Note sparse
[Alcuni princípi della
pedagogia moderna.] Cercare l'origine storica esatta di alcuni princípi
della pedagogia moderna: la scuola attiva ossia la collaborazione amichevole
tra maestro e alunno; la scuola all'aperto; la necessità di lasciar libero,
sotto il vigile ma non appariscente controllo del maestro, lo sviluppo delle
facoltà spontanee dello scolaro.
La Svizzera ha dato un grande contributo alla pedagogia moderna (Pestalozzi, ecc.),
per la tradizione ginevrina di Rousseau; in realtà questa pedagogia è una forma
confusa di filosofia connessa [a] una serie di regole empiriche. Non si è
tenuto conto che le idee di Rousseau sono una reazione violenta alla scuola e
ai metodi pedagogici dei gesuiti e in quanto tali rappresentano un progresso:
ma si è poi formata una specie di chiesa che ha paralizzato gli studi
pedagogici e ha dato luogo a delle curiose involuzioni (nelle dottrine di
Gentile e del Lombardo-Radice). La «spontaneità» è una di queste involuzioni:
si immagina quasi che nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro
aiuta a sgomitolare. In realtà ogni generazione educa la nuova generazione,
cioè la forma e l'educazione è una lotta contro gli istinti legati alle
funzioni biologiche elementari, una lotta contro la natura, per dominarla e
creare l'uomo «attuale» alla sua epoca. Non si tiene conto che il bambino da
quando incomincia a «vedere e a toccare», forse da pochi giorni dopo la
nascita, accumula sensazioni e immagini, che si moltiplicano e diventano
complesse con l'apprendimento del linguaggio. La «spontaneità», se analizzata,
diventa sempre piú problematica. Inoltre la «scuola», cioè l'attività educativa
diretta, è solo una frazione della vita dell'alunno, che entra in contatto sia
con la società umana sia con la societas rerum e si forma criteri da
queste fonti «extrascolastiche» molto piú importanti di quanto comunemente si
creda. La scuola unica, intellettuale e manuale, ha anche questo vantaggio che
pone contemporaneamente il bambino a contatto con la storia umana e con la
storia delle «cose» sotto il controllo del maestro.
[Pedagogia meccanicistica e idealistica.] Antonio
Labriola. Per costruire un compiuto saggio su Antonio Labriola occorre
tener presenti, oltre gli scritti suoi, che sono scarsi e spesso soltanto
allusivi o estremamente sintetici, anche gli elementi e i frammenti di
conversazione riferiti dai suoi amici ed allievi (il Labriola ha lasciato
memoria di eccezionale «conversatore»). Nei libri di B. Croce, sparsamente, si
possono raccogliere parecchi di tali elementi e frammenti. Cosí nelle Conversazioni
Critiche (Serie Seconda), pp. 60-61: «Come fareste ad educare moralmente un
papuano?» domandò uno di noi scolari, tanti anni fa al prof. Labriola, in una
delle sue lezioni di pedagogia, obiettando contro l'efficacia della pedagogia.
«Provvisoriamente (rispose con vichiana ed hegeliana asprezza l'herbartiano
professore), provvisoriamente lo farei schiavo; e questa sarebbe la pedagogia
del caso, salvo a vedere se pei suoi nipoti e pronipoti si potrà cominciare ad
adoperare qualcosa della pedagogia nostra». Questa risposta del Labriola è da
avvicinare alla intervista da lui data sulla quistione coloniale (Libia) verso
il 1903 e riportata nel volume degli Scritti vari di filosofia e politica.
È da avvicinare anche al modo di pensare del Gentile per ciò che riguarda
l'insegnamento religioso nelle scuole primarie. Pare si tratti di uno
pseudo-storicismo, di un meccanicismo abbastanza empirico e molto vicino al piú
volgare evoluzionismo. Si potrebbe ricordare ciò che dice Bertrando Spaventa a
proposito di quelli che vorrebbero tenere sempre gli uomini in culla (cioè nel
momento dell'autorità, che pure educa alla libertà i popoli immaturi) e pensano
tutta la vita (degli altri) come una culla. Mi pare che storicamente il
problema sia da porre in altro modo: se, cioè, una nazione o un gruppo sociale
che è giunto a un grado superiore di civiltà non possa (e quindi debba)
«accelerare» il processo di educazione dei popoli e dei gruppi sociali piú
arretrati, universalizzando e traducendo in modo adeguato la sua nuova
esperienza. Cosí quando gli inglesi arruolano reclute tra popoli primitivi, che
non hanno mai visto un fucile moderno, non istruiscono queste reclute
all'impiego dell'arco, del boomerang, della cerbottana, ma proprio le
istruiscono al maneggio del fucile, sebbene le norme di istruzione siano
necessariamente adattate alla «mentalità» di quel determinato popolo primitivo.
Il modo di pensare implicito nella risposta del Labriola non pare pertanto
dialettico e progressivo, ma piuttosto meccanico e retrivo, come quello
«pedagogico-religioso» del Gentile che non è altro che una derivazione del
concetto che la «religione è buona per il popolo» (popolo = fanciullo = fase
primitiva del pensiero cui corrisponde la religione ecc.), cioè la rinunzia
(tendenziosa) a educare il popolo. Nella intervista sulla quistione coloniale
il meccanicismo implicito nel pensiero del Labriola appare anche piú evidente.
Infatti: può darsi benissimo che sia «necessario ridurre i papuani alla
schiavitú» per educarli, ma non è necessario meno che qualcuno affermi che ciò
non è necessario che contingentemente, perché esistono determinate condizioni,
che cioè questa è una necessità «storica» e non assoluta: è necessario anzi che
ci sia una lotta in proposito, e questa lotta è proprio la condizione per cui i
nipoti o pronipoti del papuano saranno liberati dalla schiavitú e saranno
educati con la pedagogia moderna. Che ci sia chi affermi recisamente che la
schiavitú dei papuani non è che una necessità del momento e si ribelli contro
tale necessità è anch'esso un fatto filosofico-storico: 1) perché contribuirà a
ridurre al tempo necessario il periodo di schiavitú; 2) perché indurrà gli
stessi papuani a riflettere su se stessi, ad autoeducarsi, in quanto sentiranno
di essere appoggiati da uomini di civiltà superiore; 3) perché solo questa
resistenza mostra che si è realmente in un periodo superiore di civiltà e di
pensiero, ecc. Lo storicismo del Labriola e del Gentile è di un genere molto
scadente: è lo storicismo dei giuristi per i quali il knut non è un knut
quando è un knut «storico». Si tratta d'altronde di un modo di pensare
molto nebuloso e confuso. Che nelle scuole elementari sia necessaria una
esposizione «dogmatica» delle nozioni scientifiche o sia necessaria una
«mitologia» non significa che il dogma debba essere quello religioso e la
mitologia quella determinata mitologia. Che un popolo o un gruppo sociale
arretrato abbia bisogno di una disciplina esteriore coercitiva, per essere
educato civilmente, non significa che debba essere ridotto in schiavitú, a meno
che non si pensi che ogni coercizione statale è schiavitú. C'è una coercizione
di tipo militare anche per il lavoro, che si può applicare anche alla classe
dominante, e che non è «schiavitú», ma l'espressione adeguata della pedagogia moderna
rivolta ad educare un elemento immaturo (che è bensí immaturo, ma è tale vicino
ad elementi già maturi, mentre la schiavitú organicamente è l'espressione di
condizioni universalmente immature). Lo Spaventa, che si metteva dal punto di
vista della borghesia liberale contro i «sofismi» storicistici delle classi
retrive, esprimeva, in forma sarcastica, una concezione ben piú progressiva e
dialettica che non il Labriola e il Gentile.
Hegel aveva affermato che la servitú è la culla della
libertà. Per Hegel, come per il Machiavelli, il «principato nuovo» (cioè il
periodo dittatoriale che caratterizza gli inizi di ogni nuovo tipo di Stato) e
la connessa servitú sono giustificati solo come educazione e disciplina
dell'uomo non ancora libero. Però B. Spaventa (Principî di etica,
Appendice, Napoli, 1904) commenta opportunamente: «Ma la culla non è la vita.
Alcuni ci vorrebbero sempre in culla».
(Un esempio tipico della culla che diventa tutta la
vita è offerto dal protezionismo doganale, che è sempre propugnato e
giustificato come «culla» ma tende a diventare una culla eterna).
L'Umanesimo. Studiare la riforma pedagogica
introdotta dall'Umanesimo: la sostituzione della «composizione scritta» alla
«disputa orale», per esempio, che ne è uno degli elementi «pratici» piú
significativi. (Ricordare alcune note sul modo di diffusione della cultura per
via orale, per discussione dialogica, attraverso l'oratoria, che determina
un'argomentazione poco rigorosa, e produce la convinzione immediata piú che
altro per via emotiva).
Ordine intellettuale e morale. Brani del libro
Lectures and Essays on University Subjects del cardinale Newman.
Anzitutto e in linea generalissima, la università ha il compito umano di
educare i cervelli a pensare in modo chiaro, sicuro e personale, districandoli
dalle nebbie e dal caos in cui minacciava di sommergerli una cultura
inorganica, pretenziosa e confusionaria, ad opera di letture male assortite,
conferenze piú brillanti che solide, conversazioni e discussioni senza
costrutto: «Un giovane d'intelletto acuto e vivace, sfornito di una solida
preparazione, non ha di meglio da presentare che un acervo di idee, quando vere
quando false, che per lui hanno lo stesso valore. Possiede un certo numero di
dottrine e di fatti, ma scuciti e dispersi, non avendo principî attorno ai
quali raccoglierli e situarli. Dice, disdice e si contraddice, e quando lo si
costringe a esprimere chiaramente il suo pensiero, non si raccapezza piú.
Scorge le obiezioni, meglio che le verità, propone mille quesiti ai quali nessuno
saprebbe rispondere, ma intanto egli nutre la piú alta opinione di sé e si
adira con quelli che dissentono da lui».
Il metodo che la disciplina universitaria prescrive
per ogni forma di ricerca è ben altro e ben altro è il risultato: è «la
formazione dell'intelletto, cioè un abito di ordine e di sistema, l'abito di
riportare ogni conoscenza nuova a quelle che possediamo, e di aggiustarle
insieme, e, quel che piú importa, l'accettazione e l'uso di certi principî,
come centro di pensiero... Là dove esiste una tale facoltà critica, la storia
non è piú un libro di novelle, né la biografia un romanzo; gli oratori e le
pubblicazioni della giornata perdono la infallibilità; la eloquenza non vale
piú il pensiero, né le affermazioni audaci o le descrizioni colorite tengono il
posto di argomenti». La disciplina universitaria deve essere considerata come
un tipo di disciplina per la formazione intellettuale attuabile anche in
istituzioni non «universitarie» in senso ufficiale.
Delle università
italiane. Perché non esercitano nel paese
quell'influsso di regolatrici della vita culturale che esercitano in altri
paesi? Uno dei motivi deve ricercarsi in ciò che nelle università il contatto
tra insegnanti e studenti non è organizzato. Il professore insegna dalla
cattedra alla massa degli ascoltatori, cioè svolge la sua lezione, e se ne va.
Solo nel periodo della laurea avviene che lo studente si avvicini al
professore, gli chieda un tema e consigli specifici sul metodo della ricerca
scientifica. Per la massa degli studenti i corsi non sono altro che una serie
di conferenze, ascoltate con maggiore o minore attenzione, tutte o solo una
parte: lo studente si affida alle dispense, all'opera che il docente stesso ha
scritto sull'argomento o alla bibliografia che ha indicato. Un maggiore
contatto esiste tra i singoli insegnanti e singoli studenti che vogliono
specializzarsi su una determinata disciplina: questo contatto si forma, per lo
piú, casualmente ed ha una importanza enorme per la continuità accademica e per
la fortuna delle varie discipline. Si forma, per esempio, per cause religiose,
politiche, di amicizia familiare. Uno studente diventa assiduo di un
professore, che lo incontra in biblioteca, lo invita a casa, gli consiglia
libri da leggere e ricerche da tentare. Ogni insegnante tende a formare una sua
«scuola», ha suoi determinati punti di vista (chiamati «teorie») su determinate
parti della sua scienza che vorrebbe veder sostenuti da «suoi seguaci o
discepoli». Ogni professore vuole che dalla sua università, in concorrenza con
le altre, escano giovani «distinti» che portino contributi «seri» alla sua
scienza. Perciò nella stessa facoltà c'è concorrenza tra professori di materie
affini per contendersi certi giovani che si siano già distinti con una
recensione o un articoletto o in discussioni scolastiche (dove se ne fanno). Il
professore allora guida veramente il suo allievo; gli indica un tema, lo
consiglia nello svolgimento, gli facilita le ricerche, con le sue conversazioni
assidue accelera la sua formazione scientifica, gli fa pubblicare i primi saggi
nelle riviste specializzate, lo mette in rapporto con altri specialisti e lo
accaparra definitivamente.
Questo costume, salvo casi
sporadici di camorra, è benefico, perché integra la funzione delle università.
Dovrebbe, da fatto personale, di iniziativa personale, diventare funzione
organica: non so fino a che punto, ma mi pare che i seminari di tipo tedesco,
rappresentino questa funzione o cerchino di svolgerla. Intorno a certi
professori c'è ressa di procaccianti che sperano raggiungere piú facilmente una
cattedra universitaria. Molti giovani invece, che vengono dai licei di
provincia specialmente, sono spaesati e nell'ambiente sociale universitario e
nell'ambiente di studio. I primi sei mesi del corso servono per orientarsi sul
carattere specifico degli studi universitari e la timidezza nei rapporti
personali è immancabile tra docente e discepolo. Nei seminari ciò non si
verificherebbe o almeno non nella stessa misura.
In ogni modo, questa
struttura generale della vita universitaria non crea, già all'università,
alcuna gerarchia intellettuale permanente tra professori e massa di studenti;
dopo l'università anche quei pochi legami si sciolgono e nel paese manca ogni
struttura culturale che si impernii sull'università. Ciò ha costituito uno
degli elementi della fortuna della diade Croce-Gentile, prima della guerra, nel
costituire un gran centro di vita intellettuale nazionale; tra l'altro essi
lottavano anche contro l'insufficienza della vita universitaria e la mediocrità
scientifica e pedagogica (talvolta anche morale) degli insegnanti ufficiali.
Quistioni scolastiche. Confrontare l'articolo Il
facile e il difficile di Metron nel «Corriere della Sera» del gennaio 1932.
Metron fa due osservazioni interessanti (riferendosi ai corsi d'ingegneria e
agli esami di Stato per gli ingegneri): 1) che durante il corso l'insegnante
parla per cento e lo studente assorbe per uno o due. 2) che negli esami di
Stato i candidati sanno rispondere alle quistioni «difficili» e falliscono
nelle quistioni «facili». Metron non analizza però esattamente le ragioni di
questi due problemi e non indica nessun rimedio «tendenziale». Mi pare che le
due deficienze siano legate al sistema scolastico delle lezioni-conferenze
senza «seminario» e al carattere tradizionale degli esami che ha creato una
psicologia tradizionale degli esami. Appunti e dispense. Gli appunti e le
dispense si fermano specialmente sulle quistioni «difficili»: nell'insegnamento
stesso si insiste sul «difficile», nell'ipotesi di un'attività indipendente
dello studente per le «cose facili». Quanto piú si avvicinano gli esami tanto
piú si riassume la materia del corso, fino alla vigilia quando si «ripassano»
solo appunto le quistioni piú difficili: lo studente è come ipnotizzato dal
difficile, tutte le sue facoltà mnemoniche e la sua sensibilità intellettuale
si concentrano sulle quistioni difficili ecc. Per l'assorbimento minimo: il
sistema delle lezioni-conferenze porta l'insegnante a non ripetersi o a
ripetersi il meno possibile: le quistioni sono cosí presentate solo entro un
quadro determinato, ciò che le rende unilaterali per lo studente. Lo studente
assorbe uno o due del cento detto dall'insegnante ma se il cento è formato di
cento unilateralità diverse, l'assorbimento non può essere che molto basso. Un
corso universitario è concepito come un libro sull'argomento: ma si può
diventare colti con la lettura di un solo libro? Si tratta quindi della
quistione del metodo nell'insegnamento universitario: all'Università si deve studiare
o studiare per saper studiare? Si devono studiare «fatti» o il metodo per
studiare i «fatti»? La pratica del «seminario» dovrebbe appunto integrare e
vivificare l'insegnamento orale.
[Scuole progressive.] Nel «Marzocco» del 13
settembre 1931, G.
Ferrando esamina un lavoro di Carleton Washburne, pedagogista americano, che è
venuto appositamente in Europa per vedere come funzionano le nuove scuole
progressiste, ispirate al principio dell'autonomia dell'alunno e della
necessità di soddisfare per quanto è possibile i suoi bisogni intellettuali (New
Schools in The old World by Carleton Washburne, New York, The John Day
Company, 1930). Il Washburne descrive dodici scuole, tutte diverse fra loro, ma
tutte animate da uno spirito riformatore, in alcune temperato e [che] si
innesta sul vecchio tronco della scuola tradizionale, mentre in altre assume un
carattere addirittura rivoluzionario. Cinque di queste scuole sono in
Inghilterra, una nel Belgio, una in Olanda, una in Francia, una in Svizzera,
una in Germania e due in Cecoslovacchia e ognuna ci presenta un aspetto del
complesso problema educativo.
La
Public School di Oundle, una delle piú antiche scuole
inglesi, si differenzia dalle scuole dello stesso tipo solo perché accanto ai
corsi teorici di materie classiche ha istituito dei corsi manuali e pratici.
Tutti gli studenti sono obbligati a frequentare a loro scelta un'officina
meccanica o un laboratorio scientifico: il lavoro manuale si accompagna col
lavoro intellettuale e sebbene non ci sia nessuna relazione diretta tra i due,
pure l'alunno impara ad applicare le sue cognizioni e sviluppa le sue capacità
pratiche. (Questo esempio mostra come sia necessario definire esattamente il
concetto di scuola unitaria in cui il lavoro e la teoria sono strettamente
riuniti: l'accostamento meccanico delle due attività può essere uno snobismo.
Si sente dire di grandi intellettuali che si divagano facendo i tornitori, i
falegnami, i legatori di libri, ecc.; non si dirà per questo che siano un
esempio di unità del lavoro manuale e intellettuale. Molte di tali scuole
moderne sono appunto di stile snobistico che non ha niente che vedere – altro
che superficialmente – colla quistione di creare un tipo di scuola che educhi
le classi strumentali e subordinate a un ruolo dirigente nella società, come
complesso e non come singoli individui).
La scuola media femminile di Streatham Hill applica
il sistema Dalton (che il Ferrando chiama «uno sviluppo del metodo
Montessori»), le ragazze sono libere di seguire le lezioni, pratiche e
teoriche, che desiderano, purché alla fine di ogni mese abbiano svolto il
programma loro assegnato; la disciplina delle varie classi è affidata alle
alunne. Il sistema ha un grande difetto: le allieve in genere rimandano agli
ultimi giorni del mese lo svolgimento del loro compito, ciò che nuoce alla
serietà della scuola e costituisce un inconveniente serio per le insegnanti che
debbono aiutarle e sono sopraffatte dal lavoro, mentre nelle prime settimane
hanno poco o nulla da fare. (Il sistema Dalton non è che l'estensione alle
scuole medie del metodo di studio seguito nelle università italiane, che
all'alunno lasciano tutta la libertà per lo studio: in certe facoltà si dànno
venti esami al quarto anno di università e poi la laurea, e il professore non
conosce neanche l'alunno).
Nel piccolo villaggio di Kearsley, E. F. O'Neill ha
fondato una scuola elementare in cui è abolito «ogni programma e ogni metodo
didattico». Il maestro cerca di rendersi conto di quello che i bambini hanno
bisogno di apprendere e comincia poi a parlare su quel dato argomento, mirando
a risvegliare la loro curiosità e il loro interesse; appena vi è riuscito,
lascia che essi continuino per conto proprio, limitandosi a rispondere alle
loro domande e a guidarli nella loro ricerca. Questa scuola, che rappresenta
una reazione contro tutte le formule, contro l'insegnamento dommatico, contro
la tendenza a rendere l'istruzione meccanica, «ha dato risultati sorprendenti»;
i bambini si appassionano talmente alle lezioni che talvolta rimangono a scuola
fino a sera tardi, si affezionano ai loro maestri che sono per loro dei
compagni e non degli autocratici pedagoghi e ne subiscono l'influenza morale;
anche intellettualmente il loro progresso è assai superiore a quello degli
alunni delle scuole comuni (è molto interessante come tentativo, ma potrebbe
essere universalizzato? si troverebbero i maestri sufficienti numericamente
allo scopo? e non ci saranno inconvenienti che non sono riferiti, come per
esempio quello dei bambini che devono abbandonare la scuola ecc.? Potrebbe
essere una scuola di élites o un sistema di «doposcuola», in
sostituzione della vita famigliare).
Un gruppo di scuole elementari ad Amburgo: libertà
assoluta ai bambini; nessuna distinzione di classi, non materie di studio, non
insegnamento nel senso preciso della parola. L'istruzione dei bambini deriva
solo dalle domande che essi rivolgono ai maestri e dall'interesse che
dimostrano per un dato fatto. Il direttore di queste scuole, signor Gläser,
sostiene che l'insegnante non ha diritto neppure di stabilire quello che i
ragazzi debbono imparare; egli non può sapere quello che essi diverranno nella
vita, come ignora per quale tipo di società essi debbono essere preparati;
l'unica cosa che egli sa è che essi «posseggono un'anima che deve esser sviluppata
e quindi egli deve cercare di offrir loro tutte le possibilità di
manifestarsi». Per Gläser l'educazione consiste «nel liberare l'individualità
di ogni alunno, nel permettere alla sua anima di aprirsi e di espandersi». In
otto anni gli allievi di queste scuole hanno ottenuto risultati buoni.
Le altre scuole di cui il Washburne parla sono
interessanti perché sviluppano certi aspetti del problema educativo; cosí per
esempio la scuola «progressista» del Belgio si fonda sul principio che i
bambini imparano venendo in contatto con il mondo e insegnando agli altri. La
scuola Cousinet in Francia sviluppa l'abitudine allo sforzo collettivo, alla
collaborazione. Quella di Glarisegg in Svizzera insiste in special modo nello
sviluppare il senso della libertà e responsabilità morale di ciascun alunno,
ecc. (È utile seguire tutti questi tentativi che non sono altro che
«eccezionali» forse piú per vedere ciò che non occorre fare, che per altro).
L'orientazione
professionale. Confrontare lo studio del
Padre Brucculeri nella «Civiltà Cattolica» del 6 ottobre, 3 novembre, 17
novembre 1928: vi si può trovare il primo materiale per una prima impostazione
delle ricerche in proposito. Lo studio della quistione è complesso: 1) perché
nella situazione attuale di divisione sociale delle funzioni, certi gruppi sono
limitati nella loro scelta professionale (intesa in senso largo) da diverse
condizioni economiche (non poter attendere) e tecniche (ogni anno di piú di
scuola modifica le disposizioni generali in chi deve scegliere la professione);
2) perché deve sempre esser tenuto presente il pericolo che gli istituti
chiamati a giudicare sulle disposizioni del soggetto, lo indichino come capace
di fare un certo lavoro anche quando egli non voglia accettare (questo caso è
da tener presente dopo l'introduzione della razionalizzazione ecc.; la
quistione non è puramente tecnica, è anche salariale. L'industria americana si
è servita degli alti salari per «selezionare» gli operai dell'industria
razionalizzata, almeno entro una certa misura: altre industrie invece, ponendo
avanti questi schemi scientifici o pseudo-scientifici, possono tendere a
«costringere» tutte le maestranze tradizionali a lasciarsi razionalizzare senza
avere ottenuto le possibilità salariali per un sistema di vita appropriato, che
permetta di reintegrare le maggiori energie nervose consumate. Ci si può
trovare dinanzi a un vero pericolo sociale: il regime salariale attuale è
basato specialmente sulla reintegrazione di forze muscolari. L'introduzione
della razionalizzazione senza un cambiamento di sistema di vita, può portare a
un rapido logoramento nervoso e determinare una crisi di morbosità inaudita).
Lo studio della quistione deve poi esser fatto dal punto di vista della scuola
unica del lavoro.
[Servizi pubblici.] Servizi pubblici
intellettuali: oltre alla scuola, nei suoi vari gradi, quali altri servizi non
possono essere lasciati all'iniziativa privata, ma, in una società moderna, devono
essere assicurati dallo Stato e dagli enti locali (comuni e province)? Il
teatro, le biblioteche, i musei di vario genere, le pinacoteche, i giardini
zoologici, gli orti botanici, ecc. È da fare una lista di istituzioni che
devono essere considerate di utilità per l'istruzione e la cultura pubblica e
che tali sono infatti considerate in una serie di Stati, le quali non
potrebbero essere accessibili al grande pubblico (e si ritiene, per ragioni
nazionali, devono essere accessibili) senza un intervento statale. È da
osservare che proprio questi servizi sono da noi trascurati quasi del tutto;
tipico esempio le biblioteche e i teatri. I teatri esistono in quanto sono un
affare commerciale: non sono considerati servizio pubblico. Data la scarsezza
del pubblico teatrale e la mediocrità delle città, in decadenza.
In Italia invece abbondanti le opere pie e i lasciti
di beneficenza: forse piú che in ogni altro paese. E dovuti all'iniziativa
privata. È vero che male amministrati e mal distribuiti. (Questi elementi
[sono] da studiare come nessi nazionali tra governanti e governati, come
fattori di egemonia. Beneficenza elemento di «paternalismo»; servizi
intellettuali elementi di egemonia, ossia di democrazia in senso moderno).
[Le biblioteche popolari.]
Ettore Fabietti, Il primo venticinquennio delle Biblioteche popolari
milanesi, «Nuova Antologia», 1° ottobre 1928. Articolo molto utile per le
informazioni che dà sull'origine e lo sviluppo di questa istituzione che è
stata la piú cospicua iniziativa per la cultura popolare del tempo moderno.
L'articolo è abbastanza serio, sebbene il Fabietti abbia dimostrato di non
essere lui molto serio: bisognerà riconoscergli tuttavia molte benemerenze e
una indiscutibile capacità organizzativa nel campo della cultura operaia in
senso democratico. Il Fabietti mette in luce come gli operai fossero i migliori
«clienti» delle biblioteche popolari: curavano i libri, non li smarrivano (a
differenza delle altre categorie di lettori: studenti, impiegati,
professionisti, donne di casa, benestanti (?), ecc.): le letture di
«belletristica» rappresentavano una percentuale relativamente bassa, inferiore
a quella di altri paesi: operai che proponevano di pagare la metà di libri
costosi pur di poterli leggere: operai che davano oblazioni fino di cento lire
alle biblioteche popolari; un operaio tintore che [è] divenuto «scrittore» e
traduttore dal francese con le letture e gli studi fatti nelle biblioteche
popolari ma che continua a rimanere operaio.
La letteratura delle
biblioteche popolari milanesi dovrà essere studiata per avere spunti «reali»
sulla cultura popolare: quali libri piú letti come categoria e come autori,
ecc.; pubblicazioni delle biblioteche popolari, loro carattere, tendenze ecc.
Come mai una tale iniziativa solo a Milano in grande stile? Perché non a Torino
o in altre grandi città? Carattere e storia del «riformismo» milanese;
Università popolare, Umanitaria, ecc. Argomento molto interessante ed
essenziale.
Confrontare l'interessante articolo di Ettore
Fabietti, Per la sistemazione delle Biblioteche Pubbliche «nazionali»
e «popolari», nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 1930.
Le accademie. Funzione che esse hanno avuto
nello sviluppo della cultura in Italia, nel cristallizzarla e nel farne una
cosa da museo, lontana dalla vita nazionale-popolare (ma le accademie sono state
causa o effetto? Non si sono moltiplicate forse per dare una soddisfazione
parziale all'attività che non trovava sfogo nella vita pubblica ecc.?) l'Encyclopédie
(ediz. del 1778) assicura che l'Italia contava allora 550 Accademie.
Cultura italiana e
francese e accademie. Un confronto delle
culture italiana e francese può essere fatto confrontando l'Accademia della
Crusca e l'Accademia degli Immortali. Lo studio della lingua è alla base di
ambedue: ma il punto di vista della Crusca è quello del «linguaiolo», dell'uomo
che si guarda continuamente la lingua. Il punto di vista francese è quello
della «lingua» come concezione del mondo, come base elementare –
popolare-nazionale – dell'unità della civiltà francese. Perciò l'Accademia
Francese ha una funzione nazionale di organizzazione dell'alta cultura, mentre la Crusca... (qual è
l'attuale posizione della Crusca? Essa ha certamente cambiato carattere:
pubblica testi critici, ecc., ma il Dizionario in che posizione si trova nei
suoi lavori?)
[Bibliografia.]
Nella rubrica «Intellettuali» in altro quaderno, ho accennato alle Accademie
italiane e all'utilità di averne una lista ragionata. Nella «Nuova Antologia»
del 1° settembre 1929 (p. 128) è annunziato un libro di E. Salaris, Attraverso
gli Istituti culturali italiani, opera di prossima pubblicazione sulle
Accademie d'Italia.
[La Federazione
delle Unioni Intellettuali.] Il Principe Carlo di Rohan. Ha fondato nel
1924 la Federazione
delle Unioni Intellettuali e dirige una rivista (Europäische Gespräche?). Gli
italiani partecipano a questa federazione: il suo Congresso del '25 è stato
tenuto a Milano. L'Unione italiana è presieduta da S. E. l'On. Vittorio
Scialoja. Nel 1927 il di Rohan ha pubblicato un libro sulla Russia (Moskau.
- Ein Skizzenbuch aus Sowietrussland, Verlag G. Braun in Karlsruhe), dove
aveva fatto un viaggio. Il libro deve essere interessante data la personalità
sociale dell'autore. Egli conclude che la Russia «seinen Weg gefunden hat».
Organizzazione della vita culturale. Studiare
la storia della formazione e della attività della «Società Italiana per il
progresso della Scienza». Sarà da studiare anche la storia della «Associazione
britannica» che mi pare sia stato il prototipo di questo genere di
organizzazioni private. La caratteristica piú feconda della «Società Italiana»
è nel fatto che essa raggruppa tutti gli «amici della scienza», chierici e
laici, per cosí dire, specialisti e «dilettanti». Essa dà il tipo embrionale di
quell'organismo che ho abbozzato in altre note, nel quale dovrebbe confluire e
rinsaldarsi il lavoro delle Accademie e delle università con le necessità di
cultura scientifica delle masse nazionali-popolari, riunendo la teoria e la
pratica, il lavoro intellettuale e quello industriale che potrebbe trovare la
sua radice nella scuola unica.
Lo stesso potrebbe dirsi del Touring Club, che è
essenzialmente una grande associazione di amici della geografia e dei viaggi,
in quanto si incorporano in determinate attività sportive (turismo = geografia
+ sport), cioè la forma piú popolare e dilettantesca dell'amore per la
geografia e per le scienze che vi si connettono (geologia, mineralogia,
botanica, speleologia, cristallografia, ecc.). Perché dunque il Touring Club
non dovrebbe organicamente connettersi con gli Istituti di geografia e con
le Società geografiche? C'è il problema internazionale: il Touring ha un quadro
essenzialmente nazionale, mentre le Società geografiche si occupano di tutto il
mondo geografico. Connessione del turismo con le società sportive, con
l'alpinismo, canottaggio ecc., escursionismo in genere: connessione con le arti
figurative e con la storia dell'arte in generale. In realtà potrebbe
connettersi con tutte le attività pratiche, se le escursioni nazionali e
internazionali si collegassero con periodi di ferie (premio) per il lavoro
industriale e agricolo.
[I libri.] Si insiste molto sul fatto che sia
aumentato il numero dei libri pubblicati. L'Istituto italiano del Libro
comunica che la media annuale del decennio 1908-1918 è stata esattamente di
7.300. I calcoli fatti per il 1929 (i piú recenti) dànno la cifra di 17.718
(libri ed opuscoli; esclusi quelli della Città del Vaticano, di San Marino,
delle colonie e delle terre di lingua italiana non facenti parte del Regno).
Pubblicazioni polemiche e quindi tendenziose. Bisognerebbe vedere: 1) se le
cifre sono omogenee, cioè se si calcola oggi come nel passato, ossia se non è
cambiato il tipo dell'unità editoriale base; 2) bisogna tener conto che nel
passato la statistica libraria era molto approssimativa e incerta (ciò si
osserva per tutte le statistiche, per es. quella della raccolta del grano; ma è
specialmente vero per i libri: si può dire che oggi non solo è mutato il tipo
di unità calcolata, ma niente sfugge all'accertamento statistico); 3) è da
vedere se e come è mutata la composizione organica del complesso librario: è
certo che si sono moltiplicate le case editrici cattoliche, per esempio, e
quindi la pubblicazione di opericciuole senza nessuna importanza culturale
(cosí si sono moltiplicate le edizioni scolastiche cattoliche ecc.). In questo
calcolo occorrerebbe tener conto delle tirature, e ciò specialmente per i
giornali e le riviste.
Si legge meno o piú? E chi legge meno o piú? Si sta
formando una «classe media colta» piú numerosa che in passato, che legge di
piú, mentre le classi popolari leggono molto meno; ciò appare dal rapporto tra
libri, riviste e giornali. I giornali sono diminuiti di numero e stampano meno
copie; si leggono piú riviste e libri (cioè ci sono piú lettori di libri e
riviste). Cfr. tra Italia e altri paesi nei modi di fare la statistica libraria
e nella classificazione per gruppi di ciò che si pubblica.
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