La quistione della
lingua e le classi intellettuali italiane.
Per lo sviluppo del concetto che l'Italia realizza il paradosso di un paese
giovanissimo e vecchissimo nello stesso tempo (come Lao-Tse che nasce a
ottant’anni).
I rapporti tra gli
intellettuali e il popolo-nazione studiati sotto l'aspetto della lingua scritta
dagli intellettuali e usata nei loro rapporti e sotto l'aspetto della funzione
avuta dagli intellettuali italiani nella Cosmopoli medioevale per il fatto che
il Papato aveva sede in Italia (l'uso del latino come lingua dotta è legato al
cosmopolitismo cattolico).
Latino letterario e latino
volgare. Dal latino volgare si sviluppano i dialetti neolatini non solo in
Italia ma in tutta l'area europea romanizzata: il latino letterario si
cristallizza nel latino dei dotti, degli intellettuali, il cosí detto mediolatino
(cfr. l'articolo di Filippo Ermini sulla «Nuova Antologia» del 16
maggio 1928), che non può essere in nessun modo paragonato a una lingua
parlata, nazionale, storicamente vivente, quantunque non sia neppure da
confondersi con un gergo o con una lingua artificiale come l'esperanto. In ogni
modo c'è una frattura tra il popolo e gli intellettuali, tra il popolo e la
cultura. (Anche) i libri religiosi sono scritti in mediolatino, sicché anche le
discussioni religiose sfuggono al popolo, quantunque la religione sia
l'elemento culturale prevalente: della religione il popolo vede i riti
e sente le prediche esortative, ma non può seguire le discussioni e
gli sviluppi ideologici che sono monopolio di una casta.
I volgari sono scritti
quando il popolo riprende importanza: il giuramento di Strasburgo (dopo la
battaglia di Fontaneto tra i successori di Carlo Magno) è rimasto perché i
soldati non potevano giurare in una lingua sconosciuta, senza togliere validità
al giuramento. Anche in Italia le prime tracce di volgare sono giuramenti o
attestazioni di testimoni del popolo per stabilire la proprietà dei fondi di
convento (Montecassino). In ogni modo si può dire che in Italia dal 600 d. C.,
quando si può presumere che il popolo non comprendesse piú il latino dei dotti,
fino al 1250, quando incomincia la fioritura del volgare, cioè per piú di 600
anni, il popolo non comprendesse i libri e non potesse partecipare al mondo
della cultura. Il fiorire dei Comuni dà sviluppo ai volgari e l'egemonia
intellettuale di Firenze dà una unità al volgare, cioè crea un volgare
illustre. Ma cos'è questo volgare illustre? È il fiorentino elaborato dagli
intellettuali della vecchia tradizione: è il fiorentino di vocabolario e
anche di fonetica, ma è un latino di sintassi. D'altronde la
vittoria del volgare sul latino non era facile: i dotti italiani, eccettuati i
poeti e gli artisti in generale, scrivevano per l'Europa cristiana e non per
l'Italia, erano una concentrazione di intellettuali cosmopoliti e non
nazionali. La caduta dei Comuni e l'avvento del Principato, la creazione di una
casta di governo staccata dal popolo, cristallizza questo volgare, allo stesso
modo che si era cristallizzato il latino letterario. L'italiano è di nuovo una
lingua scritta e non parlata, dei dotti e non della nazione. Ci sono in Italia
due lingue dotte, il latino e l'italiano, e questo finisce con l'avere il sopravvento,
e col trionfare completamente nel secolo XIX col distacco degli intellettuali
laici da quelli ecclesiastici (gli ecclesiastici continuano anche oggi a
scrivere libri in latino, ma oggi anche il Vaticano usa sempre piú l'italiano
quando tratta di cose italiane e cosí finirà col fare per gli altri paesi,
coerentemente alla sua attuale politica delle nazionalità). In ogni modo mi
pare sia da fissare questo punto: che la cristallizzazione del volgare illustre
non può essere staccata dalla tradizione del mediolatino e rappresenta un
fenomeno analogo. Dopo una breve parentesi (libertà comunali) in cui c'è una
fioritura di intellettuali usciti dalle classi popolari (borghesi) c'è un
riassorbimento della funzione intellettuale nella casta tradizionale, in cui i
singoli elementi sono di origine popolare, ma in cui prevale in essi il
carattere di casta sull'origine. Non è cioè tutto uno strato della popolazione
che arrivando al potere crea i suoi intellettuali (ciò è avvenuto nel Trecento)
ma è un organismo tradizionalmente selezionato che assimila nei suoi quadri
singoli individui (l'esempio tipico di ciò è dato dall'organizzazione
ecclesiastica).
Di altri elementi occorre
tener conto in un'analisi compiuta e credo che per molte quistioni la retorica
nazionale del secolo scorso e i pregiudizi da essa incarnati non abbiano
neanche spinto a fare le ricerche preliminari. Cosí quale fu l'area esatta
della diffusione del toscano? A Venezia, per esempio, secondo me, fu introdotto
già l'italiano elaborato dai dotti sullo schema latino e non ebbe mai entratura
il fiorentino originario, nel senso che i mercanti fiorentini non fecero
sentire la viva voce fiorentina come a Roma e a Napoli, per esempio: la lingua
di governo continuò a essere il veneziano. Cosí per altri centri (Genova,
credo). Una storia della lingua italiana non esiste ancora in questo senso: la
grammatica storica non è ancora ciò, anzi. Per la lingua francese esistono di
queste storie (quella del Brunot – e del Littré – mi pare sia del tipo che io
penso, ma non ricordo). Mi pare che, intesa la lingua come elemento della
cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della
«nazionalità» e «popolarità» degli intellettuali, questo studio non sia ozioso
e puramente erudito.
Nel suo articolo,
interessante come informazione dell'importanza che ha assunto lo studio del
mediolatino (questa espressione, che dovrebbe significare latino medioevale,
credo, mi pare abbastanza impropria e possibile causa di errori tra i non
specialisti) e a cui potrò rifarmi per una prima bibliografia, oltre che ad
altri scritti dell'Ermini che è un mediolatinista, l'Ermini afferma, che in
base alle ricerche, «alla teoria dei due mondi separati, del latino, che è in
mano dei soli dotti e si spegne, e del neolatino, che sorge e s'avviva, bisogna
sostituire la teoria dell'unità latina e della continuità perenne della
tradizione classica». Ciò può significare solo che la nuova cultura neolatina
sentiva fortemente gli influssi della precedente cultura, non che ci sia stata
una unità «popolare-nazionale»di cultura.
Ma forse per l'Ermini
mediolatino ha proprio il significato letterale, del latino che sta in mezzo
tra quello classico e quello umanistico, che indubbiamente segna un ritorno al
classico, mentre il mediolatino ha caratteri propri, inconfondibili: l'Ermini
fa incominciare il mediolatino verso la metà del secolo IV, quando avviene
l'alleanza tra la cultura (!) classica e la religione cristiana, quando «una
nobile pleiade di scrittori, uscendo dalle scuole di retorica e di poetica,
sente vivo il desiderio di congiungere la fede nuova alla bellezza (!) antica e
cosí dar vita alla prima poesia cristiana». (Mi pare giusto far risalire il
mediolatino al primo rigoglio di letteratura cristiana latina, ma il modo di
esporne la genesi mi pare vago e arbitrario – cfr. la Storia della
letteratura latina del Marchesi per questo punto –). [Il mediolatino
occuperebbe circa un millennio, tra la metà del IV secolo] e la fine del secolo
XIV, tra l'inizio dell'ispirazione cristiana e il diffondersi dell'umanesimo.
Questi mille anni sono dall'Ermini suddivisi cosí: prima età delle origini,
dalla morte di Costantino alla caduta dell'Impero d'Occidente (337-476); seconda
età, della letteratura barbarica, dal 476 al 799, cioè fino alla restaurazione
dell'Impero per opera di Carlo Magno, vero tempo di transizione nel continuo e
progressivo latinizzarsi dei barbari (esagerato: del formarsi uno strato di
intellettuali germanici che scrivono in latino); una terza età: del
risorgimento carolino, dal 799 all'888, alla morte di Carlo il Grosso; una
quarta, della letteratura feudale, dall'888 al 1000, fino al
pontificato di Silvestro II, quando il feudalesimo, lenta trasformazione di
ordinamenti preesistenti, apre un'èra nuova; una quinta, della letteratura
scolastica, che corre sino alla fine del secolo XII, quando il sapere si
raccoglie nelle grandi scuole e il pensiero e il metodo filosofico feconda
tutte le scienze, e una sesta, della letteratura erudita, dal
principio del XIII al termine del XIV e che accenna già alla decadenza.
Cfr. l'art. La politica
religiosa di Costantino Magno nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre
1929. Vi si parla di un libro di Jules Maurice, Constantin le Grand.
L'origine de la civilisation chrétienne, Parigi, Ed. Spes (s. d.), dove
sono esposti alcuni punti di vista interessanti sul primo contatto ufficiale
tra Impero e Cristianesimo, utili per questa rubrica (cause storiche per cui il
latino divenne lingua del cristianesimo occidentale dando luogo al
Mediolatino). Cfr. anche il «profilo» di Costantino del Salvatorelli (ed.
Formiggini).
Ettore Veo, in un articolo
della «Nuova Antologia», del 16 giugno 1928, Roma nei suoi fogli dialettali,
nota come il romanesco rimanesse a lungo costretto nell'ambito del volgo,
schiacciato dal latino. «Ma già in movimenti rivoluzionari il volgo, come
succede, cerca di passare – o lo si fa passare – in primo piano». Il Sacco di
Roma trova scrittori in dialetto, ma specialmente la Rivoluzione francese.
(Di qui comincia di fatto la fortuna «scritta» del romanesco e la fioritura
dialettale che culmina nel periodo liberale di Pio IX fino alla caduta della
Repubblica Romana). Nel '47-'49 il dialetto è arma dei liberali, dopo il '70
dei clericali.
Latino ecclesiastico e volgare nel Medioevo.
«La predicazione in lingua volgare risale in Francia alle origini stesse della
lingua. Il latino era la lingua della Chiesa: cosí le prediche erano fatte in
latino ai chierici (cleres), ai frati, anche alle monache. Ma per
i laici le prediche erano fatte in francese. Fin dal IX secolo, i concili di
Tours e di Reims ordinano ai preti d'istruire il popolo nella lingua del
popolo. Ciò era necessario per essere compresi. Nel secolo XII vi fu una
predicazione in volgare, attiva, vivace, potente, che trascinava grandi e
piccoli alla crociata, riempiva i monasteri, gettava in ginocchio e in tutti
gli eccessi della penitenza intere città. Dall'alto dei loro pulpiti, sulle
piazze, nei campi, i predicatori erano i direttori pubblici della coscienza degli
individui e delle folle; tutto e tutti passano sotto la loro aspra censura, e
dalle sfrontate acconciature delle donne nessuna parte segreta o visibile della
corruzione del secolo sconcertava l'audacia del loro pensiero o della loro
lingua» (Lanson, Histoire de la littérature Française, Hachette, 19.ème
éd., pp. 160-61). Il Lanson dà
questi dati bibliografici: Abbé L. Bourgain, La Chaire française
au XIIe siècle, Paris, 1879; Lecoy de la Marche, La Chaire française
au moyen âge, 2.ème éd., Paris, 1886; Langlois, L'éloquence
sacrée au moyen âge, «Revue des Deux Mondes», 1° gennaio 1893.
Per la formazione delle
classi intellettuali italiane nell'alto Medioevo bisogna tener conto oltre che della lingua (quistione del
Mediolatino) anche e specialmente del diritto. Caduta del diritto romano dopo
le invasioni barbariche e sua riduzione a diritto personale e consuetudinario
in confronto del diritto longobardo; emersione del diritto canonico che da
diritto particolare, di gruppo, assurge a diritto statale; rinascita del
diritto romano e sua espansione per mezzo delle Università. Questi fenomeni non
avvengono di colpo e simultaneamente ma sono legati allo sviluppo storico
generale (fusione dei barbari con le popolazioni locali, ecc.). Lo sviluppo del
diritto canonico e l'importanza che esso assume nell'economia giuridica delle
nuove formazioni statali, il formarsi della mentalità imperiale-cosmopolita
medioevale, lo sviluppo del diritto romano adattato e interpretato per le nuove
forme di vita dànno luogo al nascere e allo stratificarsi degli intellettuali
italiani cosmopoliti.
C'è un periodo, quello
dell'egemonia del diritto germanico, in cui però il legame tra il vecchio e il
nuovo rimane quasi unicamente la lingua, il Mediolatino. Il problema di questa
interruzione ha interessato la scienza e, cosa importante, ha interessato anche
intellettuali come il Manzoni (vedi suoi scritti sui rapporti tra romani e
longobardi a proposito dell'Adelchi): cioè ha interessato nel principio del
secolo XIX quelli che si preoccupavano della continuità della tradizione
italiana dall'antica Roma in poi per costituire la nuova coscienza nazionale.
Sull'argomento generale
dell'oscuramento del diritto romano e sua rinascita e dell'emergere del diritto
canonico cfr. I «due diritti» e il loro odierno insegnamento in Italia
di Francesco Brandileone («Nuova Antologia» del 16 luglio 1928) per
avere alcune idee generali, ma vedere, naturalmente le grandi storie del
diritto.
Schema estratto dal saggio
del Brandileone:
Nelle scuole dell'Impero
Romano a Roma, a Costantinopoli, a Berito, si insegnava solo il diritto romano
nelle due positiones di jus publicum e di jus privatum;
nel jus publicum era compreso il jus sacrum pagano, finché il
paganesimo fu religione tanto dei sudditi che dello Stato. Comparso il
Cristianesimo e ordinatosi, nei secoli delle persecuzioni e delle tolleranze,
come società a sé, diversa dalla società politica, esso die' luogo [a] un jus
sacrum nuovo. Dopo che il Cristianesimo fu prima riconosciuto e poi elevato
dallo Stato a fede unica dell'Impero, il nuovo jus sacrum ebbe bensí
appoggi e riconoscimenti da parte del legislatore laico, ma non fu però
considerato come l'antico. Poiché il Cristianesimo si era separato dalla vita
sociale politica, si era staccato anche dal jus publicum e le scuole non
si occupavano del suo ordinamento; il nuovo jus sacrum formò la speciale
occupazione delle scuole tutte proprie della società religiosa (questo
fatto è molto importante nella storia dello Stato romano ed è ricco di gravi
conseguenze, perché inizia un dualismo di potestà che avrà lo sviluppo nel
Medioevo: ma il Brandileone non lo spiega: lo pone come una conseguenza logica
dell'originario distacco del Cristianesimo dalla società politica. Benissimo,
ma perché, diventato il Cristianesimo religione dello Stato come lo era stato
il paganesimo, non si ricostituí l'unità formale politico-religiosa? Questo è
il problema).
Durante i secoli dell'alto
Medioevo il nuovo jus sacrum, detto anche jus canonicum o ius
ecclesiasticum e il jus romanum furono insegnati in scuole diverse e
in scuole di diversa importanza numerica, di diffusione, di attività. Speciali
scuole romanistiche, sia che continuassero le antiche scuole sia che fossero
sorte allora, in Occidente, si incontrano solo in Italia; se anche fuori
d'Italia vi furono le scholae liberalium artium e se in esse (cosí come
nelle corrispondenti italiane) si impartirono nozioni elementari di diritto
laico, specialmente romano, l'attività spiegata fu povera cosa come è attestato
dalla scarsa, frammentaria, intermittente e di solito maldestra produzione da
esse uscita e giunta sino a noi. Invece le scuole ecclesiastiche, dedicate allo
studio e all'insegnamento dei dogmi della fede e insieme del diritto canonico,
furono una vera moltitudine, né solo in Italia, ma in tutti i paesi diventati
cristiani e cattolici. Ogni monastero e ogni chiesa cattedrale di qualche
importanza ebbe la propria scuola: testimonianza di questa attività la
ricchezza di collezioni canoniche senza interruzione dal VI all'XI secolo, in
Italia, in Africa, Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda. La
spiegazione di questo rigoglio del diritto canonico in confronto di quello
romano è legata al fatto che mentre il diritto romano, in quanto continuava a ricevere
applicazione in Occidente e in Italia, era degradato a diritto personale, ciò
non avveniva per il canonico.
Per il diritto romano,
l'essere diventato diritto personale volle dire essere messo in una posizione
inferiore a quella spettante alle leggi popolari o Volksrechte, vigenti
nel territorio dell'Impero d'Occidente, la cui conservazione e modificazione
spettavano non già al potere sovrano, regio o imperiale, o per lo meno non ad
esso solo, ma anche e principalmente alle assemblee dei popoli ai quali
appartenevano. Invece i sudditi romani dei regni germanici, e poi dell'Impero,
non furono considerati come un'unità a sé, ma come singoli individui, e quindi
non ebbero una particolare assemblea, autorizzata a manifestare la sua volontà
collettiva circa la conservazione e modificazione del proprio diritto
nazionale. Sicché fu ridotto il diritto romano a un puro diritto
consuetudinario.
Nell'Italia longobarda
principi e istituti romani furono accettati dai vincitori ma la posizione del
diritto romano non mutò.
La rinnovazione dell'Impero
con Carlo Magno non tolse il diritto romano dalla sua posizione d'inferiorità:
essa fu migliorata, ma solo tardi e per il concorso di altre cause: in
complesso continuò in Italia a rimanere diritto personale fino al secolo XI. Le
nuove leggi fatte dai nuovi imperatori, fino a tutto il secolo XI, non furono
aggiunte al Corpus giustinianeo, ma all'Editto longobardo, e quindi non
furono riguardate come diritto generale obbligatorio per tutti, ma come diritto
personale proprio dei viventi a legge longobarda.
Per il diritto canonico
invece la riduzione a diritto personale non avvenne, essendo il diritto di una
società diversa e distinta dalla società politica, l'appartenenza alla quale
non era basata sulla nazionalità: esso possedeva nei concilî e nei papi il suo
proprio potere legislativo. Esso però aveva una sfera di obbligatorietà
ristretta. Diventa obbligatorio o perché viene accettato spontaneamente o
perché fu accolto fra le leggi dello Stato.
La posizione del diritto
romano si venne modificando radicalmente in Italia a mano a mano che dopo
l'avvento degli Ottoni l'impero fu concepito piú chiaramente ed esplicitamente
come la continuazione dell'antico. Fu la scuola pavese che si rese interprete
di un tal fatto e proclamò la legge romana omnium generalis, preparando
l'ambiente in cui poté sorgere e fiorire la scuola di Bologna, e gli imperatori
svevi riguardarono il Corpus giustinianeo come il codice loro, al quale
fecero delle aggiunte. Questo riaffermarsi del diritto romano non è dovuto a
fattori personali: esso è legato al rifiorire dopo il Mille della vita
economica, dell'industria, del commercio, del traffico marittimo. Il diritto
germanico non si prestava a regolare giuridicamente la nuova materia e i nuovi
rapporti.
Anche il diritto canonico
subisce dopo il Mille un cambiamento.
Coi Carolingi alleati al
papato viene concepita la monarchia universale abbracciante tutta l'umanità,
diretta concordemente dall'Imperatore nel temporale e dal Papa nello
spirituale. Ma questa concezione non poteva delimitare a priori il campo
soggetto a ciascuna potestà e lasciava all'imperatore una larga via
d'intervento nelle faccende ecclesiastiche. Quando i fini dell'Impero, già
sotto gli stessi Carolingi e poi sempre piú in seguito, si mostrarono
discordanti da quelli della Chiesa e lo Stato mostrò di tendere
all'assorbimento della gerarchia ecclesiastica nello Stato, incominciò la lotta
che si chiuse al principio del secolo XII colla vittoria del Papato. Fu
proclamata la primazia dello spirituale (sole-luna) e la Chiesa riacquistò la
libertà della sua azione legislativa, ecc. ecc. Questa concezione teocratica fu
combattuta teoricamente e praticamente, ma tuttavia essa, nella sua forma
genuina o attenuata, rimase dominatrice per secoli e secoli. Cosí si ebbero due
tribunali, il sacramentale e il non sacramentale, e cosí i due diritti furono
accoppiati, utrumque ius, ecc.
Funzione cosmopolita della letteratura italiana. Ancora
del saggio di Augusto Rostagni su l'Autonomia della Letteratura romana,
pubblicato in 4 puntate nell'«Italia Letteraria» del 21 maggio 1933 e sgg.
Secondo il Rostagni la letteratura latina sorse al principio delle guerre
puniche, come causa ed effetto dell'unificazione d'Italia, come espressione
essenzialmente nazionale, «con l'istinto del progresso, della conquista, con
l'impulso delle piú alte e vigorose affermazioni». Concetto antistorico, perché
allora non si poteva parlare di fenomeno «nazionale», ma solo di romanesimo che
unifica giuridicamente l'Italia (e ancora un'Italia che non corrisponde a ciò
che oggi intendiamo per Italia, poiché era esclusa l'Alta Italia, che oggi ha
non poca importanza nel concetto d'Italia). Che il Rostagni abbia ragione di
parlare di «autonomia» della letteratura latina, cioè di sostenere che questa è
autonoma dalla letteratura greca, può accettarsi, – ma in realtà c'era piú
«nazionalità» nel mondo greco che in quello romano-italico. D'altronde anche
ammesso che con le prime guerre puniche qualcosa muti nei rapporti tra Roma e
l'Italia, che si abbia una maggiore unità anche territoriale, ciò non toglie
che questo periodo sia molto breve e abbia scarsa rilevanza letteraria: la
letteratura latina fiorisce dopo Cesare, con l'Impero, cioè proprio quando la
funzione dell'Italia diventa cosmopolita, quando non piú si pone il problema
del rapporto tra Roma e l'Italia, ma tra Roma-Italia e l'Impero. Non si può
parlare di nazionale senza il territoriale: in nessuno di questi periodi
l'elemento territoriale ha importanza che non sia meramente giuridico-militare,
cioè «statale» in senso governativo, senza contenuto etico-passionale.
La ricerca della formazione
storica degli intellettuali italiani porta cosí a risalire fino ai tempi
dell'Impero romano, quando l'Italia, per avere nel suo territorio Roma, diventa
il crogiolo delle classi colte di tutti i territori imperiali. Il personale
dirigente diventa sempre piú imperiale e sempre meno latino, diventa
cosmopolita: anche gli imperatori non sono latini, ecc.
C'è dunque una linea
unitaria nello sviluppo delle classi intellettuali italiane (operanti nel
territorio italiano) ma questa linea di sviluppo è tutt'altro che nazionale: il
fatto porta a uno squilibrio interno nella composizione della popolazione che
vive in Italia ecc.
Il problema di ciò che sono
gli intellettuali può essere mostrato in tutta la sua complessità attraverso
questa ricerca.
Diritto romano o diritto bizantino? Il
«diritto» romano consisteva essenzialmente in un metodo di creazione del diritto,
nella risoluzione continua della casistica giurisprudenziale. I bizantini
(Giustiniano) raccolsero la massa dei casi di diritto risolti dall'attività
giuridica concreta dei Romani, non come documentazione storica, ma come codice
ossificato e permanente. Questo passaggio da un «metodo» a un «codice»
permanente può anche assumersi come la fine di un'età, il passaggio da una
storia in continuo e rapido sviluppo, a una fase storica relativamente
stagnante. La rinascita del «diritto romano», cioè, della codificazione
bizantina del metodo romano di risolvere le quistioni di diritto, coincide con
l'affiorare di un gruppo sociale che vuole una «legislazione» permanente,
superiore agli arbitri dei magistrati (movimento che culmina nel
«costituzionalismo») perché solo in un quadro permanente di «concordia
discorde», di lotta entro una cornice legale che fissi i limiti dell'arbitrio
individuale, può sviluppare le forze implicite nella sua funzione storica.
[La cultura nell'alto
Medioevo.] Alto medioevo (fase culturale dell'avvento del Mediolatino).
Confrontare la Storia
della letteratura latina cristiana di A. G. Amatucci (Laterza, Bari). A pp.
343-44 l'Amatucci
scrivendo di Cassiodoro, dice: «... Senza scoprirvi nulla, ché non era talento
da far scoperte, ma dando uno sguardo al passato, in mezzo a cui ergevasi
gigantesca la figura di Gerolamo», Cassiodoro «affermò che la cultura classica,
la quale per lui voleva dire cultura romana, doveva essere il fondamento di
quella sacra, e questa avrebbe dovuto acquistarsi in pubbliche scuole». Papa
Agapito (535-36) avrebbe attuato questo programma se non ne avesse avuto
impedimento dalle guerre e dalle lotte di fazione che devastavano l'Italia.
Cassiodoro fece conoscere questo programma nei due libri di Istitutiones e
lo attuò nel «Vivarium», il cenobio da lui fondato presso Squillace.
Un altro punto da studiare
è l'importanza avuta dal monachesimo nella creazione del feudalesimo. Nel suo
volume San Benedetto e l'Italia del suo tempo (Laterza, Bari, pp.
170-71), Luigi Salvatorelli scrive: «Una comunità, e per giunta una comunità
religiosa, guidata dallo spirito benedettino, era un padrone assai piú umano
del proprietario singolo, col suo egoismo personale, il suo orgoglio di casta,
le tradizioni di abusi secolari. E il prestigio del monastero, anche prima di
concentrarsi in privilegi legali, proteggeva in una certa misura i coloni
contro la rapacità del fisco e le incursioni delle bande armate legali ed
illegali. Lontano dalle città in piena decadenza, in mezzo alle campagne corse
e spremute che minacciavano di tramutarsi in deserto, il monastero sorgeva,
nuovo nucleo sociale traente il suo essere dal nuovo principio cristiano, fuori
di ogni mescolanza col decrepito mondo che si ostinava a chiamarsi dal gran
nome di Roma. Cosí san Benedetto, senza proporselo direttamente, fece opera di
riforma sociale e di vera creazione. Ancor meno premeditata fu la sua opera di
cultura». Mi pare che in questo brano del Salvatorelli ci siano tutti o quasi
gli elementi fondamentali, negativi e positivi, per spiegare storicamente il
feudalismo.
Meno importante, ai fini
della mia ricerca, è la quistione dell'importanza di san Benedetto o di
Cassiodoro nell'innovazione culturale di questo periodo.
Su questo nesso di
quistioni oltre al Salvatorelli è da vedere il volumetto di Filippo Ermini Benedetto
da Norcia nei «Profili» di Formiggini, in cui bibliografia dell'argomento.
Secondo l'Ermini: «... le case benedettine diverranno veramente asilo del
sapere; e, piú che il castello, il monastero sarà il focolare d'ogni scienza.
Ivi la biblioteca conserverà ai posteri gli scritti degli autori classici e
cristiani... Il disegno di Benedetto si compie; l'orbis latinus,
spezzato dalla ferocia degli invasori, si ricompone in unità e s'inizia con
l'opera dell'ingegno e della mano, soprattutto dei suoi seguaci, la mirabile
civiltà del Medioevo».
Spunti di ricerca. La repubblica di Platone.
Quando si dice che Platone vagheggiava una «repubblica di filosofi» bisogna
intendere «storicamente» il termine di filosofi che oggi dovrebbe tradursi con
«intellettuali» (naturalmente Platone intendeva i «grandi intellettuali» che
erano d'altronde il tipo di intellettuale del tempo suo, oltre a dare
importanza al contenuto specifico dell'intellettualità, che in concreto potrebbe
dirsi di «religiosità»: gli intellettuali di governo cioè erano quei
determinati intellettuali piú vicini alla religione, la cui attività cioè aveva
un carattere di religiosità, intesa nel significato generale del tempo e
speciale di Platone, e perciò attività in certo senso «sociale», di elevazione
ed educazione e direzione intellettuale, quindi con funzione di egemonia della polis).
Si potrebbe perciò forse sostenere che l'«utopia» di Platone precorre il
feudalismo medioevale, con la funzione che in esso è propria della Chiesa e
degli ecclesiastici, categoria intellettuale di quella fase dello sviluppo
storico-sociale. L'avversione di Platone per gli «artisti» è da intendersi
pertanto come avversione alle attività spirituali «individualistiche» che tendono
al «particolare», quindi «areligiose», «asociali».
Gli intellettuali nell'Impero Romano. Il
mutamento della condizione della posizione sociale degli intellettuali a Roma
dal tempo della Repubblica all'Impero (da un regime aristocratico-corporativo a
un regime democratico-burocratico) è legato a Cesare che conferí la
cittadinanza ai medici e ai maestri delle arti liberali affinché abitassero piú
volentieri a Roma e altri vi fossero richiamati: «Omnesque medicinam Romae
professos et liberalium artium doctores, quo libentius et ipsi urbem incolerent
et coeteri appeterent civitate donavit» (Svetonio, Vita di Cesare,
XLII). Cesare si propose quindi: 1) di far stabilire a Roma gli intellettuali che
già vi si trovavano, creando cosí una permanente categoria di essi, perché
senza la permanenza non poteva crearsi un'organizzazione culturale. Ci sarà
stata precedentemente una fluttuazione che era necessario arrestare, ecc.; 2)
di attirare a Roma i migliori intellettuali di tutto l'Impero romano,
promovendo una centralizzazione di grande portata. Cosí ha inizio quella
categoria di intellettuali «imperiali» a Roma, che continuerà nel clero
cattolico e lascerà tante tracce in tutta la storia degli intellettuali
italiani, con la loro caratteristica di «cosmopolitismo» fino al '700.
[Origine
dei centri di cultura medioevale.] Mons. Francesco Lanzoni, Le Diocesi
d'Italia dalle origini al principio del secolo VII (anno 604), Studio
critico, Faenza, Stab. Graf. F. Lega, 1927, «Studi e Testi», n. 35, pp. XVI-1122, L. 125 (in appendice
un Excursus sui Santi africani venerati in Italia). Opera fondamentale
per lo studio sulla vita storica locale in Italia in questi secoli: risponde
alla domanda: come vennero formandosi i raggruppamenti culturali-religiosi
durante il tramonto dell'Impero romano e l'inizio del Medioevo? Evidentemente
questo raggrupparsi non può essere separato dalla vita economica e sociale e dà
indicazioni per la storia del nascere dei Comuni. Per l'origine delle città
mercantili. Un'importante sede vescovile non poteva mancare di certi servizi,
ecc. (vettovagliamento, difesa militare, ecc.) che determinavano un
raggruppamento di elementi laici intorno a quelli religiosi (questa origine
«religiosa» d'una serie di città medioevali, non è studiata dal Pirenne, almeno
nel libretto da me posseduto; vedere nella bibliografia delle sue opere
complete): la stessa scelta della sede vescovile è un'indicazione di valore
storico, perché sottintende una funzione organizzativa e centralizzatrice del
luogo scelto. Dal libro del Lanzoni sarà possibile ricostruire le quistioni piú
importanti di metodo nella critica di questa ricerca in parte di carattere
deduttivo e la bibliografia.
Sono
importanti anche gli studi del Duchesne sul cristianesimo primitivo (per
l'Italia: Les évêchés d'Italie et l'invasion lombarde, e Le sedi
episcopali dell'antico Ducato di Roma) e sulle antiche diocesi della
Gallia, e gli studi dello Harnack sulle origini cristiane, specialmente Die
Mission und Ausbreitung des Christentums. Oltre che per l'origine dei
centri di civiltà medioevali, tali ricerche sono interessanti per la storia
reale del Cristianesimo, naturalmente.
Monachesimo e regime
feudale. Sviluppo pratico della regola
benedettina e del principio «Ora et labora». Il «labora» era già sottomesso
all'«ora», cioè evidentemente lo scopo principale era il servizio divino. Ecco
che ai monaci-contadini si sostituiscono i coloni, perché i monaci possano in
ogni ora trovarsi nel convento per adempiere ai riti. I monaci nel convento
cambiano di «lavoro»; lavoro industriale (artigiano) e lavoro intellettuale
(che contiene una parte manuale, la copisteria). Il rapporto tra coloni e
convento è quello feudale, a concessioni livellarie, ed è legato oltre
all'elaborazione interna che avviene nel lavoro dei monaci, anche
all'ingrandirsi della proprietà fondiaria del monastero. Altro sviluppo è dato
dal sacerdozio: i monaci servono come sacerdoti il territorio circonvicino e la
loro specializzazione aumenta: sacerdoti, intellettuali di concetto, copisti,
operai industriali, artigiani. Il convento è la «corte» di un territorio
feudale, difeso piú che dalle armi, dal rispetto religioso, ecc. Esso riproduce
e sviluppa il regime della «villa» romana patrizia. Per il regime interno del
Monastero fu sviluppato e interpretato un principio della Regola, ove è detto
che nella elezione dell'abate debba prevalere il voto di coloro che si stimano
piú savi e prudenti e che del consiglio di costoro debba l'abate munirsi quando
debba decidere affari gravi, non tali tuttavia che convenga consultare l'intera
congregazione; vennero cosí distinguendosi i monaci sacerdoti, che si
dedicavano agli uffici corrispondenti al fine dell'istituzione, dagli altri che
continuavano ad attendere ai servizi della casa.
Sulla tradizione
nazionale italiana. Cfr. articolo di B.
Barbadoro nel «Marzocco» del 26 settembre 1926: a proposito della Seconda Lega
lombarda e della sua esaltazione come «primo conato per la indipendenza della
stirpe dalla straniera oppressione che prepara i fasti del Risorgimento», il
Barbadoro metteva in guardia contro questa interpretazione e osservava che «la
stessa fisonomia storica di Federico II è ben diversa da quella del Barbarossa,
ed altra è la politica italiana del secondo Svevo: padrone di quel Mezzogiorno
d'Italia, la cui storia era disgiunta da secoli da quella della restante
penisola, parve in un certo momento che la restaurazione dell'autorità
imperiale nel centro e nel settentrione portasse finalmente alla costituzione
di una forte monarchia nazionale».
Nel «Marzocco» del
16 dicembre 1928 il Barbadoro, in una breve nota, ricorda questa sua
affermazione a proposito di un ampio studio di Michelangelo Schipa pubblicato
nell'Archivio storico per le province napoletane, in cui lo
spunto è ampiamente dimostrato.
Questa corrente di studi è
molto interessante per comprendere la funzione storica dei Comuni e della prima
borghesia italiana che fu disgregatrice dell'unità esistente, senza sapere o
poter sostituire una nuova propria unità: il problema dell'unità territoriale,
non fu neanche posto o sospettato e questa fioritura borghese non ebbe seguito:
fu interrotta dalle invasioni straniere. Il problema è molto interessante dal
punto di vista del materialismo storico e mi pare possa collegarsi con quello
della funzione internazionale degli intellettuali italiani. Perché i nuclei
borghesi formatisi in Italia, che pure raggiunsero la completa autonomia
politica, non ebbero la stessa iniziativa degli Stati assoluti nella conquista
dell'America e nell'apertura di nuovi sbocchi? Si dice che un elemento della
decadenza delle repubbliche italiane è stata l'invasione turca che interruppe o
almeno disorganizzò il commercio col levante e lo spostarsi dell'asse storico
mondiale dal Mediterraneo all'Atlantico per la scoperta dell'America e la
circumnavigazione dell'Africa. Ma perché Cristoforo Colombo serví la Spagna e non una repubblica
italiana? Perché i grandi navigatori italiani servirono altri paesi? La ragione
di tutto questo è da ricercare in Italia stessa, e non nei turchi o in America.
La borghesia si sviluppò meglio, in questo periodo, con gli stati assoluti,
cioè con un potere indiretto che non avendo tutto il potere. Ecco il problema,
che deve essere collegato con quello degli intellettuali: i nuclei borghesi
italiani, di carattere comunale, furono in grado di elaborare una propria
categoria di intellettuali immediati, ma non di assimilare le categorie
tradizionali di intellettuali (specialmente il clero) che invece mantennero ed
accrebbero il loro carattere cosmopolitico. Mentre i gruppi borghesi non
italiani, attraverso lo Stato assoluto, ottennero questo scopo molto facilmente
poiché assorbirono gli stessi intellettuali italiani. Forse questa tradizione
storica spiega il carattere monarchico della borghesia moderna italiana e può
servire a comprendere meglio il Risorgimento.
Sviluppo dello spirito
borghese in Italia. Confrontare articolo Nel
centenario della morte di Albertino Mussato di Manlio Torquato Dazzi nella
«Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Secondo il Dazzi, il Mussato si
stacca dalla tradizione della storia teologica per iniziare la storia moderna o
umanistica piú di qualsiasi altro del suo tempo (vedere i trattati di storia
della storiografia, di B. Croce, del Lisio, del Fueter, del Balzani, ecc.);
[nel Mussato] appaiono le passioni e i motivi utilitari degli uomini come
motivi della storia. A questa trasformazione della concezione del mondo hanno
contribuito le lotte feroci delle fazioni comunali e dei primi signorotti. Lo
sviluppo può essere seguito fino al Machiavelli, al Guicciardini, a L. B.
Alberti. La
Controriforma soffoca lo sviluppo intellettuale. Mi pare che
in questo sviluppo si potrebbero distinguere due correnti principali. Una ha il
suo coronamento letterario nell'Alberti: essa rivolge l'attenzione a ciò che è
«particulare», al borghese come individuo che si sviluppa nella società civile
e che non concepisce società politica oltre l'ambito del suo «particulare»; è
legata al guelfismo, che si potrebbe chiamare un sindacalismo teorico
medioevale. È federalista senza centro federale. Per le quistioni intellettuali
si affida alla Chiesa, che è il centro federale di fatto per la sua egemonia
intellettuale e anche politica. È da studiare la costituzione reale dei Comuni,
cioè l'atteggiamento concreto che i rappresentanti prendevano verso il governo
comunale: il potere durava pochissimo (due mesi soli, spesso) e in questo tempo
i membri del governo erano sottoposti a clausura, senza donne; essi erano gente
molto rozza, che erano stimolati dagli interessi immediati della loro arte
(cfr. per la
Repubblica Fiorentina il libro di Alfredo Lensi sul Palazzo
della Signoria dove dovrebbero essere molti aneddoti su queste riunioni di
governo e sulla vita dei signori durante la clausura). L'altra corrente ha il
coronamento in Machiavelli e nell'impostazione del problema della Chiesa come
problema nazionale negativo. A questa corrente appartiene Dante, che è
avversario dell'anarchia comunale e feudale ma ne cerca una soluzione
semimedioevale; in ogni caso pone il problema della Chiesa come problema
internazionale e rileva la necessità di limitarne il potere e l'attività.
Questa corrente è ghibellina in senso largo. Dante è veramente una transizione:
c'è affermazione di laicismo ma ancora col linguaggio medioevale.
Su L. B. Alberti cfr. il libro di Paul-Henry Michel, Un
idéal humain au XVe siècle. La pensée de L. B. Alberti (1404-1472),
in 8°, pp. 649, Paris, Soc. Ed. «Les Belles Lettres», 1930. Analisi minuziosa del
pensiero di L. B. Alberti, ma, a quanto pare da qualche recensione, non sempre
esatta, ecc.
Edizione Utet del Novellino curata da Letterio
di Francia, il quale ha accertato che il nucleo originale della raccolta
sarebbe stato composto negli ultimi anni del secolo XIII da un borghese
ghibellino.
Ambedue i libri dovrebbero essere analizzati per la
ricerca già accennata del come sia riflesso nella letteratura il passaggio
dall'economia medioevale all'economia borghese dei Comuni e quindi alla caduta,
in Italia, dello spirito di intrapresa economica e alla restaurazione
cattolica.
Da un articolo di Nello
Tarchiani nel «Marzocco» del 3 aprile 1927: Un dimenticato interprete di
Michelangelo (Emilio Ollivier): «Per lui (Michelangelo) non esisteva che
l'arte. Papi, principi, repubbliche erano la stessa cosa, purché gli dessero
modo di operare; pur di fare, si sarebbe dato al Gran Turco, come una volta
minacciò; ed in ciò gli si avvicinava il Cellini». E non solo il Cellini: e
Leonardo? Ma perché ciò avvenne? E perché tali caratteri esistettero quasi solo
in Italia? Questo è il problema. Vedere nella vita di questi artisti come
risalti la loro anazionalità. E nel Machiavelli il nazionalismo era poi cosí
forte da superare l'«amore dell'arte per l'arte»? Una ricerca di questo genere
sarebbe molto interessante: il problema dello Stato italiano lo occupava piú
come «elemento nazionale» o come problema politico interessante in sé e per sé,
specialmente data la sua difficoltà e la grande storia passata dell'Italia?
Cultura italiana. Borghesia primitiva. Per lo
studio della formazione e del diffondersi dello spirito borghese in Italia
(lavoro tipo Groethuysen), cfr. anche i Sermoni di Franco Sacchetti
(vedi ciò che ne scrive il Croce nella «Critica» del marzo 1931, Il Boccaccio
e Franco Sacchetti).
Monsignor Della Casa. Nella puntata del suo studio La lirica del Cinquecento,
pubblicata nella «Critica» del novembre 1930, B. Croce scrive sul Galateo:
«... esso non ha niente di accademico e pesante ed è una serie di garbati
avvertimenti sul modo gradevole di comportarsi in società e uno di quei libri
iniziatori che L'Italia del Cinquecento dette al mondo moderno» (p. 410). È
esatto dire che sia un libro «iniziatore» dato al «mondo moderno»? Chi è piú
«iniziatore» al «mondo moderno», il Casa e il Castiglione o Leon Battista
Alberti? Chi si occupava dei rapporti fra cortigiani o chi dava consigli per
l'edificazione del tipo del borghese nella società civile? Tuttavia occorre
tener conto del Casa in questa ricerca ed è certamente giusto non considerarlo
solo «accademico e pesante» (ma in questo giudizio del «mondo moderno» non è
implicito un «distacco» – e non un rapporto di iniziazione – tra il Casa e il
mondo moderno?)
Il Casa scrisse altre
operette politiche, le orazioni e inoltre un trattatello in latino, De
officiis inter potentiores et tenuiores amicos, «intorno al rapporto che
corre tra gli amici potenti e inferiori, tra quelli che, stretti dal bisogno di
vivere e di avvantaggiarsi, si dànno a servire come cortigiani e coloro che li
impiegano; rapporto che egli giudica, qual è, di carattere utilitario e non
pretende convertirlo in legame regolato da una legge di giustizia, ma che si
argomenta di far accettare da entrambe le parti e introdurvi qualche lume di
bontà, con lo spiegare agli uni e agli altri la realtà delle loro rispettive
posizioni e il tatto che esse richiedono».
La poesia provenzale in Italia. È stata
pubblicata la raccolta completa delle Poesie provenzali storiche relative
all'Italia (Roma, 1931, nella serie delle Fonti dell'Istituto Storico
Italiano) per cura di Vincenzo De Bartholomaeis e ne dà un annunzio Mario
Pelaez nel «Marzocco» del 7 febbraio 1932. «Di circa 2600 poesie provenzali
giunte fino a noi, 400 rientrano nella Storia d'Italia, o perché trattano di
argomenti italiani, sebbene siano di poeti non mai venuti in Italia, o perché
composte da poeti provenzali che vi dimorarono, o infine perché scritte da
Italiani. Delle 400, la metà circa sono puramente amorose, le altre storiche, e
qual piú qual meno offrono testimonianze utili per la ricostruzione della vita
e in generale della Storia italiana dalla fine del secolo XII alla metà del
XIV. Duecento poesie di circa ottanta poeti». Questi trovatori, provenzali o
italiani, vivevano nelle corti feudali dell'Italia settentrionale, all'ombra
delle piccole Signorie e nei Comuni, partecipavano alla vita e alle lotte
locali, sostenevano gli interessi di questo o quel Signore, di questo o quel
Comune, con poesia di varia forma, di cui è ricca la lirica provenzale:
serventesi politici, morali, satirici, di crociata, di compianto, di consiglio;
canzoni, tenzoni, cobbole ecc. che apparendo via via e circolando negli
ambienti interessati, compivano la funzione che ha oggi l'articolo di fondo del
giornale. Il De Bartholomaeis ha cercato di datare queste poesie, cosa non
difficile per le allusioni che contengono; le ha corredate di tutti i sussidi
che ne agevolano la lettura, le ha tradotte. Di ogni trovatore è data una breve
informazione biografica. Per la lettura del testo originale è dato un glossario
delle voci meno facili a intendersi. Sulla poesia provenzale in Italia è da
vedere il volume di Giulio Bertoni Trovatori d'Italia.
Umanesimo e Rinascimento. Confrontare Luigi
Arezio, Rinascimento, Umanesimo e spirito moderno, «Nuova
Antologia» del 1° luglio 1930.
L'Arezio si occupa del libro di G. Toffanin, Che
cosa fu l'Umanesimo (Sansoni, Firenze, 1929), che appare, dai cenni
fattine, molto interessante per il mio argomento. Accennerò qualche spunto,
perché dovrò leggere il volume. (Il Voigt e il Burckhardt credettero che
l'Umanesimo fosse diretto contro la
Chiesa; il Pastor – sarà da leggere il suo volume sulla Storia
dei Papi dalla fine del Medioevo, che concerne l'Umanesimo – non crede che
l'Umanesimo fosse inizialmente diretto contro la Chiesa). Per il Toffanin,
il principio della irreligiosità o della nuova religione non è la
via maestra per entrare nel segreto degli umanisti; né vale parlare del loro
individualismo, perché «i presunti effetti della rivalutazione della
personalità umana» a opera di una cultura, sarebbero tanto piú sorprendenti in
un tempo rimasto a sua volta famoso per aver «allungata la distanza fra il
resto degli uomini e quelli di studio». Il fatto veramente caratteristico dell'Umanesimo
«resta quella passione per il mondo antico per cui, quasi d'improvviso, con una
lingua morta si tenta di soppiantarne una popolare e consacrata dal genio,
s'inventa, possiam dire, la scienza filologica, si rinnova gusto e cultura. Il
mondo pagano rinasce». Il Toffanin sostiene che non bisogna confondere
l'Umanesimo col progressivo risveglio posteriore all'anno Mille,
l'Umanesimo è un fatto essenzialmente italiano «indipendente da codesti fallaci
presagi» e ad esso attingeranno per farsi classici e colti la Francia e il mondo intero.
In un certo senso può chiamarsi eretica quella civiltà comunale del
Duecento, che apparve in una irruzione di sentimenti e pensieri raffinatissimi
in forme plebee, e «inizialmente eretico fu quell'impulso all'individualismo
anche se tra il popolo esso prese coscienza d'eresia meno di quanto a un primo
sguardo si sospetti». La letteratura volgare prorompente dal seno della civiltà
comunale e indipendente dal classicismo è indice d'una società «in cui il
lievito eretico fermentò»; lievito, che, se indeboliva nelle masse l'ossequio
all'autorità ecclesiastica, diventava nei pochi un aperto distacco dalla
«romanitas», caratteristico fra il Medioevo propriamente detto e l'Umanesimo.
Alcuni intellettuali sembrano consapevoli di questa discontinuità storica:
essi pretendono di essere colti senza leggere Virgilio, cioè senza i liberali
studi, il cui generale abbandono giustificherebbe, secondo il Boccaccio,
l'uso del volgare, anziché del latino, nella Divina Commedia. Massimo fra
questi intellettuali Guido Cavalcanti. In Dante «l'amore della lingua plebea,
germogliato da uno stato d'animo comunale e virtualmente eretico» dovette
contrastare con un concetto della sapienza quasi umanistico. «Caratterizza gli
umanisti la coscienza d'uno stacco senza rimedio tra uomo di cultura e folla:
ideali astratti sono per loro quelli della potestà imperiale e papale; reale
invece è la loro fede nella universalità culturale e nelle ragioni di essa». La Chiesa favorí il distacco
della cultura dal popolo cominciato col ritorno al latino, perché lo considerò
come sana reazione contro ogni mistica indisciplinatezza. L'Umanesimo, da Dante
a prima del Machiavelli, è una età che sta nettamente a sé, e, contrariamente a
quel che ne pensano alcuni, per il comune impulso antidemocratico e
antieretico ha una non superficiale affinità con la Scolastica. Cosí
il Toffanin nega che l'Umanesimo si trasfonda vitale nella Riforma, perché
questa, col suo distacco dalla romanità, con la rivincita ribelle dei volgari,
e con tante altre cose rinnova i palpiti della cultura comunale, fremente
eresia, contro la quale l'Umanesimo era sorto. Col finire dell'Umanesimo nasce
l'eresia e sono fuori dell'Umanesimo Machiavelli, Erasmo (?), Lutero, Giordano
Bruno, Cartesio, Giansenio.
Queste tesi del Toffanin spesso coincidono con le
note già da me fatte in altri quaderni. Solo che il Toffanin si mantiene sempre
nel campo culturale-letterario e non pone l'Umanesimo in connessione con i
fatti economici e politici che si svolgevano in Italia contemporaneamente:
passaggio ai principati e alle signorie, perdita dell'iniziativa borghese e
trasformazione dei borghesi in proprietari terrieri. L'Umanesimo fu un fatto
reazionario nella cultura perché tutta la società italiana stava diventando
reazionaria.
L'Arezio cerca di fare obiezioni al Toffanin, ma si
tratta di inezie e di superficialità. Che l'età comunale sia tutto un fermento
di eresie non pare accettabile all'Arezio che per eresia intende solo
l'averroismo e l'epicureismo. Ma il Comune era una eresia esso stesso perché
tendenzialmente doveva entrare in lotta col papato e rendersene indipendente.
Cosí non gli piace che il Toffanin ponga tutto l'Umanesimo come fedele al
cristianesimo, sebbene riconosca che anche gli scettici facevano ostentazione
di religiosità. La verità è che si trattò del primo fenomeno «clericale» nel
senso moderno, una Controriforma in anticipo (d'altronde era Controriforma in
rapporto all'età comunale). Essi si opponevano alla rottura dell'universalismo
medioevale e feudale che era implicito nel Comune e che fu soffocata in fasce,
ecc. L'Arezio segue le vecchie concezioni sull'Umanesimo e ripete le
affermazioni diventate classiche del Voigt, Burckhardt, del Rossi, De Nolhac,
Symonds, Jebb, ecc.
Rinascimento. Come si spiega che il Rinascimento Italiano ha trovato
studiosi e divulgatori numerosissimi all'estero e che non esista un libro
d'insieme scritto da un italiano. Mi pare che il Rinascimento sia la fase
culminante moderna della «funzione internazionale degli intellettuali
italiani», e che perciò esso non abbia avuto rispondenza nella coscienza
nazionale che è stata dominata e continua ad essere dominata dalla
Controriforma. Il Rinascimento è vivo nelle coscienze dove ha creato correnti
nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità, non dove è
stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è
diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca cioè.
[La
Controriforma e la scienza.] Il processo di
Galileo, di Giordano Bruno, ecc. e l'efficacia della Controriforma
nell'impedire lo sviluppo scientifico in Italia. Sviluppo delle scienze nei
paesi protestanti o dove la
Chiesa [era] meno immediatamente forte che in Italia. La Chiesa avrebbe contribuito
alla snazionalizzazione degli intellettuali italiani in due modi:
positivamente, come organismo universale che preparava personale a tutto il
mondo cattolico, e negativamente, costringendo ad emigrare quegli intellettuali
che non volevano sottomettersi alla disciplina controriformistica.
Cfr. l'accenno nei Ricordi di un vecchio
normalista di Girolamo Vitelli nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 1930:
la filologia classica in Italia per tre secoli (fino alla seconda metà del secolo
XIX) fu completamente trascurata: «Quando si conosca un po' la storia di questi
nostri studi, si sa anche che dal Rinascimento in poi, dopo gli italiani del
'400 (e anche sino alla fine del '500, con l'ultima grande scuola di Pier
Vettori), ne tennero successivamente l'egemonia, con tendenze piú o meno
diverse, i francesi, gli olandesi, gl'inglesi, i tedeschi». Perché questa
assenza degli italiani? Il Vitelli non la spiega altro che col «mercantilismo»,
ma chi piú mercantilista degli olandesi e degli inglesi? È curioso che proprio
le nazioni protestanti (e in Francia mi pare che gli Ètiennes fossero ugonotti)
mantengono lo studio del mondo antico in onore. Bisognerebbe vedere
l'organizzazione di questi studi in queste nazioni e paragonare coi centri di
studio in Italia. La
Controriforma ha influito? ecc.
[Cosmopolitismo letterario italiano del Settecento.]
Sull'Algarotti. Dall'articolo Nicolino e l'Algarotti di Carlo
Calcaterra, nel «Marzocco» del 29 maggio 1932: «Impedisce tuttora nell'animo di
molti un'equa valutazione degli scritti d'arte dell'Algarotti la considerazione
che egli fu il consigliere e il provveditore di Augusto III di Sassonia negli
acquisti per la galleria di Dresda, onde si rimprovera a lui di avere
impoverito l'Italia a beneficio di corti straniere. Ma giustamente è stato
detto dal Panzacchi e da altri studiosi che nel cosmopolitismo settecentesco
quell'opera di diffusione dell'arte italiana, come di bellezza appartenente a
tutta Europa, ha un aspetto meno odioso di quello che con tutta facilità può
esserle attribuito». L'osservazione del cosmopolitismo settecentesco, che è
esatta, va approfondita e specificata: il cosmopolitismo degli intellettuali
italiani è esattamente della stessa natura del cosmopolitismo degli altri
intellettuali nazionali? Questo è il punto: per gli italiani è in funzione di
una particolare posizione che viene attribuita all'Italia a differenza degli
altri paesi, cioè l'Italia è concepita come complementare di tutti gli altri
paesi, come produttrice di bellezza e di cultura per tutta Europa.
Clero e intellettuali. Esiste uno studio organico sulla storia del clero come «classe-casta»?
Mi pare che sarebbe indispensabile, come avviamento e condizione di tutto il
rimanente studio sulla funzione della religione nello sviluppo storico ed
intellettuale dell'umanità. La precisa situazione giuridica e di fatto della
Chiesa e del clero nei vari periodi e paesi, le sue condizioni e funzioni
economiche, i suoi rapporti esatti con le classi dirigenti e con lo Stato ecc. ecc.
Perché ad un certo punto la maggioranza dei cardinali
fu composta di italiani e i papi furono sempre scelti tra italiani? Questo
fatto ha una certa importanza nello sviluppo intellettuale nazionale italiano e
qualcuno potrebbe anche vedere in esso l'origine del Risorgimento. Esso
certamente fu dovuto a necessità interna di difesa e sviluppo della Chiesa e
della sua indipendenza di fronte alle grandi monarchie straniere europee,
tuttavia la sua importanza nei riflessi italiani non è perciò diminuita. Se positivamente
il Risorgimento può dirsi incominci con l'inizio delle lotte tra Stato e
Chiesa, cioè con la rivendicazione di un potere governativo puramente laico,
quindi col regalismo e il giurisdizionalismo (onde l'importanza del Giannone),
negativamente è anche certo che le necessità di difesa della sua indipendenza
portarono la Chiesa
a cercare sempre piú in Italia la base della sua supremazia e negli italiani il
personale del suo apparato organizzativo.
È da questo inizio che si svilupperanno le correnti
neoguelfe del Risorgimento, attraverso le diverse fasi (quella del sanfedismo
italiano, per esempio) piú o meno retrive e primitive.
Questa nota perciò interessa oltre la rubrica degli
intellettuali anche quella del Risorgimento e quella delle origini dell'Azione
cattolica «italiana».
Nello sviluppo di una classe nazionale, accanto al
processo della sua formazione nel terreno economico, occorre tener conto del
parallelo sviluppo nei terreni ideologico, giuridico, religioso, intellettuale,
filosofico, ecc.: si deve dire anzi che non c'è sviluppo sul terreno economico,
senza questi altri sviluppi paralleli. Ma ogni movimento della «tesi» porta a
movimenti della «antitesi» e quindi a «sintesi» parziali e provvisorie. Il
movimento di nazionalizzazione della Chiesa in Italia è imposto non proposto: la Chiesa si nazionalizza in
Italia in forme ben diverse da ciò che avviene in Francia col gallicanismo,
ecc. In Italia la Chiesa
si nazionalizza in modo «italiano», perché deve nello stesso tempo rimanere
universale: intanto nazionalizza il suo personale dirigente e questo vede
sempre piú l'aspetto nazionale della funzione storica dell'Italia come sede del
Papato.
Lotta tra Stato e Chiesa. Diverso carattere che ha
avuto questa lotta nei diversi periodi storici. Nella fase moderna, essa è
lotta per l'egemonia nell'educazione popolare; almeno questo è il tratto piú
caratteristico, cui tutti gli altri sono subordinati. Quindi è lotta tra due
categorie di intellettuali, lotta per subordinare il clero, come tipica categoria
di intellettuali, alle direttive dello Stato, cioè della classe dominante
(libertà dell'insegnamento – organizzazioni giovanili – organizzazioni
femminili – organizzazioni professionali).
Formazione e disillusione della nuova borghesia in
Italia. In altra nota ho segnato che si potrebbe fare una ricerca
«molecolare» negli scritti italiani del Medioevo per cogliere il processo di
formazione intellettuale della borghesia, il cui sviluppo storico culminerà nei
Comuni per subire poi una disgregazione e un dissolvimento. La stessa ricerca
si potrebbe fare nel periodo 1750-1850, quando si ha la nuova formazione
borghese che culmina nel Risorgimento. Anche qui il modello del Groethuysen (Origines
de l'esprit bourgeois en France: 1.er L'Église et la Bourgeoisie)
potrebbe servire, integrato, naturalmente, di quei motivi che sono peculiari
della storia sociale italiana. Le concezioni del mondo, dello Stato, della vita
contro cui deve combattere lo spirito borghese in Italia non sono simili a
quelle che esistevano in Francia.
Foscolo e Manzoni in un certo senso possono dare i
tipi italiani. Il Foscolo è l'esaltatore delle glorie letterarie e artistiche
del passato (cfr. i Sepolcri, i Discorsi civili, ecc.), la sua
concezione è essenzialmente «retorica» (sebbene occorra osservare che nel tempo
suo questa retorica avesse un'efficienza pratica attuale e quindi fosse
«realistica»).
Nel Manzoni troviamo spunti nuovi, piú strettamente
borghesi (tecnicamente borghesi). Il Manzoni esalta il commercio e deprime la
poesia (la retorica). Lettere al Fauriel. Nelle opere inedite ci
sono dei brani in cui il Manzoni biasima l'unilateralità dei poeti che
disprezzano la «sete dell'oro» dei commercianti, disconoscono l'audacia dei
navigatori mentre parlano di sé come di esseri sovrumani. In una lettera al
Fauriel scrive: «Pensi di che sarebbe piú impacciato il mondo, del trovarsi
senza banchieri o senza poeti, quale di queste due professioni serva piú, non
dico al comodo, ma alla cultura dell'umanità». (Cfr. Carlo Franelli, Il
Manzoni e l'idea dello scrittore, nella «Critica Fascista» del 15 dicembre
1931). Il Franelli osserva: «I lavori di storia e di economia politica li mette
piú in alto che una letteratura piuttosto (?!) leggera. Sulla qualità della
cultura italiana d'allora ha dichiarazioni molto esplicite nelle lettere
all'amico Fauriel. Quanto ai poeti, la loro tradizionale megalomania lo
offende. Osserva che oggidí perdono tutto quel gran credito che godettero in
passato. Ripetutamente ricorda che alla poesia ha voluto bene in "gioventú"».
Risorgimento. Nel Risorgimento si ebbe l'ultimo riflesso della
«tendenza storica» della borghesia italiana a mantenersi nei limiti del
«corporativismo»: il non aver risolto la quistione agraria è la prova di questo
fatto. Rappresentanti di questa tendenza sono i moderati, sia neoguelfi (in
essi – Gioberti – appare il carattere universalistico-papale degli
intellettuali italiani che è posto come premessa del fatto nazionale) sia i
cavouriani (o economisti-pratici, ma al modo dell'uomo del Guicciardini, cioè
rivolti solo al loro «particulare»: da ciò il carattere della monarchia
italiana). Ma le tracce dell'universalismo medioevale sono anche nel Mazzini, e
determinano il suo fallimento politico; perché se al neoguelfismo successe
nella corrente moderata il cavourismo, l'universalismo mazziniano nel Partito
d'Azione non fu praticamente superato da nessuna formazione politica organica e
invece rimase un fermento di settarismo ideologico e quindi di dissoluzione.
Gioberti. Importanza del Gioberti per la
formazione del carattere nazionale moderno degli intellettuali italiani. Sua
funzione accanto al Foscolo. In una nota precedente osservazioni sulla
soluzione formale data dal Gioberti al problema nazionale-popolare come
contemperamento di conservazione e innovazione, come «classicità nazionale».
Soluzione formale non solo del maggior problema politico sociale, ma anche di
quelli derivati, come quello di una letteratura nazionale-popolare. Occorrerà
rivedere ai fini di questo studio le maggiori pubblicazioni polemiche del
Gioberti: il Primato e il Rinnovamento, gli scritti contro i
gesuiti (Prolegomeni e il Gesuita moderno). Libro dell'Anzilotti
sul Gioberti.
[Il movimento socialista.] Efficacia avuta dal movimento operaio socialista per creare
importanti settori della classe dominante. La differenza tra il fenomeno
italiano e quello di altri paesi consiste obiettivamente in questo: che negli
altri paesi il movimento operaio e socialista elaborò singole personalità
politiche, in Italia invece elaborò interi gruppi di intellettuali che come
gruppi passarono all'altra classe. Mi pare che la causa italiana sia da
ricercare in ciò: scarsa aderenza delle classi alte al popolo: nella lotta
delle generazioni, i giovani si avvicinano al popolo; nelle crisi di svolta
questi giovani ritornano alla loro classe (cosí è avvenuto per i sindacalisti
nazionalisti e per i fascisti). È in fondo lo stesso fenomeno generale del
trasformismo, in diverse condizioni. Il trasformismo «classico» fu il fenomeno
per cui si unificarono i partiti del Risorgimento; questo trasformismo mette in
chiaro il contrasto tra civiltà, ideologia, ecc. e la forza di classe. La
borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani
si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o
cercano di farsene i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l'egemonia
della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano
all'ovile. Questo fenomeno di «gruppi» non si sarà certo verificato solo in
Italia: anche nei paesi dove la situazione è analoga, si sono avuti fenomeni
analoghi: i socialismi nazionali dei paesi slavi (o socialrivoluzionari o narodniki,
ecc.).
La quistione dei
giovani. Esistono molte «quistioni» dei
giovani. Due mi sembrano specialmente importanti: 1) La generazione «anziana»
compie sempre l'educazione dei «giovani»; ci sarà conflitto, discordia
ecc., ma si tratta di fenomeni superficiali, inerenti a ogni opera educativa e
di raffrenamento, a meno che non si tratti di interferenze di classe, cioè i
«giovani» (o una parte cospicua di essi) della classe dirigente (intesa nel
senso piú largo, non solo economico, ma politico-morale) si ribellano e passano
alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il
potere: ma in questo caso si tratta di «giovani» che dalla direzione degli
«anziani» di una classe passano alla direzione degli «anziani» di un'altra
classe: in ogni caso rimane la subordinazione reale dei «giovani» agli
«anziani» come generazione, pur con le differenze di temperamento e di vivacità
su ricordate; 2) Quando il fenomeno assume un carattere così detto «nazionale»,
cioè non appare apertamente l'interferenza di classe, allora la quistione si
complica e diventa caotica. I «giovani» sono in istato di ribellione
permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia
permessa l'analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma
storico e reale); gli «anziani» dominano di fatto, ma... après moi le déluge,
non riescono a educare i giovani, a prepararli alla successione. Perché? Ciò
significa che esistono tutte le condizioni perché gli «anziani» di un'altra
classe debbano dirigere questi giovani, senza che possano farlo per
ragioni estrinseche di compressione politico-militare. La lotta, di cui si sono
soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena
dissolvente alla struttura della vecchia classe, debilitandola e
imputridendola: assume forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza
morale, di degenerazioni patologiche psichiche e fisiche, ecc. La vecchia
struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove:
la disoccupazione permanente o semipermanente dei cosí detti intellettuali è
uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza, che assume carattere aspro per
i piú giovani, in quanto non lascia «orizzonti aperti». D'altronde questa
situazione porta ai «quadri chiusi» di carattere feudale-militare, cioè
inacerbisce essa stessa i problemi che non sa risolvere.
A proposito del protestantesimo in Italia, ecc.
Riferimento a quella corrente intellettuale contemporanea che sostenne il
principio che le debolezze della nazione e dello Stato italiano erano dovute
alla mancanza di una riforma protestante, corrente rappresentata specialmente
dal Missiroli. Il Missiroli, come appare, prese questa sua tesi di peso dal
Sorel, che l'aveva presa dal Renan (poiché Renan una tesi simile, adattata alla
Francia e piú complessa, aveva sostenuto nel libro La riforma intellettuale
e morale). Nella «Critica» del 1931, in diverse puntate, è stato pubblicato un
saggio inedito del Sorel, Germanesimo e storicismo di Ernesto Renan,
scritto (datato) del maggio 1915 e che avrebbe dovuto servire di introduzione
alla versione italiana del libro di Renan La riforma intellettuale e morale,
che doveva tradurre Missiroli e pubblicare Laterza. La traduzione del
Missiroli non fu pubblicata e si capisce perché: nel maggio 1915 l'Italia intervenne
nella guerra e il libro del Renan con la prefazione del Sorel sarebbe apparso
un atto di tedescofilia. In ogni modo pare da accertare che la posizione del
Missiroli sulla quistione del «protestantesimo in Italia» è una deduzione
meccanica dalle idee critiche del Renan e del Sorel sulla formazione e le
necessità della cultura francese. Non è però escluso che il Missiroli
conoscesse anche le idee del Masaryk sulla cultura russa (egli per lo meno
conosceva il saggio sul Masaryk di Antonio Labriola: ma il Labriola accenna a
questa tesi «religiosa»? non mi pare) e nel 1918 conobbe dal «Grido del Popolo»
il saggio sul Masaryk, con l'accenno alla tesi religiosa, pubblicato dal
«Kampf» di Vienna nel 1914, e da me tradotto appunto nel «Grido» (questo saggio
era anche conosciuto dal Gobetti). Le critiche fatte al Masaryk in questo
saggio, metodologicamente, si avvicinano a quelle fatte dal Croce ai
sostenitori di «riforme protestanti» ed è strano che ciò non sia stato visto
dal Gobetti (per il quale, del resto, non si può dire che non comprendesse
questo problema in modo concreto, a differenza del Missiroli, come dimostravano
le sue simpatie politico-pratiche). Occorrerebbe stroncare invece il Missiroli
che è una carta asciugante di alcuni elementi culturali francesi.
Dal saggio del Sorel appare anche una strana tesi
sostenuta dal Proudhon, a proposito di riforma intellettuale e morale del
popolo francese (il Renan nella sua opera si interessa delle alte classi di
cultura ed ha per il popolo un programma particolare: affidarne l'educazione ai
parroci di campagna), che si avvicina a quella di Renan riguardante il popolo.
Il Sorel sostiene che Renan anzi abbia conosciuto questo atteggiamento di
Proudhon e ne sia stato influenzato. Le tesi di Proudhon sono contenute
nell'opera La Justice
dans la Révolution
et dans l'Église, tome V, pp. 342-44, e per esse si dovrebbe giungere a una
riforma intellettuale e morale del popolo francese con l'aiuto del clero, che
avrebbe, con il linguaggio e il simbolismo religioso, concretato e assicurato
le verità «laiche» della Rivoluzione. Il Proudhon in fondo, nonostante le sue
bizzarrie, è piú concreto di quanto sembri: egli pare certamente persuaso che
occorre una riforma intellettuale in senso laico («filosofico» come dice) ma
non sa trovare altro mezzo didattico che il tramite del clero. Anche per
Proudhon, il modello è quello protestante, cioè la riforma intellettuale e
morale avvenuta in Germania con il protestantesimo, che egli vorrebbe
«riprodotta» in Francia, nel popolo francese, ma con piú rispetto storico della
tradizione storica francese che è contenuta nella Rivoluzione. (Naturalmente
occorre leggere bene Proudhon prima di servirsene per questo argomento). Anche
la posizione del Sorel è strana in questo problema: la sua ammirazione per
Renan e per i tedeschi gli fa vedere i problemi da puro intellettuale astratto.
Questo problema del protestantesimo non deve essere
confuso con quello «politico» presentatosi nel periodo del Risorgimento, quando
molti liberali, per esempio quelli della «Perseveranza», si servirono dello
spauracchio protestante per far pressione sul papa a proposito del potere
temporale e di Roma.
Sicché in una trattazione del problema religioso in
Italia occorre distinguere in primo luogo tra due ordini fondamentali di fatti:
1) quello reale, effettuale, per cui si verificano nella massa popolare dei
movimenti di riforma intellettuale e morale, sia come passaggio dal
cattolicismo ortodosso e gesuitico a forme religiose piú liberali, sia come
evasione dal campo confessionale per una moderna concezione del mondo; 2) i
diversi atteggiamenti dei gruppi intellettuali verso una necessaria riforma
intellettuale e morale.
La corrente Missiroli è la meno seria di queste, la
piú opportunistica, la piú dilettantesca e spregevole per la persona del suo
corifeo.
Cosí occorre per ognuno di questi ordini di fatti
distinguere cronologicamente tra varie epoche: quella del Risorgimento (col
liberalismo laico, da una parte, e il cattolicismo liberale, dall'altra),
quella dal '70 al '90 col positivismo e anticlericalismo massonico e
democratico; quella dal '900 fino alla guerra, col modernismo e il filosofismo
idealistico; quella fino al concordato, con l'organizzazione politica dei
cattolici italiani; e quella post-concordataria, con una nuova posizione del
problema, sia per gli intellettuali che per il popolo. È innegabile, nonostante
la piú potente organizzazione cattolica e il risveglio di religiosità in questa
ultima fase, che molte cose stanno mutando nel cattolicesimo, e che la
gerarchia ecclesiastica ne è allarmata, perché non riesce a controllare queste
trasformazioni molecolari; accanto a una nuova forma di anticlericalismo, piú
raffinata e profonda di quella ottocentesca, c'è un maggiore interesse per le
cose religiose da parte dei laici, che portano nella trattazione uno spirito
non educato al rigore ermeneutico dei gesuiti e quindi sconfinante spesso
nell'eresia, nel modernismo, nello scetticismo elegante. «Troppa grazia!» per i
gesuiti, che vorrebbero invece che i laici non s'interessassero di religione altro
che per seguire il culto.
[Gli intellettuali e lo Stato hegeliano.]
Nella concezione non solo della scienza politica, ma in tutta la concezione
della vita culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza la posizione
assegnata da Hegel agli intellettuali, che deve essere accuratamente studiata.
Con Hegel si incomincia a non pensare piú secondo le caste o gli «stati», ma
secondo lo «Stato», la cui «aristocrazia» sono appunto gli intellettuali. La
concezione «patrimoniale» dello Stato (che è il modo di pensare per «caste») è
immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche sprezzanti e
sarcastiche contro von Haller). Senza questa «valorizzazione» degli
intellettuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente)
dell'idealismo moderno e delle sue radici sociali.
Note di cultura italiana. 1) La scienza e
la cultura. Le correnti filosofiche idealistiche (Croce e Gentile) hanno
determinato un primo processo di isolamento degli scienziati (scienze naturali
o esatte) dal mondo della cultura. La filosofia e la scienza si sono staccate e
gli scienziati hanno perduto molto del loro prestigio. Un altro processo di
isolamento si è avuto per il nuovo prestigio dato al cattolicesimo e per il
formarsi del centro neoscolastico. Cosí gli scienziati «laici» hanno contro la
religione e la filosofia piú diffusa: non può non avvenire un loro
imbozzolamento e una «denutrizione» dell'attività scientifica che non può
svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale. D'altronde: poiché
l'attività scientifica è in Italia strettamente legata al bilancio dello Stato,
che non è lauto, all'atrofizzarsi di uno sviluppo del «pensiero» scientifico,
della storia, non può per compenso neanche aversi uno sviluppo della «tecnica»
strumentale e sperimentale, che domanda larghezza di mezzi e di dotazioni.
Questo disgregarsi dell'unità scientifica, del pensiero generale, è sentito: si
è cercato di rimediare elaborando anche in questo campo un «nazionalismo»
scientifico, cioè sostenendo la tesi della «nazionalità» della scienza. Ma è
evidente che si tratta di costruzioni esteriori estrinseche, buone per i
congressi e le celebrazioni oratorie, ma senza efficacia pratica. E tuttavia
gli scienziati italiani sono valorosi e fanno, con pochi mezzi, sacrifici
inauditi e ottengono risultati mirabili. Il pericolo piú grande pare essere
rappresentato dal gruppo neoscolastico, che minaccia di assorbire molta
attività scientifica sterilizzandola, per reazione all'idealismo gentiliano. (È
da vedere l'attività organizzatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche e
l'efficacia che ha avuto per sviluppare l'attività scientifica e tecnologica, e
quella delle sezioni scientifiche dell'Accademia d'Italia).
2) Centralismo nazionale e burocratico. Lo
scioglimento delle associazioni regionali avvenuto verso l'agosto del 1932.
Vedere quali reazioni ha suscitato nel tempo. Vi si è visto un movimento di
sempre piú salda coscienza nazionale. Ma l'illazione è giustificata?
Confrontare col movimento di centralizzazione avutosi in Francia dopo la Rivoluzione e
specialmente con Napoleone. La differenza pare evidente: in Francia si era
avuto un movimento nazionale unitario, di cui l'accentramento fu l'espressione
burocratica. In Italia non si è avuto lo stesso processo nazionale, anzi la
burocrazia accentrata aveva proprio il fine di ostacolare un tale processo.
Sarebbe interessante vedere quali forze unitarie nel dopoguerra si siano
formate accanto alla burocrazia tradizionale: ciò che è da notare è che tali
forze, se pure relativamente notevoli, non hanno un carattere di omogeneità e
di permanente sistematicità, ma sono di tipo «burocratico» (burocrazia
sindacale, di partito, podestà, ecc.).
3) Scienza. Vedere il volume pubblicato da
Gino Bargagli-Petrucci (presso il Le Monnier) in cui sono raccolti i discorsi
di scienziati italiani all'Esposizione di storia delle scienze del 1929. In questo volume è
pubblicato un discorso del padre Gemelli che è segno dei tempi, per vedere la
baldanza che hanno assunto questi fratacci (su questo discorso è da vedere la
recensione nell'«Educazione Fascista» del 1932 e l'articolo di Sebastiano
Timpanaro nell'«Italia Letteraria» dell'11 settembre e 16 ottobre 1932).
[Sentimento nazionale.] Sentimento nazionale,
non popolare-nazionale (cfr. note disperse), cioè un sentimento puramente
«soggettivo», non legato a realtà, a fattori, a istituzioni oggettive. È perciò
ancora un sentimento da «intellettuali», che sentono la continuità della loro
categoria e della loro storia, unica categoria che abbia avuto una storia ininterrotta.
Un elemento oggettivo è la lingua, ma essa in Italia
si alimenta poco, nel suo sviluppo, dalla lingua popolare che non esiste
(eccetto in Toscana), mentre esistono i dialetti. Altro elemento è la cultura
ma essa è troppo ristretta ed ha carattere di casta: i ceti intellettuali sono
piccolissimi e angusti. I partiti politici: erano poco solidi e non avevano
vitalità permanente ma entravano in azione solo nel periodo elettorale. I
giornali: non coincidevano coi partiti che debolmente, e poco letti. La Chiesa era l'elemento
popolare-nazionale piú valido ed esteso, ma la lotta tra Chiesa e Stato ne
faceva un elemento di disgregazione piú che di unità e oggi le cose non sono
molto cambiate perché tutta l'impostazione del problema morale-popolare è
cambiato. La monarchia – Il parlamento – L'università e la scuola – La città –
Organizzazioni private come la massoneria – L'Università popolare – L'esercito
– I sindacati operai - La scienza (verso il popolo, – i medici, i veterinari,
le cattedre ambulanti, gli ospedali) – Il teatro – Il libro.
[Il razzismo.]
Esiste un «razzismo» in Italia? Molti tentativi sono stati fatti, ma tutti di
carattere letterario e astratto. Da questo punto di vista l'Italia si
differenzia dalla Germania, quantunque tra i due paesi ci siano alcune
somiglianze estrinseche interessanti: 1) La tradizione localistica e quindi il
tardo raggiungimento dell'unità nazionale e statale. (Somiglianza estrinseca
perché il regionalismo italiano ha avuto altre origini che quello tedesco: in
Italia hanno contribuito due elementi principali: a) la rinascita delle
razze locali dopo la caduta dell'Impero Romano; b) le invasioni
barbariche prima, i domini stranieri dopo. In Germania i rapporti
internazionali hanno influito, ma non con l'occupazione diretta di stranieri).
2) L'universalismo medioevale influí piú in Italia che in Germania, dove
l'Impero e la laicità trionfarono molto prima che in Italia, durante la Riforma. 3) Il dominio
nei tempi moderni delle classi proprietarie della campagna, ma con rapporti
molto diversi. Il tedesco sente piú la razza che l'Italiano. Razzismo: il
ritorno storico al romanesimo, poco sentito oltre la letteratura. Esaltazione
generica della stirpe, ecc. Lo strano è che a sostenere il razzismo oggi (con l'Italia
Barbara, L'Arcitaliano e lo strapaesismo) sia Kurt Erich Suckert,
nome evidentemente razzista e strapaesano; ricordare durante la guerra Arturo
Foà e le sue esaltazioni della stirpe italica, altrettanto congruenti che nel
Suckert.
Elementi di cultura italiana. L'ideologia «romana».
L'Omodeo afferma («Critica» del 20 settembre 1931): «Cerca (il Bülow) di
confortarsi nella luminosa atmosfera di Roma, inebriandosi di quella poesia
dell'Urbe, che il Goethe ha diffuso fra i tedeschi, e che tanto si differenzia
dalla retorica romana, per buona parte figlia delle scuole gesuitiche, corrente
fra noi». È da notare, a rincalzo, che nei Sepolcri del Foscolo, in cui
pure sono contenuti tanti spunti della mentalità e dell'ideologia
dell'intellettuale italiano del secolo XIX-XX, Roma antica ha un posto minimo e
quasi nullo. (Lo stesso Primato del Gioberti è forse di origine
«gesuitica», anche se il Gioberti [era] antigesuita).
La tradizione di Roma. Registrare le diverse reazioni (e il diverso carattere di
queste) all'ideologia legata alla tradizione di Roma. Il futurismo fu in Italia
una forma di questa reazione, in quanto contro la retorica tradizionale e
accademica, e questa in Italia era strettamente legata alla tradizione di Roma
(La terra dei morti del Giusti: «Noi eravamo grandi e là non eran nati»;
«Tutto che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora» del
Carducci, dipendenti dai Sepolcri di Foscolo, come momento «moderno» di
questa retorica). Questa reazione ha vari aspetti, oltre che diversi caratteri.
Tende, per esempio a contestare che l'Italia moderna sia erede della tradizione
romana (l'espressione del Lessing sui «vermi usciti dalla decomposizione della
carogna romana») o a contestare l'importanza stessa di tale tradizione. Nel
libro dello Wells Breve storia del mondo (ed. Laterza, con postilla
polemica del traduttore Lorizio), questa reazione assume diversi aspetti: 1)
nega che la storia mondiale antica si unifichi nell'impero romano, allargando
la visione storica mondiale con la storia della Cina, dell'India e dei Mongoli;
2) tende a svalutare in sé la grandezza della storia romana e della sua
tradizione, sia come tendenza politica (Sacro Romano Impero), sia come tendenza
culturale (Chiesa cattolica). Nel libro dello Wells, se è esatto il primo
punto, il secondo soffre di nuova intrusione di elementi ideologici ed è
moralistico.
Altro aspetto da osservare
è la valorizzazione dell'elemento non romano nella formazione delle nazioni
moderne: elemento germanico nella formazione degli stati romano-germanici:
questo aspetto è coltivato dai tedeschi e continua nella polemica
sull'importanza della Riforma come premessa della modernità. Ma nella
formazione degli Stati romano-germanici, oltre all'elemento romano e a quello
germanico, c'è un terzo e anche talvolta un quarto elemento; in Francia, oltre
all'elemento romano e a quello franco, c'è l'elemento celtico, dato dalla
autoctona popolazione gallica; in Ispagna c'è ancora, in piú, l'elemento arabo
con la sua influenza scientifica nel Medioevo. A proposito dell'elemento
gallico nella formazione della civiltà francese, c'è sempre stata tutta una
letteratura, di carattere misto storico e popolare. Nel tempo piú recente è da
vedere l'Histoire de la Gaule
di Camille Jullian, dove (nell'VIII vol., p. 311) si può leggere che è
tempo di farla finita colla «ossessione della storia imperiale» e che «è
necessario che noi sappiamo sbarazzarci dei modi di sentire e di ragionare che
sono l'eredità dell'impero romano. I pregiudizi quasi invincibili coi quali noi
siamo usciti dall'educazione classica, lo storico deve saperli vincere».
Dall'articolo La figura di Roma in uno storico celtista di Piero
Baroncelli nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1929, pare che il
Jullian a questi pregiudizi ne abbia sostituito degli altri (la celtomania), ma
in ogni caso è notevole il fatto che uno storico accreditato come il Jullian,
membro dell'Accademia, abbia dedicato un tale scritto monumentale a sostegno
della sua tesi e abbia avuto il premio dell'Accademia. Il Baroncelli ritiene
che: «La gelosia, con cui oggi si guarda quasi dappertutto al nostro
Paese, si rivela anche nel favore col quale sono accolte all'estero le
pubblicazioni che, per un verso o per l'altro, cercano di sfatare il nome di
Roma e dell'Italia. Di questa indole è appunto la citata Histoire de la Gaule, opera fortunata
per diffusione, imponente per mole, autorevole per il nome dello scrittore»; e
che, «Quanto agli sfregi che oggi si tentano sulla figura di Roma
antica, ben sappiamo che la Roma
signora e maestra di popoli ha in sé, per taluni, una grave colpa: Roma, fino
dai suoi inizi, fu sempre Italia». Ai pregiudizi storici che combatte, il
Baroncelli ne sostituisce anch'egli dei suoi propri, e ciò che è piú
importante, dà loro una veste politica. L'argomento sarebbe da studiare con
spregiudicatezza: cosa rimane ancora oggi, di proprio e inconfondibile, della
tradizione romana? Concretamente molto poco: l'attività piú spiccata, moderna,
è quella economica, sia teorica che pratica, e quella scientifica, e di esse
nulla continua il mondo romano. Ma anche nel campo del diritto, in che rapporto
esatto si trova il romanesimo con gli apporti del germanesimo e quelli piú
recenti anglosassoni e qual è l'area geografica in cui il diritto romano ha piú
diffusione? Sarebbe ancora da notare che nella forma in cui è diventato
tradizionale, il diritto romano è stato elaborato a Costantinopoli, dopo la
caduta di Roma. Quanto alla tradizione statale romana è vero che l'Italia, come
tale (cioè nella figura che oggi ha assunto) non l'ha continuata (osservazione
del Sorel), ecc. Seguire le pubblicazioni di Ezio Levi sull'arabismo spagnolo e
sulla sua importanza per la civiltà moderna.
Sicilia e Sardegna. Per il diverso peso che
esercita la grande proprietà in Sicilia e in Sardegna, e quindi per la diversa
posizione relativa degli intellettuali, ciò che spiega il diverso carattere dei
movimenti politico-culturali, valgono queste cifre: in Sardegna solo il 18% del
territorio appartiene a Enti pubblici, il resto proprietà privata: dell'area
coltivabile il 50% comprende possessi inferiori a 10 ha. e solo il 4% al di
sopra di 200 ha.
Sicilia: nel 1907 il Lorenzoni assegnava 1400
proprietà di oltre 200 ha.
con una estensione di ha. 717.729,16 cioè il 29,79% dell'estensione catastale
dell'isola, posseduta da 787 proprietari. Nel 1929 il Molé constatava 1055
latifondi di oltre 200 ha.
con estensione complessiva di ha. 540.700 cioè il 22,2% dell'area agraria e
forestale (ma si tratta di vero frazionamento del latifondo).
Inoltre occorre tener conto della differenza
storico-sociale-culturale dei grandi proprietari siciliani da quelli sardi: i
siciliani hanno una grande tradizione e sono fortemente uniti. In Sardegna
niente di ciò.
Intellettuali siciliani.
Rivalità fra Palermo e Catania per
contendersi il primato intellettuale dell'isola. – Catania chiamata l'Atene
siciliana, anzi la «sicula Atene». – Celebrità di Catania: Domenico Tempio,
poeta licenzioso, la cui attività viene dopo il terremoto del 1693 che
distrusse Catania (Antonio Prestinenza collega il tono licenzioso del poeta al
fatto del terremoto: morte – vita – distruzione – fecondità). – Vincenzo
Bellini, contrapposto al Tempio per la sua melanconia romantica.
Mario Rapisardi è la gloria
moderna di Catania. Garibaldi gli scrive: «All'avanguardia del progresso noi vi
seguiremo» e Victor Hugo: «Vous êtes un précurseur». –
Rapisardi-Garibaldi-Victor Hugo. – Polemica Carducci-Rapisardi. – Rapisardi-De
Felice (il primo maggio De Felice conduceva il corteo sotto il portone di
Rapisardi). – Popolarismo socialista mescolato col culto superstizioso di
Sant'Agata: quando Rapisardi in punto di morte si volle che rientrasse nella
Chiesa: «Tal visse Argante e tal morí qual visse» disse Rapisardi. – Accanto al
Rapisardi: Verga, Capuana, De Roberto, che però non considerati
«sicilianissimi», anche perché legati alle correnti continentali e amici del
Carducci. – Catania e l'Abruzzo nella letteratura italiana dell'Ottocento.
Storia letteraria o della cultura. L'origine
della teoria americana (riferita dal Cambon in una sua prefazione a un volume
del Ford) che in ogni epoca i grandi uomini sono tali nell'attività
fondamentale dell'epoca stessa, cosa per cui sarebbe assurdo «rimproverare»
agli americani di non avere grandi artisti quando hanno «grandi tecnici», come
sarebbe rimproverare al Rinascimento di aver avuto grandi pittori e scultori e
non grandi tecnici, si può trovare in Carlyle (Sugli eroi e l'eroismo).
Carlyle deve dire presso a poco che Dante se avesse dovuto fare il guerriero,
ossia se si fosse trovato a sviluppare la sua personalità in un momento di
necessità militare ecc. sarebbe stato grande lo stesso ecc., cioè l'eroismo
sarebbe quasi da concepire come una forma che si riempie del contenuto eroico
prevalente nel tempo o nell'ambiente determinato.
Si può tuttavia dire che in tempi di avvilimento
pubblico, di compressione ecc. è impossibile ogni forma di «grandezza». Dove il
grande carattere morale è combattuto non si può essere grande artista, ecc.
Metastasio non può essere Dante o Alfieri. Dove prospera Ojetti può esserci un
Dante? Forse un Michele Barbi! Ma la quistione in generale non pare seria, se
impostata sulla necessità che appaiano grandi geni. Si può solo giudicare
dell'atteggiamento verso la vita, piú o meno conformista o eroico, metastasiano
o alfieriano, il che certo non è poco. Non è da escludere che dove la
tradizione ha lasciato un largo strato di intellettuali, e un interesse vivace
o prevalente per certe attività, si sviluppino «genî» che non corrispondono ai
tempi in cui vivono concretamente, ma a quelli in cui vivono «idealmente» e
culturalmente. Machiavelli potrebbe essere uno di questi. Inoltre si dimentica
che ogni tempo o ambiente è contraddittorio e che si esprime e si corrisponde
al proprio tempo o ambiente combattendoli strenuamente oltre che collaborando
alle forme di vita ufficiale. Pare che anche in questo argomento è da tener
conto della quistione degli intellettuali e del loro modo di selezionarsi nelle
varie epoche di sviluppo della civiltà. E da questo punto di vista può esserci
molta verità nell'affermazione americana. Epoche progressive nel campo pratico
possono non aver avuto il tempo ancora di manifestarsi nel campo creativo
estetico e intellettuale, o possono essere in questo arretrate, filistee ecc.
L'italiano meschino. «Il latino si studia obbligatoriamente in tutte le scuole
superiori del Nord-America. La storia romana è insegnata in tutti gli istituti,
e tale insegnamento rivaleggia, se non supera quello che vien fatto nei
ginnasi e nei licei italiani, perché nelle scuole americane la classica
storia di Roma antica è tradotta fedelmente da Tacito e da Cesare, da
Sallustio e da Tito Livio, mentre in Italia si ricorre troppo spesso e
troppo supinamente alle deformate (sic) traduzioni di Lipsia».
Filippo Virgilii, L'espansione della cultura italiana, «Nuova
Antologia», 1° dicembre 1928 (il brano è a p. 346); (né può essere errore di
stampa, dato il senso di tutto il periodo! E il Virgilii è professore di
Università e ha fatto le scuole classiche!)
Fortunato Rizzi ossia
dell'italiano meschino. Louis Reynaud, che
deve essere un discepolo di Maurras, ha scritto un libro: Le Romantisme (Les
origines anglo-germaniques. Influences étrangères et traditions nationales. Le
réveil du génie français), Paris, Colin, per esporre diffusamente e
dimostrare una tesi propria del nazionalismo integrale: che il Romanticismo è
contrario al genio francese ed è un'importazione straniera, germanica e
anglo-tedesca. In questa proposizione, per Maurras e indubbiamente anche per il
Reynaud, l'Italia è e deve essere con la Francia, e anzi in generale le nazioni
cattoliche, il cattolicismo, sono solidali contro le nazioni protestanti, il
latinismo contro il germanesimo. Il Romanticismo è una infezione d'origine
germanica, infezione per la latinità, per la Francia, che ne è stata la grande vittima: nei
suoi paesi originari, Inghilterra e Germania, il Romanticismo sarà o è stato
senza conseguenze, ma in Francia esso è diventato lo spirito delle rivoluzioni
successive dal 1789 in
poi, ha distrutto o devastato la tradizione, ecc. ecc.
Ora ecco come il prof.
Fortunato Rizzi, autore di un libro a quanto pare mediocrissimo (non fa
maraviglia, a giudicare dal modo come egli tratta le correnti di pensiero e di
sentimenti) sul '500, vede il libro del Reynaud in un articolo (Il
Romanticismo francese e l'Italia) pubblicato nei «Libri del giorno» del
giugno 1929. Il Rizzi ignora l'«antefatto», ignora che il libro del Reynaud è
piú politico che letterario, ignora le proposizioni del nazionalismo integrale
di Maurras nel campo della cultura e va a cercare con la sua lucernina di
meschino italiano le tracce dell'Italia nel libro. Perbacco! L'Italia non c'è,
l'Italia dunque è negletta, è misconosciuta! «È veramente singolare il silenzio
quasi assoluto per quanto si riferisce all'Italia. Si direbbe che per lui (il
Reynaud) l'Italia non esista né sia mai esistita: eppure se la deve esser
trovata innanzi agli occhi ogni momento». Il Reynaud ricorda che il '600 nella
civiltà europea è francese. E il Rizzi: «Ci voleva proprio uno sforzo eroico a
notare, almeno di passaggio, di quanto la Francia del '600 sia debitrice all'Italia del
'500? Ma l'Italia non esiste per i nostri buoni fratelli d'oltralpe». Che malinconia!
Il Reynaud scrive: «les anglais, puis les allemands, nous communiquent leur
superstition de l'antique». E il Rizzi:
«Oh guarda donde viene alla Francia l'adorazione degli antichi!
Dall'Inghilterra e dalla Germania! E il Rinascimento italiano con la sua maravigliosa
potenza di diffusione in Europa e, sí proprio, anche in Francia? Cancellato
dalla storia...». Altri esempi sono altrettanto divertenti. «Ostentata o
inconscia indifferenza o ignoranza nei riguardi dell'Italia» che, secondo il
Rizzi, non aggiunge valore all'opera ma anzi «per certi rispetti la attenua
grandemente e sminuisce». Conclusione: «Ma noi che siamo i figli primogeniti o,
meglio (secondo il pensiero del Balbo) unigeniti di Roma, noi siamo dei signori
di razza e non facciamo le piccole vendette, ecc. ecc.» e quindi riconosce che
l'opera del Reynaud è ordinata, acuta, dotta, lucidissima ecc. ecc.
Ridere o piangere. Ricordo
questo episodio: parlando di un Tizio, un articolista ricordava che un antenato
dell'eroe era ricordato da Dante nella Divina Commedia, «questo libro
d'oro della nobiltà italiana». Era ricordato infatti, ma in una bolgia
dell'Inferno: non importa per l'italiano meschino, che non si accorge, per la
sua mania di grandezza da nobiluomo decaduto, che il Reynaud, non parlando dell'Italia
nel suo libro, le ha voluto fare il piú grande omaggio, dal suo punto di vista.
Ma al Rizzi importa che il Manzoni sia stato solo ricordato in una noterella a
piè di pagina!
Giovanni B. Botero. Cfr. Il numero come
forza nel pensiero di Giovanni Botero di Emilio Zanette, nella «Nuova
Antologia» del 1° settembre del 1930. È un articolo superficiale e di tipo
giornalistico-d'occasione. Il significato dell'importanza data da Botero al
«fatto» della popolazione non ha lo stesso valore di quello che può avere
attualmente. Il Botero è uno degli scrittori del tempo della Controriforma piú
tipicamente cosmopoliti e a-italiani. Egli parla dell'Italia come di qualsiasi
altro paese e i suoi problemi politici non lo interessano specificatamente.
Critica la «boria» degli Italiani che si considerano superiori ad altri paesi e
dimostra infondata tale pretesa. È da studiare per tanti rispetti (ragion di
Stato, machiavellismo, tendenza gesuitica ecc.). Il Gioda ha scritto sul Botero:
piú recentemente saggi ecc. Per questo articolo lo Zanette potrebbe entrare nel
paragrafo degli «Italiani meschini».
Regionalismo. Cfr. Leonardo Olschki, Kulturgeografie
Italiens, in «Preussische Jahrbücher», gennaio 1927, pp. 19-36. Il
«Leonardo» del febbraio 1927 lo giudica: «Vivace e assai ben fatto studio del
regionalismo italiano, dei suoi aspetti presenti e delle sue origini storiche».
Gli ebrei. Cfr. Yoseph Colombo, Lettere
inedite del p. Hyacinthe Loyson, «Nuova Antologia», 1° settembre 1930. Si
parla del rabbino livornese Benamozegh, della sua concezione dell’ebraismo in
rapporto al cristianesimo, dei suoi scritti, dei suoi rapporti col Loyson; si
accenna all’importanza della comunità ebraica di Livorno come centro di cultura
rabbinica, ecc.
Intellettuali italiani all'estero
Storia nazionale e
storia della cultura (europea o
mondiale). L'attività degli elementi dirigenti che hanno operato
all'estero, come l'attività della moderna emigrazione, non può essere
incorporata nella storia nazionale, come invece deve essere, per esempio,
l'attività di elementi simili in altre condizioni. Una classe di un paese può
servire in un altro paese, mantenendo i suoi legami nazionali e statali
originari, cioè come espressione dell'influenza politica del paese d'origine.
Per un certo tempo i missionari o il clero nei paesi d'Oriente esprimevano
l'influenza francese, anche se questo clero solo parzialmente era costituito di
cittadini francesi, per i legami statali tra Francia e Vaticano. Uno stato
maggiore organizza le forze armate di un altro paese, incaricando del lavoro
tecnici militari del suo gruppo che non perdono la nazionalità, tutt'altro. Gli
intellettuali di un paese influenzano la cultura di un altro paese e la
dirigono ecc. Un'emigrazione di lavoratori colonizza un paese sotto la
direzione diretta o indiretta della sua propria classe dirigente economica e
politica. La forza espansiva, l'influsso storico di una nazione non può essere
misurato dall'intervento individuale di singoli, ma dal fatto che questi
singoli esprimono consapevolmente e organicamente un blocco sociale nazionale.
Se cosí non è, si deve parlare solo di fenomeni di una certa portata culturale
appartenenti a fenomeni storici piú complessi: come avvenne in Italia per tanti
secoli, di essere l'origine «territoriale» di elementi dirigenti cosmopoliti e
di continuare in parte ad esserlo per il fatto che l'alta gerarchia cattolica è
in gran parte italiana. Storicamente, questa funzione internazionale è stata la
causa di debolezza nazionale e statale: lo sviluppo delle capacità non è
avvenuto per i bisogni nazionali, ma per quelli internazionali, il processo di
specializzazione tecnica degli intellettuali ha seguito perciò delle vie
anormali dal punto di vista nazionale, perché ha servito a creare l'equilibrio
di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale ma di una
comunità piú vasta che voleva «integrare» i suoi quadri nazionali, ecc. (Questo
punto deve essere bene sviluppato con precisione ed esattezza).
[Intellettuali stranieri
in Italia.] Per il mondo slavo confrontare Ettore Lo Gatto L'Italia
nelle letterature slave, fascicoli 16 settembre, 1° ottobre, 16 ottobre
della «Nuova Antologia». Oltre ai rapporti puramente letterari, determinati dai
libri, ci sono molti accenni all'immigrazione di intellettuali italiani nei
diversi paesi slavi, specialmente in Russia e in Polonia, e alla loro
importanza come fattori della cultura locale.
Un altro aspetto della
funzione cosmopolita degli intellettuali italiani da studiare, o almeno da
accennare è quella svolta in Italia stessa, attirando studenti alle Università
e studiosi che volevano perfezionarsi. In questo fenomeno di immigrazione di
intellettuali stranieri in Italia occorre distinguere due aspetti: immigrazione
per vedere l'Italia e come territorio-museo della storia passata, che è stata
permanente e dura ancora con ampiezza maggiore o minore secondo le epoche, e
immigrazione per assimilare la cultura vivente sotto la guida degli
intellettuali italiani viventi; è questa seconda che interessa per la ricerca
in quistione. Come e perché avviene che a un certo punto sono gli italiani ad
emigrare all'estero e non gli stranieri a venire in Italia? (con eccezione
relativa per gli intellettuali ecclesiastici, il cui insegnamento in Italia
continua ad attirare discepoli in Italia fino ad oggi; in questo caso occorre
però tener presente che il centro romano è andatosi relativamente
internazionalizzando). Questo punto storico è di massima importanza: gli altri
paesi acquistano coscienza nazionale e vogliono organizzare una cultura
nazionale, la cosmopoli medioevale si sfalda, l'Italia come territorio perde la
sua funzione di centro internazionale di cultura, non si nazionalizza per sé,
ma i suoi intellettuali continuano la funzione cosmopolita, staccandosi dal
territorio e sciamando all'estero.
[Debolezza nazionale
della classe dirigente.] Prima della rivoluzione francese, prima cioè che
si costituisse organicamente una classe dirigente nazionale, c'era
un'emigrazione di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità
direttiva, elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro contributo.
Dopo la formazione di una borghesia nazionale e dopo l'avvento del capitalismo
si è iniziata l'emigrazione del popolo lavoratore, che è andato ad aumentare il
plusvalore dei capitalismi stranieri: la debolezza nazionale della classe
dirigente ha cosí sempre operato negativamente. Essa non ha dato la disciplina
nazionale al popolo, non l'ha fatto uscire dal municipalismo per una unità superiore,
non ha creato una situazione economica che riassorbisse le forze di lavoro
emigrate, in modo che questi elementi sono andati perduti in grandissima parte,
incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna.
«Pour Nietzsche, l'intellectuel est "chez lui", non pas là oú il
est né (la naissance, c'est de l'"histoire"), mais là oú lui-même
engendre et met au monde: Ubi pater sum, ibi patria, "Là oú je suis
père, oú j'engendre, là est ma patrie"; et non pas oú, il fut engendré».
Stefan Zweig, Influence du Sud sur Nietzsche, «Nouvelles Littéraires»,
19 luglio 1930 (è forse il capitolo di un libro tradotto da Alzir Hella et
Olivier Bournac).
Cfr. Angelo Scarpellini, La Battaglia
intorno al latino nel settecento in «Glossa Perenne», 1929. (Riassume i
termini della lotta combattuta nel '700 pro e contro lo studio del latino e
specialmente l'uso di esso nelle scritture, che è la quistione fondamentale dal
punto di vista di un rivolgimento nell'attitudine e nei rapporti dei ceti
intellettuali verso il popolo).
[Tramonto della funzione
cosmopolita degli intellettuali italiani.] Forse si potrebbe far coincidere
il tramonto della funzione cosmopolitica degli intellettuali italiani con il fiorire
degli avventurieri del '700: l'Italia a un certo punto non dà piú tecnici
all'Europa, o perché le altre nazioni hanno già elaborato una classe colta
propria o perché l'Italia non produce piú capacità a mano a mano che ci
allontaniamo dal '500; e le vie tradizionali di «far fortuna» all'estero sono
ormai percorse da imbroglioni che sfruttano la tradizione. Da vedere e da porre
in termini esatti.
[La patria di Cristoforo
Colombo.] Il particolare chauvinisme italiano trova una sua
manifestazione nella letteratura che rivendica le invenzioni, le scoperte
scientifiche. Parlo dello «spirito»con cui queste rivendicazioni sono fatte,
non del fenomeno in sé: non si tratta, insomma, di contributi... alla storia
della tecnica e della scienza, ma di «pezzi» giornalistici di colore
sciovinistico. Penso che molte rivendicazioni sono... oziose, nel senso che non
basta aver avuto uno spunto, ma occorre saperne trarre tutte le conseguenze e
applicazioni pratiche. Altrimenti si arriverebbe alla conclusione che non è stato
mai inventato nulla, perché... i cinesi conoscevano già tutto. Per molte
rivendicazioni questi specialisti (come il Savorgnan di Brazzà) di glorie
nazionali non s'accorgono di far fare all'Italia la funzione della Cina.
A questo spunto si può
riunire tutta la letteratura sulla patria di Cristoforo Colombo. A me pare che
si tratti di una letteratura completamente inutile e oziosa. La quistione
dovrebbe essere posta cosí: perché nessuno Stato italiano aiutò Cristoforo
Colombo, o perché Colombo non si rivolse a nessuno Stato italiano? In che
consiste dunque l'elemento «nazionale» della scoperta dell'America? La nascita
di Cristoforo Colombo in un punto dell'Europa piuttosto che in un altro ha un
valore episodico e casuale, poiché egli stesso non si sentiva legato a uno
Stato italiano. La quistione, secondo me, dovrebbe essere definita storicamente
fissando che l'Italia ebbe per molti secoli una funzione
internazionale-europea. Gli intellettuali e gli specialisti italiani erano
cosmopoliti e non italiani, non nazionali. Uomini di Stato, capitani,
ammiragli, scienziati, navigatori italiani non avevano un carattere nazionale
ma cosmopolita. Non so perché questo debba diminuire la loro grandezza o
menomare la storia italiana, che è stata quello che è stata, e non la fantasia
dei poeti o la retorica dei declamatori: avere una funzione europea, ecco il
carattere del «genio» italiano dal '400 alla Rivoluzione francese.
Individui e nazioni. A proposito della
quistione delle glorie nazionali legate alle invenzioni di singoli individui
geniali, le cui scoperte e invenzioni non hanno però avuto applicazione o
riconoscimento nel paese d'origine si può ancora osservare: che le invenzioni e
le scoperte possono essere e sono spesso infatti casuali, non solo, ma che i singoli
inventori possono essere legati a correnti culturali e scientifiche che hanno
avuto origine e sviluppo in altri paesi, presso altre nazioni. Perciò una
invenzione o scoperta perde il carattere individuale e casuale e può essere
giudicata nazionale quando: l'individuo è strettamente e necessariamente
collegato a una organizzazione di cultura che ha caratteri nazionali o quando
l'invenzione è approfondita, applicata; sviluppata in tutte le sue possibilità
dall'organizzazione culturale della nazione d'origine. Fuori di queste
condizioni non rimane che l'elemento «razza» cioè una entità imponderabile e
che d'altronde può essere rivendicato da tutti i paesi e che in ultima analisi
si confonde con la cosí detta «natura umana». Si può dunque chiamare «nazionale»
l'individuo che è conseguenza della realtà concreta nazionale o che inizia una
fase determinata dell'operosità pratica o teorica nazionale. Bisognerebbe poi
mettere in luce che una nuova scoperta che rimane cosa inerte non è un valore:
l'«originalità» consiste tanto nello «scoprire» quanto nell'«approfondire» e
nello «sviluppare» e nel «socializzare», cioè nel trasformare in elemento di
civiltà universale: ma appunto in questi campi si manifesta l'energia
nazionale, che è collettiva, che è l'insieme dei rapporti interni di una
nazione.
[Tecnici militari
italiani e arte militare italica.] Nella guerra delle Fiandre combattuta
dagli Spagnoli verso la fine del Cinquecento, una gran parte dell'elemento
tecnico-militare e del genio era costituita da italiani. Capitani di gran fama
come Alessandro Farnese, duca di Parma, Ranuccio Farnese, Ambrogio Spinola,
Paciotto da Urbino, Giorgio Basta, Giambattista del Monte, Pompeo Giustiniano,
Cristoforo Mondragone e molti altri minori. La città di Namur era stata fortificata
da due ingegneri italiani: Gabrio Serbelloni e Scipione Campi, ecc. Cfr. Un
generale di cavalleria italo-albanese: Giorgio Basta di Eugenio Barbarich
nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1928.
In questa ricerca sulla
funzione cosmopolitica delle classi colte italiane è specialmente da tener
conto dell'apporto di tecnici militari, per il valore piú strettamente
«nazionale» che sempre ha avuto il servizio militare. La quistione si collega
ad altre ricerche: come si erano formate queste capacità militari? La borghesia
dei Comuni aveva avuto anche un'origine militare, nel senso che la sua
organizzazione di classe fu originariamente anche militare e che attraverso la
sua funzione militare riuscí a prendere il potere. Questa tradizione militare
si spezzò dopo l'avvento al potere, dopo che il Comune aristocratico divenne
Comune borghese. Come, perché? Come si formarono le compagnie di ventura, e per
quale origine necessaria? Di che condizione sociale furono i condottieri in
maggioranza? Mi pare piccoli nobili, ma di che nobiltà? Di quella feudale o di
quella mercantile? ecc. Questi capi militari della fine del Cinquecento e dei
secoli successivi come si erano formati? ecc.
Naturalmente che gli
italiani abbiano cosí validamente partecipato alle guerre della Controriforma
ha un significato particolare, ma parteciparono anche alla difesa dei
protestanti? Né bisogna confondere questo apporto di tecnici militari con la
funzione che ebbero gli Svizzeri, per esempio, quali mercenari internazionali,
o i cavalieri tedeschi in Francia (reîtres) o gli arcieri scozzesi nella
stessa Francia: appunto perché gli italiani non dettero solo tecnici militari,
ma tecnici del genio (ingegneri), della politica, della diplomazia ecc.
Il Barbarich (credo che
adesso sia generale) termina il suo articolo sul Basta con questo periodo: «La
lunga pratica di quarant'anni di campagne nelle guerre aspre di Fiandra, di
Francia e di Transilvania, hanno procurato a Giorgio Basta una ben
straordinaria sanzione pratica alla lucida e chiara sua teoria, che sarà
ripresa dal Montecuccoli. Ricordare oggidí l'una e l'altra è opera di
rivendicazione storica doverosa, di buona propaganda sollecita delle tradizioni
nostre, le quali affermano la indiscussa e luminosa priorità dell'arte militare
italica nei grandi eserciti moderni».
Ma si può parlare in questo
caso di arte militare italica? Dal punto di vista della storia della cultura
può essere interessante sapere che il Farnese era italiano o Napoleone corso o
Rothschild ebreo, ma storicamente la loro attività individuale è stata
incorporata nello Stato al cui servizio essi sono stati assunti o nella società
in cui hanno operato. L'esempio degli ebrei può dare un elemento di
orientazione per giudicare l'attività di questi italiani, ma solo fino ad un
certo punto: in realtà gli ebrei hanno avuto un maggior carattere nazionale di
questi italiani, nel senso che nel loro operare c'era una preoccupazione di
carattere nazionale che in questi italiani non c'era. Si può parlare di
tradizione nazionale quando la genialità individuale è incorporata attivamente,
cioè politicamente e socialmente, nella nazione da cui l'individuo è uscito
(gli studi sull'ebraismo e la sua funzione internazionale possono dare molti
elementi di carattere teorico per questa ricerca), quando essa trasforma il
proprio popolo, gli imprime un movimento che appunto forma la tradizione. Dove
esiste una continuità in questa materia tra il Farnese e oggi? Le
trasformazioni, gli aggiornamenti, le innovazioni portate da questi tecnici
militari nella loro arte si sono incorporate nella tradizione francese o
spagnola o austriaca: in Italia sono diventate numeri di scheda bibliografica.
«Nel 1563, durante la
guerra civile contro gli Ugonotti, all'assedio di Orléans, intrapreso dal Duca
di Guisa, l'ingegnere militare Bartolomeo Campi di Pesaro, il quale aveva
nell'esercito attaccante la carica che ora si direbbe di comandante del Genio,
fece fare una grande quantità di sacchetti che, riempiti di terra, furono
portati sulle spalle dei soldati nella posizione, ed, in un istante, fabbricati
con quelli i ripari, ivi, in attesa del momento di avanzare, si fermarono gli
assalitori al coperto dalle offese della piazza». (Enrico Rocchi, Un
notevole aspetto delle campagne di Cesare nelle Gallie, «Nuova Antologia»,
1° gennaio 1929).
[Il fuoruscitismo
politico nel Medioevo.] In che misura lo sciamare in tutta Europa di
eminenti e mediocri personalità italiane (ma di un certo vigore di carattere)
fu dovuto ai risultati delle lotte interne delle fazioni comunali, al fuoruscitismo
politico cioè? Questo fenomeno fu persistente dopo la seconda metà del secolo
XIII: lotte comunali con dispersione delle fazioni vinte, lotte contro i
principati, elementi di protestantesimo ecc., fino al 1848; nel secolo XIX il
fuoruscitismo muta di carattere, perché gli esiliati sono nazionalisti e non si
lasciano assorbire dai paesi di immigrazione (non tutti però: vedi Antonio
Panizzi divenuto direttore del British Museum e baronetto inglese). Di questo
elemento occorre tener conto, ma non è certo quello prevalente nel fenomeno
generale. Cosí in un certo periodo occorre tener conto del fatto che i principi
italiani sposavano le loro figlie con principi stranieri e ogni nuova regina di
origine italiana portava con sé un certo numero di letterati, artisti,
scienziati italiani (in Francia con le Medici, in Spagna con le Farnesi, in
Ungheria, ecc.) oltre a diventare un centro di attrazione dopo la salita al
trono.
Tutti questi fenomeni
devono essere studiati e la loro importanza relativa fissata esattamente, in
modo da dare il proprio valore al fatto fondamentale. Nell'articolo Il
Petrarca a Montpellier, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929,
Carlo Segré ricorda come ser Petracco, bandito da Firenze e stabilitosi con la famiglia
a Carpentras, volle che suo figlio Francesco frequentasse l'Università di
Montpellier per intraprendere l'attività legale. «La scelta poi si mostrava
ottima, perché in Italia e nel Mezzogiorno della Francia grande era allora la
richiesta di giuristi da parte di principi e di governi municipali, che li
adoperavano come giudici, magistrati, ambasciatori e consulenti, senza dire che
restava loro aperto l'esercizio privato dell'avvocatura, meno onorifico ma
sempre vantaggioso per chi non mancasse di sveltezza». L'Università di
Montpellier fu fondata nel 1160 dal giureconsulto Piacentino, che si era
formato a Bologna e aveva portato in Provenza i metodi dell'insegnamento di
Irnerio (questo Piacentino era però italiano? occorre sempre fare delle ricerche
perché i nomi italiani possono essere soprannomi o italianizzazioni). Certo che
molti italiani furono chiamati dall'estero, per organizzarvi università sul
modello bolognese, pavese, ecc.
Un «Dizionario degli italiani all'estero».Cesare
Balbo aveva scritto: «Una storia intiera e magnifica e peculiare all'Italia
sarebbe a fare degli Italiani fuori d'Italia». Nel 1890 fu pubblicato un saggio
di Dizionario degli italiani all'estero, come opera postuma di Leo
Benvenuti (uno studioso modesto). Nella prefazione il Benvenuti osservava che
date le condizioni delle ricerche bibliografiche al suo tempo, non sarebbe
stato possibile andare oltre a un indice che avrebbe poi dovuto servire a chi
si fosse accinto a scrivere la storia. Le categorie in cui il Benvenuti suddivide
l'elenco onomastico (le principali) sono: Ambasciatori, antiquari, architetti,
artisti (drammatici, coreografici, acrobati), astronomi, botanici, cantanti,
eruditi, filosofi, fisici, geografi, giureconsulti, incisori, ingegneri (civili
e militari), linguisti, insegnanti, matematici, medici e chirurghi, maestri di
musica, mercanti, missionari, naturalisti, nunzi apostolici, pittori scultori e
poeti, soldati di mare, soldati di terra, sovrani, storici, teologi, uomini di
chiesa, viaggiatori, statisti. (Come si vede, il Benvenuti non aveva altro
punto di vista che quello della nazionalità e l'opera sua, se completa, sarebbe
stata un censimento degli italiani all'estero; secondo me la ricerca deve
essere di carattere qualitativo e cioè studiare come le classi dirigenti –
politiche e culturali – di una serie di paesi, furono rafforzate da elementi
italiani i quali contribuirono a crearvi una civiltà nazionale, mentre in
Italia appunto una classe nazionale mancava e non riusciva a formarsi: è questa
emigrazione di elementi dirigenti che rappresenta un fatto storico peculiare,
corrispondente all'impossibilità italiana di utilizzare e unificare i suoi
cittadini piú energici e intraprendenti). Il Benvenuti prendeva le mosse
dall'anno 1000.
Promossa dal Capo del Governo, affidata al ministero
degli Affari Esteri, con la collaborazione del Reale Istituto di Archeologia e
Storia dell'Arte, è in preparazione una voluminosissima pubblicazione
intitolata L'Opera del Genio italiano all'estero. L'idea pare sia stata
suggerita da Gioacchino Volpe che deve avere scritto il programma dell'opera
(in un discorso all'Accademia, annotato in altro quaderno, il Volpe preannunziò
questo lavoro). Nel programma si legge: «La Storia del genio italiano all'estero che noi
vogliamo narrare trascura i tempi antichi staccati da noi da secoli oscuri e
muove dalla civiltà che, spuntata dopo il Mille, ha raggiunto, sia pure tra
soste e sussulti, i nostri giorni, rinnovellata da conquiste ideali e da
conquiste politiche, donde l'odierna unità dell'anima e della patria italiana.
Sarà opera oggettiva, scevra di antagonismi e di polemiche, ma di giusta
celebrazione per quanto il genio italiano, considerato nel suo complesso, operò
nel mondo per il bene di tutti». L'opera sarà divisa in dodici serie le quali
sono indicate in ordine progressivo, avvertendosi che ogni serie comprenderà
uno o piú volumi distribuiti in massima secondo il criterio geografico. Le 12
serie sarebbero: 1) Artisti di ogni arte; 2) Musicisti; 3) Letterati; 4)
Architetti militari; 5) Uomini di guerra; 6) Uomini di mare; 7) Esploratori e
Viaggiatori; 8) Principi; 9) Uomini politici; 10) Santi sacerdoti missionari;
11) Scienziati; 12) Banchieri mercanti colonizzatori. L'opera sarà riccamente
illustrata. La
Commissione Direttiva è composta del prof. Giulio Quirino
Giglioli, di S. E. Vincenzo Lojacono e del Sen. Corrado Ricci. Segretario
generale della Commissione è il barone Giovanni Di Giura. L'edizione sarà di
1000 esemplari di cui 50 di lusso. (Queste notizie sono ricavate dal «Marzocco»
del 6 marzo 1932).
Nell'ICS [Italia che
scrive] dell'ottobre 1929, Dino Provenzal, nella rubrica «Libri da fare»
propone: Una storia degli italiani fuori d'Italia, e scrive: «L'invocava
Cesare Balbo tanti anni fa, come ricorda il Croce nella sua recente Storia
della età barocca in Italia. Chi raccogliesse notizie ampie, sicure,
documentate, intorno all'opera di nostri connazionali esuli, o semplicemente
emigrati, mostrerebbe un lato ancora ignoto dell'attitudine che gli Italiani
hanno sempre posseduto a diffondere idee e costruire opere in ogni parte del
mondo. Il Croce, nel ricordare il disegno del Balbo, dice che questa non
sarebbe storia d'Italia. Secondo come s'intende: storia del pensiero e del
lavoro italiano sí».
Né il Croce né il Provenzal
intendono ciò che potrebbe essere questa ricerca. Vedere e studiare questa
parte del Croce, che vede il fenomeno, mi pare, troppo legato (o esclusivamente
legato) alla Controriforma e alle condizioni dell'Italia nel Seicento. Ora è
certo invece che proprio la
Controriforma doveva automaticamente accentuare il carattere
cosmopolitico degli intellettuali italiani e il loro distacco dalla vita
nazionale. Botero, Campanella, ecc., sono politici «europei», ecc.
Da un articolo di Arturo
Pompeati (Tre secoli d'italianismo in Europa, «Marzocco» del 6
marzo 1932) sul volume di Antero Meozzi: Azione e diffusione della
letteratura italiana in Europa (sec. XV-XVII) , Pisa,
Vallerini, 1932, in
8°, pp. XXXII-304. È il primo volume di una serie. Il libro è composto di tre
lunghi capitoli: Gli italiani all'estero, Stranieri in Italia, Le
vie di diffusione dell'italianesimo. Capitolo per capitolo, le suddivisioni
sono metodiche: paese per paese, le correnti, i gruppi, gli scrittori e non
scrittori migrati dall'Italia o in Italia: e nell'ultimo capitolo i traduttori,
i divulgatori, gli imitatori della nostra letteratura, genere per genere,
autore per autore. Il libro ha l'andamento di un repertorio di nomi, a cui
nelle note corrisponde la bibliografia relativa. Ci sono cosí i materiali della
«egemonia» letteraria italiana, durata appunto tre secoli, dal XV al XVII,
quando è cominciata la reazione antitaliana: dopo non si può piú parlare di
influssi italiani in Europa (l'espressione «egemonia» è qui errata, perché gli
intellettuali italiani non esercitarono l'influsso come gruppo nazionale, ma
ogni individuo direttamente e per emigrazione di massa). Il Pompeati elogia il
libro del Meozzi, sia per la raccolta dei materiali, sia per i criteri di
ricerca e per l'ideologia moderata. È evidente che per molti aspetti il Meozzi
si pone dei problemi inesistenti o retorici.
Molto severo è invece il
Croce nella «Critica» del maggio 1932. Per il Croce il libro del Meozzi è una
futilità inutile, una raccolta arida di nomi e di notizie né nuove né
peregrine. «L'autore ha compilato da libri ed articoli notissimi, e, non avendo
seguito ricerche originali in alcuno dei vari campi da lui toccati, non essendo
pratico di essi, ha compilato senza discernimento». «Anche la materiale esattezza
delle notizie e delle citazioni lascia assai da desiderare». Il Croce dà un
mazzetto di errori di fatto e di metodo molto gravi. Tuttavia il libro del
Meozzi potrebbe essere utile per questa rubrica come materiale di prima
approssimazione.
Gioacchino Volpe nell'articolo (discorso) Il
primo anno dell'Accademia d'Italia («Nuova Antologia», 16 giugno 1930) a p.
494 tra i libri di storia che l'Accademia (Sezione di scienze morali-storiche)
desidererebbe fossero scritti accenna: «O dedicati a quella mirabile irradiazione
della nostra cultura che si ebbe fra il XV e XVII secolo, dall'Italia verso
l'Europa, pur mentre dall'Europa muovevano verso l'Italia le nuove
invasioni e dominazioni».
[Mercanti lucchesi in
Francia.] Nel «Bollettino storico lucchese» del 1929 o degli inizi
del 1930 è apparso uno studio di Eugenio Lazzareschi sui rapporti colla Francia
dei mercanti lucchesi nel Medioevo. I lucchesi, frequentando ininterrottamente
dal secolo XII i grandi mercati delle città e le famose fiere della Fiandra e
della Francia, erano divenuti proprietari di larghi fondi, agenti commerciali o
fornitori delle Corone di Francia e di Borgogna, funzionari ed appaltatori
nelle amministrazioni civili e finanziarie: avevano contratto parentadi
illustri e s'erano cosí bene acclimatati in Francia che potevano ormai dire di
avere due patrie: Lucca e la
Francia. Perciò uno di loro, Galvano Trenta, all'inizio del
1411 scriveva a Paolo Guinigi di pregare il nuovo Papa, non appena eletto, che
richiedesse al re di Francia che ogni lucchese fosse riconosciuto «borghese» di
Parigi.
[Pippo Spano in Ungheria.] Il «Marzocco» del 4
ottobre 1931 riassume dall'«Illustrazione Toscana» un articolo del dottor
Ladislao Holik-Barabàs su Filippo Scolari detto Pippo Spano, che fu «una delle
figure piú caratteristiche fra gli italiani che hanno portato lungi dalla
patria straordinarie energie conquistando gradi eminenti nei paesi d'elezione».
Lo Scolari fu successivamente intendente delle miniere, poi liberatore del
sovrano, re Sigismondo d'Ungheria, conte di Temesvar, governatore generale
dell'Ungheria e condottiero degli ungheresi contro i turchi. Pippo Spano morí
il 27 dicembre 1426.
[La diplomazia libero mestiere.] Cfr. Renaud
Przezdziecki, Ambasciatori veneti in Polonia, «Nuova Antologia», 1°
luglio 1930:
«La mancanza di una unità patria, di una dinastia
unica, creava tra gli italiani uno stato di spirito indipendente, per
cui ciascuno che fosse fornito di capacità politiche e diplomatiche, le
considerava come un talento personale che poteva mettere, secondo il suo
interesse, al servizio di qualunque causa, allo stesso modo che i capitani
di ventura disponevano della loro spada. La diplomazia considerata come un
libero mestiere, creava cosí, nei secoli XVII e XVIII, il tipo del diplomatico senza
patria, di cui l'esempio piú classico è probabilmente il cardinale di
Mazzarino». La diplomazia, secondo il Przezdziecki, avrebbe trovato in Italia
un terreno naturale per nascere e svilupparsi: 1) vecchia cultura; 2)
frazionamento «statale» che dava luogo a contrasti e lotte politiche e
commerciali e quindi favoriva lo sviluppo delle capacità diplomatiche.
In Polonia si ritrovano di questi diplomatici
italiani al servizio di altri Stati: un prelato fiorentino, monsignor Bonzi, fu
ambasciatore di Francia a Varsavia, dal 1664 al 1669; un marchese de Monti,
bolognese, fu ambasciatore di Luigi XV presso Stanislao Lesczynski; un marchese
Lucchesini, fu ministro plenipotenziario del re di Prussia a Varsavia alla fine
del '700. I re di Polonia si servirono spesso delle abilità diplomatiche di
italiani, quantunque la nobiltà polacca avesse fatto approvare delle leggi che
vietavano ai sovrani di affidare a forestieri funzioni pubbliche. Ladislao
Jagellone, al principio del '400, aveva incaricato tal Giacomo de Paravesino di
missioni diplomatiche, come suo ambasciatore a Venezia, a Milano, a Mantova.
L'umanista fiorentino Filippo Buonaccorsi da Fiesole detto il Callimaco, dopo
essere stato pedagogo dei figli di Casimiro III, andò ambasciatore di questo re
presso Sisto IV, Innocenzo VIII, la Repubblica di Venezia e il Sultano. Nel secolo
XVI, furono ambasciatori polacchi in vari Stati Luigi del Monte, Pietro degli
Angeli, i fratelli Magni di Como. Nel secolo XVI, Domenico Roncalli è ministro
di Ladislao IV a Parigi e negozia il matrimonio di quel sovrano con Luisa Maria
Gonzaga; Francesco Bibboni è ambasciatore polacco a Madrid, Andrea Bollo è
ministro di Polonia presso la
Repubblica di Genova e un dall'Oglio incaricato d'affari a
Venezia alla fine del secolo XVIII. Tra i rappresentanti polacchi presso la Santa Sede troviamo
anche, nella seconda metà del secolo XVIII, un cardinale Antici e un conte di
Lagnasco.
Gli Italiani hanno creato la diplomazia moderna. La Santa Sede, durante
lunghi secoli arbitra in buona parte della politica mondiale, fu la prima a
istituire Nunziature stabili e la
Repubblica di Venezia fu il primo Stato che organizzò un
servizio diplomatico regolare.
[Italiani in Russia.]
Articolo di Ferdinando Nunziante Gli italiani in Russia durante il secolo
XVIII, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Articolo mediocre
e superficiale, senza indicazioni di fonti per le notizie riportate. Se ne
possono trarre spunti e indicazioni generiche. Già l'importanza degli
intellettuali italiani era caduta e si apriva l'èra degli avventurieri. Scrive
il Nunziante per la Russia
del '700: «Dalla Germania venivano ingegneri e generali per l'esercito;
dall'Inghilterra ammiragli per la flotta; dalla Francia ballerini, parrucchieri
e filosofi, cuochi ed enciclopedisti; dall'Italia principalmente pittori,
maestri di cappella e cantanti». Ricorda che i Panini d'origine lucchese furono
il ceppo della famiglia dei conti Panin, ecc.
Cfr. l'articolo di Giuseppe Tucci, Del supposto
architetto del Taj e di altri italiani alla corte del Mogul, nella «Nuova
Antologia» del 1° maggio 1930. Il supposto architetto del Taj sarebbe stato
Jeromino Veroneo, morto nel 1640, cioè prima che Taj fosse ultimato (1648), ma
che si suppone abbia fatto il piano, ultimato poi da un mussulmano (vedi
l'articolo per i dettagli).
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