III.
Appendice
Appunti
sulla storia delle classi
subalterne
Criteri metodici. L’unità storica delle classi
dirigenti avviene nello Stato e la storia di esse è essenzialmente la storia degli
Stati e dei gruppi di Stati. Ma non bisogna credere che tale unità sia
puramente giuridica e politica, sebbene anche questa forma di unità abbia la
sua importanza e non solamente formale: l’unità storica fondamentale, per la
sua concretezza, è il risultato dei rapporti organici tra Stato o società
politica e «società civile». Le classi subalterne, per definizione, non sono
unificate e non possono unificarsi finché non possono diventare «Stato»: la
loro storia, pertanto, è intrecciata a quella della società civile, è una
funzione «disgregata» e discontinua della storia della società civile e, per
questo tramite, della storia degli Stati o gruppi di Stati. Bisogna pertanto
studiare: 1) il formarsi obbiettivo dei gruppi sociali subalterni, per lo
sviluppo e i rivolgimenti che si verificano nel mondo della produzione
economica, la loro diffusione quantitativa e la loro origine da gruppi sociali
preesistenti, di cui conservano per un certo tempo la mentalità, l’ideologia e
i fini; 2) il loro aderire attivamente o passivamente alle formazioni politiche
dominanti, i tentativi di influire sui programmi di queste formazioni per
imporre rivendicazioni proprie e le conseguenze che tali tentativi hanno nel
determinare processi di decomposizione e di rinnovamento o di neoformazione; 3)
la nascita di partiti nuovi dei gruppi dominanti per mantenere il consenso e il
controllo dei gruppi subalterni; 4) le formazioni proprie dei gruppi subalterni
per rivendicazioni di carattere ristretto e parziale; 5) le nuove formazioni
che affermano l’autonomia dei gruppi subalterni ma nei vecchi quadri; 6) le
formazioni che affermano l’autonomia integrale, ecc.
La lista di queste fasi può essere ancora precisata con fasi
intermedie o con combinazioni di piú fasi. Lo storico deve notare e
giustificare la linea di sviluppo verso l’autonomia integrale, dalle fasi piú
primitive, deve notare ogni manifestazione del sorelliano «spirito di
scissione». Perciò, anche la storia dei partiti dei gruppi subalterni è molto
complessa, in quanto deve includere tutte le ripercussioni delle attività di
partito, per tutta l’area dei gruppi subalterni nel loro complesso, e sugli
atteggiamenti dei gruppi dominanti e deve includere le ripercussioni delle
attività ben piú efficaci, perché sorrette dallo Stato, dei gruppi dominanti su
quelli subalterni e sui loro partiti. Tra i gruppi subalterni uno eserciterà o
tenderà ad esercitare una certa egemonia attraverso un partito e ciò occorre
fissare studiando gli sviluppi anche di tutti gli altri partiti in quanto includono
elementi del gruppo egemone o degli altri gruppi subalterni che subiscono tale
egemonia. Molti canoni di ricerca storica si possono costruire dall’esame delle
forze innovatrici italiane che guidarono il Risorgimento nazionale: queste
forze hanno preso il potere, si sono unificate nello Stato moderno italiano,
lottando contro determinate altre forze e aiutate da determinati ausiliari o
alleati; per diventare Stato dovevano subordinarsi o eliminare le une e avere
il consenso attivo o passivo delle altre. Lo studio dello sviluppo di queste
forze innovatrici da gruppi subalterni a gruppi dirigenti e dominanti deve
pertanto ricercare e identificare le fasi attraverso cui esse hanno acquistato
l’autonomia nei confronti dei nemici da abbattere e l’adesione dei gruppi che
le hanno aiutate attivamente o passivamente, in quanto tutto questo processo
era necessario storicamente perché si unificassero in Stato. Il grado di
coscienza storico-politica cui erano giunte progressivamente queste forze
innovatrici nelle varie fasi si misura appunto con questi due metri e non solo
con quello del suo distacco dalle forze precedentemente dominanti. Di solito si
ricorre solo a questo criterio e si ha cosí una storia unilaterale o talvolta
non ci si capisce nulla, come nel caso della storia della penisola dall’èra dei
Comuni in poi. La borghesia italiana non seppe unificare intorno a sé il popolo
e questa fu la causa delle sue sconfitte e delle interruzioni del suo sviluppo.
Anche nel Risorgimento tale egoismo ristretto impedí una rivoluzione rapida e
vigorosa come quella francese. Ecco una delle quistioni piú importanti e delle
cause di difficoltà piú gravi nel fare la storia dei gruppi sociali subalterni
e quindi della storia senz’altro (passata) degli Stati.
Criteri metodologici. La storia dei gruppi sociali
subalterni è necessariamente disgregata ed episodica. È indubbio che
nell’attività storica di questi gruppi c’è la tendenza all’unificazione sia
pure su piani provvisori, ma questa tendenza è continuamente spezzata dall’iniziativa
dei gruppi dominanti, e pertanto può essere dimostrata solo a ciclo storico
compiuto, se esso si conchiude con un successo. I gruppi subalterni subiscono
sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e
insorgono: solo la vittoria «permanente» spezza, e non immediatamente, la
subordinazione. In realtà, anche quando paiono trionfanti, i gruppi subalterni
sono solo in istato di difesa allarmata (questa verità si può dimostrare con la
storia della Rivoluzione francese fino al 1830 almeno). Ogni traccia di
iniziativa autonoma da parte dei gruppi subalterni dovrebbe perciò essere di
valore inestimabile per lo storico integrale; da ciò risulta che una tale
storia non può essere trattata che per monografie e che ogni monografia domanda
un cumulo molto grande di materiali spesso difficili da raccogliere.
Alcune note generali sullo sviluppo storico dei gruppi
sociali subalterni nel Medio Evo e a Roma. Nel saggio di Ettore Ciccotti Elementi
di «verità» e di «certezza» nella tradizione storica romana (contenuto nel
volume Confronti storici), ci sono alcuni accenni allo sviluppo storico
delle classi popolari nei Comuni italiani, specialmente degni di attenzione e
di trattazione separata. Le guerre reciproche fra i Comuni, e quindi la necessità
di reclutare una piú vigorosa e abbondante forza militare col lasciare armare
il maggior numero, davano la coscienza della loro forza ai popolani e nello
stesso tempo ne rinsaldavano le file (cioè funzionarono da eccitanti alla
formazione compatta e solidale di gruppo e di partito). I combattenti
rimanevano uniti anche in pace, sia per il servizio da prestare, sia, in
prosieguo, con crescente solidarietà, per fini di utilità particolare. Si hanno
gli statuti delle «Società d’armi», che si costituirono a Bologna, come sembra,
verso il 1230 ed emerge il carattere della loro unione e il loro modo di
costituzione. Verso la metà del secolo XIII le società erano già ventiquattro,
distribuite a seconda della contrada ove abitavano (i componenti). Oltre al loro
ufficio politico di difesa esterna del Comune, avevano il fine di assicurare a
ciascun popolano la tutela necessaria contro le aggressioni dei nobili e dei
potenti. I capitoli dei loro statuti – per esempio della Società detta dei
Leoni – hanno in rubrica titoli come: «De adiutorio dando hominibus dicte
societatis...»; «Quod molestati iniuste debeant adiuvari ab hominibus dicte
societatis». E alle sanzioni civili e sociali si aggiungevano, oltre al
giuramento, una sanzione religiosa, con la comune assistenza alla messa e alla
celebrazione di uffici divini, mentre altri obblighi comuni, come quelli,
comuni alle confraternite pie, di soccorrere i soci poveri, seppellire i
defunti, ecc., rendevano sempre piú persistente e stretta l’unione. Per le
funzioni stesse delle società si formarono poi cariche e consigli – a Bologna,
per esempio, quattro o otto «ministeriales» foggiati sugli ordini della Società
delle Arti o su quelli piú antichi del Comune – che col tempo ebbero valore
oltre i termini delle società e trovarono luogo nella costituzione del Comune.
Originariamente, in queste società entrano milites al
pari di pedites, nobili e popolani, se anche in minor numero. Ma, a
grado a grado, i milites, i nobili, tendono ad appartarsene, come a
Siena, o, secondo i casi, ne possono essere espulsi, come nel 1270, a Bologna. E a misura
che il movimento di emancipazione prende piede, oltrepassando anche i limiti e
la forma di queste società, l’elemento popolare chiede e ottiene la
partecipazione alle maggiori cariche pubbliche. Il popolo si costituisce sempre
piú in vero partito politico e per dare maggiore efficienza e centralizzazione
alla sua azione si dà un capo, «il Capitano del popolo», ufficio che pare Siena
abbia preso da Pisa e che nel nome come nella funzione, rivela insieme origini
e funzioni militari e politiche. Il popolo che già volta a volta, ma
sporadicamente, si era armato, si era riunito, si era costituito e aveva preso
deliberazioni distinte, si costituisce come un ente a parte, che si dà anche
proprie leggi. Campana propria per le sue convocazioni, «cum campana Comunis
non bene audiatur». Entra in contrasto col Podestà a cui contesta il diritto di
pubblicar bandi e col quale il Capitano del popolo stipula delle «paci». Quando
il popolo non riesce ad ottenere dalle autorità comunali le riforme volute, fa
la sua secessione, con l’appoggio di uomini eminenti del Comune e, costituitosi
in assemblea indipendente, incomincia a creare magistrature proprie ad immagine
di quelle generali del Comune, ad attribuire una giurisdizione al Capitano del
popolo, e a deliberare di sua autorità, dando inizio (dal 1255) a tutta
un’opera legislativa. (Questi dati sono del Comune di Siena). Il popolo riesce,
prima praticamente, e poi anche formalmente, a fare accettare negli Statuti
generali del Comune disposizioni che prima non legavano se non gli ascritti al
«Popolo» e di uso interno. Il popolo giunge quindi a dominare il Comune,
soverchiando la precedente classe dominante, come a Siena dopo il 1270, a Bologna con gli
Ordinamenti «sacrati» e «sacratissimi», a Firenze con gli «Ordinamenti di
giustizia». (Provenzano Salvani a Siena è un nobile che si pone a capo del
popolo).
La maggior parte dei problemi di storia romana che il
Ciccotti prospetta nello studio già citato (a parte l’accertamento di episodi
«personali», come quello di Tanaquilla, ecc.) si riferiscono ad eventi ed
istituzioni dei gruppi sociali subalterni (tribuno della plebe, ecc.). Perciò
il metodo dell’«analogia» affermato e teorizzato dal Ciccotti può dare qualche
risultato «indiziario», perché i gruppi subalterni, mancando di autonomia
politica, le loro iniziative «difensive» sono costrette da leggi proprie di
necessità, piú semplici, piú limitate e politicamente piú comprensive che non
siano le leggi di necessità storica che dirigono e condizionano le iniziative
della classe dominante. Spesso i gruppi subalterni sono originariamente di
altra razza (altra cultura e altra religione) di quelli dominanti e spesso sono
un miscuglio di razze diverse, come nel caso degli schiavi. La quistione
dell’importanza delle donne nella storia romana è simile a quella dei gruppi
subalterni, ma fino a un certo punto; il «maschilismo» può solo in un certo
senso essere paragonato a un dominio di classe, esso ha quindi piú importanza per
la storia dei costumi che per la storia politica e sociale.
Di un altro criterio di ricerca occorre tener conto per
rendere evidenti i pericoli insiti nel metodo dell’analogia storica come
criterio d’interpretazione: nello Stato antico e in quello medioevale,
l’accentramento, sia politico-territoriale, sia sociale (e l’uno non è poi che
funzione dell’altro), era minimo. Lo Stato era, in un certo senso, un blocco
meccanico di gruppi sociali e spesso di razze diverse: entro la cerchia della
compressione politico-militare, che si esercitava in forma acuta solo in certi
momenti, i gruppi subalterni avevano una vita propria, a sé, istituzioni
proprie, ecc., e talvolta queste istituzioni avevano funzioni statali che
facevano dello Stato una federazione di gruppi sociali con funzioni diverse non
subordinate, ciò che nei periodi di crisi dava un’evidenza estrema al fenomeno
del «doppio governo». L’unico gruppo escluso da ogni vita propria collettiva
organizzata era quello degli schiavi (e dei proletari non schiavi) nel mondo
classico, e quello dei proletari e dei servi della gleba e dei coloni nel mondo
medioevale. Tuttavia se, per molti aspetti, schiavi antichi e proletari
medioevali si trovavano nelle stesse condizioni, la loro situazione non era
identica: il tentativo dei Ciompi non produsse certo l’impressione che avrebbe
prodotto un tentativo simile degli schiavi antichi (Spartaco che domanda di
essere assunto al governo in collaborazione con la plebe, ecc.). Mentre nel
Medioevo era possibile una alleanza tra proletari e popolo e ancor di piú
l’appoggio dei proletari alla dittatura di un principe, niente di simile nel
mondo classico per gli schiavi. Lo Stato moderno sostituisce al blocco
meccanico dei gruppi sociali una loro subordinazione all’egemonia attiva del
gruppo dirigente e dominante, quindi abolisce alcune autonomie, che però
rinascono in altra forma, come partiti, sindacati, associazioni di cultura. Le
dittature contemporanee aboliscono legalmente anche queste nuove forme di
autonomia e si sforzano di incorporarle nell’attività statale: l’accentramento
legale di tutta la vita nazionale nelle mani del gruppo dominante diventa
«totalitario».
Gli schiavi a Roma. 1) Un’osservazione casuale di
Cesare (De Bello Gallico, 1, 40, 5) informa del fatto che il nucleo
degli schiavi che si rivoltarono con Spartaco era costituito dai prigionieri di
guerra Cimbri: questi rivoltosi furono annientati. (Cfr. Tenney Frank, Storia
economica di Roma, trad. it., Ed. Vallecchi, p. 153). In questo stesso
capitolo del libro del Frank sono da vedere le osservazioni e le congetture
sulla diversa sorte delle varie nazionalità di schiavi e sulla loro
sopravvivenza probabile in quanto non furono distrutti: o si assimilarono alla
popolazione indigena o addirittura la sostituirono.
2) A Roma gli schiavi non potevano essere riconosciuti
esteriormente come tali. Quando un senatore propose una volta che agli schiavi
fosse dato un abito che li distinguesse, il Senato fu contrario al
provvedimento, per timore che gli schiavi divenissero pericolosi qualora
potessero rendersi conto del loro grande numero (cfr. Seneca, De clem.,
1, 24 e Tacito, Annal., IV, 27). In questo episodio sono contenute le
ragioni politico-psicologiche che determinano una serie di manifestazioni
pubbliche: le processioni religiose, i cortei, le assemblee popolari, le parate
di vario genere e anche in parte le elezioni (la partecipazione alle elezioni
di alcuni gruppi) e i plebisciti.
[I clubs rossi a Parigi.]
A. G. Bianchi, I clubs rossi durante l’assedio di Parigi, «Nuova
Antologia», 1° luglio 1929. Riassume un opuscolo, pubblicato nel 1871, di M. G.
Molinari, Les clubs rouges pendant le siège de Paris. È una raccolta di
cronache pubblicate prima nel «Journal des Débats» sulle riunioni dei
clubs durante l’assedio (forse si tratta dello stesso De Molinari, il noto
scrittore liberista e direttore dei «Débats»; ma il Bianchi scrive che è «un
modesto, ma diligente giornalista»). L’opuscolo è interessante perché registra
tutte le proposte strampalate che venivano fatte dai frequentatori di questi
circoli popolari. Perciò sarebbe interessante leggerlo e trarne materiale per
sostenere la necessità dell’ordine intellettuale e della «sobrietà» morale nel
popolo. Può servire anche per studiare come fino al ’70 Parigi sia rimasta sotto
l’incanto delle forme politiche create dalla Rivoluzione del 1789, di cui i
clubs furono la manifestazione piú appariscente, ecc. (Non potendo leggere
l’opuscolo originale del Molinari, si può ricorrere a questo articolo del
Bianchi).
Volontarismo e masse sociali. In tutta una serie di
quistioni, sia di ricostruzione della storia passata, sia di analisi
storico-politica del presente, non si tiene conto di questo elemento: che
occorre distinguere e valutare diversamente le imprese e le organizzazioni di
volontari, dalle imprese e dalle organizzazioni di blocchi sociali omogenei (è
evidente che per volontari non si deve intendere l’élite quando essa è
espressione organica della massa sociale, ma del volontario staccato dalla
massa per spinta individuale arbitraria e in contrasto spesso con la massa o
indifferente per essa). Questo elemento ha importanza specialmente per
l’Italia: 1) per l’apoliticismo e la passività tradizionali nelle grandi masse
popolari, che hanno come reazione naturale una relativa facilità al
«reclutamento di volontari»; 2) per la costituzione sociale italiana, uno dei
cui elementi è la malsana quantità di borghesi rurali o di tipo rurale, medi e
piccoli, da cui si formano molti intellettuali irrequieti e quindi facili
«volontari» per ogni iniziativa anche la piú bizzarra, che sia vagamente
sovversiva (a destra o a sinistra); 3) la massa di salariati rurali e di Lumpenproletariat,
che pittorescamente in Italia è chiamata la classe dei «morti di fame».
Nell’analisi dei partiti politici italiani si può vedere che essi sono sempre
stati di «volontari», in un certo senso di spostati, e mai o quasi mai di
blocchi sociali omogenei. Un’eccezione è stata la destra storica cavourriana e
quindi la sua superiorità organica e permanente sul cosí detto Partito d’Azione
mazziniano e garibaldino, che è stato il prototipo di tutti i partiti italiani
di «massa» successivi, che non furono tali in realtà (cioè non ordinarono
gruppi omogenei sociali) ma furono attendamenti zingareschi e nomadi della
politica. Si può trovare una sola analisi di tal genere (ma imprecisa e
gelatinosa, da un punto di vista solo «statistico-sociologico») nel volume di
Roberto Michels su Borghesia e proletariato.
La posizione del Gottlieb fu appunto simile a quella del
Partito d’Azione, cioè zingaresca e nomade: l’interesse sindacale era molto
superficiale e di origine polemica, non sistematico, non organico e
conseguente, non di ricerca di omogeneità sociale, ma paternalistico e
formalistico.
Machiavelli. Volontarismo e garibaldinismo. Occorre
distinguere: altro è il volontarismo o garibaldinismo che teorizza se stesso
come forma organica di attività storico-politica e si esalta con frasi che non
sono altro che una trasposizione del linguaggio del superuomo individuo a un
insieme di «superuomini» (esaltazione delle minoranze attive come tali, ecc.),
altro è il volontarismo o garibaldinismo concepito come momento iniziale di un
periodo organico da preparare e sviluppare, in cui la partecipazione della
collettività organica, come blocco sociale, avvenga in modo completo. Le
«avanguardie» senza esercito di rincalzo, gli «arditi» senza fanteria e
artiglieria, sono anch’esse trasposizioni del linguaggio dell’eroismo retorico;
non cosí le avanguardie e gli arditi come funzioni specializzate di organismi
complessi e regolari. Cosí è della concezione delle élites di
intellettuali senza massa, ma non degli intellettuali che si sentono legati
organicamente a una massa nazionale-popolare. In realtà, si lotta contro queste
degenerazioni di falsi eroismi e di pseudo-aristocrazie, stimolando la
formazione di blocchi sociali omogenei e compatti, che esprimono un gruppo di
intellettuali, di arditi, un’avanguardia loro propria, che reagiscono nel loro
blocco per svilupparlo e non solo per perpetuare il loro dominio zingaresco. La
bohème parigina del romanticismo è stata anch’essa alle origini
intellettuali di molti modi di pensare odierni che pure pare deridano quei bohémiens.
[Messianismo.] Cfr. l’articolo di Armando Cavalli, Correnti
messianiche dopo il ’70, «Nuova Antologia» del 16 novembre 1930. Il Cavalli
si è occupato anche altre volte di argomenti simili (vedere i suoi articoli
nelle riviste di Gobetti, «Rivoluzione Liberale» e «Baretti», e altrove),
sebbene con molta superficialità. In questo articolo accenna a Davide
Lazzaretti, alle Bande di Benevento, ai movimenti repubblicani (Barsanti) e
internazionalisti in Romagna e nel Mezzogiorno. Chiamare «correnti messianiche»
è esagerato, perché si tratta di fatti singoli e isolati, che dimostrano piú la
«passività» delle grandi masse rurali che non una loro vibrazione per sentirsi
attraversate da «correnti». Cosí il Cavalli esagera l’importanza di certe
affermazioni «protestantiche» o «riformatrici in generale» della religione che
si verificano non solo dopo il ’70, ma anche prima, da parte di R. Bonghi e
altri liberali (è noto che la «Perseveranza» prima del ’70 credeva di far
pressione sul Papato con queste minacce di una adesione italiana al
protestantesimo) e il suo errore è mostruoso quando pare che voglia porre sullo
stesso piano queste affermazioni riformatrici e Davide Lazzaretti. La
conclusione è giusta formalmente: dittatura della destra, esclusione dalla vita
politica dei partiti repubblicano e clericale, indifferenza del governo per la
miseria delle masse agricole.
Il concetto di «ideale» formatosi nelle masse di sinistra;
nella sua vacuità formale, serve bene a caratterizzare la situazione: non fini
e programmi politici concreti e definiti, ma uno stato d’animo vago e
oscillante che trovava il suo appagamento in una vuota formula e, perché vuota,
capace di contenere ogni cosa la piú disparata. La parola «ideale» è
complementare a quella di «sovversivo»: è la formula utile per fare delle frasi
ai piccoli intellettuali che formavano l’organizzazione di sinistra. L’«ideale»
è un residuo del mazzinianismo popolare, in cui si innesta il bakuninismo, e si
trascinò fino ai tempi piú moderni, mostrando cosí che una vera direzione
politica delle masse non si era formata.
Davide Lazzaretti. In un articolo pubblicato dalla
«Fiera Letteraria» del 26 agosto 1928, Domenico Bulferetti ricorda alcuni
elementi della vita e della formazione culturale di Davide Lazzaretti.
Bibliografia: Andrea Verga, Davide Lazzaretti e la pazzia sensoria (Milano,
Rechiedei, 1880); Cesare Lombroso, Pazzi e anormali (questo era il
costume culturale del tempo: invece di studiare le origini di un avvenimento
collettivo, e le ragioni del suo diffondersi, del suo essere collettivo, si isolava
il protagonista e ci si limitava a farne la biografia patologica, troppo spesso
prendendo le mosse da motivi non accertati o interpretabili in modo diverso:
per una élite sociale, gli elementi dei gruppi subalterni hanno sempre
alcunché di barbarico e di patologico). Una Storia di David Lazzaretti,
Profeta di Arcidosso fu pubblicata a Siena nel 1905 da uno dei piú distinti
discepoli del Lazzaretti, l’ex frate filippino Filippo Imperiuzzi: altre
scritture apologetiche esistono, ma questa è la piú notevole, secondo il
Bulferetti. Ma l’opera «fondamentale» sul Lazzaretti è quella di Giacomo
Barzellotti, che nella 1a e 2a edizione (presso
Zanichelli) era intitolata Davide Lazzaretti, e che fu ampliata e
in parte modificata nelle successive edizioni (Treves) col titolo Monte
Amiata e il suo Profeta. Il Bulferetti crede che il Barzellotti abbia
sostenuto che le cause del movimento lazzarettista sono «tutte particolari e
dovute solo allo stato d’animo e di coltura di quella gente là» solo «un po’
per naturale amore ai bei luoghi nativi (!) e un po’ per suggestione delle
teorie di Ippolito Taine». È piú ovvio pensare, invece, che il libro del
Barzellotti, che ha servito a formare l’opinione pubblica italiana sul
Lazzaretti, sia niente altro che una manifestazione di patriottismo letterario
(– per amor di patria! – come si dice) che portava a cercar di nascondere le
cause di malessere generale che esistevano in Italia dopo il ’70, dando, dei
singoli episodi di esplosione di tale malessere, spiegazioni restrittive,
individuali, folcloristiche, patologiche, ecc. La stessa cosa è avvenuta piú in
grande per il «brigantaggio» meridionale e delle isole.
Gli uomini politici non si sono occupati del fatto che
l’uccisione del Lazzaretti è stata di una crudeltà feroce e freddamente
premeditata (in realtà il Lazzaretti fu fucilato e non ucciso in conflitto:
sarebbe interessante conoscere le istruzioni riservate mandate dal governo alle
autorità): neanche i repubblicani se ne sono occupati (ricercare e verificare),
nonostante che il Lazzaretti sia morto inneggiando alla repubblica (il
carattere tendenzialmente repubblicano del movimento, che era tale da poter
diffondersi tra i contadini, deve aver specialmente contribuito a determinare
la volontà del governo di sterminarne il protagonista), forse per la ragione
che nel movimento la tendenzialità repubblicana era bizzarramente mescolata
all’elemento religioso e profetico. Ma appunto questo miscuglio rappresenta la
caratteristica principale dell’avvenimento perché dimostra la sua popolarità e
spontaneità. È da ritenere inoltre che il movimento lazzarettista sia stato
legato al non expedit del Vaticano, e abbia mostrato al governo quale
tendenza sovversiva-popolare-elementare poteva nascere tra i contadini in
seguito all’astensionismo politico clericale e al fatto che le masse rurali, in
assenza di partiti regolari, si cercavano dirigenti locali che emergevano dalla
massa stessa, mescolando la religione e il fanatismo all’insieme di
rivendicazioni che in forma elementare fermentavano nelle campagne. Altro
elemento politico da tener presente è questo: al governo erano andate da due
anni le Sinistre, il cui avvento aveva suscitato nel popolo un ribollimento di
speranze e di aspettazioni che dovevano essere deluse. Il fatto che al governo
fossero le Sinistre può spiegare anche la tiepidezza nel sostenere una lotta
per l’uccisione delittuosa di un uomo che poteva essere presentato come un
codino, papalino, clericale, ecc.
Nota il Bulferetti che il Barzellotti non fece ricerche
sulla formazione della cultura del Lazzaretti, alla quale pure si riferisce.
Altrimenti avrebbe visto che anche a Monte Amiata arrivavano allora in gran
copia (!? da dove lo sa il Bulferetti? d’altronde, per chi conosce la vita dei
contadini, specialmente di una volta, la «gran copia» non è necessaria, per
spiegare l’estensione e la profondità di un movimento) foglietti, opuscoli e
libri popolari stampati a Milano. Il Lazzaretti ne era lettore insaziabile e
per il suo mestiere di barrocciaio aveva agio di procurarsene. Davide era nato
in Arcidosso il 6 novembre 1834 e aveva esercitato il mestiere paterno fino al
1868, quando, da bestemmiatore si convertí e si ritirò a far penitenza in una
grotta della Sabina dove «vide» l’ombra di un guerriero che gli «rivelò» di essere
il capostipite della sua famiglia, Manfredo Pallavicino, figlio illegittimo di
un re di Francia, ecc. Uno studioso danese, il dottor Emilio Rasmussen, trovò
che Manfredo Pallavicino è il protagonista di un romanzo storico di Giuseppe
Rovani, intitolato appunto Manfredo Pallavicino. L’intreccio e le
avventure del romanzo sono passati tali e quali nella «rivelazione» della
grotta e da questa rivelazione si inizia la propaganda religiosa del
Lazzaretti. Il Barzellotti aveva creduto invece che il Lazzaretti fosse stato
influenzato dalle leggende del Trecento (le avventure del re Giannino, senese)
e la scoperta del Rasmussen lo indusse solo a introdurre nell’ultima edizione
del suo libro un vago accenno alle letture del Lazzaretti, senza però accennare
al Rasmussen e lasciando intatta la parte del libro dedicata a re Giannino.
Tuttavia, il Barzellotti studia il successivo svolgimento dello spirito del
Lazzaretti, i suoi viaggi in Francia, e l’influsso che ebbe su di lui il prete
milanese Onorio Taramelli, «uomo di fine ingegno e larga coltura», che per aver
scritto contro la monarchia era stato arrestato a Milano e poi era fuggito in
Francia. Dal Taramelli Davide ebbe l’impulso repubblicano. La bandiera di
Davide era rossa con la scritta: «La Repubblica e il regno di Dio». Nella processione
del 18 agosto 1878 in
cui Davide fu ucciso, egli domandò ai suoi fedeli se volevano la repubblica. Al
«sí» fragoroso egli rispose: «La repubblica incomincia da oggi in poi nel
mondo: ma non sarà quella del ’48: sarà il regno di Dio, la legge del Diritto
succeduta a quella di Grazia». Nella risposta di Davide ci sono alcuni elementi
interessanti, che devono essere collegati alle sue reminiscenze delle parole
del Taramelli: il voler distinguersi dal ’48 che in Toscana non aveva lasciato
buon ricordo tra i contadini, la distinzione tra Diritto e Grazia.
Il dramma del Lazzaretti deve essere riannodato alle
«imprese» delle cosí dette Bande di Benevento, che sono quasi simultanee: i
preti e i contadini coinvolti nel processo di Malatesta pensavano in modo molto
analogo a quello dei lazzarettisti, come risulta dai resoconti giudiziari
(cfr.per es. il libro di Nitti sul Socialismo Cattolico, dove
giustamente si accenna alle Bande di Benevento: vedere se accenni al
Lazzaretti). In ogni modo, il dramma del Lazzaretti è stato finora veduto solo
dal punto di vista dell’impressionismo letterario, mentre meriterebbe
un’analisi politico-storica.
Giuseppe Fatini, nell’«Illustrazione
Toscana» (cfr. il «Marzocco» del 31 gennaio 1932), richiama l’attenzione sulle
attuali sopravvivenze del lazzarettismo. Si credeva che, dopo l’esecuzione di
Davide da parte dei carabinieri, ogni traccia di lazzarettismo si fosse per
sempre dispersa anche nelle pendici dell’Amiata grossetano. Invece i
lazzarettisti o cristiani giurisdavidici, come amano chiamarsi, continuano a
vivere: raccolti per lo piú nel villaggio arcidossino di Zancona, con qualche
proselite sparso nelle borgate adiacenti, trassero dalla guerra mondiale nuovo
alimento per stringersi sempre piú fra loro nella memoria del Lazzaretti, che,
secondo i seguaci, aveva tutto previsto, dalla guerra mondiale a Caporetto,
dalla vittoria del popolo latino, alla nascita della Società delle Nazioni. Di
quando in quando, quei fedeli si fanno vivi fuor del loro piccolo cerchio con
opuscoli di propaganda, indirizzandoli ai «fratelli del popolo latino», e in
essi raccolgono qualcuno dei tanti scritti, anche poetici, lasciati inediti dal
Maestro e che i seguaci custodiscono gelosamente.
Ma che cosa vogliono i cristiani giurisdavidici?
A chi non è ancora tocco dalla grazia di poter penetrare nel segreto del
linguaggio dei Santi non è facile comprendere la sostanza della loro dottrina.
La quale è un miscuglio di dottrine religiose d’altri tempi, con una buona dose
di massime socialistoidi e con accenni generici alla redenzione morale
dell’uomo, redenzione che non potrà attuarsi se non col pieno rinnovamento
dello spirito e della gerarchia della Chiesa Cattolica. L’articolo XXIV che
chiude il «Simbolo dello Spirito Santo», costituente come il «Credo» dei
lazzarettisti, dichiara che «il nostro istitutore David Lazzaretti, l’unto del
Signore, giudicato e condannato dalla Curia Romana, è realmente il Cristo Duce
e Giudice nella vera e viva figura della seconda venuta di nostro Signore Gesú
Cristo sul mondo, come figlio dell’uomo venuto a portare compimento alla
Redenzione copiosa su tutto il genere umano in virtú della terza legge divina
del Diritto e Riforma generale dello Spirito Santo, la quale deve riunire tutti
gli uomini alla fede di Cristo in seno alla Cattolica Chiesa in un sol punto e
in una sola legge in conferma delle divine promesse». Parve per un momento, nel
dopoguerra, che i lazzarettisti si incanalassero «per una via pericolosa», ma
seppero ritrarsene a tempo e dettero piena adesione ai vincitori. Non certo per
le sue divergenze con la Chiesa
cattolica – «la setta dell’Idolatria papale» – ma per la tenacia con cui essi
difendono il Maestro e la
Riforma, il Fatini ritiene degno di attenzione e di studio il
fenomeno religioso amiatino.
G. Pascoli e Davide Lazzaretti. Nella Nota
per gli alunni che precede l’antologia Sul limitare, il Pascoli,
accennando alla pubblicazione di Giacomo Barzellotti sul Lazzaretti cosí
scrive: «Io ho sentito dalla lettura del libro elevarsi il mio pensiero
all’avvenire cosí dubbioso della nostra civiltà. Il secolo è finito: che
ci porterà il secolo ventesimo? La pace tra i popoli, la pace tra le classi, la
pace della coscienza? o la lotta e la guerra? Ebbene, codesto barrocciaio commosso
da un nuovo impulso di fede viva, che cade nel suo sangue, e cotesto
pensatore (il Barzellotti), coscienza e mente dei nostri tempi, che lo
studia, lo narra, lo compiange, mi sembrano come un simbolo: l’umanità sapiente
che piange e ammonisce, col petto alto e col capo chino, tra la sicurezza del
suo pensiero e la pietà del suo sentimento, sull’altra umanità, su quella che
delira e muore».
Questo brano interessa: 1) per il pensiero politico del
Pascoli nel 1899-900; 2) per mostrare l’efficacia ideologica della morte del
Lazzaretti; 3) Per vedere quali rapporti il Pascoli voleva tra gli
intellettuali e il popolo.
De Amicis. Del De Amicis sono da vedere la raccolta
di discorsi Speranze e Glorie e il volume su Lotte civili. La sua
attività letteraria e di oratore in questo senso va dal ’90 al ’900 ed è da
vedere per ricercare l’atteggiamento di certe correnti intellettuali del tempo
in confronto della politica statale. Si può vedere quali erano i motivi
dominanti, le preoccupazioni morali e gli interessi di queste correnti. Del
resto non si tratta di una corrente unica. Sebbene si debba parlare di un
socialnazionalismo o socialpatriottismo nel De Amicis, è evidente la sua
differenza dal Pascoli, per esempio: il De Amicis era contro la politica
africanista, il Pascoli invece era un colonialista di programma.
Intellettuali italiani. Da un articolo di Alfredo
Panzini (Biancofiore, nel «Corriere della Sera» del 2 dicembre 1931) su
Severino Ferrari e il suo poemetto Il Mago: «Al pari di molti figli
della piccola borghesia, specie quelli che frequentavano l’Università, si era
sentimentalmente accostato al fonte battesimale di Bakunin piú forse che di
Carlo Marx. I giovani, nell’entrare della vita, domandano un battesimo; e di
Giuseppe Mazzini rimaneva la tomba e il gran fulgore della tomba; ma la parola
del grande apostolo non bastava piú alle nuove generazioni». Da che il Panzini
trae che i giovani, ecc., si accostassero piú al Bakunin, ecc.? Forse
semplicemente dai ricordi personali di università (Severino Ferrari era nato
nel 1856; Il Mago fu pubblicato nel 1884, sebbene il Panzini abbia
frequentato l’università di molti anni dopo il Ferrari).
Giovanni Pascoli. Sulle tendenze politiche di Giovanni Pascoli (il Pascoli da
giovane fu incarcerato come membro dell’Internazionale), che ebbero
pubblicamente il massimo di ripercussione al tempo della guerra libica col
discorso La grande proletaria si è mossa e che sono da connettere con le
dottrine di Enrico Corradini, in cui il concetto di «proletario» dalle classi è
trasportato alle nazioni (quistione della «proprietà nazionale» legata con
l’emigrazione; ma si osserva che la povertà di un paese è relativa ed è
l’«industria» dell’uomo – classe dirigente – che riesce a dare a una nazione
una posizione nel mondo e nella divisione internazionale del lavoro;
l’emigrazione è una conseguenza della incapacità della classe dirigente a dar
lavoro alla popolazione e non della povertà nazionale: esempio dell’Olanda,
della Danimarca, ecc.; quistioni relative si capisce), sono interessanti le Lettere
inedite di Giovanni Pascoli a Luigi Mercatelli, pubblicate da G.
Zuppone-Strani nella «Nuova Antologia» del 16 ottobre 1927. (Il Mercatelli era
corrispondente della «Tribuna» dall’Eritrea; rientrò al giornale nel 1896; nel
’97 andò in Africa con F. Martini, nel ’99 fu direttore della «Tribuna» con
Federico Fabbri; nel 1903 fu console generale allo Zanzibar, nel 1904
governatore del Benadir).
In una lettera scritta da Barga il 30 ottobre 1899, il
Pascoli scrive: «Io mi sento socialista, profondamente socialista, ma
socialista dell’umanità, non d’una classe. E col mio socialismo, per quanto
abbracci tutti i popoli, sento che non contrasta il desiderio e l’aspirazione
dell’espansione coloniale. Oh! io avrei voluto che della colonizzazione
italiana si fosse messo alla testa il baldo e giovane partito sociale; ma,
ahimè, esso fu reso decrepito dai suoi teorici». (Vedere nell’opera poetica del
Pascoli il riflesso di questa sua concezione e nelle antologie scolastiche).
In una lettera da Messina, dell’8 giugno 1900, si accenna
alla sua collaborazione alla «Tribuna»: «Oh! potessi io settimanalmente o
bimensilmente pubblicare le mie “Conversazioni coi giovani”! Nel discorso che
feci l’altrieri, e che ti mando purgato dai molti idioti errori di stampa, è un
cenno di ciò che io reputo la mia missione: introdurre il pensiero della patria
e della nazione e della razza nel cieco e gelido socialismo di Marx».
In una lettera da Barga del 2 luglio 1900, annunzia una
rubrica che vorrebbe scrivere nella «Tribuna», intitolata «Nell’avvenire», di
cui presto manderà il proemio: «La rubrica conterrebbe articoli di ogni sorta,
diretti a quelli che ora sono tra fanciulli e adolescenti, che contemplerebbero
le quistioni presenti alla luce dell’avvenire. Il primo articolo proemiale,
dopo una breve dichiarazione mia, di rinunzia formale e solenne alla “vita
attiva” – cioè, vuol dire, a diventare deputato – tratterebbe quest’argomento.
“I giovani, quelli almeno che sono veramente giovani, hanno in sé qualcosa
d’eroico. Quelli, di qualche tempo fa, si sentivano spinti all’eroismo
patriottico, quelli d’ora all’eroismo, diciamo, socialistico. Però in fondo al
loro cuore è un dissidio profondo. Sentendo la difesa d’Amba Alagi, anche
quelli, che avevano fatto dedizione dei loro sentimenti eroici all’idea
umanitaria, provarono una scossa... Ebbene, bisogna conciliare questo dissidio
che travaglia (io lo so, io lo sento) il cuore della gioventú, ecc.”».
Piú oltre scrive: «E non parlerei
mica sempre di simili questioni: parlerei d’arte e di letteratura e di scienza
e di morale, cercando sempre di sradicare i pregiudizi e di porre in faccia
alla moda l’Ewig e di contro all’oggi, l’ieri e il domani» senza
accorgersi dell’intima contraddizione in cui egli stesso si dibatteva, dato che
dell’Ewig avesse una concezione giusta.
In una lettera da Barga del 12
agosto 1900 accenna a un suo scritto, Nel carcere di Ginevra, a
proposito di Luccheni, che la «Tribuna» non pubblicò e che il Pascoli pubblicò
dopo: non ricordo questo scritto.
In una lettera dell’11 dicembre 1900 da Messina, firmata
«Giovanni Pascoli socialista-patriota messo all’indice dai giornali politici,
cioè finanzieri d’Italia», parla della sua collaborazione a un giornale locale
e pare che abbia iniziato la pubblicazione pensata come rubriche permanenti
della «Tribuna», ma che la «Tribuna» non volle pubblicare. (Vedere la
bibliografia del Pascoli. La rubrica «Nell’o Per l’Avvenire» in una lettera del
14 dicembre 1900 è detta essere stata iniziata nella «Tribuna» da Ojetti).
In una lettera senza data, ma che lo Zuppone-Strani dice
scritta da Barga sul finire del 1902 o nella prima metà del 1903, è scritto:
«Eppure il poeta ti ama là, ti vede là, ti sogna là, eppure il patriota e
l’“umano” (“socialista” non mi conviene piú essere chiamato e chiamarmi) si
esalta nel saperti investito d’una altissima missione d’utile o onore italico e
di civiltà. Ti chiamavo “negriero”, e tu vai a distruggere i negrieri» (il
Pascoli chiamava scherzosamente il Mercatelli «ras», «negriero», ecc.). E piú
oltre: «Perché a rifuggire dal socialismo politico dei nostri giorni aiuta me
non solo l’orrore al dispotismo della folla o del numero dei piú, ma
specialmente la necessità che io riconosco e idoleggio, d’una grande politica
coloniale».
La «Nuova Antologia» del 1° dicembre
1927 pubblica un articolo inedito del Pascoli, mandato nel 1897 alla «Tribuna»
e non pubblicato, perché al Mercatelli sembrò «troppo ardito per l’indole del
giornale» e «troppo compromettente per l’autore». L’articolo era intitolato Allecto
(«la Erinni
dell’odio implacabile e della vendetta interminabile») e prendeva lo spunto da
un telegramma del ministro francese Méline ai Lorenesi. Per il Pascoli la Francia e la Russia avrebbero fatto la
guerra alla Germania (quindi alla Triplice, quindi all’Italia) «tra poco o tra
molto, ma certo». Il Pascoli si rivolge alle madri. C’è un «profeta»: un «dolce
e fiero profeta ammantato d’una tunica rossa: gira per il mondo, tra i popoli
eletti e le genti, predicando un suo vangelo di pace. In suo nome girano e parlano
migliaia d’apostoli, dei quali tutti stupiscono e ammirano, perché ognuno li
ode parlare nella lingua sua. Essi hanno convertito il cuore stupidamente
feroce degli uomini». Questi uomini «dicono ai sinistri trombettieri della
distruzione: “No: non vogliamo: non potrete!”» ma «d’or innanzi ci
saranno nella proprietà e in genere nella convivenza sociale alcune
modificazioni». Che direbbero le madri? ecc.
«Questo profeta voleva essere il Marxismo.
Voleva e certo vorrebbe ancora, ma non può. Non è riuscito. L’atroce guerra che
si minaccia, che è il delitto piú enorme... non può essere stornata dal Marxismo.
Essa con tante vite e tanti tesori e tante idealità travolgerà anche questa
scuola, questo sistema, che si mostrò impotente. Per colpa sua? Io non sono mosso
da avversione a tale scuola e sistema; ma non posso fare a meno di riconoscere
che gli è mancato l’afflato, l’impeto, le lingue di fuoco. Ha voluto
essere una scuola e doveva essere una religione. Doveva parlare piú d’amore e
meno di plus-valore, piú di sacrifizio che di lotta, piú d’umanità che
di classi. Doveva diffondersi equabilmente da per tutto; doveva aver di mira
tutti i popoli, anche quelli piú guardati dalle forche e dai princípi
dell’89... Mi spiego».
Secondo il Pascoli «la Germania, e però la Triplice, ha, rispetto
alla Francia e alla Russia, un elemento di debolezza: il socialismo». Il
Pascoli «teme» che «si sia ottenuto» nel cuore degli operai tedeschi e italiani
di «far germinare... l’amore universale al posto dell’atavismo belluino e bellicoso».
Italiani e tedeschi sarebbero diventati agnelli, mentre francesi e russi
sarebbero rimasti leoni e tigri, ecc.
«Ma il Marxismo parlerà prima
dello squillo. Che dirà? Sentiremo. Saranno, credo, parole degne del gran momento.
Serviranno, spero, a rimediare ai danni che involontariamente esso ha recato o
è per recare alle nazioni che l’hanno accolto. Faranno, anzi, come da nuovo
fermento ideale, che valga a compensare l’impeto bestiale, negli animi nostri.
Oh! specialmente l’Italia lo merita! Non è essa la nazione povera, il
proletario tra i popoli? Per l’Italia ci dica una parola animosa. Dove non è la
traccia ciclopica del lavoro italiano? Quali ferrovie non furono costruite e
quali monti non furono forati e quali istmi non furono aperti, nella massima
parte, da braccia italiane? E il loro lavoro non arricchí né loro né la loro
nazione, poiché era al servizio del capitale straniero. Noi abbiamo esportato
ed esportiamo lavoratori: importammo ed importiamo capitalisti. Fuori e dentro
noi arricchiamo gli altri, rimanendo poveri noi. E quelli, che arricchimmo, ci
spregiano e ci chiamano pitocchi. Io non so dar ragione di questo fatto,
ma cosí è. So però che nel fatto non è peccato nostro d’indolenza o d’altro.
Come si può chiamare indolente il popolo piú faticante e industrioso e parco
del mondo? Io dico che è una ingiustizia». Attacca la Francia, «la sorella padrona»
e conclude: «O patria grande di lavoratori e d’eroi! poiché lo vogliono, poiché
anche la tua povertà fa ombra e la tua umiltà fa dispetto, accetta, quando che
sia, la sfida, e combatti disperatamente».
Il Pascoli aspirava a diventare il
leader del popolo italiano; ma come egli stesso dice in una lettera al Mercatelli,
citata in una nota precedente, il carattere «eroico» delle nuove generazioni si
rivolge al «socialismo», come quello delle generazioni precedenti si era
rivolto alla quistione nazionale: perciò il suo temperamento lo porta a farsi
banditore di un socialismo nazionale che gli sembra all’altezza dei tempi. Egli
è il creatore del concetto di nazione proletaria, e di altri concetti poi
svolti da E. Corradini e dai nazionalisti di origine sindacalista: questo
concetto in lui era molto antico. Egli si illudeva che questa sua ideologia
sarebbe stata favorita dalle classi dirigenti: ma la «Tribuna», nonostante la
stretta amicizia del Pascoli col Mercatelli, non gli dà le sue colonne e la sua
autorità. È interessante questo dissidio nello spirito pascoliano: voler essere
poeta epico e aedo popolare, mentre il suo temperamento era piuttosto
«intimista». Di qui anche un dissidio artistico che si manifesta nello sforzo,
nell’anfanamento, nella retorica, nella bruttezza di molti componimenti, in una
falsa ingenuità che diventa vera puerilità. Che il Pascoli tenesse molto a
questa sua funzione si vede da un brano di lettera al Mercatelli, in cui dice
che sarebbe stato lieto di essere incaricato delle scuole all’estero o delle
scuole coloniali, piú che di fare il professore di lettere all’Università, per
avere agio di fare appunto il profeta della missione d’Italia nel mondo. (Del
resto qualcosa di simile, pensò di sé stesso il D’Annunzio: vedi il volume Per
l’Italia degli Italiani).
Un documento dell’Amma per la quistione
Nord-Sud. Pubblicato dai giornali torinesi
del settembre 1920. È una circolare dell’Amma [Associazione dei metallurgici,
meccanici e affini] credo del 1916,
in cui si ordina alle industrie dipendenti di non
assumere operai che siano nati sotto Firenze.
(Cfr. con la politica seguita da Agnelli-Gualino,
specialmente nel 1925-26, di far venire a Torino circa 25.000 siciliani da
immettere nell’industria: case-caserme, disciplina interna, ecc.). Fallimento
dell’emigrazione e moltiplicazione dei reati commessi nelle campagne vicine da
questi siciliani che fuggivano le fabbriche: cronache vistose nei giornali che
non allentarono certo la credenza che i siciliani sono briganti.
La quistione speciale Piemonte-Sicilia è legata
all’intervento delle truppe piemontesi in Sicilia contro il cosí detto
brigantaggio dal ’60 al ’70. I soldati piemontesi riportarono la convinzione
nei loro paesi della barbarie siciliana e viceversa, i siciliani si persuasero
della ferocia piemontese. La letteratura amena (ma anche quella militare)
contribuí a rafforzare questi stati d’animo (cfr. la novella di De Amicis sul
soldato a cui viene mozzata la lingua dai briganti); nella letteratura
siciliana [si è] piú equanimi, perché si descrive anche la ferocia siciliana
(una novella di Pirandello: i briganti che giocano alle bocce coi teschi).
Ricordare il libro, mi pare di un certo D’Adamo (cfr. «Unità» al tempo della
guerra libica), nel quale si dice che siciliani e piemontesi devono far la
pace, poiché la ferocia degli uni compensa quella degli altri.
A proposito della letteratura
amena su Nord-Sud ricordare Caccia grossa, di Giulio Bechi:
caccia grossa vuol dire «caccia agli uomini». Giulio Bechi ebbe qualche mese di
fortezza; ma non per aver operato in Sardegna come in terra di conquista, ma
per essersi messo in una situazione per cui dei signori sardi l’avevano sfidato
a duello; la sfida dei sardi, poi, fu fatta non perché il Bechi aveva fatto
della Sardegna una jungla, ma perché aveva scritto che le donne sarde non sono
belle.
Ricordare un libriccino di ricordi di un ufficiale ligure
(stampato in una cittadina ligure, Oneglia o Porto Maurizio), che fu in
Sardegna nei fatti del 1906, dove i sardi sono detti «scimmie» o qualcosa di
simile e si parla del «genio della specie» che agita l’autore alla vista delle
donne.
Reazioni del Nord alle
pregiudiziali antimeridionali. 1° Episodio
del 1914 a
Torino: proposta a Salvemini di candidatura: la città del Nord elegge il
deputato per la campagna del Sud. Rifiuto, ma partecipazione di Salvemini alla
elezione come oratore. [2°] Episodio Giovane Sardegna del ’19 con annessi e
connessi. [3°] Brigata Sassari nel ’17 e nel ’19. [4°] Cooperativa Agnelli nel
’20 (suo significato «morale» dopo il settembre; motivazione del rifiuto). [5°]
Episodio del ’21 a Reggio Emilia (di questo Zibordi si guarda bene dal parlarne
nel suo opuscolo su Prampolini).
Sono questi fatti che colpirono Gobetti e quindi provocarono
l’atmosfera del libro di Dorso. (B. S.: agnelli e conigli. Miniere-Ferrovie).
Nord e Sud. La egemonia del Nord sarebbe stata «normale» e storicamente
benefica, se l’industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo
ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate.
Sarebbe allora stata questa egemonia l’espressione di una lotta tra il vecchio
e il nuovo, tra il progressivo e l’arretrato, tra il piú produttivo e il meno
produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale
(e di ampiezza nazionale) anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e
funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e
al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu cosí.
L’egemonia si presentò come permanente; il contrasto si presentò come una
condizione storica necessaria per un tempo indeterminato e quindi
apparentemente «perpetua» per l’esistenza di una industria settentrionale.
Emigrazione. Si fa il confronto tra Italia e Germania. È vero che lo
sviluppo industriale provocò, in un primo tempo, una forte emigrazione in
Germania, ma in un secondo tempo non solo la fece cessare, ma ne riassorbí una
parte e determinò una notevole immigrazione. Ciò sia detto per un puro
confronto meccanico dei due fenomeni emigratori italiano e tedesco: che se il
confronto viene approfondito, allora appaiono altre differenze essenziali. In
Germania l’industrialismo produsse in un primo tempo esuberanza di «quadri
industriali» stessi, e furono questi che emigrarono, in condizioni economiche
ben determinate: emigrò un certo capitale umano già qualificato e dotato,
insieme con una certa scorta di capitale finanziario. L’emigrazione tedesca era
il riflesso di una certa esuberanza di energia attiva capitalistica che
fecondava economie di altri paesi piú arretrati, o dello stesso livello, ma
scarso di uomini e di quadri direttivi. In Italia il fenomeno fu piú elementare
e passivo e, ciò che è fondamentale, non ebbe un punto di risoluzione, ma
continua anche oggi. Anche se praticamente l’emigrazione è diminuita e ha
cambiato di qualità, ciò che importa notare è che tale fatto non è funzione di
un assorbimento delle forze rimaste in ampliati quadri industriali, con un
tenore di vita conguagliatosi con quello dei paesi «normali». È un portato
della crisi mondiale, cioè dell’esistenza in tutti i paesi industriali di
armate di riserva nazionali superiori al normale economico. La funzione
italiana di produttrice di riserva operaia per tutto il mondo è finita, non
perché l’Italia abbia normalizzato il suo equilibrio demografico, ma perché
tutto il mondo ha sconcertato il proprio.
Intellettuali e operai. Altra differenza fondamentale è questa: l’emigrazione
tedesca fu organica, cioè insieme alla massa lavoratrice emigrarono elementi
organizzativi industriali. In Italia emigrò solo massa lavoratrice,
prevalentemente ancora informe sia industrialmente, sia intellettualmente. Gli
elementi corrispondenti intellettuali rimasero, e anch’essi informi, cioè non
modificati per nulla dall’industrialismo e dalla sua civiltà; si produsse una
formidabile disoccupazione di intellettuali, che provocò tutta una serie di
fenomeni di corruzione e di decomposizione politica e morale, con riflessi
economici non trascurabili. Lo stesso apparato statale, in tutte le sue
manifestazioni, ne fu intaccato assumendo un particolare carattere. Cosí i
contrasti si invelenivano anziché sparire e ognuna di queste manifestazioni
contribuiva ad approfondire i contrasti.
La quistione agraria. Nella «Nuova Antologia» del 16 maggio 1928 è pubblicato un
articolo di Nello Toscanelli, Il latifondo, che contiene già nella prima
pagina una perla come questa: «Da quando l’arte di scrivere ha permesso agli
Italiani di avere una storia (!), l’argomento della divisione delle terre è
sempre stato all’“ordine del giorno” dei comizi popolari. Infatti, in un paese,
nel quale si può viver bene per la maggior parte dell’anno all’aria aperta, il
diventar padrone, sia pur di un piccolo appezzamento di terra, rappresenta
l’aspirazione segreta del cittadino (!?), convinto di poter trovare le piú
facili gioie ed una fonte perenne di prodotti nei campi, da lui visti soltanto
nel rigoglio primaverile delle messi o nell’epoca dell’allegra vendemmia. E, in
minor grado (!?), la dolce visione della proprietà terriera scuote anche (!) il
campagnolo, che pur sa (!) le lentezze e le disillusioni dell’agricoltura».
(Questo Nello Toscanelli è un tipo bislacco come Loria).
Secondo il Toscanelli la formula: «La terra ai contadini» fu
presentata nel 1913 in
un programma elettorale dall’onorevole Aurelio Drago. (Ripresa durante la
guerra, nel 1917, da un presidente del Consiglio e divulgata nel «Resto del
Carlino» dal senatore Tanari). L’articolo del Toscanelli è una verbosa
scorribanda giornalistica senza alcun valore. (Contro la riforma agraria,
naturalmente).
Il Toscanelli, nel suo articolo,
aveva accennato molto cortesemente al fatto che nel 1917 il senatore Tanari
aveva illustrato la formula «La terra ai contadini», per dire che essa
non faceva piú paura a nessuno, se un noto conservatore come il Tanari e un
Presidente del Consiglio (chi è stato? Orlando? o si riferisce a Nitti che
diventò piú tardi presidente e allora era ministro del Tesoro?) la propugnavano
e illustravano. Ma nel 1928 il Tanari si è fortemente adombrato e ha avuto
paura che qualcuno credesse essere egli stato, in un qualsiasi momento, un
Ravachol (sic) della proprietà.
Nella «Nuova Antologia» del 1°
giugno 1928 è pubblicata una Lettera al direttore della «Nuova Antologia»,
in cui il Tanari si giustifica, cercando di spiegare e di attenuare il suo
atteggiamento del 1917: «Tengo a dichiarare che in un articolo: La terra ai
contadini? (con tanto di punto interrogativo), e successivamente in un mio
studio pubblicato Sulla quistione agraria, non intesi illustrare proprio
nulla! Ecco invece come stanno le cose. Ero piuttosto (sic) al corrente di
ciò che si prometteva in trincea ai contadini, e quando mi accorsi che la
divisione della terra diventava programma di dopoguerra (in corsivo
dall’autore) mi pare fosse venuto il tempo di convogliarla nei suoi argini; onde
difendere al possibile il principio di proprietà, che io ritenevo... (ecc.
ecc.). In qual modo raggiungere questo intento? Erano tempi nei quali con il
suffragio sempre piú allargato, con i Comuni presi d’assalto dal socialismo
(nel 1917?!!), nei Consigli Comunali su dieci consiglieri vi erano forse due
amministratori che pagavano tasse (tasse dirette, vuol dire, ma quelle
indirette, tra cui il dazio sul grano a beneficio dei vari Tanari?) mentre
altri otto, nullatenenti, le mettevano (cioè cercavano di impedire che le
amministrazioni, come avrebbero voluto i vari Tanari, vivessero solo con le
imposte indirette). Questo numero esiguo di abbienti di fronte ai non abbienti
sottostava alla teoria socialcomunista del cosí detto “carciofo” (la teoria, a
dire il vero, è molto piú antica, è precisamente la teoria della politica
piemontese nell’unificazione italiana e il Tanari commette un delitto di lesa
maestà affermando che si tratta di una teoria socialcomunista, e nel 1917, per
giunta); metter cioè sempre piú tasse a carico di coloro che possedevano, e
piano piano, foglia per foglia, giungere alla espropriazione. In alcuni Comuni
ci si era quasi arrivati (!?). Cosa mi venne in mente allora?... In
Francia, pensavo, sopra una popolazione di 40 milioni di abitanti vi erano
nell’anteguerra quattro milioni di proprietari: in Italia sopra 35 milioni non
eravamo che un milione e mezzo. Evidentemente in pochi, per difendersi con
l’aria che tirava in quei tempi! (“In quei tempi” era poi il 1917!). Ed allora
azzardai questa idea veramente “rivoluzionaria”: “Se venisse una legge che
facilitasse non coattivamente (notate bene), ma liberamente il trapasso della
media e grande proprietà assenteista (in corsivo dall’autore) nei
coltivatori diretti del suolo, quando risultassero tecnicamente, moralmente e
finanziariamente idonei, pagando la terra, si noti bene, (in
corsivo dall’a.), con obbligazioni garantite in parte dal reddito della nuova
proprietà ed in parte dallo Stato, io non sarei stato contrario (come, Dio me
lo perdoni, non lo sono neanche ora) ad una simile legge”. Non l’avessi mai
detto! Socialisti piú evoluti e intelligenti capirono benissimo dove andavo a
vulnerarli e me lo dissero. Altri meno onesti tolsero al mio articolo il punto
interrogativo; cosí che da una quistione posta dubitativamente ed
interrogativa, si passò ad una affermativa. Nell’altro campo dei proprietari,
parecchi che non mi avevano letto, o che non capivano nulla, mi considerarono
come un vero espropriatore; e cosí con la migliore intenzione in difesa del
principio di proprietà, bersagliato tra i due fuochi di opposti interessi mi
convinsi... che avevo ragione!» (corsivo dall’autore).
Questa lettera del senatore G. Tanari è notevole per la sua
ipocrisia politica e per le sue reticenze. Occorre notare: che il Tanari si
guarda bene dal dare le indicazioni precise dei suoi scritti, che risalgono
alla fine del ’17 o ai primi del ’18, mentre egli, molto abilmente, ma anche
con molta rozza slealtà, cerca di far credere del dopoguerra. Ciò che spinse il
Tanari a occuparsi della divisione della terra e a sostenerla esplicitamente
(naturalmente egli ha ragione quando sostiene che voleva rafforzare la classe
dei proprietari, ma non è questa la quistione) fu lo spavento che invase la
classe dirigente per le crisi militari del ’17 e che la spinse a fare larghe
promesse ai soldati contadini (cioè alla stragrande maggioranza dell’esercito).
Queste promesse non furono mantenute e oggi il marchese Tanari si «vergogna» di
essere stato debole, di avere avuto paura, di aver fatto della demagogia la piú
scellerata. In ciò consiste l’ipocrisia politica del Tanari e da ciò le sue
reticenze e i suoi tentativi di far apparire la sua iniziativa nell’atmosfera
del dopoguerra e non in quella del 1917-18. Bologna era allora zona di guerra e
il Tanari scrisse l’articolo nel «Resto del Carlino», cioè nel giornale che,
dopo il «Corriere», era il piú diffuso in trincea. Il Tanari esagera nel
descrivere la reazione contro di lui dei proprietari. Di fatto avvenne che il
suo primo articolo fu discusso molto serenamente dal senatore Bassini, grande
proprietario veneto, il quale mosse al Tanari obiezioni di carattere tecnico
(«come possono essere divise le aziende agricole industrializzate») non di
carattere politico. L’articolo del Tanari, quello del Bassini e la risposta del
Tanari (mi pare che ci sia stata una risposta «illustrativa») furono riportati
dalla «Perseveranza», giornale moderato e legato agli agrari lombardi, diretto
allora o dal conte Arrivabene o da Attilio Fontana, noto agrario. Il rimprovero
che i proprietari avranno certamente fatto al Tanari sarà stato quello di
averli compromessi pubblicamente di fronte ai soldati-contadini, di non aver
lasciato che solo degli irresponsabili facessero promesse che si sapeva non
sarebbero state mantenute. Ed è questo il rimprovero che anche oggi
continueranno a fargli, perché comprendono che non tutti hanno dimenticato come
le promesse fatte nel momento del pericolo non sono state mantenute. L’episodio
merita di essere esaminato e studiato perché molto educativo. (Su questo
episodio devo aver scritto una nota in altro posto, senza aver davanti la
lettera del Tanari: vedere e raggruppare).
Emigrazione e movimenti
intellettuali. Funzione dell’emigrazione
nel provocare nuove correnti e nuovi raggruppamenti intellettuali. Emigrazione
e Libia. Discorso di Ferri alla Camera nel 1911, dopo il suo ritorno
dall’America (la lotta di classe non spiega l’emigrazione). Passaggio di un
gruppo di sindacalisti al partito nazionalista. Concetto di nazione proletaria
in Enrico Corradini. Discorso di Pascoli La grande proletaria si è mossa.
Sindacalisti-nazionalisti di origine meridionale: Forges Davanzati-Maraviglia.
In generale molti sindacalisti [sono] intellettuali d’origine meridionale. Loro
passaggio episodico nelle città industriali (il ciclonismo): loro piú stabile
fortuna nelle regioni agricole, dal Novarese alla valle Padana e alle Puglie.
Movimenti agrari del decennio 1900-1910. La statistica dà in quel periodo un
aumento del 50% dei braccianti, a scapito specialmente della categoria degli
obbligati-schiavandari (statistica del 1911: cfr. prospetto dato dalla «Riforma
Sociale»). Nella valle del Po, ai sindacalisti succedono i riformisti piú
piatti, eccetto che a Parma e in vari altri centri, dove il sindacalismo si
unisce al movimento repubblicano, formando l’Unione del Lavoro dopo scissione
del ’14-15. Il passaggio di tanti contadini al bracciantato è legato al
movimento della cosidetta «Democrazia cristiana» («l’Azione» di Cacciaguerra
usciva a Cesena) e al modernismo: simpatie di questi movimenti per il
sindacalismo.
Bologna è il centro intellettuale di questi movimenti
ideologici legati alla popolazione rurale: il tipo originale di giornale che è
stato sempre «Il Resto del Carlino» non si potrebbe altrimenti spiegare
(Missiroli-Sorel ecc.).
Oriani e le classi della Romagna: il Romagnolo come tipo
originale italiano (molti tipi originali: Giulietti, ecc.) di passaggio tra
Nord e Sud.
[Il Partito socialista e la
nascita del principe Umberto.] Confrontare Il mistero dei «Ricordi
diplomatici» di Costantino Nigra di Delfino Orsi, nella «Nuova Antologia»
del 16 novembre 1928.
Articolo molto importante, sebbene
pieno di particolari sciocchezze – (alcune delle quali dimostrano a che punto
di esasperazione bestialmente acritica erano giunti molti borghesi italiani: a
p. 148 l’Orsi scrive: «Il 19 ottobre 1904, il conte Nigra era giunto a Torino
per recarsi il giorno dopo a Racconigi, dove il Re l’aveva chiamato per averlo
testimonio, insieme al Bianchieri, alla rogazione dell’atto di nascita del
Principe Ereditario. Da due giorni con un pretesto di sustrato economico, ma in
verità coll’intenzione (!!) di turbare l’esultanza della Nazione per il
faustissimo evento della Reggia, il Partito socialista messosi come al solito
vilmente a rimorchio dei comunisti (!! nel 1904!), aveva proclamato lo sciopero
generale in tutta Italia». Come le frasi fatte sostituiscono ogni forma
responsabile di pensiero fino a condurre alle sciocchezze piú esilaranti! Si
potrebbe collocare in rubrica in Passato e Presente) –, perché riguarda
di quei fatti che rimangono misteriosi: la sparizione dei Ricordi
diplomatici del Nigra che l’Orsi ha visto ultimati, corretti, rifiniti e
che sarebbero stati preziosissimi per la storia del Risorgimento. Collegare con
l’affare Bollea per l’epistolario di M. D’Azeglio, coi costituti Confalonieri,
ecc.
[La tendenza democratica gallicista.] L’elemento di
lotta di razza innestato nella lotta di classe in Francia dal Thierry ha avuto importanza
e quale, in Francia, nel determinare la sfumatura nazionalistica dei movimenti
delle classi subalterne? Il «gallicismo» operaio di Proudhon sarebbe da
studiare, come espressione piú compiuta della tendenza
democratico-gallicistica, rappresentata dai romanzi popolari di Eugenio Sue.
La
Bohème. Carlo Baudelaire. Confrontare
Charles Baudelaire, Les Fleurs du Mal et autres poèmes, Texte intégral
précédé d’une étude inédite d’Henri de Régnier («La Renaissance du Livre»,
Paris, s. d.). Nello studio del de Régnier (a pp. 14-15, a contare dalla pagina
stampata, perché nel testo della prefazione non c’è numerazione) si ricorda che
il Baudelaire partecipò attivamente ai fatti del febbraio e del giugno 1848.
«Fait étrange de contagion révolutionnaire, dans cette cervelle si
méticuleusement lucide», scrive il de Régnier. Il Baudelaire, con Champfleury,
fondò un giornale repubblicano in cui scrisse articoli violenti. Diresse poi un
giornale locale a Châteauroux. «Cette double campagne typographique (sic)
et la part qu’il prit au mouvement populaire suffirent, il faut le dire, à
guérir ce qu’il appela plus tard sa “folie” et que, dans Mon coeur mis à nu,
il cherche à s’expliquer à lui-même quand il écrit: “Mon ivresse de 1848. De quelle
nature était cette ivresse? Goût de la vengeance, plaisir naturel de la
démolition. Ivresse littéraire. Souvenirs de lectures”. Crise bizarre qui
transforma cet aristocrate d’idées et de goûts qu’était foncièrement Baudelaire
en un énergumène que nous décrit dans ses notes son camarade Le Valvasseur et
les mains “sentaient la poudre”, proclamant “l’apothéose de la banqueroute
sociale”; crise bizarre d’oú il rapporta une horreur sincère de la démocratie
mais qui était peut-être aussi un premier avertissement physiologique», ecc. e
un primo sintomo della nevrastenia del Baudelaire (ma perché non il contrario?
cioè perché la malattia del Baudelaire non avrebbe invece determinato il suo
distacco dal movimento popolare? ecc.).
In ogni caso vedere se questi scritti politici del
Baudelaire sono stati studiati e raccolti.
Laburismo inglese. L’arcivescovo di Canterbury,
primate della Chiesa anglicana, e il laburismo. Durante le elezioni
inglesi del 1931 il candidato laburista W. T. Collyer affermò in una riunione
che l’arcivescovo di Canterbury era uno dei sottoscrittori per il fondo del
Labour Party. Fu domandato all’arcivescovo se l’affermazione era esatta e il
suo segretario rispose: «L’Arcivescovo mi incarica di dire che egli è stato
membro sottoscrittore del Labour Party dal 1919 al 1925 o ’26, quando egli
trovò che un crescente disagio col movimento e con lo spirito e l’umore del
partito rendeva impossibile la continuazione di una tale affiliazione (membership)».
(Cfr. il «Manchester Guardian Weekly» del 30 ottobre 1931, p. 357).
Romanzi filosofici, utopie, ecc.
Controriforma e Utopie: desiderio di ricostruire la civiltà europea secondo un
piano razionale. Altra origine e forse la piú frequente: modo di esporre un
pensiero eterodosso, non conformista e ciò specialmente prima della Rivoluzione
francese. Dalle Utopie sarebbe derivata quindi la moda di attribuire a popoli
stranieri le istituzioni che si desidererebbero nel proprio paese, o di far la
critica delle supposte istituzioni di un popolo straniero per criticare quelle
del proprio paese. Cosí dalle Utopie sarebbe nata anche la moda di esaltare i
popoli primitivi, selvaggi (il buon selvaggio) presunti essere piú vicini alla
natura. (Ciò si ripeterebbe nell’esaltazione del «contadino», idealizzato, da
parte dei movimenti populistici). Tutta questa letteratura ha avuto non piccola
importanza nella storia della diffusione delle opinioni politico-sociali fra
determinate masse e quindi nella storia della cultura.
Si potrebbe osservare che questa letteratura politica
«romanzata» reagisce alla letteratura «cavalleresca» in decadenza (Don
Chisciotte, Orlando Furioso, Utopia di Tommaso Moro, Città
del sole) e indica quindi il passaggio dall’esaltazione di un tipo sociale
feudale all’esaltazione delle masse popolari genericamente, con tutti i suoi
bisogni elementari (nutrirsi, vestirsi, ripararsi, riprodursi) ai quali si
cerca di dare razionalmente una soddisfazione. Si trascura nello studio di
questi scritti di tener conto delle impressioni profonde che dovevano lasciare,
spesso per generazioni, le grandi carestie e le grandi pestilenze, che
decimavano e stremavano le grandi masse popolari: questi disastri elementari,
accanto ai fenomeni di morbosità religiosa, cioè di passività rassegnata,
destavano anche sentimenti critici «elementari», quindi spinte a una certa
attività che appunto trovavano la loro espressione in questa letteratura
utopistica, anche parecchie generazioni dopo che i disastri erano avvenuti,
ecc.
Fonti indirette. Le «Utopie» e i cosí detti «romanzi filosofici».
Sono stati studiati per la storia dello sviluppo della critica politica, ma
un aspetto dei piú interessanti da vedere è il loro riflettere
inconsapevolmente le aspirazioni piú elementari e profonde dei gruppi sociali
subalterni, anche dei piú bassi, sia pure attraverso il cervello di
intellettuali dominati da altre preoccupazioni. Questo genere di pubblicazioni
è sterminato, se si tien conto anche dei libri che hanno nessuna importanza
letteraria e artistica, cioè se si parte dal punto di vista che si tratta di un
fenomeno sociale. Si pone perciò il primo problema: la pubblicazione in massa
(relativa) di tale letteratura, coincide con determinati periodi storici, con i
sintomi di profondi rivolgimenti politico-sociali? Si può dire che essa è come
un insieme di cahiers de doléance indeterminati e generici, e di un tipo
particolare? Intanto è anche da osservare che una parte di questa letteratura
esprime gli interessi dei gruppi dominanti o spodestati e ha carattere retrivo
e forcaiolo. Sarebbe interessante compilare un elenco di questi libri, «utopie»
propriamente dette, romanzi cosí detti filosofici, libri che attribuiscono a
paesi lontani e poco conosciuti ma esistenti, determinate usanze e istituzioni
che si vogliono contrapporre a quelle del proprio paese. L’Utopia di T.
Moro, la Nuova
Atlantide di Bacone, l’Isola dei piaceri e la Salento di
Fénelon (ma anche il Telemaco), i Viaggi di Gulliver dello Swift,
ecc. Di carattere retrivo in Italia sono da ricordare brani incompiuti di
Federico De Roberto e di Vittorio Imbriani (Naufragazia, frammento di
romanzo inedito, con un’avvertenza di Gino Doria, nella «Nuova Antologia» del
1° agosto 1934).
2) In un articolo di Giuseppe Gabrieli su Federico Cesi
linceo, nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1930, si afferma un nesso
storico-ideologico tra la
Controriforma (che, secondo il Gabrieli, contrappose
all’individualismo, acuito dall’Umanesimo e sbrigliato dal Protestantesimo, lo
spirito romano (!) di collegialità, di disciplina, di corporazione, di gerarchia,
per la ricostruzione (!) della società), le Accademie (come quella dei Lincei,
tentata dal Cesi, cioè il lavoro collegiale degli scienziati, di tipo ben
diverso da quello dei centri universitari, rimasti medioevali nei metodi e
nelle forme) e le idee e le audacie delle grandi teorie, delle riforme
palingenetiche e delle ricostruzioni utopistiche dell’umana convivenza (la Città del Sole,
la Nuova Atlantide,
ecc.).
In questo nesso c’è troppo di stiracchiato, di unilaterale,
di meccanico e di superficiale. Si può sostenere, a maggior ragione, che le
Utopie piú famose sono nate nei paesi protestantici e che, anche nei paesi
della Controriforma, le Utopie sono piuttosto una manifestazione, la sola
possibile e in certe forme, dello spirito «moderno» essenzialmente contrario
alla Controriforma (tutta l’opera di Campanella è un documento di questo lavoro
«subdolo» di scalzare dall’interno la Controriforma, la quale, del resto, come tutte le
restaurazioni, non fu un blocco omogeneo, ma una combinazione sostanziale, se
non formale, tra il vecchio e il nuovo). Le Utopie sono dovute a singoli
intellettuali, che formalmente si riattaccano al razionalismo socratico della Repubblica
di Platone e che sostanzialmente riflettono, molto deformate, le condizioni
di instabilità e di ribellione latente delle grandi masse popolari dell’epoca;
sono, in fondo, manifesti politici di intellettuali, che vogliono raggiungere
l’ottimo Stato. Bisogna tener conto inoltre delle scoperte scientifiche del
tempo e del razionalismo scientifista, che ebbe le sue prime manifestazioni
proprio nel periodo della Controriforma. Anche il Principe del
Machiavelli fu a suo modo un’Utopia (cfr. in proposito alcune note in altro
quaderno). Si può dire che proprio l’Umanesimo, cioè un certo individualismo,
fu il terreno propizio al nascere delle Utopie, e delle costruzioni
politico-filosofiche: la Chiesa,
con la Controriforma,
si staccò definitivamente dalle masse degli «umili» per servire i «potenti»;
singoli intellettuali tentarono di trovare, attraverso le Utopie, una soluzione
di una serie dei problemi vitali degli umili, cioè cercarono un nesso tra
intellettuali e popolo; essi sono da ritenere pertanto i primi precursori
storici dei Giacobini e della Rivoluzione francese, cioè dell’evento che pose
fine alla Controriforma e diffuse l’eresia liberale, ben piú efficace contro la Chiesa di quella
protestantica.
3) Articolo di Ezio Chiorboli nella «Nuova Antologia» del 1°
maggio 1928 su Anton Francesco Doni: profilo interessante su questo
pubblicista, popolarissimo al suo tempo, nel Cinquecento, spiritoso, caustico,
di spiriti moderni. Il Doni si occupò di infiniti problemi di ogni genere,
precorrendo molte innovazioni scientifiche. Di tendenze che oggi si direbbero
materialistiche (volgari): accenna all’importanza dell’angolo facciale e ai
segni specifici della delinquenza due secoli prima del Camper (Pietro,
olandese, 1722-1789) e due secoli e mezzo prima del Lavater (Gian Gaspare,
svizzero, nato a Zurigo, 1741-1801) e del Gall (Francesco Giuseppe, tedesco, 1758-1828)
parlò delle funzioni dell’intelletto e delle parti del cervello ad esse
deputate. Scrisse una Utopia nel Mondo pazzo o savio – «immaginosa
ricostruzione sociale che si pinge di molte delle iridescenze e delle ansie
onde s’è arroventato il socialismo odierno», – che forse tolse dall’Utopia del
Moro. Conobbe il libro del Moro e lo pubblicò egli stesso nella volgarizzazione
del Lando. «Pure l’immaginazione non è piú la medesima, come la medesima non è
di Platone nella Repubblica né d’altri quali si fossero, oscuri o
ignoti; ché egli se la compí, se la rimutò, se la rifoggiò a sua posta, sí che
n’ha già avvivata un’altra, sua, proprio sua, della quale tanto è preso che e
nei Marmi e via via in piú opere e opuscoli esce or in questo e or in
quel particolare, in questo o quel sentimento». Per la bibliografia del Doni
confrontare l’edizione dei Marmi curata dal Chiorboli negli «Scrittori
d’Italia» del Laterza e l’antologia del Doni pubblicata nelle «Piú belle
pagine» del Treves.
4) La
Tempesta di Shakespeare (l’opposizione di Calibano
e Prospero, ecc.; carattere utopistico dei discorsi di Gonzalo). Confrontare
Achille Loria, Pensieri e soggetti economici in Shakespeare, nella
«Nuova Antologia» del 1° agosto 1928, che può essere utilizzato come prima
scelta dei brani shakespeariani di carattere politico-sociale e come documento
indiretto del modo di pensare dei popolani del tempo. A proposito della Tempesta
sono da vedere il Calibano e l’Eau de Jouvence del Renan.
In questa serie di ricerche dovrà entrare la quistione del
governo dei gesuiti nel Paraguay e della letteratura che suscitò.
Il Muratori scrisse: Il
Cristianesimo felice nelle Missioni dei Padri della Compagnia di Gesú.
Nelle storie della Compagnia di Gesú si potrà trovare tutta la bibliografia in
proposito.
La «Colonia di S. Leucio» istituita dai Borboni e di cui il
Colletta parla con tanta simpatia, non sarebbe l’ultimo fiotto della popolarità
dell’amministrazione dei gesuiti nel Paraguay?
Cosa pensano i giovani? Nell’«Italia Letteraria» del 22 dicembre 1929 M. Missiroli (Filosofia
della Rivoluzione) parla dei lavori che il prof. Giorgio Del Vecchio fa
fare ai suoi allievi dell’Università di Roma. Nella «Rivista internazionale di
filosofia del diritto» uscita nel novembre 1929 sono pubblicati sotto il
titolo Esercitazioni di filosofia del diritto questi lavori che nel
’28-29 ebbero per tema «la filosofia della Rivoluzione». Nota il Missiroli che
la maggioranza di questi giovani è orientata verso le dottrine dello
storicismo, sebbene non manchino assertori del tradizionale spiritualismo e
anche reminiscenze dell’antico diritto naturale. Nessuna traccia di positivismo
e di individualismo: i principî d’autorità gagliardamente affermati. I brani
riportati dal Missiroli sono veramente interessanti e la raccolta potrebbe
servire come dimostrazione della crisi intellettuale che, secondo me, non può
non sboccare in una ripresa del materialismo storico (gli elementi per
dimostrare come il materialismo storico sia penetrato profondamente nella
cultura moderna sono abbondanti in questi esercizi).
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