Per
la ricerca del principio
educativo
La frattura determinata dalla riforma Gentile tra la
scuola elementare e media da una parte e quella superiore dall'altra. Prima
della riforma una frattura simile esisteva solo in modo molto marcato tra la
scuola professionale da una parte e le scuole medie e superiori dall'altra: la
scuola elementare era posta in una specie di limbo, per alcuni suoi caratteri
particolari.
Nelle scuole elementari due elementi si prestavano
all'educazione e alla formazione dei bambini: le prime nozioni di scienze
naturali e le nozioni di diritti e doveri del cittadino. Le nozioni
scientifiche dovevano servire a introdurre il bambino nella societas rerum,
i diritti e doveri nella vita statale e nella società civile. Le nozioni
scientifiche entravano in lotta con la concezione magica del mondo e della
natura che il bambino assorbe dall'ambiente impregnato di folclore, come le
nozioni di diritti e doveri entrano in lotta con le tendenze alla barbarie
individualistica e localistica, che è anch'essa un aspetto del folclore. La
scuola col suo insegnamento lotta contro il folclore, con tutte le
sedimentazioni tradizionali di concezioni del mondo per diffondere una
concezione piú moderna, i cui elementi primitivi e fondamentali sono dati
dall'apprendimento dell'esistenza delle leggi della natura come qualcosa di
oggettivo e di ribelle a cui occorre adattarsi per dominarle, e delle leggi
civili e statali che sono un prodotto di una attività umana, che sono stabilite
dall'uomo e possono essere dall'uomo mutate per i fini del suo sviluppo
collettivo; la legge civile e statale ordina gli uomini nel modo storicamente
piú conforme a dominare le leggi della natura, cioè a facilitare il loro
lavoro, che è il modo proprio dell'uomo di partecipare attivamente alla vita
della natura per trasformarla e socializzarla sempre piú profondamente ed
estesamente. Si può dire perciò che il principio educativo che fondava le
scuole elementari era il concetto di lavoro, che non può realizzarsi in tutta
la sua potenza di espansione e di produttività senza una conoscenza esatta e
realistica delle leggi naturali e senza un ordine legale che regoli
organicamente la vita degli uomini tra di loro, ordine che deve essere
rispettato per convinzione spontanea e non solo per imposizione esterna, per
necessità riconosciuta e proposta a se stessi come libertà e non per mera
coercizione. Il concetto e il fatto del lavoro (dell'attività teorico-pratica)
è il principio educativo immanente nella scuola elementare, poiché l'ordine
sociale e statale (diritti e doveri) è dal lavoro introdotto e identificato
nell'ordine naturale. Il concetto dell'equilibrio tra ordine sociale e ordine
naturale sul fondamento del lavoro, dell'attività teorico-pratica dell'uomo,
crea i primi elementi di una intuizione del mondo, liberata da ogni magia e
stregoneria, e dà l'appiglio allo sviluppo ulteriore di una concezione storica,
dialettica, del mondo, a comprendere il movimento e il divenire, a valutare la
somma di sforzi e di sacrifizi che è costato il presente al passato e che
l'avvenire costa al presente, a concepire l'attualità come sintesi del passato,
di tutte le generazioni passate, che si proietta nel futuro. Questo è il
fondamento della scuola elementare; che esso abbia dato tutti i suoi frutti,
che nel corpo dei maestri ci sia stata la consapevolezza del loro compito e del
contenuto filosofico del loro compito, è altra quistione, connessa alla critica
del grado di coscienza civile di tutta la nazione, di cui il corpo magistrale
era solo un'espressione, immeschinita ancora, e non certo un'avanguardia.
Non è completamente esatto che l'istruzione non sia
anche educazione: l'aver insistito troppo in questa distinzione è stato grave
errore della pedagogia idealistica e se ne vedono già gli effetti nella scuola
riorganizzata da questa pedagogia. Perché l'istruzione non fosse anche
educazione bisognerebbe che il discente fosse una mera passività, un «meccanico
recipiente» di nozioni astratte, ciò che è assurdo e del resto viene «astrattamente»
negato dai sostenitori della pura educatività appunto contro la mera istruzione
meccanicistica. Il «certo» diventa «vero» nella coscienza del fanciullo. Ma la
coscienza del fanciullo non è alcunché di «individuale» (e tanto meno di
individuato), è il riflesso della frazione di società civile cui il fanciullo
partecipa, dei rapporti sociali quali si annodano nella famiglia, nel vicinato,
nel villaggio, ecc. La coscienza individuale della stragrande maggioranza dei
fanciulli riflette rapporti civili e culturali diversi e antagonistici con
quelli che sono rappresentati dai programmi scolastici: il «certo» di una
cultura progredita, diventa «vero» nei quadri di una cultura fossilizzata e
anacronistica, non c'è unità tra scuola e vita, e perciò non c'è unità tra
istruzione e educazione. Perciò si può dire che nella scuola il nesso
istruzione-educazione può solo essere rappresentato dal lavoro vivente del
maestro, in quanto il maestro è consapevole dei contrasti tra il tipo di
società e di cultura che egli rappresenta e il tipo di società e di cultura
rappresentato dagli allievi ed è consapevole del suo compito che consiste
nell'accelerare e nel disciplinare la formazione del fanciullo conforme al tipo
superiore in lotta col tipo inferiore. Se il corpo magistrale è deficiente e il
nesso istruzione-educazione viene sciolto per risolvere la quistione
dell'insegnamento secondo schemi cartacei in cui l'educatività è esaltata,
l'opera del maestro risulterà ancor piú deficiente: si avrà una scuola
retorica, senza serietà, perché mancherà la corposità materiale del certo, e il
vero sarà vero di parole, appunto retorica. La degenerazione si vede ancor
meglio nella scuola media, per i corsi di letteratura e filosofia. Prima gli
allievi, per lo meno, si formavano un certo «bagaglio» o «corredo» (secondo i
gusti) di nozioni concrete: ora che il maestro deve essere specialmente un
filosofo e un esteta, l'allievo trascura le nozioni concrete e si «riempie la
testa» di formule e parole che per lui non hanno senso, il piú delle volte, e
che vengono subito dimenticate. La lotta contro la vecchia scuola era giusta,
ma la riforma non era cosa cosí semplice come pareva, non si trattava di schemi
programmatici, ma di uomini, e non degli uomini che immediatamente sono
maestri, ma di tutto il complesso sociale di cui gli uomini sono espressione.
In realtà un mediocre insegnante può riuscire a ottenere che gli allievi
diventino piú istruiti, non riuscirà ad ottenere che siano piú colti;
egli svolgerà con scrupolo e coscienza burocratica la parte meccanica della
scuola e l'allievo, se è un cervello attivo, ordinerà per conto suo, e con
l'aiuto del suo ambiente sociale, il «bagaglio» accumulato. Coi nuovi
programmi, che coincidono con un abbassamento generale del livello del corpo
insegnante, non vi sarà «bagaglio» del tutto da ordinare. I nuovi programmi
avrebbero dovuto abolire completamente gli esami; dare un esame, ora,
dev'essere terribilmente piú «giuoco d'azzardo» d'una volta. Una data è sempre
una data, qualsiasi professore esamini, e una «definizione» è sempre una
definizione; ma un giudizio, un'analisi estetica o filosofica?
L'efficacia educativa della vecchia scuola media
italiana, quale l'aveva organizzata la vecchia legge Casati, non era da
ricercare (o da negare) nella volontà espressa di essere o no scuola educativa,
ma nel fatto che il suo organamento e i suoi programmi erano l'espressione di
un modo tradizionale di vita intellettuale e morale, di un clima culturale
diffuso in tutta la società italiana per antichissima tradizione. Che un tale
clima e un tal modo di vivere siano entrati in agonia e che la scuola si sia
staccata dalla vita, ha determinato la crisi della scuola. Criticare i
programmi e l'organamento disciplinare della scuola, vuol dire meno che niente,
se non si tiene conto di tali condizioni. Cosí si ritorna alla partecipazione
realmente attiva dell'allievo alla scuola, che può esistere solo se la scuola è
legata alla vita. I nuovi programmi, quanto piú affermano e teorizzano
l'attività del discente, e la sua collaborazione operosa col lavoro del
docente, e tanto piú sono disposti come se il discente fosse una mera
passività. Nella vecchia scuola lo studio grammaticale delle lingue latina e
greca, unito allo studio delle letterature e storie politiche rispettive, era
un principio educativo in quanto l'ideale umanistico, che si impersona in Atene
e Roma, era diffuso in tutta la società, era un elemento essenziale della vita
e della cultura nazionale. Anche la meccanicità dello studio grammaticale era
avviata dalla prospettiva culturale. Le singole nozioni non venivano apprese
per uno scopo immediato pratico-professionale: esso appariva disinteressato,
perché l'interesse era lo sviluppo interiore della personalità, la formazione
del carattere attraverso l'assorbimento e l'assimilazione di tutto il passato
culturale della moderna civiltà europea. Non si imparava il latino e il greco
per parlarli, per fare i camerieri, gli interpreti, i corrispondenti
commerciali. Si imparava per conoscere direttamente la civiltà dei due popoli,
presupposto necessario della civiltà moderna, cioè per essere se stessi e
conoscere se stessi consapevolmente. La lingua latina e greca si imparava
secondo grammatica, meccanicamente; ma c'è molta ingiustizia e improprietà
nell'accusa di meccanicità e di aridità. Si ha che fare con ragazzetti, ai
quali occorre far contrarre certe abitudini di diligenza, di esattezza, di
compostezza anche fisica, di concentrazione psichica su determinati soggetti
che non si possono acquistare senza una ripetizione meccanica di atti
disciplinati e metodici. Uno studioso di quarant'anni sarebbe capace di stare a
tavolino sedici ore di seguito, se da bambino non avesse coattivamente, per
coercizione meccanica, assunto le abitudini psicofisiche appropriate? Se si
vuole selezionare dei grandi scienziati, occorre ancora incominciare da quel
punto e occorre premere su tutta l'area scolastica per riuscire a far emergere
quelle migliaia o centinaia o anche solo dozzine di studiosi di gran nerbo, di
cui ogni civiltà ha bisogno (se pure si può molto migliorare in questo campo,
con l'aiuto dei sussidi scientifici adeguati, senza tornare ai metodi
scolastici dei gesuiti).
Si impara il latino (o meglio, si studia il latino),
lo si analizza fin nei suoi membretti piú elementari, si analizza come una cosa
morta, è vero, ma ogni analisi fatta da un fanciullo non può essere che su cose
morte; d'altronde non bisogna dimenticare che dove questo studio avviene in
queste forme, la vita dei romani è un mito che in una certa misura ha già interessato
il fanciullo e lo interessa, sicché nel morto è sempre presente un piú grande
vivente. Eppoi: la lingua è morta, è analizzata come una cosa inerte, come un
cadavere sul tavolo anatomico, ma rivive continuamente negli esempi, nelle
narrazioni. Si potrebbe fare lo stesso studio con l'italiano? Impossibile:
nessuna lingua viva potrebbe essere studiata come il latino: sarebbe e sembrerebbe
assurdo. Nessuno dei fanciulli conosce il latino quando ne inizia lo studio
con quel tal metodo analitico. Una lingua viva potrebbe esser conosciuta e
basterebbe che un solo fanciullo la conoscesse, per rompere l'incanto: tutti
andrebbero alla scuola Berlitz, immediatamente. Il latino si presenta (cosí
come il greco) alla fantasia come un mito, anche per l'insegnante. Il latino
non si studia per imparare il latino; il latino, da molto tempo, per una
tradizione culturale-scolastica di cui si potrebbe ricercare l'origine e lo
sviluppo, si studia come elemento di un ideale programma scolastico, elemento
che riassume e soddisfa tutta una serie di esigenze pedagogiche e psicologiche;
si studia per abituare i fanciulli a studiare in un determinato modo, ad
analizzare un corpo storico che si può trattare come un cadavere che
continuamente si ricompone in vita, per abituarli a ragionare, ad astrarre
schematicamente pur essendo capaci dall'astrazione a ricalarsi nella vita reale
immediata, per vedere in ogni fatto o dato ciò che ha di generale e ciò che di
particolare, il concetto e l'individuo. E cosa non significa educativamente il
continuo paragone tra il latino e la lingua che si parla? La distinzione e
l'identificazione delle parole e dei concetti, tutta la logica formale, con le
contraddizioni degli opposti e l'analisi dei distinti, col movimento storico
dell'insieme linguistico, che si modifica nel tempo, che ha un divenire e non è
solo una staticità. Negli otto anni di ginnasio-liceo si studia tutta la lingua
storicamente reale, dopo averla vista fotografata in un istante astratto, in
forma di grammatica: si studia da Ennio (e anzi dalle parole dei frammenti
delle dodici tavole) a Fedro e ai cristiano-latini: un processo storico è
analizzato dal suo sorgere alla sua morte nel tempo, morte apparente, perché si
sa che l'italiano, con cui il latino è continuamente confrontato, è latino
moderno. Si studia la grammatica di una certa epoca, un'astrazione, il
vocabolario di un periodo determinato, ma si studia (per comparazione) la
grammatica e il vocabolario di ogni autore determinato, e il significato di
ogni termine in ogni «periodo» (stilistico) determinato: si scopre cosí che la
grammatica e il vocabolario di Fedro non sono quelli di Cicerone, né quelli di
Plauto, o di Lattanzio e Tertulliano, che uno stesso nesso di suoni non ha lo
stesso significato nei diversi tempi, nei diversi scrittori. Si paragona
continuamente il latino e l'italiano: ma ogni parola è un concetto, una
immagine, che assume sfumature diverse nei tempi, nelle persone, in ognuna
delle due lingue comparate. Si studia la storia letteraria dei libri scritti in
quella lingua, la storia politica, le gesta degli uomini che hanno parlato
quella lingua. Da tutto questo complesso organico è determinata l'educazione
del giovinetto, dal fatto che anche solo materialmente ha percorso tutto
quell'itinerario, con quelle tappe, ecc. Si è tuffato nella storia, ha
acquistato una intuizione storicistica del mondo e della vita, che diventa una
seconda natura, quasi una spontaneità, perché non pedantescamente inculcata per
«volontà» estrinsecamente educativa. Questo studio educava senza averne la
volontà espressamente dichiarata, col minimo intervento «educativo»
dell'insegnante: educava perché istruiva. Esperienze logiche, artistiche,
psicologiche erano fatte senza «rifletterci su», senza guardarsi continuamente
allo specchio, ed era fatta specialmente una grande esperienza «sintetica»,
filosofica, di sviluppo storico-reale.
Ciò non vuol dire (e sarebbe inetto pensarlo) che il
latino e il greco, come tali, abbiano qualità intrinsecamente taumaturgiche nel
campo educativo. È tutta la tradizione culturale, che vive anche e specialmente
fuori della scuola, che in un dato ambiente, produce tali conseguenze. Si vede,
d'altronde, come, mutata la tradizionale intuizione della cultura, la scuola
sia entrata in crisi e sia entrato in crisi lo studio del latino e del greco.
Bisognerà sostituire il latino e il greco come fulcro
della scuola formativa e lo si sostituirà, ma non sarà agevole disporre la
nuova materia o la nuova serie di materie in un ordine didattico che dia
risultati equivalenti di educazione e formazione generale della personalità,
partendo dal fanciullo fino alla soglia della scelta professionale. In questo
periodo infatti lo studio o la parte maggiore dello studio deve essere (o
apparire ai discenti) disinteressato, non avere cioè scopi pratici immediati o
troppo immediati, deve essere formativo, anche se «istruttivo», cioè ricco di
nozioni concrete.
Nella scuola attuale, per la crisi profonda della
tradizione culturale e della concezione della vita e dell'uomo, si verifica un
processo di progressiva degenerazione: le scuole di tipo professionale, cioè
preoccupate di soddisfare interessi pratici immediati, prendono il sopravvento
sulla scuola formativa, immediatamente disinteressata. L'aspetto piú
paradossale è che questo nuovo tipo di scuola appare e viene predicata come
democratica, mentre invece essa non solo è destinata a perpetuare le differenze
sociali, ma a cristallizzarle in forme cinesi.
La scuola tradizionale è stata oligarchica perché
destinata alla nuova generazione dei gruppi dirigenti, destinata a sua volta a
diventare dirigente: ma non era oligarchica per il modo del suo insegnamento.
Non è l'acquisto di capacità direttive, non è la tendenza a formare uomini
superiori che dà l'impronta sociale a un tipo di scuola. L'impronta sociale è
data dal fatto che ogni gruppo sociale ha un proprio tipo di scuola, destinato
a perpetuare in questi strati una determinata funzione tradizionale, direttiva
o strumentale. Se si vuole spezzare questa trama, occorre dunque non moltiplicare
e graduare i tipi di scuola professionale, ma creare un tipo unico di scuola
preparatoria (elementare-media) che conduca il giovinetto fino alla soglia
della scelta professionale, formandolo nel frattempo come persona capace di
pensare, di studiare, di dirigere o di controllare chi dirige.
Il moltiplicarsi di tipi di scuola professionale,
tende dunque a eternare le differenze tradizionali, ma siccome, in queste
differenze, tende a suscitare stratificazioni interne, ecco che fa nascere
l'impressione di una sua tendenza democratica. Manovale e operaio qualificato,
per esempio; contadino e geometra o piccolo agronomo ecc. Ma la tendenza
democratica, intrinsecamente, non può solo significare che un operaio manovale
diventa qualificato, ma che ogni «cittadino» può diventare «governante» e che
la società lo pone, sia pure «astrattamente», nelle condizioni generali di
poterlo diventare; la democrazia politica tende a far coincidere governanti e
governati (nel senso del governo col consenso dei governati), assicurando a
ogni governato l'apprendimento gratuito della capacità e della preparazione
tecnica generale necessarie al fine. Ma il tipo di scuola che si sviluppa come
scuola per il popolo non tende neanche piú a mantenere l'illusione, poiché essa
si organizza sempre piú in modo da restringere la base del ceto governante
tecnicamente preparato, in un ambiente sociale politico che restringe ancor piú
l'«iniziativa privata» nel senso di dare questa capacità e preparazione
tecnico-politica, in modo che si ritorna in realtà alle divisioni di «ordini»
giuridicamente fissati e cristallizzati piú che al superamento delle divisioni
in gruppi: il moltiplicarsi delle scuole professionali sempre piú specializzate
fin dall'inizio della carriera degli studi è una delle manifestazioni piú
vistose di questa tendenza.
A proposito del dogmatismo e del
criticismo-storicismo nella scuola elementare e media, è da osservare che la
nuova pedagogia ha voluto battere in breccia il dogmatismo proprio nel campo dell'istruzione,
dell'apprendimento delle nozioni concrete, cioè proprio nel campo in cui un
certo dogmatismo è praticamente imprescindibile e può venire riassorbito e
disciolto solo nel ciclo intero del corso scolastico (non si può insegnare la
grammatica storica nelle elementari e nel ginnasio), ma è costretta poi a veder
introdotto il dogmatismo per eccellenza nel campo del pensiero religioso e
implicitamente a veder descritta tutta la storia della filosofia come un
succedersi di follie e di deliri.
Nell'insegnamento della filosofia il nuovo corso
pedagogico (almeno per quegli alunni, e sono la stragrande maggioranza, che non
ricevono aiuti intellettuali fuori della scuola, in famiglia o nell'ambiente
familiare, e devono formarsi solo con le indicazioni che ricevono in classe)
impoverisce l'insegnamento, e ne abbassa il livello, praticamente, nonostante
che razionalmente sembri bellissimo, di un bellissimo utopistico. La filosofia
descrittiva tradizionale, rafforzata da un corso di storia della filosofia e
dalla lettura di un certo numero di filosofi, praticamente sembra la miglior
cosa. La filosofia descrittiva e definitrice sarà un'astrazione dogmatica, come
la grammatica e la matematica, ma è una necessità pedagogica e didattica. 1 = 1
è un'astrazione, ma nessuno è perciò condotto a pensare che 1 mosca è uguale a
1 elefante. Anche le regole della logica formale sono astrazioni dello stesso
genere, sono come la grammatica del pensare normale eppure occorre studiarle,
perché non sono qualcosa di innato, ma devono essere acquisite col lavoro e con
la riflessione. Il nuovo corso presuppone che la logica formale sia qualcosa
che già si possiede quando si pensa, ma non spiega come la si debba acquisire,
sí che praticamente è come se la supponesse innata. La logica formale è come la
grammatica: viene assimilata in modo «vivente» anche se l'apprendimento
necessariamente sia stato schematico e astratto, poiché il discente non è un
disco di grammofono, non è un recipiente passivamente meccanico, anche se la
convenzionalità liturgica degli esami cosí lo fa apparire talvolta. Il rapporto
di questi schemi educativi collo spirito infantile è sempre attivo e creativo,
come attivo e creativo è il rapporto tra l'operaio e i suoi utensili di lavoro:
un calibro è un insieme di astrazioni, anch'esso, eppure non si producono
oggetti reali senza la calibratura, oggetti reali che sono rapporti sociali e
contengono implicite delle idee. Il fanciullo che si arrabbatta coi barbara,
baralipton, si affatica, certo, e bisogna cercare che egli debba fare la
fatica indispensabile e non piú, ma è anche certo che dovrà sempre faticare per
imparare a costringere se stesso a privazioni e limitazioni di movimento
fisico, cioè sottostare a un tirocinio psico-fisico. Occorre persuadere molta
gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale
tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di
adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza.
La partecipazione di piú larghe masse alla scuola media porta con sé la
tendenza a rallentare la disciplina dello studio, a domandare «facilitazioni».
Molti pensano addirittura che le difficoltà siano artificiose, perché sono
abituati a considerare lavoro e fatica solo il lavoro manuale. La quistione è
complessa. Certo il fanciullo di una famiglia tradizionale di intellettuali
supera piú facilmente il processo di adattamento psico-fisico; entrando già la
prima volta in classe ha parecchi punti di vantaggio sui suoi compagni, ha un'orientazione
già acquisita per le abitudini famigliari: si concentra nell'attenzione con piú
facilità, perché ha l'abito del contegno fisico ecc. Allo stesso modo il figlio
di un operaio di città soffre meno entrando in fabbrica di un ragazzo di
contadini o di un giovane contadino già sviluppato per la vita rurale. Anche il
regime alimentare ha un'importanza, ecc. ecc. Ecco perché molti del popolo
pensano che nella difficoltà dello studio ci sia un «trucco» a loro danno
(quando non pensano di essere stupidi per natura): vedono il signore (e per
molti, nelle campagne specialmente, signore vuol dire intellettuale) compiere
con scioltezza e apparente facilità il lavoro che ai loro figli costa lacrime e
sangue, e pensano ci sia un «trucco». In una nuova situazione, queste quistioni
possono diventare asprissime e occorrerà resistere alla tendenza di render
facile ciò che non può esserlo senza essere snaturato. Se si vorrà creare un
nuovo strato di intellettuali, fino alle piú grandi specializzazioni, da un
gruppo sociale che tradizionalmente non ha sviluppato le attitudini conformi,
si avranno da superare difficoltà inaudite.
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