rispose
garantendone l’autenticità. Il padre Bex non aveva tenuto alcun conto del
volumetto poiché i fogli non ne erano stati nemmeno tagliati.» (Ma poteva
averlo già letto in altro esemplare).
Intorno ai fatti del ’98. Sistemi elettorali escogitati: da un brano di memorie
dell’on. Gianforte Suardi riportato dal Tittoni risulta che, quando il gabinetto
Rudiní-Pelloux mutò la legge elettorale, l’obbligo di votare nel comune di
origine fu escogitato «per impedire il voto di artificiali (!) aggruppamenti
come quelli di Torino, ove per le officine delle ferrovie si trovava
concentrato un gran numero di ferrovieri, tale da costituire un’artificiosa
maggioranza fortuita (!) di operai di Romagna e di altre parti d’Italia
all’infuori di Torino». Nelle memorie di Tittoni si potrebbero spigolare vari
episodi di simili pastette politiche, in cui hanno sempre avuto incontestabile
eccellenza i reazionari.
Tittoni prefetto di Napoli, dal ’900 al ’903. Idillio: non parla dei fatti concreti
di cui fu accusato. Cfr. gli Atti parlamentari del 1903: nella seduta
del 2 dicembre Tittoni fu attaccato da Barzilai e Bissolati, il quale riportò
le accuse della «Propaganda».
Fatti del 1904. Ho già annotato l’azione svolta da Tittoni nel 1904,
riassumendo un articolo di Gianforte Suardi nella «Nuova Antologia» del 1°
novembre 1927: Tittoni è piú diffuso.
Tittoni e Giolitti. Tittoni non spiega con molta chiarezza i suoi rapporti
politici con Giolitti, del quale fu intimo collaboratore: è vero che tale
collaborazione è significativa anche per giudicare la politica dello stesso
Giolitti. Impacciati e reticenti sono anche gli accenni di Tittoni a Sonnino e
a Rudiní.
Ondata anticlericale del 1907. Nel luglio 1907 scandalo Fumagalli-don Riva, e fatti di
Alassio. Tittoni clericaleggiante.
Tittoni propugnatore della
guerra civile. Tittoni era rimasto colpito
dal fatto che per riunire la forza pubblica necessaria a fronteggiare i tumulti
scoppiati in una località, occorreva sguarnire altre regioni: durante la
settimana rossa del giugno ’14, per reprimere i moti di Ancona si era sguarnita
Ravenna, dove poi il prefetto, privato della forza pubblica dovette chiudersi
nella Prefettura abbandonando la città ai rivoltosi. «Piú volte io ebbi a
domandarmi, che cosa avrebbe potuto fare il governo se un movimento di rivolta
fosse scoppiato contemporaneamente in tutta la penisola». Tittoni propose al
governo l’arruolamento dei «volontari dell’ordine», ex combattenti inquadrati
da ufficiali in congedo. Il progetto di Tittoni parve degno di considerazione,
ma non ebbe seguito.
Il Partito Popolare. Tittoni aveva riposto molte speranze nel Partito Popolare
e vi avrebbe aderito, se esso non fosse stato diverso da quello che era stato
il primo movimento cattolico politico. Contro Miglioli, ma anche contro Meda e
Rodinò.
Stefano Jacini, Un conservatore
rurale della nuova Italia. Due volumi di complessive 600 pagine con indice
dei nomi. Bari, Laterza.
È la biografia di Stefano Jacini senior scritta da suo
nipote. Lo Jacini ha utilizzato l’archivio domestico, ricco fra l’altro di un
epistolario in molta parte inedito. Chiarisce e completa periodi ed episodi
della storia 1850-1890. Lo Jacini non fu personalità di prima linea, ma ebbe un
carattere proprio. Ebbe una parte non trascurabile nell’opera di unificazione
economica della nazione (unificazione ferroviaria, valico del Gottardo, inchiesta
agraria). Sostenitore di un partito conservatore nazionale (clericale) (lo
Jacini agricoltore e filandiere di seta). Non prese parte al movimento del ’48.
(«Aveva una cultura internazionale fatta in molti viaggi, ciò che gli diede una
visione europea della rivoluzione del ’48, visione che lo trattenne dal
prendervi parte attiva quando scoppiò in Italia»: cosí su per giú scrive
Filippo Meda). Insomma lo Jacini seguí l’atteggiamento della sua classe, che
era reazionaria ed austriacante.
Sotto il governo di Massimiliano, collaborò. Si occupò di
quistioni tecniche ed economiche. Fautore di Cavour, cioè dell’indipendenza
senza rivoluzione. Fu attaccato quando era ministro con Cavour, per il suo
passato prima del ’59 e difeso dal Cattaneo.
Nel gennaio 1870 uscí il suo libro
Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia, dove appare la
tesi di un’Italia reale diversa e dissenziente dall’Italia legale (formula
poi usata dai clericali): contro il Parlamento che voleva ridotto alle grandi
quistioni della difesa dello Stato, della politica estera, della finanza
centrale; decentramento regionale; suffragio universale indiretto col voto agli
analfabeti (cioè potere agli agrari).
Nel 1879 pubblica I
conservatori e la evoluzione naturale dei partiti politici in Italia.
Immagina l’equilibrio politico cosí: Estrema Sinistra, repubblicani; Estrema
Destra, clericali intransigenti (egli pensava a un prossimo abbandono
dell’astensionismo); nel mezzo, due partiti di governo, uno decisamente
conservatore nazionale, l’altro liberale-monarchico progressivo.
Contro Crispi e la megalomania
politica. (Emanuele Greppi, Gaetano Negri, Giuseppe Colombo accettavano il
suo pensiero: moderati lombardi). Lo Jacini offre un esemplare compiuto di una
classe, gli agrari settentrionali: la sua attività politica e letteraria è
interessante perché da essa hanno tratto spunto e motivi movimenti posteriori
(Partito Popolare, ecc.). (Contrario nel ’71 al trasferimento della capitale a
Roma).
[La grande industria.] Cfr. articolo di Salvatore
Valitutti, La grande industria in Italia, nella «Educazione
Fascista» del febbraio 1933, scritto per accenni e rapide allusioni, ma
abbastanza interessante e da rivedere all’occasione.
Non è però esatto porre la quistione cosí: «Era vero che
l’economia dell’Italia meridionale era agricola, feudale, e che quella della
restante Italia era piú industriale e moderna». Nell’Italia meridionale c’era e
c’è una determinata attività agricola e il protezionismo agrario giovò piú al
Nord che al Sud, perché fu protezione sui cereali, di cui il Nord era grande
produttore (relativamente piú del Sud). La differenza tra Nord e Sud era anche
e specialmente nella composizione sociale, nella diversa posizione delle masse
contadine, che nel Sud dovevano mantenere col loro lavoro una troppo grande
quantità di popolazione passiva economicamente, di redditieri, ecc. Né si può
dire che «la pratica di raccoglimento e di modestia» nei primi trent’anni del
regno – una pratica piú modesta di quella che realmente si ebbe – «avrebbe
fermato il progresso delle attività economiche piú bisognose di movimento e di
ricchezza ed, esercitata nell’interesse del meridionale, avrebbe conseguito
l’effetto di rifondere e di riorganizzare la vita italiana sulla base del Regno
di Napoli». Perché poi esercitata nell’interesse del meridionale?
Nell’interesse di tutte le forze nuove nazionali contemperate e non
gerarchizzate dai privilegi. Invece la struttura arretrata meridionale fu
sfruttata, resa permanente, accentuata perfino, per drenare il risparmio delle
sue classi parassitarie verso il Nord.
Anche la funzione del movimento socialista nella formazione
dell’Italia moderna è presentata in modo non esatto per molti aspetti, sebbene
sia esaltata e lodata. La posizione di Bonomi fu una caricatura di quella che
era stata prospettata da Engels nella «Critica Sociale» (prime annate) e in
questo senso era naturale la reazione sindacalista che si ispirò in parte alle
indicazioni dell’Engels, e infatti fu piuttosto meridionalista, ecc. (il
Valitutti si deve riferire al mio articolo sulla quistione meridionale). Per la
posizione del Bonomi sarà da vedere il suo libro sulle Vie nuove, nel
quale tutta la quistione deve essere esposta piú organicamente.
Italia reale e Italia legale. La formula escogitata dai
clericali dopo il ’70 per indicare il disagio politico nazionale risultante
dalla contraddizione tra la minoranza dei patriotti decisi e attivi e la
maggioranza avversa (clericali e legittimisti – passivi e indifferenti). A
Torino si pubblicò fino a qualche anno prima della guerra un quotidiano (poi
settimanale), diretto da un avv. Scala e intitolato «L’Italia reale», organo
del piú nero clericalismo. Come sorse la formula, da chi fu escogitata e quale
giustificazione teorico-politico-morale ne fu data? Occorre fare una ricerca
nella «Civiltà Cattolica» e nei primi numeri della stessa «Italia reale» di
Torino, che negli ultimi tempi si ridusse ad essere un insulso libello di
sagrestia. La formula è felice dal punto di vista «demagogico», perché esisteva
di fatto ed era fortemente sentito un netto distacco tra lo Stato (legalità
formale) e la società civile (realtà di fatto), ma la società civile era tutta
e solamente nel «clericalismo»? Intanto la società civile era qualcosa di
informe e di caotico e tale rimase per molti decenni; fu possibile pertanto
allo Stato di dominarla, superando volta a volta i conflitti che si
manifestavano in forma sporadica, localistica, senza nesso e simultaneità
nazionale. Il clericalismo non era quindi neanche esso l’espressione della
società civile, perché non riuscí a darle un’organizzazione nazionale ed
efficiente, nonostante esso fosse un’organizzazione forte e formalmente
compatta: non era politicamente omogenea ed aveva paura delle stesse masse che
in un certo senso controllava. La formula politica del non expedit fu
appunto l’espressione di tale paura ed incertezza: il boicottaggio
parlamentare, che pareva un atteggiamento aspramente intransigente, in realtà
era l’espressione dell’opportunismo piú piatto. L’esperienza politica francese
aveva dimostrato che il suffragio universale e il plebiscito a base
larghissima, in date circostanze, poteva essere un meccanismo favorevolissimo
alle tendenze reazionarie e clericali (cfr. a questo proposito le ingenue
osservazioni di Jacques Bainville nella sua Storia di Francia, quando
rimprovera al legittimismo di non aver avuto fiducia nel suffragio universale,
come invece aveva fatto Napoleone III); ma il clericalismo italiano sapeva di
non essere l’espressione reale della società civile e che un possibile successo
sarebbe stato effimero e avrebbe determinato l’attacco frontale da parte delle
energie nazionali nuove, evitato felicemente nel 1870. Esperienza del suffragio
allargato nel 1882 e reazione crispino-massonica. Tuttavia, l’atteggiamento
clericale di mantenere «statico» il dissidio tra Stato e società civile era
obbiettivamente sovversivo e ogni nuova organizzazione espressa dalle forze che
intanto maturavano nella società, poteva servirsene come terreno di manovra per
abbattere il regime costituzionale monarchico: perciò la reazione del ’98
abbatté insieme e socialismo e clericalismo, giudicandoli giustamente
ugualmente «sovversivi» e obbiettivamente alleati. Da questo momento comincia
pertanto una nuova politica vaticanesca, con l’abbandono di fatto del non
expedit anche nel campo parlamentare (il Comune era tradizionalmente
considerato società civile, e non Stato) e ciò permette l’introduzione del
suffragio universale, il patto Gentiloni e finalmente la fondazione nel 1919
del Partito Popolare. La quistione dell’esistenza di un’Italia reale e
un’Italia legale si ripresenta in altra forma, negli avvenimenti del ’24-26,
fino alla soppressione di tutti i partiti politici, con l’affermazione
dell’essersi ormai raggiunta l’identità tra il reale e il legale, perché la
società civile in tutte le sue forme era inquadrata da una sola organizzazione
politica di partito e statale.
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