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Antonio Gramsci Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura IntraText CT - Lettura del testo |
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Note sparse
Funzione cosmopolita degli intellettuali italiani
La quistione della lingua e le classi intellettuali italiane. Per lo sviluppo del concetto che l'Italia realizza il paradosso di un paese giovanissimo e vecchissimo nello stesso tempo (come Lao-Tse che nasce a ottant’anni). I rapporti tra gli intellettuali e il popolo-nazione studiati sotto l'aspetto della lingua scritta dagli intellettuali e usata nei loro rapporti e sotto l'aspetto della funzione avuta dagli intellettuali italiani nella Cosmopoli medioevale per il fatto che il Papato aveva sede in Italia (l'uso del latino come lingua dotta è legato al cosmopolitismo cattolico). Latino letterario e latino volgare. Dal latino volgare si sviluppano i dialetti neolatini non solo in Italia ma in tutta l'area europea romanizzata: il latino letterario si cristallizza nel latino dei dotti, degli intellettuali, il cosí detto mediolatino (cfr. l'articolo di Filippo Ermini sulla «Nuova Antologia» del 16 maggio 1928), che non può essere in nessun modo paragonato a una lingua parlata, nazionale, storicamente vivente, quantunque non sia neppure da confondersi con un gergo o con una lingua artificiale come l'esperanto. In ogni modo c'è una frattura tra il popolo e gli intellettuali, tra il popolo e la cultura. (Anche) i libri religiosi sono scritti in mediolatino, sicché anche le discussioni religiose sfuggono al popolo, quantunque la religione sia l'elemento culturale prevalente: della religione il popolo vede i riti e sente le prediche esortative, ma non può seguire le discussioni e gli sviluppi ideologici che sono monopolio di una casta. I volgari sono scritti quando il popolo riprende importanza: il giuramento di Strasburgo (dopo la battaglia di Fontaneto tra i successori di Carlo Magno) è rimasto perché i soldati non potevano giurare in una lingua sconosciuta, senza togliere validità al giuramento. Anche in Italia le prime tracce di volgare sono giuramenti o attestazioni di testimoni del popolo per stabilire la proprietà dei fondi di convento (Montecassino). In ogni modo si può dire che in Italia dal 600 d. C., quando si può presumere che il popolo non comprendesse piú il latino dei dotti, fino al 1250, quando incomincia la fioritura del volgare, cioè per piú di 600 anni, il popolo non comprendesse i libri e non potesse partecipare al mondo della cultura. Il fiorire dei Comuni dà sviluppo ai volgari e l'egemonia intellettuale di Firenze dà una unità al volgare, cioè crea un volgare illustre. Ma cos'è questo volgare illustre? È il fiorentino elaborato dagli intellettuali della vecchia tradizione: è il fiorentino di vocabolario e anche di fonetica, ma è un latino di sintassi. D'altronde la vittoria del volgare sul latino non era facile: i dotti italiani, eccettuati i poeti e gli artisti in generale, scrivevano per l'Europa cristiana e non per l'Italia, erano una concentrazione di intellettuali cosmopoliti e non nazionali. La caduta dei Comuni e l'avvento del Principato, la creazione di una casta di governo staccata dal popolo, cristallizza questo volgare, allo stesso modo che si era cristallizzato il latino letterario. L'italiano è di nuovo una lingua scritta e non parlata, dei dotti e non della nazione. Ci sono in Italia due lingue dotte, il latino e l'italiano, e questo finisce con l'avere il sopravvento, e col trionfare completamente nel secolo XIX col distacco degli intellettuali laici da quelli ecclesiastici (gli ecclesiastici continuano anche oggi a scrivere libri in latino, ma oggi anche il Vaticano usa sempre piú l'italiano quando tratta di cose italiane e cosí finirà col fare per gli altri paesi, coerentemente alla sua attuale politica delle nazionalità). In ogni modo mi pare sia da fissare questo punto: che la cristallizzazione del volgare illustre non può essere staccata dalla tradizione del mediolatino e rappresenta un fenomeno analogo. Dopo una breve parentesi (libertà comunali) in cui c'è una fioritura di intellettuali usciti dalle classi popolari (borghesi) c'è un riassorbimento della funzione intellettuale nella casta tradizionale, in cui i singoli elementi sono di origine popolare, ma in cui prevale in essi il carattere di casta sull'origine. Non è cioè tutto uno strato della popolazione che arrivando al potere crea i suoi intellettuali (ciò è avvenuto nel Trecento) ma è un organismo tradizionalmente selezionato che assimila nei suoi quadri singoli individui (l'esempio tipico di ciò è dato dall'organizzazione ecclesiastica). Di altri elementi occorre tener conto in un'analisi compiuta e credo che per molte quistioni la retorica nazionale del secolo scorso e i pregiudizi da essa incarnati non abbiano neanche spinto a fare le ricerche preliminari. Cosí quale fu l'area esatta della diffusione del toscano? A Venezia, per esempio, secondo me, fu introdotto già l'italiano elaborato dai dotti sullo schema latino e non ebbe mai entratura il fiorentino originario, nel senso che i mercanti fiorentini non fecero sentire la viva voce fiorentina come a Roma e a Napoli, per esempio: la lingua di governo continuò a essere il veneziano. Cosí per altri centri (Genova, credo). Una storia della lingua italiana non esiste ancora in questo senso: la grammatica storica non è ancora ciò, anzi. Per la lingua francese esistono di queste storie (quella del Brunot – e del Littré – mi pare sia del tipo che io penso, ma non ricordo). Mi pare che, intesa la lingua come elemento della cultura e quindi della storia generale e come manifestazione precipua della «nazionalità» e «popolarità» degli intellettuali, questo studio non sia ozioso e puramente erudito. Nel suo articolo, interessante come informazione dell'importanza che ha assunto lo studio del mediolatino (questa espressione, che dovrebbe significare latino medioevale, credo, mi pare abbastanza impropria e possibile causa di errori tra i non specialisti) e a cui potrò rifarmi per una prima bibliografia, oltre che ad altri scritti dell'Ermini che è un mediolatinista, l'Ermini afferma, che in base alle ricerche, «alla teoria dei due mondi separati, del latino, che è in mano dei soli dotti e si spegne, e del neolatino, che sorge e s'avviva, bisogna sostituire la teoria dell'unità latina e della continuità perenne della tradizione classica». Ciò può significare solo che la nuova cultura neolatina sentiva fortemente gli influssi della precedente cultura, non che ci sia stata una unità «popolare-nazionale»di cultura. Ma forse per l'Ermini mediolatino ha proprio il significato letterale, del latino che sta in mezzo tra quello classico e quello umanistico, che indubbiamente segna un ritorno al classico, mentre il mediolatino ha caratteri propri, inconfondibili: l'Ermini fa incominciare il mediolatino verso la metà del secolo IV, quando avviene l'alleanza tra la cultura (!) classica e la religione cristiana, quando «una nobile pleiade di scrittori, uscendo dalle scuole di retorica e di poetica, sente vivo il desiderio di congiungere la fede nuova alla bellezza (!) antica e cosí dar vita alla prima poesia cristiana». (Mi pare giusto far risalire il mediolatino al primo rigoglio di letteratura cristiana latina, ma il modo di esporne la genesi mi pare vago e arbitrario – cfr. la Storia della letteratura latina del Marchesi per questo punto –). [Il mediolatino occuperebbe circa un millennio, tra la metà del IV secolo] e la fine del secolo XIV, tra l'inizio dell'ispirazione cristiana e il diffondersi dell'umanesimo. Questi mille anni sono dall'Ermini suddivisi cosí: prima età delle origini, dalla morte di Costantino alla caduta dell'Impero d'Occidente (337-476); seconda età, della letteratura barbarica, dal 476 al 799, cioè fino alla restaurazione dell'Impero per opera di Carlo Magno, vero tempo di transizione nel continuo e progressivo latinizzarsi dei barbari (esagerato: del formarsi uno strato di intellettuali germanici che scrivono in latino); una terza età: del risorgimento carolino, dal 799 all'888, alla morte di Carlo il Grosso; una quarta, della letteratura feudale, dall'888 al 1000, fino al pontificato di Silvestro II, quando il feudalesimo, lenta trasformazione di ordinamenti preesistenti, apre un'èra nuova; una quinta, della letteratura scolastica, che corre sino alla fine del secolo XII, quando il sapere si raccoglie nelle grandi scuole e il pensiero e il metodo filosofico feconda tutte le scienze, e una sesta, della letteratura erudita, dal principio del XIII al termine del XIV e che accenna già alla decadenza.
Cfr. l'art. La politica religiosa di Costantino Magno nella «Civiltà Cattolica» del 7 settembre 1929. Vi si parla di un libro di Jules Maurice, Constantin le Grand. L'origine de la civilisation chrétienne, Parigi, Ed. Spes (s. d.), dove sono esposti alcuni punti di vista interessanti sul primo contatto ufficiale tra Impero e Cristianesimo, utili per questa rubrica (cause storiche per cui il latino divenne lingua del cristianesimo occidentale dando luogo al Mediolatino). Cfr. anche il «profilo» di Costantino del Salvatorelli (ed. Formiggini).
Ettore Veo, in un articolo della «Nuova Antologia», del 16 giugno 1928, Roma nei suoi fogli dialettali, nota come il romanesco rimanesse a lungo costretto nell'ambito del volgo, schiacciato dal latino. «Ma già in movimenti rivoluzionari il volgo, come succede, cerca di passare – o lo si fa passare – in primo piano». Il Sacco di Roma trova scrittori in dialetto, ma specialmente la Rivoluzione francese. (Di qui comincia di fatto la fortuna «scritta» del romanesco e la fioritura dialettale che culmina nel periodo liberale di Pio IX fino alla caduta della Repubblica Romana). Nel '47-'49 il dialetto è arma dei liberali, dopo il '70 dei clericali.
Latino ecclesiastico e volgare nel Medioevo. «La predicazione in lingua volgare risale in Francia alle origini stesse della lingua. Il latino era la lingua della Chiesa: cosí le prediche erano fatte in latino ai chierici (cleres), ai frati, anche alle monache. Ma per i laici le prediche erano fatte in francese. Fin dal IX secolo, i concili di Tours e di Reims ordinano ai preti d'istruire il popolo nella lingua del popolo. Ciò era necessario per essere compresi. Nel secolo XII vi fu una predicazione in volgare, attiva, vivace, potente, che trascinava grandi e piccoli alla crociata, riempiva i monasteri, gettava in ginocchio e in tutti gli eccessi della penitenza intere città. Dall'alto dei loro pulpiti, sulle piazze, nei campi, i predicatori erano i direttori pubblici della coscienza degli individui e delle folle; tutto e tutti passano sotto la loro aspra censura, e dalle sfrontate acconciature delle donne nessuna parte segreta o visibile della corruzione del secolo sconcertava l'audacia del loro pensiero o della loro lingua» (Lanson, Histoire de la littérature Française, Hachette, 19.ème éd., pp. 160-61). Il Lanson dà questi dati bibliografici: Abbé L. Bourgain, La Chaire française au XIIe siècle, Paris, 1879; Lecoy de la Marche, La Chaire française au moyen âge, 2.ème éd., Paris, 1886; Langlois, L'éloquence sacrée au moyen âge, «Revue des Deux Mondes», 1° gennaio 1893.
Per la formazione delle classi intellettuali italiane nell'alto Medioevo bisogna tener conto oltre che della lingua (quistione del Mediolatino) anche e specialmente del diritto. Caduta del diritto romano dopo le invasioni barbariche e sua riduzione a diritto personale e consuetudinario in confronto del diritto longobardo; emersione del diritto canonico che da diritto particolare, di gruppo, assurge a diritto statale; rinascita del diritto romano e sua espansione per mezzo delle Università. Questi fenomeni non avvengono di colpo e simultaneamente ma sono legati allo sviluppo storico generale (fusione dei barbari con le popolazioni locali, ecc.). Lo sviluppo del diritto canonico e l'importanza che esso assume nell'economia giuridica delle nuove formazioni statali, il formarsi della mentalità imperiale-cosmopolita medioevale, lo sviluppo del diritto romano adattato e interpretato per le nuove forme di vita dànno luogo al nascere e allo stratificarsi degli intellettuali italiani cosmopoliti. C'è un periodo, quello dell'egemonia del diritto germanico, in cui però il legame tra il vecchio e il nuovo rimane quasi unicamente la lingua, il Mediolatino. Il problema di questa interruzione ha interessato la scienza e, cosa importante, ha interessato anche intellettuali come il Manzoni (vedi suoi scritti sui rapporti tra romani e longobardi a proposito dell'Adelchi): cioè ha interessato nel principio del secolo XIX quelli che si preoccupavano della continuità della tradizione italiana dall'antica Roma in poi per costituire la nuova coscienza nazionale. Sull'argomento generale dell'oscuramento del diritto romano e sua rinascita e dell'emergere del diritto canonico cfr. I «due diritti» e il loro odierno insegnamento in Italia di Francesco Brandileone («Nuova Antologia» del 16 luglio 1928) per avere alcune idee generali, ma vedere, naturalmente le grandi storie del diritto. Schema estratto dal saggio del Brandileone: Nelle scuole dell'Impero Romano a Roma, a Costantinopoli, a Berito, si insegnava solo il diritto romano nelle due positiones di jus publicum e di jus privatum; nel jus publicum era compreso il jus sacrum pagano, finché il paganesimo fu religione tanto dei sudditi che dello Stato. Comparso il Cristianesimo e ordinatosi, nei secoli delle persecuzioni e delle tolleranze, come società a sé, diversa dalla società politica, esso die' luogo [a] un jus sacrum nuovo. Dopo che il Cristianesimo fu prima riconosciuto e poi elevato dallo Stato a fede unica dell'Impero, il nuovo jus sacrum ebbe bensí appoggi e riconoscimenti da parte del legislatore laico, ma non fu però considerato come l'antico. Poiché il Cristianesimo si era separato dalla vita sociale politica, si era staccato anche dal jus publicum e le scuole non si occupavano del suo ordinamento; il nuovo jus sacrum formò la speciale occupazione delle scuole tutte proprie della società religiosa (questo fatto è molto importante nella storia dello Stato romano ed è ricco di gravi conseguenze, perché inizia un dualismo di potestà che avrà lo sviluppo nel Medioevo: ma il Brandileone non lo spiega: lo pone come una conseguenza logica dell'originario distacco del Cristianesimo dalla società politica. Benissimo, ma perché, diventato il Cristianesimo religione dello Stato come lo era stato il paganesimo, non si ricostituí l'unità formale politico-religiosa? Questo è il problema). Durante i secoli dell'alto Medioevo il nuovo jus sacrum, detto anche jus canonicum o ius ecclesiasticum e il jus romanum furono insegnati in scuole diverse e in scuole di diversa importanza numerica, di diffusione, di attività. Speciali scuole romanistiche, sia che continuassero le antiche scuole sia che fossero sorte allora, in Occidente, si incontrano solo in Italia; se anche fuori d'Italia vi furono le scholae liberalium artium e se in esse (cosí come nelle corrispondenti italiane) si impartirono nozioni elementari di diritto laico, specialmente romano, l'attività spiegata fu povera cosa come è attestato dalla scarsa, frammentaria, intermittente e di solito maldestra produzione da esse uscita e giunta sino a noi. Invece le scuole ecclesiastiche, dedicate allo studio e all'insegnamento dei dogmi della fede e insieme del diritto canonico, furono una vera moltitudine, né solo in Italia, ma in tutti i paesi diventati cristiani e cattolici. Ogni monastero e ogni chiesa cattedrale di qualche importanza ebbe la propria scuola: testimonianza di questa attività la ricchezza di collezioni canoniche senza interruzione dal VI all'XI secolo, in Italia, in Africa, Spagna, Francia, Germania, Inghilterra, Irlanda. La spiegazione di questo rigoglio del diritto canonico in confronto di quello romano è legata al fatto che mentre il diritto romano, in quanto continuava a ricevere applicazione in Occidente e in Italia, era degradato a diritto personale, ciò non avveniva per il canonico. Per il diritto romano, l'essere diventato diritto personale volle dire essere messo in una posizione inferiore a quella spettante alle leggi popolari o Volksrechte, vigenti nel territorio dell'Impero d'Occidente, la cui conservazione e modificazione spettavano non già al potere sovrano, regio o imperiale, o per lo meno non ad esso solo, ma anche e principalmente alle assemblee dei popoli ai quali appartenevano. Invece i sudditi romani dei regni germanici, e poi dell'Impero, non furono considerati come un'unità a sé, ma come singoli individui, e quindi non ebbero una particolare assemblea, autorizzata a manifestare la sua volontà collettiva circa la conservazione e modificazione del proprio diritto nazionale. Sicché fu ridotto il diritto romano a un puro diritto consuetudinario. Nell'Italia longobarda principi e istituti romani furono accettati dai vincitori ma la posizione del diritto romano non mutò. La rinnovazione dell'Impero con Carlo Magno non tolse il diritto romano dalla sua posizione d'inferiorità: essa fu migliorata, ma solo tardi e per il concorso di altre cause: in complesso continuò in Italia a rimanere diritto personale fino al secolo XI. Le nuove leggi fatte dai nuovi imperatori, fino a tutto il secolo XI, non furono aggiunte al Corpus giustinianeo, ma all'Editto longobardo, e quindi non furono riguardate come diritto generale obbligatorio per tutti, ma come diritto personale proprio dei viventi a legge longobarda. Per il diritto canonico invece la riduzione a diritto personale non avvenne, essendo il diritto di una società diversa e distinta dalla società politica, l'appartenenza alla quale non era basata sulla nazionalità: esso possedeva nei concilî e nei papi il suo proprio potere legislativo. Esso però aveva una sfera di obbligatorietà ristretta. Diventa obbligatorio o perché viene accettato spontaneamente o perché fu accolto fra le leggi dello Stato. La posizione del diritto romano si venne modificando radicalmente in Italia a mano a mano che dopo l'avvento degli Ottoni l'impero fu concepito piú chiaramente ed esplicitamente come la continuazione dell'antico. Fu la scuola pavese che si rese interprete di un tal fatto e proclamò la legge romana omnium generalis, preparando l'ambiente in cui poté sorgere e fiorire la scuola di Bologna, e gli imperatori svevi riguardarono il Corpus giustinianeo come il codice loro, al quale fecero delle aggiunte. Questo riaffermarsi del diritto romano non è dovuto a fattori personali: esso è legato al rifiorire dopo il Mille della vita economica, dell'industria, del commercio, del traffico marittimo. Il diritto germanico non si prestava a regolare giuridicamente la nuova materia e i nuovi rapporti. Anche il diritto canonico subisce dopo il Mille un cambiamento. Coi Carolingi alleati al papato viene concepita la monarchia universale abbracciante tutta l'umanità, diretta concordemente dall'Imperatore nel temporale e dal Papa nello spirituale. Ma questa concezione non poteva delimitare a priori il campo soggetto a ciascuna potestà e lasciava all'imperatore una larga via d'intervento nelle faccende ecclesiastiche. Quando i fini dell'Impero, già sotto gli stessi Carolingi e poi sempre piú in seguito, si mostrarono discordanti da quelli della Chiesa e lo Stato mostrò di tendere all'assorbimento della gerarchia ecclesiastica nello Stato, incominciò la lotta che si chiuse al principio del secolo XII colla vittoria del Papato. Fu proclamata la primazia dello spirituale (sole-luna) e la Chiesa riacquistò la libertà della sua azione legislativa, ecc. ecc. Questa concezione teocratica fu combattuta teoricamente e praticamente, ma tuttavia essa, nella sua forma genuina o attenuata, rimase dominatrice per secoli e secoli. Cosí si ebbero due tribunali, il sacramentale e il non sacramentale, e cosí i due diritti furono accoppiati, utrumque ius, ecc.
Funzione cosmopolita della letteratura italiana. Ancora del saggio di Augusto Rostagni su l'Autonomia della Letteratura romana, pubblicato in 4 puntate nell'«Italia Letteraria» del 21 maggio 1933 e sgg. Secondo il Rostagni la letteratura latina sorse al principio delle guerre puniche, come causa ed effetto dell'unificazione d'Italia, come espressione essenzialmente nazionale, «con l'istinto del progresso, della conquista, con l'impulso delle piú alte e vigorose affermazioni». Concetto antistorico, perché allora non si poteva parlare di fenomeno «nazionale», ma solo di romanesimo che unifica giuridicamente l'Italia (e ancora un'Italia che non corrisponde a ciò che oggi intendiamo per Italia, poiché era esclusa l'Alta Italia, che oggi ha non poca importanza nel concetto d'Italia). Che il Rostagni abbia ragione di parlare di «autonomia» della letteratura latina, cioè di sostenere che questa è autonoma dalla letteratura greca, può accettarsi, – ma in realtà c'era piú «nazionalità» nel mondo greco che in quello romano-italico. D'altronde anche ammesso che con le prime guerre puniche qualcosa muti nei rapporti tra Roma e l'Italia, che si abbia una maggiore unità anche territoriale, ciò non toglie che questo periodo sia molto breve e abbia scarsa rilevanza letteraria: la letteratura latina fiorisce dopo Cesare, con l'Impero, cioè proprio quando la funzione dell'Italia diventa cosmopolita, quando non piú si pone il problema del rapporto tra Roma e l'Italia, ma tra Roma-Italia e l'Impero. Non si può parlare di nazionale senza il territoriale: in nessuno di questi periodi l'elemento territoriale ha importanza che non sia meramente giuridico-militare, cioè «statale» in senso governativo, senza contenuto etico-passionale.
La ricerca della formazione storica degli intellettuali italiani porta cosí a risalire fino ai tempi dell'Impero romano, quando l'Italia, per avere nel suo territorio Roma, diventa il crogiolo delle classi colte di tutti i territori imperiali. Il personale dirigente diventa sempre piú imperiale e sempre meno latino, diventa cosmopolita: anche gli imperatori non sono latini, ecc. C'è dunque una linea unitaria nello sviluppo delle classi intellettuali italiane (operanti nel territorio italiano) ma questa linea di sviluppo è tutt'altro che nazionale: il fatto porta a uno squilibrio interno nella composizione della popolazione che vive in Italia ecc. Il problema di ciò che sono gli intellettuali può essere mostrato in tutta la sua complessità attraverso questa ricerca.
Diritto romano o diritto bizantino? Il «diritto» romano consisteva essenzialmente in un metodo di creazione del diritto, nella risoluzione continua della casistica giurisprudenziale. I bizantini (Giustiniano) raccolsero la massa dei casi di diritto risolti dall'attività giuridica concreta dei Romani, non come documentazione storica, ma come codice ossificato e permanente. Questo passaggio da un «metodo» a un «codice» permanente può anche assumersi come la fine di un'età, il passaggio da una storia in continuo e rapido sviluppo, a una fase storica relativamente stagnante. La rinascita del «diritto romano», cioè, della codificazione bizantina del metodo romano di risolvere le quistioni di diritto, coincide con l'affiorare di un gruppo sociale che vuole una «legislazione» permanente, superiore agli arbitri dei magistrati (movimento che culmina nel «costituzionalismo») perché solo in un quadro permanente di «concordia discorde», di lotta entro una cornice legale che fissi i limiti dell'arbitrio individuale, può sviluppare le forze implicite nella sua funzione storica.
[La cultura nell'alto Medioevo.] Alto medioevo (fase culturale dell'avvento del Mediolatino). Confrontare la Storia della letteratura latina cristiana di A. G. Amatucci (Laterza, Bari). A pp. 343-44 l'Amatucci scrivendo di Cassiodoro, dice: «... Senza scoprirvi nulla, ché non era talento da far scoperte, ma dando uno sguardo al passato, in mezzo a cui ergevasi gigantesca la figura di Gerolamo», Cassiodoro «affermò che la cultura classica, la quale per lui voleva dire cultura romana, doveva essere il fondamento di quella sacra, e questa avrebbe dovuto acquistarsi in pubbliche scuole». Papa Agapito (535-36) avrebbe attuato questo programma se non ne avesse avuto impedimento dalle guerre e dalle lotte di fazione che devastavano l'Italia. Cassiodoro fece conoscere questo programma nei due libri di Istitutiones e lo attuò nel «Vivarium», il cenobio da lui fondato presso Squillace. Un altro punto da studiare è l'importanza avuta dal monachesimo nella creazione del feudalesimo. Nel suo volume San Benedetto e l'Italia del suo tempo (Laterza, Bari, pp. 170-71), Luigi Salvatorelli scrive: «Una comunità, e per giunta una comunità religiosa, guidata dallo spirito benedettino, era un padrone assai piú umano del proprietario singolo, col suo egoismo personale, il suo orgoglio di casta, le tradizioni di abusi secolari. E il prestigio del monastero, anche prima di concentrarsi in privilegi legali, proteggeva in una certa misura i coloni contro la rapacità del fisco e le incursioni delle bande armate legali ed illegali. Lontano dalle città in piena decadenza, in mezzo alle campagne corse e spremute che minacciavano di tramutarsi in deserto, il monastero sorgeva, nuovo nucleo sociale traente il suo essere dal nuovo principio cristiano, fuori di ogni mescolanza col decrepito mondo che si ostinava a chiamarsi dal gran nome di Roma. Cosí san Benedetto, senza proporselo direttamente, fece opera di riforma sociale e di vera creazione. Ancor meno premeditata fu la sua opera di cultura». Mi pare che in questo brano del Salvatorelli ci siano tutti o quasi gli elementi fondamentali, negativi e positivi, per spiegare storicamente il feudalismo. Meno importante, ai fini della mia ricerca, è la quistione dell'importanza di san Benedetto o di Cassiodoro nell'innovazione culturale di questo periodo. Su questo nesso di quistioni oltre al Salvatorelli è da vedere il volumetto di Filippo Ermini Benedetto da Norcia nei «Profili» di Formiggini, in cui bibliografia dell'argomento. Secondo l'Ermini: «... le case benedettine diverranno veramente asilo del sapere; e, piú che il castello, il monastero sarà il focolare d'ogni scienza. Ivi la biblioteca conserverà ai posteri gli scritti degli autori classici e cristiani... Il disegno di Benedetto si compie; l'orbis latinus, spezzato dalla ferocia degli invasori, si ricompone in unità e s'inizia con l'opera dell'ingegno e della mano, soprattutto dei suoi seguaci, la mirabile civiltà del Medioevo».
Spunti di ricerca. La repubblica di Platone. Quando si dice che Platone vagheggiava una «repubblica di filosofi» bisogna intendere «storicamente» il termine di filosofi che oggi dovrebbe tradursi con «intellettuali» (naturalmente Platone intendeva i «grandi intellettuali» che erano d'altronde il tipo di intellettuale del tempo suo, oltre a dare importanza al contenuto specifico dell'intellettualità, che in concreto potrebbe dirsi di «religiosità»: gli intellettuali di governo cioè erano quei determinati intellettuali piú vicini alla religione, la cui attività cioè aveva un carattere di religiosità, intesa nel significato generale del tempo e speciale di Platone, e perciò attività in certo senso «sociale», di elevazione ed educazione e direzione intellettuale, quindi con funzione di egemonia della polis). Si potrebbe perciò forse sostenere che l'«utopia» di Platone precorre il feudalismo medioevale, con la funzione che in esso è propria della Chiesa e degli ecclesiastici, categoria intellettuale di quella fase dello sviluppo storico-sociale. L'avversione di Platone per gli «artisti» è da intendersi pertanto come avversione alle attività spirituali «individualistiche» che tendono al «particolare», quindi «areligiose», «asociali». Gli intellettuali nell'Impero Romano. Il mutamento della condizione della posizione sociale degli intellettuali a Roma dal tempo della Repubblica all'Impero (da un regime aristocratico-corporativo a un regime democratico-burocratico) è legato a Cesare che conferí la cittadinanza ai medici e ai maestri delle arti liberali affinché abitassero piú volentieri a Roma e altri vi fossero richiamati: «Omnesque medicinam Romae professos et liberalium artium doctores, quo libentius et ipsi urbem incolerent et coeteri appeterent civitate donavit» (Svetonio, Vita di Cesare, XLII). Cesare si propose quindi: 1) di far stabilire a Roma gli intellettuali che già vi si trovavano, creando cosí una permanente categoria di essi, perché senza la permanenza non poteva crearsi un'organizzazione culturale. Ci sarà stata precedentemente una fluttuazione che era necessario arrestare, ecc.; 2) di attirare a Roma i migliori intellettuali di tutto l'Impero romano, promovendo una centralizzazione di grande portata. Cosí ha inizio quella categoria di intellettuali «imperiali» a Roma, che continuerà nel clero cattolico e lascerà tante tracce in tutta la storia degli intellettuali italiani, con la loro caratteristica di «cosmopolitismo» fino al '700.
[Origine dei centri di cultura medioevale.] Mons. Francesco Lanzoni, Le Diocesi d'Italia dalle origini al principio del secolo VII (anno 604), Studio critico, Faenza, Stab. Graf. F. Lega, 1927, «Studi e Testi», n. 35, pp. XVI-1122, L. 125 (in appendice un Excursus sui Santi africani venerati in Italia). Opera fondamentale per lo studio sulla vita storica locale in Italia in questi secoli: risponde alla domanda: come vennero formandosi i raggruppamenti culturali-religiosi durante il tramonto dell'Impero romano e l'inizio del Medioevo? Evidentemente questo raggrupparsi non può essere separato dalla vita economica e sociale e dà indicazioni per la storia del nascere dei Comuni. Per l'origine delle città mercantili. Un'importante sede vescovile non poteva mancare di certi servizi, ecc. (vettovagliamento, difesa militare, ecc.) che determinavano un raggruppamento di elementi laici intorno a quelli religiosi (questa origine «religiosa» d'una serie di città medioevali, non è studiata dal Pirenne, almeno nel libretto da me posseduto; vedere nella bibliografia delle sue opere complete): la stessa scelta della sede vescovile è un'indicazione di valore storico, perché sottintende una funzione organizzativa e centralizzatrice del luogo scelto. Dal libro del Lanzoni sarà possibile ricostruire le quistioni piú importanti di metodo nella critica di questa ricerca in parte di carattere deduttivo e la bibliografia. Sono importanti anche gli studi del Duchesne sul cristianesimo primitivo (per l'Italia: Les évêchés d'Italie et l'invasion lombarde, e Le sedi episcopali dell'antico Ducato di Roma) e sulle antiche diocesi della Gallia, e gli studi dello Harnack sulle origini cristiane, specialmente Die Mission und Ausbreitung des Christentums. Oltre che per l'origine dei centri di civiltà medioevali, tali ricerche sono interessanti per la storia reale del Cristianesimo, naturalmente.
Monachesimo e regime feudale. Sviluppo pratico della regola benedettina e del principio «Ora et labora». Il «labora» era già sottomesso all'«ora», cioè evidentemente lo scopo principale era il servizio divino. Ecco che ai monaci-contadini si sostituiscono i coloni, perché i monaci possano in ogni ora trovarsi nel convento per adempiere ai riti. I monaci nel convento cambiano di «lavoro»; lavoro industriale (artigiano) e lavoro intellettuale (che contiene una parte manuale, la copisteria). Il rapporto tra coloni e convento è quello feudale, a concessioni livellarie, ed è legato oltre all'elaborazione interna che avviene nel lavoro dei monaci, anche all'ingrandirsi della proprietà fondiaria del monastero. Altro sviluppo è dato dal sacerdozio: i monaci servono come sacerdoti il territorio circonvicino e la loro specializzazione aumenta: sacerdoti, intellettuali di concetto, copisti, operai industriali, artigiani. Il convento è la «corte» di un territorio feudale, difeso piú che dalle armi, dal rispetto religioso, ecc. Esso riproduce e sviluppa il regime della «villa» romana patrizia. Per il regime interno del Monastero fu sviluppato e interpretato un principio della Regola, ove è detto che nella elezione dell'abate debba prevalere il voto di coloro che si stimano piú savi e prudenti e che del consiglio di costoro debba l'abate munirsi quando debba decidere affari gravi, non tali tuttavia che convenga consultare l'intera congregazione; vennero cosí distinguendosi i monaci sacerdoti, che si dedicavano agli uffici corrispondenti al fine dell'istituzione, dagli altri che continuavano ad attendere ai servizi della casa.
Sulla tradizione nazionale italiana. Cfr. articolo di B. Barbadoro nel «Marzocco» del 26 settembre 1926: a proposito della Seconda Lega lombarda e della sua esaltazione come «primo conato per la indipendenza della stirpe dalla straniera oppressione che prepara i fasti del Risorgimento», il Barbadoro metteva in guardia contro questa interpretazione e osservava che «la stessa fisonomia storica di Federico II è ben diversa da quella del Barbarossa, ed altra è la politica italiana del secondo Svevo: padrone di quel Mezzogiorno d'Italia, la cui storia era disgiunta da secoli da quella della restante penisola, parve in un certo momento che la restaurazione dell'autorità imperiale nel centro e nel settentrione portasse finalmente alla costituzione di una forte monarchia nazionale». Nel «Marzocco» del 16 dicembre 1928 il Barbadoro, in una breve nota, ricorda questa sua affermazione a proposito di un ampio studio di Michelangelo Schipa pubblicato nell'Archivio storico per le province napoletane, in cui lo spunto è ampiamente dimostrato. Questa corrente di studi è molto interessante per comprendere la funzione storica dei Comuni e della prima borghesia italiana che fu disgregatrice dell'unità esistente, senza sapere o poter sostituire una nuova propria unità: il problema dell'unità territoriale, non fu neanche posto o sospettato e questa fioritura borghese non ebbe seguito: fu interrotta dalle invasioni straniere. Il problema è molto interessante dal punto di vista del materialismo storico e mi pare possa collegarsi con quello della funzione internazionale degli intellettuali italiani. Perché i nuclei borghesi formatisi in Italia, che pure raggiunsero la completa autonomia politica, non ebbero la stessa iniziativa degli Stati assoluti nella conquista dell'America e nell'apertura di nuovi sbocchi? Si dice che un elemento della decadenza delle repubbliche italiane è stata l'invasione turca che interruppe o almeno disorganizzò il commercio col levante e lo spostarsi dell'asse storico mondiale dal Mediterraneo all'Atlantico per la scoperta dell'America e la circumnavigazione dell'Africa. Ma perché Cristoforo Colombo serví la Spagna e non una repubblica italiana? Perché i grandi navigatori italiani servirono altri paesi? La ragione di tutto questo è da ricercare in Italia stessa, e non nei turchi o in America. La borghesia si sviluppò meglio, in questo periodo, con gli stati assoluti, cioè con un potere indiretto che non avendo tutto il potere. Ecco il problema, che deve essere collegato con quello degli intellettuali: i nuclei borghesi italiani, di carattere comunale, furono in grado di elaborare una propria categoria di intellettuali immediati, ma non di assimilare le categorie tradizionali di intellettuali (specialmente il clero) che invece mantennero ed accrebbero il loro carattere cosmopolitico. Mentre i gruppi borghesi non italiani, attraverso lo Stato assoluto, ottennero questo scopo molto facilmente poiché assorbirono gli stessi intellettuali italiani. Forse questa tradizione storica spiega il carattere monarchico della borghesia moderna italiana e può servire a comprendere meglio il Risorgimento.
Sviluppo dello spirito borghese in Italia. Confrontare articolo Nel centenario della morte di Albertino Mussato di Manlio Torquato Dazzi nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Secondo il Dazzi, il Mussato si stacca dalla tradizione della storia teologica per iniziare la storia moderna o umanistica piú di qualsiasi altro del suo tempo (vedere i trattati di storia della storiografia, di B. Croce, del Lisio, del Fueter, del Balzani, ecc.); [nel Mussato] appaiono le passioni e i motivi utilitari degli uomini come motivi della storia. A questa trasformazione della concezione del mondo hanno contribuito le lotte feroci delle fazioni comunali e dei primi signorotti. Lo sviluppo può essere seguito fino al Machiavelli, al Guicciardini, a L. B. Alberti. La Controriforma soffoca lo sviluppo intellettuale. Mi pare che in questo sviluppo si potrebbero distinguere due correnti principali. Una ha il suo coronamento letterario nell'Alberti: essa rivolge l'attenzione a ciò che è «particulare», al borghese come individuo che si sviluppa nella società civile e che non concepisce società politica oltre l'ambito del suo «particulare»; è legata al guelfismo, che si potrebbe chiamare un sindacalismo teorico medioevale. È federalista senza centro federale. Per le quistioni intellettuali si affida alla Chiesa, che è il centro federale di fatto per la sua egemonia intellettuale e anche politica. È da studiare la costituzione reale dei Comuni, cioè l'atteggiamento concreto che i rappresentanti prendevano verso il governo comunale: il potere durava pochissimo (due mesi soli, spesso) e in questo tempo i membri del governo erano sottoposti a clausura, senza donne; essi erano gente molto rozza, che erano stimolati dagli interessi immediati della loro arte (cfr. per la Repubblica Fiorentina il libro di Alfredo Lensi sul Palazzo della Signoria dove dovrebbero essere molti aneddoti su queste riunioni di governo e sulla vita dei signori durante la clausura). L'altra corrente ha il coronamento in Machiavelli e nell'impostazione del problema della Chiesa come problema nazionale negativo. A questa corrente appartiene Dante, che è avversario dell'anarchia comunale e feudale ma ne cerca una soluzione semimedioevale; in ogni caso pone il problema della Chiesa come problema internazionale e rileva la necessità di limitarne il potere e l'attività. Questa corrente è ghibellina in senso largo. Dante è veramente una transizione: c'è affermazione di laicismo ma ancora col linguaggio medioevale.
Su L. B. Alberti cfr. il libro di Paul-Henry Michel, Un idéal humain au XVe siècle. La pensée de L. B. Alberti (1404-1472), in 8°, pp. 649, Paris, Soc. Ed. «Les Belles Lettres», 1930. Analisi minuziosa del pensiero di L. B. Alberti, ma, a quanto pare da qualche recensione, non sempre esatta, ecc. Edizione Utet del Novellino curata da Letterio di Francia, il quale ha accertato che il nucleo originale della raccolta sarebbe stato composto negli ultimi anni del secolo XIII da un borghese ghibellino. Ambedue i libri dovrebbero essere analizzati per la ricerca già accennata del come sia riflesso nella letteratura il passaggio dall'economia medioevale all'economia borghese dei Comuni e quindi alla caduta, in Italia, dello spirito di intrapresa economica e alla restaurazione cattolica.
Da un articolo di Nello Tarchiani nel «Marzocco» del 3 aprile 1927: Un dimenticato interprete di Michelangelo (Emilio Ollivier): «Per lui (Michelangelo) non esisteva che l'arte. Papi, principi, repubbliche erano la stessa cosa, purché gli dessero modo di operare; pur di fare, si sarebbe dato al Gran Turco, come una volta minacciò; ed in ciò gli si avvicinava il Cellini». E non solo il Cellini: e Leonardo? Ma perché ciò avvenne? E perché tali caratteri esistettero quasi solo in Italia? Questo è il problema. Vedere nella vita di questi artisti come risalti la loro anazionalità. E nel Machiavelli il nazionalismo era poi cosí forte da superare l'«amore dell'arte per l'arte»? Una ricerca di questo genere sarebbe molto interessante: il problema dello Stato italiano lo occupava piú come «elemento nazionale» o come problema politico interessante in sé e per sé, specialmente data la sua difficoltà e la grande storia passata dell'Italia?
Cultura italiana. Borghesia primitiva. Per lo studio della formazione e del diffondersi dello spirito borghese in Italia (lavoro tipo Groethuysen), cfr. anche i Sermoni di Franco Sacchetti (vedi ciò che ne scrive il Croce nella «Critica» del marzo 1931, Il Boccaccio e Franco Sacchetti).
Monsignor Della Casa. Nella puntata del suo studio La lirica del Cinquecento, pubblicata nella «Critica» del novembre 1930, B. Croce scrive sul Galateo: «... esso non ha niente di accademico e pesante ed è una serie di garbati avvertimenti sul modo gradevole di comportarsi in società e uno di quei libri iniziatori che L'Italia del Cinquecento dette al mondo moderno» (p. 410). È esatto dire che sia un libro «iniziatore» dato al «mondo moderno»? Chi è piú «iniziatore» al «mondo moderno», il Casa e il Castiglione o Leon Battista Alberti? Chi si occupava dei rapporti fra cortigiani o chi dava consigli per l'edificazione del tipo del borghese nella società civile? Tuttavia occorre tener conto del Casa in questa ricerca ed è certamente giusto non considerarlo solo «accademico e pesante» (ma in questo giudizio del «mondo moderno» non è implicito un «distacco» – e non un rapporto di iniziazione – tra il Casa e il mondo moderno?) Il Casa scrisse altre operette politiche, le orazioni e inoltre un trattatello in latino, De officiis inter potentiores et tenuiores amicos, «intorno al rapporto che corre tra gli amici potenti e inferiori, tra quelli che, stretti dal bisogno di vivere e di avvantaggiarsi, si dànno a servire come cortigiani e coloro che li impiegano; rapporto che egli giudica, qual è, di carattere utilitario e non pretende convertirlo in legame regolato da una legge di giustizia, ma che si argomenta di far accettare da entrambe le parti e introdurvi qualche lume di bontà, con lo spiegare agli uni e agli altri la realtà delle loro rispettive posizioni e il tatto che esse richiedono».
La poesia provenzale in Italia. È stata pubblicata la raccolta completa delle Poesie provenzali storiche relative all'Italia (Roma, 1931, nella serie delle Fonti dell'Istituto Storico Italiano) per cura di Vincenzo De Bartholomaeis e ne dà un annunzio Mario Pelaez nel «Marzocco» del 7 febbraio 1932. «Di circa 2600 poesie provenzali giunte fino a noi, 400 rientrano nella Storia d'Italia, o perché trattano di argomenti italiani, sebbene siano di poeti non mai venuti in Italia, o perché composte da poeti provenzali che vi dimorarono, o infine perché scritte da Italiani. Delle 400, la metà circa sono puramente amorose, le altre storiche, e qual piú qual meno offrono testimonianze utili per la ricostruzione della vita e in generale della Storia italiana dalla fine del secolo XII alla metà del XIV. Duecento poesie di circa ottanta poeti». Questi trovatori, provenzali o italiani, vivevano nelle corti feudali dell'Italia settentrionale, all'ombra delle piccole Signorie e nei Comuni, partecipavano alla vita e alle lotte locali, sostenevano gli interessi di questo o quel Signore, di questo o quel Comune, con poesia di varia forma, di cui è ricca la lirica provenzale: serventesi politici, morali, satirici, di crociata, di compianto, di consiglio; canzoni, tenzoni, cobbole ecc. che apparendo via via e circolando negli ambienti interessati, compivano la funzione che ha oggi l'articolo di fondo del giornale. Il De Bartholomaeis ha cercato di datare queste poesie, cosa non difficile per le allusioni che contengono; le ha corredate di tutti i sussidi che ne agevolano la lettura, le ha tradotte. Di ogni trovatore è data una breve informazione biografica. Per la lettura del testo originale è dato un glossario delle voci meno facili a intendersi. Sulla poesia provenzale in Italia è da vedere il volume di Giulio Bertoni Trovatori d'Italia.
Umanesimo e Rinascimento. Confrontare Luigi Arezio, Rinascimento, Umanesimo e spirito moderno, «Nuova Antologia» del 1° luglio 1930. L'Arezio si occupa del libro di G. Toffanin, Che cosa fu l'Umanesimo (Sansoni, Firenze, 1929), che appare, dai cenni fattine, molto interessante per il mio argomento. Accennerò qualche spunto, perché dovrò leggere il volume. (Il Voigt e il Burckhardt credettero che l'Umanesimo fosse diretto contro la Chiesa; il Pastor – sarà da leggere il suo volume sulla Storia dei Papi dalla fine del Medioevo, che concerne l'Umanesimo – non crede che l'Umanesimo fosse inizialmente diretto contro la Chiesa). Per il Toffanin, il principio della irreligiosità o della nuova religione non è la via maestra per entrare nel segreto degli umanisti; né vale parlare del loro individualismo, perché «i presunti effetti della rivalutazione della personalità umana» a opera di una cultura, sarebbero tanto piú sorprendenti in un tempo rimasto a sua volta famoso per aver «allungata la distanza fra il resto degli uomini e quelli di studio». Il fatto veramente caratteristico dell'Umanesimo «resta quella passione per il mondo antico per cui, quasi d'improvviso, con una lingua morta si tenta di soppiantarne una popolare e consacrata dal genio, s'inventa, possiam dire, la scienza filologica, si rinnova gusto e cultura. Il mondo pagano rinasce». Il Toffanin sostiene che non bisogna confondere l'Umanesimo col progressivo risveglio posteriore all'anno Mille, l'Umanesimo è un fatto essenzialmente italiano «indipendente da codesti fallaci presagi» e ad esso attingeranno per farsi classici e colti la Francia e il mondo intero. In un certo senso può chiamarsi eretica quella civiltà comunale del Duecento, che apparve in una irruzione di sentimenti e pensieri raffinatissimi in forme plebee, e «inizialmente eretico fu quell'impulso all'individualismo anche se tra il popolo esso prese coscienza d'eresia meno di quanto a un primo sguardo si sospetti». La letteratura volgare prorompente dal seno della civiltà comunale e indipendente dal classicismo è indice d'una società «in cui il lievito eretico fermentò»; lievito, che, se indeboliva nelle masse l'ossequio all'autorità ecclesiastica, diventava nei pochi un aperto distacco dalla «romanitas», caratteristico fra il Medioevo propriamente detto e l'Umanesimo. Alcuni intellettuali sembrano consapevoli di questa discontinuità storica: essi pretendono di essere colti senza leggere Virgilio, cioè senza i liberali studi, il cui generale abbandono giustificherebbe, secondo il Boccaccio, l'uso del volgare, anziché del latino, nella Divina Commedia. Massimo fra questi intellettuali Guido Cavalcanti. In Dante «l'amore della lingua plebea, germogliato da uno stato d'animo comunale e virtualmente eretico» dovette contrastare con un concetto della sapienza quasi umanistico. «Caratterizza gli umanisti la coscienza d'uno stacco senza rimedio tra uomo di cultura e folla: ideali astratti sono per loro quelli della potestà imperiale e papale; reale invece è la loro fede nella universalità culturale e nelle ragioni di essa». La Chiesa favorí il distacco della cultura dal popolo cominciato col ritorno al latino, perché lo considerò come sana reazione contro ogni mistica indisciplinatezza. L'Umanesimo, da Dante a prima del Machiavelli, è una età che sta nettamente a sé, e, contrariamente a quel che ne pensano alcuni, per il comune impulso antidemocratico e antieretico ha una non superficiale affinità con la Scolastica. Cosí il Toffanin nega che l'Umanesimo si trasfonda vitale nella Riforma, perché questa, col suo distacco dalla romanità, con la rivincita ribelle dei volgari, e con tante altre cose rinnova i palpiti della cultura comunale, fremente eresia, contro la quale l'Umanesimo era sorto. Col finire dell'Umanesimo nasce l'eresia e sono fuori dell'Umanesimo Machiavelli, Erasmo (?), Lutero, Giordano Bruno, Cartesio, Giansenio. Queste tesi del Toffanin spesso coincidono con le note già da me fatte in altri quaderni. Solo che il Toffanin si mantiene sempre nel campo culturale-letterario e non pone l'Umanesimo in connessione con i fatti economici e politici che si svolgevano in Italia contemporaneamente: passaggio ai principati e alle signorie, perdita dell'iniziativa borghese e trasformazione dei borghesi in proprietari terrieri. L'Umanesimo fu un fatto reazionario nella cultura perché tutta la società italiana stava diventando reazionaria. L'Arezio cerca di fare obiezioni al Toffanin, ma si tratta di inezie e di superficialità. Che l'età comunale sia tutto un fermento di eresie non pare accettabile all'Arezio che per eresia intende solo l'averroismo e l'epicureismo. Ma il Comune era una eresia esso stesso perché tendenzialmente doveva entrare in lotta col papato e rendersene indipendente. Cosí non gli piace che il Toffanin ponga tutto l'Umanesimo come fedele al cristianesimo, sebbene riconosca che anche gli scettici facevano ostentazione di religiosità. La verità è che si trattò del primo fenomeno «clericale» nel senso moderno, una Controriforma in anticipo (d'altronde era Controriforma in rapporto all'età comunale). Essi si opponevano alla rottura dell'universalismo medioevale e feudale che era implicito nel Comune e che fu soffocata in fasce, ecc. L'Arezio segue le vecchie concezioni sull'Umanesimo e ripete le affermazioni diventate classiche del Voigt, Burckhardt, del Rossi, De Nolhac, Symonds, Jebb, ecc.
Rinascimento. Come si spiega che il Rinascimento Italiano ha trovato studiosi e divulgatori numerosissimi all'estero e che non esista un libro d'insieme scritto da un italiano. Mi pare che il Rinascimento sia la fase culminante moderna della «funzione internazionale degli intellettuali italiani», e che perciò esso non abbia avuto rispondenza nella coscienza nazionale che è stata dominata e continua ad essere dominata dalla Controriforma. Il Rinascimento è vivo nelle coscienze dove ha creato correnti nuove di cultura e di vita, dove è stato operante in profondità, non dove è stato soffocato senza residuo altro che retorico e verbale e dove quindi è diventato oggetto di «mera erudizione», di curiosità estrinseca cioè.
[La Controriforma e la scienza.] Il processo di Galileo, di Giordano Bruno, ecc. e l'efficacia della Controriforma nell'impedire lo sviluppo scientifico in Italia. Sviluppo delle scienze nei paesi protestanti o dove la Chiesa [era] meno immediatamente forte che in Italia. La Chiesa avrebbe contribuito alla snazionalizzazione degli intellettuali italiani in due modi: positivamente, come organismo universale che preparava personale a tutto il mondo cattolico, e negativamente, costringendo ad emigrare quegli intellettuali che non volevano sottomettersi alla disciplina controriformistica.
Cfr. l'accenno nei Ricordi di un vecchio normalista di Girolamo Vitelli nella «Nuova Antologia» del 1° aprile 1930: la filologia classica in Italia per tre secoli (fino alla seconda metà del secolo XIX) fu completamente trascurata: «Quando si conosca un po' la storia di questi nostri studi, si sa anche che dal Rinascimento in poi, dopo gli italiani del '400 (e anche sino alla fine del '500, con l'ultima grande scuola di Pier Vettori), ne tennero successivamente l'egemonia, con tendenze piú o meno diverse, i francesi, gli olandesi, gl'inglesi, i tedeschi». Perché questa assenza degli italiani? Il Vitelli non la spiega altro che col «mercantilismo», ma chi piú mercantilista degli olandesi e degli inglesi? È curioso che proprio le nazioni protestanti (e in Francia mi pare che gli Ètiennes fossero ugonotti) mantengono lo studio del mondo antico in onore. Bisognerebbe vedere l'organizzazione di questi studi in queste nazioni e paragonare coi centri di studio in Italia. La Controriforma ha influito? ecc.
[Cosmopolitismo letterario italiano del Settecento.] Sull'Algarotti. Dall'articolo Nicolino e l'Algarotti di Carlo Calcaterra, nel «Marzocco» del 29 maggio 1932: «Impedisce tuttora nell'animo di molti un'equa valutazione degli scritti d'arte dell'Algarotti la considerazione che egli fu il consigliere e il provveditore di Augusto III di Sassonia negli acquisti per la galleria di Dresda, onde si rimprovera a lui di avere impoverito l'Italia a beneficio di corti straniere. Ma giustamente è stato detto dal Panzacchi e da altri studiosi che nel cosmopolitismo settecentesco quell'opera di diffusione dell'arte italiana, come di bellezza appartenente a tutta Europa, ha un aspetto meno odioso di quello che con tutta facilità può esserle attribuito». L'osservazione del cosmopolitismo settecentesco, che è esatta, va approfondita e specificata: il cosmopolitismo degli intellettuali italiani è esattamente della stessa natura del cosmopolitismo degli altri intellettuali nazionali? Questo è il punto: per gli italiani è in funzione di una particolare posizione che viene attribuita all'Italia a differenza degli altri paesi, cioè l'Italia è concepita come complementare di tutti gli altri paesi, come produttrice di bellezza e di cultura per tutta Europa.
Clero e intellettuali. Esiste uno studio organico sulla storia del clero come «classe-casta»? Mi pare che sarebbe indispensabile, come avviamento e condizione di tutto il rimanente studio sulla funzione della religione nello sviluppo storico ed intellettuale dell'umanità. La precisa situazione giuridica e di fatto della Chiesa e del clero nei vari periodi e paesi, le sue condizioni e funzioni economiche, i suoi rapporti esatti con le classi dirigenti e con lo Stato ecc. ecc.
Perché ad un certo punto la maggioranza dei cardinali fu composta di italiani e i papi furono sempre scelti tra italiani? Questo fatto ha una certa importanza nello sviluppo intellettuale nazionale italiano e qualcuno potrebbe anche vedere in esso l'origine del Risorgimento. Esso certamente fu dovuto a necessità interna di difesa e sviluppo della Chiesa e della sua indipendenza di fronte alle grandi monarchie straniere europee, tuttavia la sua importanza nei riflessi italiani non è perciò diminuita. Se positivamente il Risorgimento può dirsi incominci con l'inizio delle lotte tra Stato e Chiesa, cioè con la rivendicazione di un potere governativo puramente laico, quindi col regalismo e il giurisdizionalismo (onde l'importanza del Giannone), negativamente è anche certo che le necessità di difesa della sua indipendenza portarono la Chiesa a cercare sempre piú in Italia la base della sua supremazia e negli italiani il personale del suo apparato organizzativo. È da questo inizio che si svilupperanno le correnti neoguelfe del Risorgimento, attraverso le diverse fasi (quella del sanfedismo italiano, per esempio) piú o meno retrive e primitive. Questa nota perciò interessa oltre la rubrica degli intellettuali anche quella del Risorgimento e quella delle origini dell'Azione cattolica «italiana». Nello sviluppo di una classe nazionale, accanto al processo della sua formazione nel terreno economico, occorre tener conto del parallelo sviluppo nei terreni ideologico, giuridico, religioso, intellettuale, filosofico, ecc.: si deve dire anzi che non c'è sviluppo sul terreno economico, senza questi altri sviluppi paralleli. Ma ogni movimento della «tesi» porta a movimenti della «antitesi» e quindi a «sintesi» parziali e provvisorie. Il movimento di nazionalizzazione della Chiesa in Italia è imposto non proposto: la Chiesa si nazionalizza in Italia in forme ben diverse da ciò che avviene in Francia col gallicanismo, ecc. In Italia la Chiesa si nazionalizza in modo «italiano», perché deve nello stesso tempo rimanere universale: intanto nazionalizza il suo personale dirigente e questo vede sempre piú l'aspetto nazionale della funzione storica dell'Italia come sede del Papato.
Lotta tra Stato e Chiesa. Diverso carattere che ha avuto questa lotta nei diversi periodi storici. Nella fase moderna, essa è lotta per l'egemonia nell'educazione popolare; almeno questo è il tratto piú caratteristico, cui tutti gli altri sono subordinati. Quindi è lotta tra due categorie di intellettuali, lotta per subordinare il clero, come tipica categoria di intellettuali, alle direttive dello Stato, cioè della classe dominante (libertà dell'insegnamento – organizzazioni giovanili – organizzazioni femminili – organizzazioni professionali).
Formazione e disillusione della nuova borghesia in Italia. In altra nota ho segnato che si potrebbe fare una ricerca «molecolare» negli scritti italiani del Medioevo per cogliere il processo di formazione intellettuale della borghesia, il cui sviluppo storico culminerà nei Comuni per subire poi una disgregazione e un dissolvimento. La stessa ricerca si potrebbe fare nel periodo 1750-1850, quando si ha la nuova formazione borghese che culmina nel Risorgimento. Anche qui il modello del Groethuysen (Origines de l'esprit bourgeois en France: 1.er L'Église et la Bourgeoisie) potrebbe servire, integrato, naturalmente, di quei motivi che sono peculiari della storia sociale italiana. Le concezioni del mondo, dello Stato, della vita contro cui deve combattere lo spirito borghese in Italia non sono simili a quelle che esistevano in Francia. Foscolo e Manzoni in un certo senso possono dare i tipi italiani. Il Foscolo è l'esaltatore delle glorie letterarie e artistiche del passato (cfr. i Sepolcri, i Discorsi civili, ecc.), la sua concezione è essenzialmente «retorica» (sebbene occorra osservare che nel tempo suo questa retorica avesse un'efficienza pratica attuale e quindi fosse «realistica»). Nel Manzoni troviamo spunti nuovi, piú strettamente borghesi (tecnicamente borghesi). Il Manzoni esalta il commercio e deprime la poesia (la retorica). Lettere al Fauriel. Nelle opere inedite ci sono dei brani in cui il Manzoni biasima l'unilateralità dei poeti che disprezzano la «sete dell'oro» dei commercianti, disconoscono l'audacia dei navigatori mentre parlano di sé come di esseri sovrumani. In una lettera al Fauriel scrive: «Pensi di che sarebbe piú impacciato il mondo, del trovarsi senza banchieri o senza poeti, quale di queste due professioni serva piú, non dico al comodo, ma alla cultura dell'umanità». (Cfr. Carlo Franelli, Il Manzoni e l'idea dello scrittore, nella «Critica Fascista» del 15 dicembre 1931). Il Franelli osserva: «I lavori di storia e di economia politica li mette piú in alto che una letteratura piuttosto (?!) leggera. Sulla qualità della cultura italiana d'allora ha dichiarazioni molto esplicite nelle lettere all'amico Fauriel. Quanto ai poeti, la loro tradizionale megalomania lo offende. Osserva che oggidí perdono tutto quel gran credito che godettero in passato. Ripetutamente ricorda che alla poesia ha voluto bene in "gioventú"».
Risorgimento. Nel Risorgimento si ebbe l'ultimo riflesso della «tendenza storica» della borghesia italiana a mantenersi nei limiti del «corporativismo»: il non aver risolto la quistione agraria è la prova di questo fatto. Rappresentanti di questa tendenza sono i moderati, sia neoguelfi (in essi – Gioberti – appare il carattere universalistico-papale degli intellettuali italiani che è posto come premessa del fatto nazionale) sia i cavouriani (o economisti-pratici, ma al modo dell'uomo del Guicciardini, cioè rivolti solo al loro «particulare»: da ciò il carattere della monarchia italiana). Ma le tracce dell'universalismo medioevale sono anche nel Mazzini, e determinano il suo fallimento politico; perché se al neoguelfismo successe nella corrente moderata il cavourismo, l'universalismo mazziniano nel Partito d'Azione non fu praticamente superato da nessuna formazione politica organica e invece rimase un fermento di settarismo ideologico e quindi di dissoluzione.
Gioberti. Importanza del Gioberti per la formazione del carattere nazionale moderno degli intellettuali italiani. Sua funzione accanto al Foscolo. In una nota precedente osservazioni sulla soluzione formale data dal Gioberti al problema nazionale-popolare come contemperamento di conservazione e innovazione, come «classicità nazionale». Soluzione formale non solo del maggior problema politico sociale, ma anche di quelli derivati, come quello di una letteratura nazionale-popolare. Occorrerà rivedere ai fini di questo studio le maggiori pubblicazioni polemiche del Gioberti: il Primato e il Rinnovamento, gli scritti contro i gesuiti (Prolegomeni e il Gesuita moderno). Libro dell'Anzilotti sul Gioberti.
[Il movimento socialista.] Efficacia avuta dal movimento operaio socialista per creare importanti settori della classe dominante. La differenza tra il fenomeno italiano e quello di altri paesi consiste obiettivamente in questo: che negli altri paesi il movimento operaio e socialista elaborò singole personalità politiche, in Italia invece elaborò interi gruppi di intellettuali che come gruppi passarono all'altra classe. Mi pare che la causa italiana sia da ricercare in ciò: scarsa aderenza delle classi alte al popolo: nella lotta delle generazioni, i giovani si avvicinano al popolo; nelle crisi di svolta questi giovani ritornano alla loro classe (cosí è avvenuto per i sindacalisti nazionalisti e per i fascisti). È in fondo lo stesso fenomeno generale del trasformismo, in diverse condizioni. Il trasformismo «classico» fu il fenomeno per cui si unificarono i partiti del Risorgimento; questo trasformismo mette in chiaro il contrasto tra civiltà, ideologia, ecc. e la forza di classe. La borghesia non riesce a educare i suoi giovani (lotta di generazione): i giovani si lasciano attrarre culturalmente dagli operai e addirittura se ne fanno o cercano di farsene i capi («inconscio» desiderio di realizzare essi l'egemonia della loro propria classe sul popolo), ma nelle crisi storiche ritornano all'ovile. Questo fenomeno di «gruppi» non si sarà certo verificato solo in Italia: anche nei paesi dove la situazione è analoga, si sono avuti fenomeni analoghi: i socialismi nazionali dei paesi slavi (o socialrivoluzionari o narodniki, ecc.).
La quistione dei giovani. Esistono molte «quistioni» dei giovani. Due mi sembrano specialmente importanti: 1) La generazione «anziana» compie sempre l'educazione dei «giovani»; ci sarà conflitto, discordia ecc., ma si tratta di fenomeni superficiali, inerenti a ogni opera educativa e di raffrenamento, a meno che non si tratti di interferenze di classe, cioè i «giovani» (o una parte cospicua di essi) della classe dirigente (intesa nel senso piú largo, non solo economico, ma politico-morale) si ribellano e passano alla classe progressiva che è diventata storicamente capace di prendere il potere: ma in questo caso si tratta di «giovani» che dalla direzione degli «anziani» di una classe passano alla direzione degli «anziani» di un'altra classe: in ogni caso rimane la subordinazione reale dei «giovani» agli «anziani» come generazione, pur con le differenze di temperamento e di vivacità su ricordate; 2) Quando il fenomeno assume un carattere così detto «nazionale», cioè non appare apertamente l'interferenza di classe, allora la quistione si complica e diventa caotica. I «giovani» sono in istato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l'analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma storico e reale); gli «anziani» dominano di fatto, ma... après moi le déluge, non riescono a educare i giovani, a prepararli alla successione. Perché? Ciò significa che esistono tutte le condizioni perché gli «anziani» di un'altra classe debbano dirigere questi giovani, senza che possano farlo per ragioni estrinseche di compressione politico-militare. La lotta, di cui si sono soffocate le espressioni esterne normali, si attacca come una cancrena dissolvente alla struttura della vecchia classe, debilitandola e imputridendola: assume forme morbose, di misticismo, di sensualismo, di indifferenza morale, di degenerazioni patologiche psichiche e fisiche, ecc. La vecchia struttura non contiene e non riesce a dare soddisfazione alle esigenze nuove: la disoccupazione permanente o semipermanente dei cosí detti intellettuali è uno dei fenomeni tipici di questa insufficienza, che assume carattere aspro per i piú giovani, in quanto non lascia «orizzonti aperti». D'altronde questa situazione porta ai «quadri chiusi» di carattere feudale-militare, cioè inacerbisce essa stessa i problemi che non sa risolvere.
A proposito del protestantesimo in Italia, ecc. Riferimento a quella corrente intellettuale contemporanea che sostenne il principio che le debolezze della nazione e dello Stato italiano erano dovute alla mancanza di una riforma protestante, corrente rappresentata specialmente dal Missiroli. Il Missiroli, come appare, prese questa sua tesi di peso dal Sorel, che l'aveva presa dal Renan (poiché Renan una tesi simile, adattata alla Francia e piú complessa, aveva sostenuto nel libro La riforma intellettuale e morale). Nella «Critica» del 1931, in diverse puntate, è stato pubblicato un saggio inedito del Sorel, Germanesimo e storicismo di Ernesto Renan, scritto (datato) del maggio 1915 e che avrebbe dovuto servire di introduzione alla versione italiana del libro di Renan La riforma intellettuale e morale, che doveva tradurre Missiroli e pubblicare Laterza. La traduzione del Missiroli non fu pubblicata e si capisce perché: nel maggio 1915 l'Italia intervenne nella guerra e il libro del Renan con la prefazione del Sorel sarebbe apparso un atto di tedescofilia. In ogni modo pare da accertare che la posizione del Missiroli sulla quistione del «protestantesimo in Italia» è una deduzione meccanica dalle idee critiche del Renan e del Sorel sulla formazione e le necessità della cultura francese. Non è però escluso che il Missiroli conoscesse anche le idee del Masaryk sulla cultura russa (egli per lo meno conosceva il saggio sul Masaryk di Antonio Labriola: ma il Labriola accenna a questa tesi «religiosa»? non mi pare) e nel 1918 conobbe dal «Grido del Popolo» il saggio sul Masaryk, con l'accenno alla tesi religiosa, pubblicato dal «Kampf» di Vienna nel 1914, e da me tradotto appunto nel «Grido» (questo saggio era anche conosciuto dal Gobetti). Le critiche fatte al Masaryk in questo saggio, metodologicamente, si avvicinano a quelle fatte dal Croce ai sostenitori di «riforme protestanti» ed è strano che ciò non sia stato visto dal Gobetti (per il quale, del resto, non si può dire che non comprendesse questo problema in modo concreto, a differenza del Missiroli, come dimostravano le sue simpatie politico-pratiche). Occorrerebbe stroncare invece il Missiroli che è una carta asciugante di alcuni elementi culturali francesi. Dal saggio del Sorel appare anche una strana tesi sostenuta dal Proudhon, a proposito di riforma intellettuale e morale del popolo francese (il Renan nella sua opera si interessa delle alte classi di cultura ed ha per il popolo un programma particolare: affidarne l'educazione ai parroci di campagna), che si avvicina a quella di Renan riguardante il popolo. Il Sorel sostiene che Renan anzi abbia conosciuto questo atteggiamento di Proudhon e ne sia stato influenzato. Le tesi di Proudhon sono contenute nell'opera La Justice dans la Révolution et dans l'Église, tome V, pp. 342-44, e per esse si dovrebbe giungere a una riforma intellettuale e morale del popolo francese con l'aiuto del clero, che avrebbe, con il linguaggio e il simbolismo religioso, concretato e assicurato le verità «laiche» della Rivoluzione. Il Proudhon in fondo, nonostante le sue bizzarrie, è piú concreto di quanto sembri: egli pare certamente persuaso che occorre una riforma intellettuale in senso laico («filosofico» come dice) ma non sa trovare altro mezzo didattico che il tramite del clero. Anche per Proudhon, il modello è quello protestante, cioè la riforma intellettuale e morale avvenuta in Germania con il protestantesimo, che egli vorrebbe «riprodotta» in Francia, nel popolo francese, ma con piú rispetto storico della tradizione storica francese che è contenuta nella Rivoluzione. (Naturalmente occorre leggere bene Proudhon prima di servirsene per questo argomento). Anche la posizione del Sorel è strana in questo problema: la sua ammirazione per Renan e per i tedeschi gli fa vedere i problemi da puro intellettuale astratto. Questo problema del protestantesimo non deve essere confuso con quello «politico» presentatosi nel periodo del Risorgimento, quando molti liberali, per esempio quelli della «Perseveranza», si servirono dello spauracchio protestante per far pressione sul papa a proposito del potere temporale e di Roma. Sicché in una trattazione del problema religioso in Italia occorre distinguere in primo luogo tra due ordini fondamentali di fatti: 1) quello reale, effettuale, per cui si verificano nella massa popolare dei movimenti di riforma intellettuale e morale, sia come passaggio dal cattolicismo ortodosso e gesuitico a forme religiose piú liberali, sia come evasione dal campo confessionale per una moderna concezione del mondo; 2) i diversi atteggiamenti dei gruppi intellettuali verso una necessaria riforma intellettuale e morale. La corrente Missiroli è la meno seria di queste, la piú opportunistica, la piú dilettantesca e spregevole per la persona del suo corifeo. Cosí occorre per ognuno di questi ordini di fatti distinguere cronologicamente tra varie epoche: quella del Risorgimento (col liberalismo laico, da una parte, e il cattolicismo liberale, dall'altra), quella dal '70 al '90 col positivismo e anticlericalismo massonico e democratico; quella dal '900 fino alla guerra, col modernismo e il filosofismo idealistico; quella fino al concordato, con l'organizzazione politica dei cattolici italiani; e quella post-concordataria, con una nuova posizione del problema, sia per gli intellettuali che per il popolo. È innegabile, nonostante la piú potente organizzazione cattolica e il risveglio di religiosità in questa ultima fase, che molte cose stanno mutando nel cattolicesimo, e che la gerarchia ecclesiastica ne è allarmata, perché non riesce a controllare queste trasformazioni molecolari; accanto a una nuova forma di anticlericalismo, piú raffinata e profonda di quella ottocentesca, c'è un maggiore interesse per le cose religiose da parte dei laici, che portano nella trattazione uno spirito non educato al rigore ermeneutico dei gesuiti e quindi sconfinante spesso nell'eresia, nel modernismo, nello scetticismo elegante. «Troppa grazia!» per i gesuiti, che vorrebbero invece che i laici non s'interessassero di religione altro che per seguire il culto.
[Gli intellettuali e lo Stato hegeliano.] Nella concezione non solo della scienza politica, ma in tutta la concezione della vita culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza la posizione assegnata da Hegel agli intellettuali, che deve essere accuratamente studiata. Con Hegel si incomincia a non pensare piú secondo le caste o gli «stati», ma secondo lo «Stato», la cui «aristocrazia» sono appunto gli intellettuali. La concezione «patrimoniale» dello Stato (che è il modo di pensare per «caste») è immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche sprezzanti e sarcastiche contro von Haller). Senza questa «valorizzazione» degli intellettuali fatta da Hegel non si comprende nulla (storicamente) dell'idealismo moderno e delle sue radici sociali.
Note di cultura italiana. 1) La scienza e la cultura. Le correnti filosofiche idealistiche (Croce e Gentile) hanno determinato un primo processo di isolamento degli scienziati (scienze naturali o esatte) dal mondo della cultura. La filosofia e la scienza si sono staccate e gli scienziati hanno perduto molto del loro prestigio. Un altro processo di isolamento si è avuto per il nuovo prestigio dato al cattolicesimo e per il formarsi del centro neoscolastico. Cosí gli scienziati «laici» hanno contro la religione e la filosofia piú diffusa: non può non avvenire un loro imbozzolamento e una «denutrizione» dell'attività scientifica che non può svilupparsi isolata dal mondo della cultura generale. D'altronde: poiché l'attività scientifica è in Italia strettamente legata al bilancio dello Stato, che non è lauto, all'atrofizzarsi di uno sviluppo del «pensiero» scientifico, della storia, non può per compenso neanche aversi uno sviluppo della «tecnica» strumentale e sperimentale, che domanda larghezza di mezzi e di dotazioni. Questo disgregarsi dell'unità scientifica, del pensiero generale, è sentito: si è cercato di rimediare elaborando anche in questo campo un «nazionalismo» scientifico, cioè sostenendo la tesi della «nazionalità» della scienza. Ma è evidente che si tratta di costruzioni esteriori estrinseche, buone per i congressi e le celebrazioni oratorie, ma senza efficacia pratica. E tuttavia gli scienziati italiani sono valorosi e fanno, con pochi mezzi, sacrifici inauditi e ottengono risultati mirabili. Il pericolo piú grande pare essere rappresentato dal gruppo neoscolastico, che minaccia di assorbire molta attività scientifica sterilizzandola, per reazione all'idealismo gentiliano. (È da vedere l'attività organizzatrice del Consiglio Nazionale delle Ricerche e l'efficacia che ha avuto per sviluppare l'attività scientifica e tecnologica, e quella delle sezioni scientifiche dell'Accademia d'Italia). 2) Centralismo nazionale e burocratico. Lo scioglimento delle associazioni regionali avvenuto verso l'agosto del 1932. Vedere quali reazioni ha suscitato nel tempo. Vi si è visto un movimento di sempre piú salda coscienza nazionale. Ma l'illazione è giustificata? Confrontare col movimento di centralizzazione avutosi in Francia dopo la Rivoluzione e specialmente con Napoleone. La differenza pare evidente: in Francia si era avuto un movimento nazionale unitario, di cui l'accentramento fu l'espressione burocratica. In Italia non si è avuto lo stesso processo nazionale, anzi la burocrazia accentrata aveva proprio il fine di ostacolare un tale processo. Sarebbe interessante vedere quali forze unitarie nel dopoguerra si siano formate accanto alla burocrazia tradizionale: ciò che è da notare è che tali forze, se pure relativamente notevoli, non hanno un carattere di omogeneità e di permanente sistematicità, ma sono di tipo «burocratico» (burocrazia sindacale, di partito, podestà, ecc.). 3) Scienza. Vedere il volume pubblicato da Gino Bargagli-Petrucci (presso il Le Monnier) in cui sono raccolti i discorsi di scienziati italiani all'Esposizione di storia delle scienze del 1929. In questo volume è pubblicato un discorso del padre Gemelli che è segno dei tempi, per vedere la baldanza che hanno assunto questi fratacci (su questo discorso è da vedere la recensione nell'«Educazione Fascista» del 1932 e l'articolo di Sebastiano Timpanaro nell'«Italia Letteraria» dell'11 settembre e 16 ottobre 1932).
[Sentimento nazionale.] Sentimento nazionale, non popolare-nazionale (cfr. note disperse), cioè un sentimento puramente «soggettivo», non legato a realtà, a fattori, a istituzioni oggettive. È perciò ancora un sentimento da «intellettuali», che sentono la continuità della loro categoria e della loro storia, unica categoria che abbia avuto una storia ininterrotta. Un elemento oggettivo è la lingua, ma essa in Italia si alimenta poco, nel suo sviluppo, dalla lingua popolare che non esiste (eccetto in Toscana), mentre esistono i dialetti. Altro elemento è la cultura ma essa è troppo ristretta ed ha carattere di casta: i ceti intellettuali sono piccolissimi e angusti. I partiti politici: erano poco solidi e non avevano vitalità permanente ma entravano in azione solo nel periodo elettorale. I giornali: non coincidevano coi partiti che debolmente, e poco letti. La Chiesa era l'elemento popolare-nazionale piú valido ed esteso, ma la lotta tra Chiesa e Stato ne faceva un elemento di disgregazione piú che di unità e oggi le cose non sono molto cambiate perché tutta l'impostazione del problema morale-popolare è cambiato. La monarchia – Il parlamento – L'università e la scuola – La città – Organizzazioni private come la massoneria – L'Università popolare – L'esercito – I sindacati operai - La scienza (verso il popolo, – i medici, i veterinari, le cattedre ambulanti, gli ospedali) – Il teatro – Il libro.
[Il razzismo.] Esiste un «razzismo» in Italia? Molti tentativi sono stati fatti, ma tutti di carattere letterario e astratto. Da questo punto di vista l'Italia si differenzia dalla Germania, quantunque tra i due paesi ci siano alcune somiglianze estrinseche interessanti: 1) La tradizione localistica e quindi il tardo raggiungimento dell'unità nazionale e statale. (Somiglianza estrinseca perché il regionalismo italiano ha avuto altre origini che quello tedesco: in Italia hanno contribuito due elementi principali: a) la rinascita delle razze locali dopo la caduta dell'Impero Romano; b) le invasioni barbariche prima, i domini stranieri dopo. In Germania i rapporti internazionali hanno influito, ma non con l'occupazione diretta di stranieri). 2) L'universalismo medioevale influí piú in Italia che in Germania, dove l'Impero e la laicità trionfarono molto prima che in Italia, durante la Riforma. 3) Il dominio nei tempi moderni delle classi proprietarie della campagna, ma con rapporti molto diversi. Il tedesco sente piú la razza che l'Italiano. Razzismo: il ritorno storico al romanesimo, poco sentito oltre la letteratura. Esaltazione generica della stirpe, ecc. Lo strano è che a sostenere il razzismo oggi (con l'Italia Barbara, L'Arcitaliano e lo strapaesismo) sia Kurt Erich Suckert, nome evidentemente razzista e strapaesano; ricordare durante la guerra Arturo Foà e le sue esaltazioni della stirpe italica, altrettanto congruenti che nel Suckert.
Elementi di cultura italiana. L'ideologia «romana». L'Omodeo afferma («Critica» del 20 settembre 1931): «Cerca (il Bülow) di confortarsi nella luminosa atmosfera di Roma, inebriandosi di quella poesia dell'Urbe, che il Goethe ha diffuso fra i tedeschi, e che tanto si differenzia dalla retorica romana, per buona parte figlia delle scuole gesuitiche, corrente fra noi». È da notare, a rincalzo, che nei Sepolcri del Foscolo, in cui pure sono contenuti tanti spunti della mentalità e dell'ideologia dell'intellettuale italiano del secolo XIX-XX, Roma antica ha un posto minimo e quasi nullo. (Lo stesso Primato del Gioberti è forse di origine «gesuitica», anche se il Gioberti [era] antigesuita).
La tradizione di Roma. Registrare le diverse reazioni (e il diverso carattere di queste) all'ideologia legata alla tradizione di Roma. Il futurismo fu in Italia una forma di questa reazione, in quanto contro la retorica tradizionale e accademica, e questa in Italia era strettamente legata alla tradizione di Roma (La terra dei morti del Giusti: «Noi eravamo grandi e là non eran nati»; «Tutto che al mondo è civile, grande, augusto, egli è romano ancora» del Carducci, dipendenti dai Sepolcri di Foscolo, come momento «moderno» di questa retorica). Questa reazione ha vari aspetti, oltre che diversi caratteri. Tende, per esempio a contestare che l'Italia moderna sia erede della tradizione romana (l'espressione del Lessing sui «vermi usciti dalla decomposizione della carogna romana») o a contestare l'importanza stessa di tale tradizione. Nel libro dello Wells Breve storia del mondo (ed. Laterza, con postilla polemica del traduttore Lorizio), questa reazione assume diversi aspetti: 1) nega che la storia mondiale antica si unifichi nell'impero romano, allargando la visione storica mondiale con la storia della Cina, dell'India e dei Mongoli; 2) tende a svalutare in sé la grandezza della storia romana e della sua tradizione, sia come tendenza politica (Sacro Romano Impero), sia come tendenza culturale (Chiesa cattolica). Nel libro dello Wells, se è esatto il primo punto, il secondo soffre di nuova intrusione di elementi ideologici ed è moralistico. Altro aspetto da osservare è la valorizzazione dell'elemento non romano nella formazione delle nazioni moderne: elemento germanico nella formazione degli stati romano-germanici: questo aspetto è coltivato dai tedeschi e continua nella polemica sull'importanza della Riforma come premessa della modernità. Ma nella formazione degli Stati romano-germanici, oltre all'elemento romano e a quello germanico, c'è un terzo e anche talvolta un quarto elemento; in Francia, oltre all'elemento romano e a quello franco, c'è l'elemento celtico, dato dalla autoctona popolazione gallica; in Ispagna c'è ancora, in piú, l'elemento arabo con la sua influenza scientifica nel Medioevo. A proposito dell'elemento gallico nella formazione della civiltà francese, c'è sempre stata tutta una letteratura, di carattere misto storico e popolare. Nel tempo piú recente è da vedere l'Histoire de la Gaule di Camille Jullian, dove (nell'VIII vol., p. 311) si può leggere che è tempo di farla finita colla «ossessione della storia imperiale» e che «è necessario che noi sappiamo sbarazzarci dei modi di sentire e di ragionare che sono l'eredità dell'impero romano. I pregiudizi quasi invincibili coi quali noi siamo usciti dall'educazione classica, lo storico deve saperli vincere». Dall'articolo La figura di Roma in uno storico celtista di Piero Baroncelli nella «Nuova Antologia» del 16 marzo 1929, pare che il Jullian a questi pregiudizi ne abbia sostituito degli altri (la celtomania), ma in ogni caso è notevole il fatto che uno storico accreditato come il Jullian, membro dell'Accademia, abbia dedicato un tale scritto monumentale a sostegno della sua tesi e abbia avuto il premio dell'Accademia. Il Baroncelli ritiene che: «La gelosia, con cui oggi si guarda quasi dappertutto al nostro Paese, si rivela anche nel favore col quale sono accolte all'estero le pubblicazioni che, per un verso o per l'altro, cercano di sfatare il nome di Roma e dell'Italia. Di questa indole è appunto la citata Histoire de la Gaule, opera fortunata per diffusione, imponente per mole, autorevole per il nome dello scrittore»; e che, «Quanto agli sfregi che oggi si tentano sulla figura di Roma antica, ben sappiamo che la Roma signora e maestra di popoli ha in sé, per taluni, una grave colpa: Roma, fino dai suoi inizi, fu sempre Italia». Ai pregiudizi storici che combatte, il Baroncelli ne sostituisce anch'egli dei suoi propri, e ciò che è piú importante, dà loro una veste politica. L'argomento sarebbe da studiare con spregiudicatezza: cosa rimane ancora oggi, di proprio e inconfondibile, della tradizione romana? Concretamente molto poco: l'attività piú spiccata, moderna, è quella economica, sia teorica che pratica, e quella scientifica, e di esse nulla continua il mondo romano. Ma anche nel campo del diritto, in che rapporto esatto si trova il romanesimo con gli apporti del germanesimo e quelli piú recenti anglosassoni e qual è l'area geografica in cui il diritto romano ha piú diffusione? Sarebbe ancora da notare che nella forma in cui è diventato tradizionale, il diritto romano è stato elaborato a Costantinopoli, dopo la caduta di Roma. Quanto alla tradizione statale romana è vero che l'Italia, come tale (cioè nella figura che oggi ha assunto) non l'ha continuata (osservazione del Sorel), ecc. Seguire le pubblicazioni di Ezio Levi sull'arabismo spagnolo e sulla sua importanza per la civiltà moderna.
Sicilia e Sardegna. Per il diverso peso che esercita la grande proprietà in Sicilia e in Sardegna, e quindi per la diversa posizione relativa degli intellettuali, ciò che spiega il diverso carattere dei movimenti politico-culturali, valgono queste cifre: in Sardegna solo il 18% del territorio appartiene a Enti pubblici, il resto proprietà privata: dell'area coltivabile il 50% comprende possessi inferiori a 10 ha. e solo il 4% al di sopra di 200 ha. Sicilia: nel 1907 il Lorenzoni assegnava 1400 proprietà di oltre 200 ha. con una estensione di ha. 717.729,16 cioè il 29,79% dell'estensione catastale dell'isola, posseduta da 787 proprietari. Nel 1929 il Molé constatava 1055 latifondi di oltre 200 ha. con estensione complessiva di ha. 540.700 cioè il 22,2% dell'area agraria e forestale (ma si tratta di vero frazionamento del latifondo). Inoltre occorre tener conto della differenza storico-sociale-culturale dei grandi proprietari siciliani da quelli sardi: i siciliani hanno una grande tradizione e sono fortemente uniti. In Sardegna niente di ciò.
Intellettuali siciliani. Rivalità fra Palermo e Catania per contendersi il primato intellettuale dell'isola. – Catania chiamata l'Atene siciliana, anzi la «sicula Atene». – Celebrità di Catania: Domenico Tempio, poeta licenzioso, la cui attività viene dopo il terremoto del 1693 che distrusse Catania (Antonio Prestinenza collega il tono licenzioso del poeta al fatto del terremoto: morte – vita – distruzione – fecondità). – Vincenzo Bellini, contrapposto al Tempio per la sua melanconia romantica. Mario Rapisardi è la gloria moderna di Catania. Garibaldi gli scrive: «All'avanguardia del progresso noi vi seguiremo» e Victor Hugo: «Vous êtes un précurseur». – Rapisardi-Garibaldi-Victor Hugo. – Polemica Carducci-Rapisardi. – Rapisardi-De Felice (il primo maggio De Felice conduceva il corteo sotto il portone di Rapisardi). – Popolarismo socialista mescolato col culto superstizioso di Sant'Agata: quando Rapisardi in punto di morte si volle che rientrasse nella Chiesa: «Tal visse Argante e tal morí qual visse» disse Rapisardi. – Accanto al Rapisardi: Verga, Capuana, De Roberto, che però non considerati «sicilianissimi», anche perché legati alle correnti continentali e amici del Carducci. – Catania e l'Abruzzo nella letteratura italiana dell'Ottocento.
Storia letteraria o della cultura. L'origine della teoria americana (riferita dal Cambon in una sua prefazione a un volume del Ford) che in ogni epoca i grandi uomini sono tali nell'attività fondamentale dell'epoca stessa, cosa per cui sarebbe assurdo «rimproverare» agli americani di non avere grandi artisti quando hanno «grandi tecnici», come sarebbe rimproverare al Rinascimento di aver avuto grandi pittori e scultori e non grandi tecnici, si può trovare in Carlyle (Sugli eroi e l'eroismo). Carlyle deve dire presso a poco che Dante se avesse dovuto fare il guerriero, ossia se si fosse trovato a sviluppare la sua personalità in un momento di necessità militare ecc. sarebbe stato grande lo stesso ecc., cioè l'eroismo sarebbe quasi da concepire come una forma che si riempie del contenuto eroico prevalente nel tempo o nell'ambiente determinato. Si può tuttavia dire che in tempi di avvilimento pubblico, di compressione ecc. è impossibile ogni forma di «grandezza». Dove il grande carattere morale è combattuto non si può essere grande artista, ecc. Metastasio non può essere Dante o Alfieri. Dove prospera Ojetti può esserci un Dante? Forse un Michele Barbi! Ma la quistione in generale non pare seria, se impostata sulla necessità che appaiano grandi geni. Si può solo giudicare dell'atteggiamento verso la vita, piú o meno conformista o eroico, metastasiano o alfieriano, il che certo non è poco. Non è da escludere che dove la tradizione ha lasciato un largo strato di intellettuali, e un interesse vivace o prevalente per certe attività, si sviluppino «genî» che non corrispondono ai tempi in cui vivono concretamente, ma a quelli in cui vivono «idealmente» e culturalmente. Machiavelli potrebbe essere uno di questi. Inoltre si dimentica che ogni tempo o ambiente è contraddittorio e che si esprime e si corrisponde al proprio tempo o ambiente combattendoli strenuamente oltre che collaborando alle forme di vita ufficiale. Pare che anche in questo argomento è da tener conto della quistione degli intellettuali e del loro modo di selezionarsi nelle varie epoche di sviluppo della civiltà. E da questo punto di vista può esserci molta verità nell'affermazione americana. Epoche progressive nel campo pratico possono non aver avuto il tempo ancora di manifestarsi nel campo creativo estetico e intellettuale, o possono essere in questo arretrate, filistee ecc.
L'italiano meschino. «Il latino si studia obbligatoriamente in tutte le scuole superiori del Nord-America. La storia romana è insegnata in tutti gli istituti, e tale insegnamento rivaleggia, se non supera quello che vien fatto nei ginnasi e nei licei italiani, perché nelle scuole americane la classica storia di Roma antica è tradotta fedelmente da Tacito e da Cesare, da Sallustio e da Tito Livio, mentre in Italia si ricorre troppo spesso e troppo supinamente alle deformate (sic) traduzioni di Lipsia». Filippo Virgilii, L'espansione della cultura italiana, «Nuova Antologia», 1° dicembre 1928 (il brano è a p. 346); (né può essere errore di stampa, dato il senso di tutto il periodo! E il Virgilii è professore di Università e ha fatto le scuole classiche!)
Fortunato Rizzi ossia dell'italiano meschino. Louis Reynaud, che deve essere un discepolo di Maurras, ha scritto un libro: Le Romantisme (Les origines anglo-germaniques. Influences étrangères et traditions nationales. Le réveil du génie français), Paris, Colin, per esporre diffusamente e dimostrare una tesi propria del nazionalismo integrale: che il Romanticismo è contrario al genio francese ed è un'importazione straniera, germanica e anglo-tedesca. In questa proposizione, per Maurras e indubbiamente anche per il Reynaud, l'Italia è e deve essere con la Francia, e anzi in generale le nazioni cattoliche, il cattolicismo, sono solidali contro le nazioni protestanti, il latinismo contro il germanesimo. Il Romanticismo è una infezione d'origine germanica, infezione per la latinità, per la Francia, che ne è stata la grande vittima: nei suoi paesi originari, Inghilterra e Germania, il Romanticismo sarà o è stato senza conseguenze, ma in Francia esso è diventato lo spirito delle rivoluzioni successive dal 1789 in poi, ha distrutto o devastato la tradizione, ecc. ecc. Ora ecco come il prof. Fortunato Rizzi, autore di un libro a quanto pare mediocrissimo (non fa maraviglia, a giudicare dal modo come egli tratta le correnti di pensiero e di sentimenti) sul '500, vede il libro del Reynaud in un articolo (Il Romanticismo francese e l'Italia) pubblicato nei «Libri del giorno» del giugno 1929. Il Rizzi ignora l'«antefatto», ignora che il libro del Reynaud è piú politico che letterario, ignora le proposizioni del nazionalismo integrale di Maurras nel campo della cultura e va a cercare con la sua lucernina di meschino italiano le tracce dell'Italia nel libro. Perbacco! L'Italia non c'è, l'Italia dunque è negletta, è misconosciuta! «È veramente singolare il silenzio quasi assoluto per quanto si riferisce all'Italia. Si direbbe che per lui (il Reynaud) l'Italia non esista né sia mai esistita: eppure se la deve esser trovata innanzi agli occhi ogni momento». Il Reynaud ricorda che il '600 nella civiltà europea è francese. E il Rizzi: «Ci voleva proprio uno sforzo eroico a notare, almeno di passaggio, di quanto la Francia del '600 sia debitrice all'Italia del '500? Ma l'Italia non esiste per i nostri buoni fratelli d'oltralpe». Che malinconia! Il Reynaud scrive: «les anglais, puis les allemands, nous communiquent leur superstition de l'antique». E il Rizzi: «Oh guarda donde viene alla Francia l'adorazione degli antichi! Dall'Inghilterra e dalla Germania! E il Rinascimento italiano con la sua maravigliosa potenza di diffusione in Europa e, sí proprio, anche in Francia? Cancellato dalla storia...». Altri esempi sono altrettanto divertenti. «Ostentata o inconscia indifferenza o ignoranza nei riguardi dell'Italia» che, secondo il Rizzi, non aggiunge valore all'opera ma anzi «per certi rispetti la attenua grandemente e sminuisce». Conclusione: «Ma noi che siamo i figli primogeniti o, meglio (secondo il pensiero del Balbo) unigeniti di Roma, noi siamo dei signori di razza e non facciamo le piccole vendette, ecc. ecc.» e quindi riconosce che l'opera del Reynaud è ordinata, acuta, dotta, lucidissima ecc. ecc. Ridere o piangere. Ricordo questo episodio: parlando di un Tizio, un articolista ricordava che un antenato dell'eroe era ricordato da Dante nella Divina Commedia, «questo libro d'oro della nobiltà italiana». Era ricordato infatti, ma in una bolgia dell'Inferno: non importa per l'italiano meschino, che non si accorge, per la sua mania di grandezza da nobiluomo decaduto, che il Reynaud, non parlando dell'Italia nel suo libro, le ha voluto fare il piú grande omaggio, dal suo punto di vista. Ma al Rizzi importa che il Manzoni sia stato solo ricordato in una noterella a piè di pagina!
Giovanni B. Botero. Cfr. Il numero come forza nel pensiero di Giovanni Botero di Emilio Zanette, nella «Nuova Antologia» del 1° settembre del 1930. È un articolo superficiale e di tipo giornalistico-d'occasione. Il significato dell'importanza data da Botero al «fatto» della popolazione non ha lo stesso valore di quello che può avere attualmente. Il Botero è uno degli scrittori del tempo della Controriforma piú tipicamente cosmopoliti e a-italiani. Egli parla dell'Italia come di qualsiasi altro paese e i suoi problemi politici non lo interessano specificatamente. Critica la «boria» degli Italiani che si considerano superiori ad altri paesi e dimostra infondata tale pretesa. È da studiare per tanti rispetti (ragion di Stato, machiavellismo, tendenza gesuitica ecc.). Il Gioda ha scritto sul Botero: piú recentemente saggi ecc. Per questo articolo lo Zanette potrebbe entrare nel paragrafo degli «Italiani meschini».
Regionalismo. Cfr. Leonardo Olschki, Kulturgeografie Italiens, in «Preussische Jahrbücher», gennaio 1927, pp. 19-36. Il «Leonardo» del febbraio 1927 lo giudica: «Vivace e assai ben fatto studio del regionalismo italiano, dei suoi aspetti presenti e delle sue origini storiche».
Gli ebrei. Cfr. Yoseph Colombo, Lettere inedite del p. Hyacinthe Loyson, «Nuova Antologia», 1° settembre 1930. Si parla del rabbino livornese Benamozegh, della sua concezione dell’ebraismo in rapporto al cristianesimo, dei suoi scritti, dei suoi rapporti col Loyson; si accenna all’importanza della comunità ebraica di Livorno come centro di cultura rabbinica, ecc.
Intellettuali italiani all'estero
Storia nazionale e storia della cultura (europea o mondiale). L'attività degli elementi dirigenti che hanno operato all'estero, come l'attività della moderna emigrazione, non può essere incorporata nella storia nazionale, come invece deve essere, per esempio, l'attività di elementi simili in altre condizioni. Una classe di un paese può servire in un altro paese, mantenendo i suoi legami nazionali e statali originari, cioè come espressione dell'influenza politica del paese d'origine. Per un certo tempo i missionari o il clero nei paesi d'Oriente esprimevano l'influenza francese, anche se questo clero solo parzialmente era costituito di cittadini francesi, per i legami statali tra Francia e Vaticano. Uno stato maggiore organizza le forze armate di un altro paese, incaricando del lavoro tecnici militari del suo gruppo che non perdono la nazionalità, tutt'altro. Gli intellettuali di un paese influenzano la cultura di un altro paese e la dirigono ecc. Un'emigrazione di lavoratori colonizza un paese sotto la direzione diretta o indiretta della sua propria classe dirigente economica e politica. La forza espansiva, l'influsso storico di una nazione non può essere misurato dall'intervento individuale di singoli, ma dal fatto che questi singoli esprimono consapevolmente e organicamente un blocco sociale nazionale. Se cosí non è, si deve parlare solo di fenomeni di una certa portata culturale appartenenti a fenomeni storici piú complessi: come avvenne in Italia per tanti secoli, di essere l'origine «territoriale» di elementi dirigenti cosmopoliti e di continuare in parte ad esserlo per il fatto che l'alta gerarchia cattolica è in gran parte italiana. Storicamente, questa funzione internazionale è stata la causa di debolezza nazionale e statale: lo sviluppo delle capacità non è avvenuto per i bisogni nazionali, ma per quelli internazionali, il processo di specializzazione tecnica degli intellettuali ha seguito perciò delle vie anormali dal punto di vista nazionale, perché ha servito a creare l'equilibrio di attività e di branche di attività non di una comunità nazionale ma di una comunità piú vasta che voleva «integrare» i suoi quadri nazionali, ecc. (Questo punto deve essere bene sviluppato con precisione ed esattezza).
[Intellettuali stranieri in Italia.] Per il mondo slavo confrontare Ettore Lo Gatto L'Italia nelle letterature slave, fascicoli 16 settembre, 1° ottobre, 16 ottobre della «Nuova Antologia». Oltre ai rapporti puramente letterari, determinati dai libri, ci sono molti accenni all'immigrazione di intellettuali italiani nei diversi paesi slavi, specialmente in Russia e in Polonia, e alla loro importanza come fattori della cultura locale. Un altro aspetto della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani da studiare, o almeno da accennare è quella svolta in Italia stessa, attirando studenti alle Università e studiosi che volevano perfezionarsi. In questo fenomeno di immigrazione di intellettuali stranieri in Italia occorre distinguere due aspetti: immigrazione per vedere l'Italia e come territorio-museo della storia passata, che è stata permanente e dura ancora con ampiezza maggiore o minore secondo le epoche, e immigrazione per assimilare la cultura vivente sotto la guida degli intellettuali italiani viventi; è questa seconda che interessa per la ricerca in quistione. Come e perché avviene che a un certo punto sono gli italiani ad emigrare all'estero e non gli stranieri a venire in Italia? (con eccezione relativa per gli intellettuali ecclesiastici, il cui insegnamento in Italia continua ad attirare discepoli in Italia fino ad oggi; in questo caso occorre però tener presente che il centro romano è andatosi relativamente internazionalizzando). Questo punto storico è di massima importanza: gli altri paesi acquistano coscienza nazionale e vogliono organizzare una cultura nazionale, la cosmopoli medioevale si sfalda, l'Italia come territorio perde la sua funzione di centro internazionale di cultura, non si nazionalizza per sé, ma i suoi intellettuali continuano la funzione cosmopolita, staccandosi dal territorio e sciamando all'estero.
[Debolezza nazionale della classe dirigente.] Prima della rivoluzione francese, prima cioè che si costituisse organicamente una classe dirigente nazionale, c'era un'emigrazione di elementi italiani rappresentanti la tecnica e la capacità direttiva, elementi che hanno arricchito gli Stati europei col loro contributo. Dopo la formazione di una borghesia nazionale e dopo l'avvento del capitalismo si è iniziata l'emigrazione del popolo lavoratore, che è andato ad aumentare il plusvalore dei capitalismi stranieri: la debolezza nazionale della classe dirigente ha cosí sempre operato negativamente. Essa non ha dato la disciplina nazionale al popolo, non l'ha fatto uscire dal municipalismo per una unità superiore, non ha creato una situazione economica che riassorbisse le forze di lavoro emigrate, in modo che questi elementi sono andati perduti in grandissima parte, incorporandosi nelle nazionalità straniere in funzione subalterna.
«Pour Nietzsche, l'intellectuel est "chez lui", non pas là oú il est né (la naissance, c'est de l'"histoire"), mais là oú lui-même engendre et met au monde: Ubi pater sum, ibi patria, "Là oú je suis père, oú j'engendre, là est ma patrie"; et non pas oú, il fut engendré». Stefan Zweig, Influence du Sud sur Nietzsche, «Nouvelles Littéraires», 19 luglio 1930 (è forse il capitolo di un libro tradotto da Alzir Hella et Olivier Bournac).
Cfr. Angelo Scarpellini, La Battaglia intorno al latino nel settecento in «Glossa Perenne», 1929. (Riassume i termini della lotta combattuta nel '700 pro e contro lo studio del latino e specialmente l'uso di esso nelle scritture, che è la quistione fondamentale dal punto di vista di un rivolgimento nell'attitudine e nei rapporti dei ceti intellettuali verso il popolo).
[Tramonto della funzione cosmopolita degli intellettuali italiani.] Forse si potrebbe far coincidere il tramonto della funzione cosmopolitica degli intellettuali italiani con il fiorire degli avventurieri del '700: l'Italia a un certo punto non dà piú tecnici all'Europa, o perché le altre nazioni hanno già elaborato una classe colta propria o perché l'Italia non produce piú capacità a mano a mano che ci allontaniamo dal '500; e le vie tradizionali di «far fortuna» all'estero sono ormai percorse da imbroglioni che sfruttano la tradizione. Da vedere e da porre in termini esatti.
[La patria di Cristoforo Colombo.] Il particolare chauvinisme italiano trova una sua manifestazione nella letteratura che rivendica le invenzioni, le scoperte scientifiche. Parlo dello «spirito»con cui queste rivendicazioni sono fatte, non del fenomeno in sé: non si tratta, insomma, di contributi... alla storia della tecnica e della scienza, ma di «pezzi» giornalistici di colore sciovinistico. Penso che molte rivendicazioni sono... oziose, nel senso che non basta aver avuto uno spunto, ma occorre saperne trarre tutte le conseguenze e applicazioni pratiche. Altrimenti si arriverebbe alla conclusione che non è stato mai inventato nulla, perché... i cinesi conoscevano già tutto. Per molte rivendicazioni questi specialisti (come il Savorgnan di Brazzà) di glorie nazionali non s'accorgono di far fare all'Italia la funzione della Cina. A questo spunto si può riunire tutta la letteratura sulla patria di Cristoforo Colombo. A me pare che si tratti di una letteratura completamente inutile e oziosa. La quistione dovrebbe essere posta cosí: perché nessuno Stato italiano aiutò Cristoforo Colombo, o perché Colombo non si rivolse a nessuno Stato italiano? In che consiste dunque l'elemento «nazionale» della scoperta dell'America? La nascita di Cristoforo Colombo in un punto dell'Europa piuttosto che in un altro ha un valore episodico e casuale, poiché egli stesso non si sentiva legato a uno Stato italiano. La quistione, secondo me, dovrebbe essere definita storicamente fissando che l'Italia ebbe per molti secoli una funzione internazionale-europea. Gli intellettuali e gli specialisti italiani erano cosmopoliti e non italiani, non nazionali. Uomini di Stato, capitani, ammiragli, scienziati, navigatori italiani non avevano un carattere nazionale ma cosmopolita. Non so perché questo debba diminuire la loro grandezza o menomare la storia italiana, che è stata quello che è stata, e non la fantasia dei poeti o la retorica dei declamatori: avere una funzione europea, ecco il carattere del «genio» italiano dal '400 alla Rivoluzione francese.
Individui e nazioni. A proposito della quistione delle glorie nazionali legate alle invenzioni di singoli individui geniali, le cui scoperte e invenzioni non hanno però avuto applicazione o riconoscimento nel paese d'origine si può ancora osservare: che le invenzioni e le scoperte possono essere e sono spesso infatti casuali, non solo, ma che i singoli inventori possono essere legati a correnti culturali e scientifiche che hanno avuto origine e sviluppo in altri paesi, presso altre nazioni. Perciò una invenzione o scoperta perde il carattere individuale e casuale e può essere giudicata nazionale quando: l'individuo è strettamente e necessariamente collegato a una organizzazione di cultura che ha caratteri nazionali o quando l'invenzione è approfondita, applicata; sviluppata in tutte le sue possibilità dall'organizzazione culturale della nazione d'origine. Fuori di queste condizioni non rimane che l'elemento «razza» cioè una entità imponderabile e che d'altronde può essere rivendicato da tutti i paesi e che in ultima analisi si confonde con la cosí detta «natura umana». Si può dunque chiamare «nazionale» l'individuo che è conseguenza della realtà concreta nazionale o che inizia una fase determinata dell'operosità pratica o teorica nazionale. Bisognerebbe poi mettere in luce che una nuova scoperta che rimane cosa inerte non è un valore: l'«originalità» consiste tanto nello «scoprire» quanto nell'«approfondire» e nello «sviluppare» e nel «socializzare», cioè nel trasformare in elemento di civiltà universale: ma appunto in questi campi si manifesta l'energia nazionale, che è collettiva, che è l'insieme dei rapporti interni di una nazione.
[Tecnici militari italiani e arte militare italica.] Nella guerra delle Fiandre combattuta dagli Spagnoli verso la fine del Cinquecento, una gran parte dell'elemento tecnico-militare e del genio era costituita da italiani. Capitani di gran fama come Alessandro Farnese, duca di Parma, Ranuccio Farnese, Ambrogio Spinola, Paciotto da Urbino, Giorgio Basta, Giambattista del Monte, Pompeo Giustiniano, Cristoforo Mondragone e molti altri minori. La città di Namur era stata fortificata da due ingegneri italiani: Gabrio Serbelloni e Scipione Campi, ecc. Cfr. Un generale di cavalleria italo-albanese: Giorgio Basta di Eugenio Barbarich nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1928. In questa ricerca sulla funzione cosmopolitica delle classi colte italiane è specialmente da tener conto dell'apporto di tecnici militari, per il valore piú strettamente «nazionale» che sempre ha avuto il servizio militare. La quistione si collega ad altre ricerche: come si erano formate queste capacità militari? La borghesia dei Comuni aveva avuto anche un'origine militare, nel senso che la sua organizzazione di classe fu originariamente anche militare e che attraverso la sua funzione militare riuscí a prendere il potere. Questa tradizione militare si spezzò dopo l'avvento al potere, dopo che il Comune aristocratico divenne Comune borghese. Come, perché? Come si formarono le compagnie di ventura, e per quale origine necessaria? Di che condizione sociale furono i condottieri in maggioranza? Mi pare piccoli nobili, ma di che nobiltà? Di quella feudale o di quella mercantile? ecc. Questi capi militari della fine del Cinquecento e dei secoli successivi come si erano formati? ecc. Naturalmente che gli italiani abbiano cosí validamente partecipato alle guerre della Controriforma ha un significato particolare, ma parteciparono anche alla difesa dei protestanti? Né bisogna confondere questo apporto di tecnici militari con la funzione che ebbero gli Svizzeri, per esempio, quali mercenari internazionali, o i cavalieri tedeschi in Francia (reîtres) o gli arcieri scozzesi nella stessa Francia: appunto perché gli italiani non dettero solo tecnici militari, ma tecnici del genio (ingegneri), della politica, della diplomazia ecc. Il Barbarich (credo che adesso sia generale) termina il suo articolo sul Basta con questo periodo: «La lunga pratica di quarant'anni di campagne nelle guerre aspre di Fiandra, di Francia e di Transilvania, hanno procurato a Giorgio Basta una ben straordinaria sanzione pratica alla lucida e chiara sua teoria, che sarà ripresa dal Montecuccoli. Ricordare oggidí l'una e l'altra è opera di rivendicazione storica doverosa, di buona propaganda sollecita delle tradizioni nostre, le quali affermano la indiscussa e luminosa priorità dell'arte militare italica nei grandi eserciti moderni». Ma si può parlare in questo caso di arte militare italica? Dal punto di vista della storia della cultura può essere interessante sapere che il Farnese era italiano o Napoleone corso o Rothschild ebreo, ma storicamente la loro attività individuale è stata incorporata nello Stato al cui servizio essi sono stati assunti o nella società in cui hanno operato. L'esempio degli ebrei può dare un elemento di orientazione per giudicare l'attività di questi italiani, ma solo fino ad un certo punto: in realtà gli ebrei hanno avuto un maggior carattere nazionale di questi italiani, nel senso che nel loro operare c'era una preoccupazione di carattere nazionale che in questi italiani non c'era. Si può parlare di tradizione nazionale quando la genialità individuale è incorporata attivamente, cioè politicamente e socialmente, nella nazione da cui l'individuo è uscito (gli studi sull'ebraismo e la sua funzione internazionale possono dare molti elementi di carattere teorico per questa ricerca), quando essa trasforma il proprio popolo, gli imprime un movimento che appunto forma la tradizione. Dove esiste una continuità in questa materia tra il Farnese e oggi? Le trasformazioni, gli aggiornamenti, le innovazioni portate da questi tecnici militari nella loro arte si sono incorporate nella tradizione francese o spagnola o austriaca: in Italia sono diventate numeri di scheda bibliografica.
«Nel 1563, durante la guerra civile contro gli Ugonotti, all'assedio di Orléans, intrapreso dal Duca di Guisa, l'ingegnere militare Bartolomeo Campi di Pesaro, il quale aveva nell'esercito attaccante la carica che ora si direbbe di comandante del Genio, fece fare una grande quantità di sacchetti che, riempiti di terra, furono portati sulle spalle dei soldati nella posizione, ed, in un istante, fabbricati con quelli i ripari, ivi, in attesa del momento di avanzare, si fermarono gli assalitori al coperto dalle offese della piazza». (Enrico Rocchi, Un notevole aspetto delle campagne di Cesare nelle Gallie, «Nuova Antologia», 1° gennaio 1929).
[Il fuoruscitismo politico nel Medioevo.] In che misura lo sciamare in tutta Europa di eminenti e mediocri personalità italiane (ma di un certo vigore di carattere) fu dovuto ai risultati delle lotte interne delle fazioni comunali, al fuoruscitismo politico cioè? Questo fenomeno fu persistente dopo la seconda metà del secolo XIII: lotte comunali con dispersione delle fazioni vinte, lotte contro i principati, elementi di protestantesimo ecc., fino al 1848; nel secolo XIX il fuoruscitismo muta di carattere, perché gli esiliati sono nazionalisti e non si lasciano assorbire dai paesi di immigrazione (non tutti però: vedi Antonio Panizzi divenuto direttore del British Museum e baronetto inglese). Di questo elemento occorre tener conto, ma non è certo quello prevalente nel fenomeno generale. Cosí in un certo periodo occorre tener conto del fatto che i principi italiani sposavano le loro figlie con principi stranieri e ogni nuova regina di origine italiana portava con sé un certo numero di letterati, artisti, scienziati italiani (in Francia con le Medici, in Spagna con le Farnesi, in Ungheria, ecc.) oltre a diventare un centro di attrazione dopo la salita al trono. Tutti questi fenomeni devono essere studiati e la loro importanza relativa fissata esattamente, in modo da dare il proprio valore al fatto fondamentale. Nell'articolo Il Petrarca a Montpellier, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929, Carlo Segré ricorda come ser Petracco, bandito da Firenze e stabilitosi con la famiglia a Carpentras, volle che suo figlio Francesco frequentasse l'Università di Montpellier per intraprendere l'attività legale. «La scelta poi si mostrava ottima, perché in Italia e nel Mezzogiorno della Francia grande era allora la richiesta di giuristi da parte di principi e di governi municipali, che li adoperavano come giudici, magistrati, ambasciatori e consulenti, senza dire che restava loro aperto l'esercizio privato dell'avvocatura, meno onorifico ma sempre vantaggioso per chi non mancasse di sveltezza». L'Università di Montpellier fu fondata nel 1160 dal giureconsulto Piacentino, che si era formato a Bologna e aveva portato in Provenza i metodi dell'insegnamento di Irnerio (questo Piacentino era però italiano? occorre sempre fare delle ricerche perché i nomi italiani possono essere soprannomi o italianizzazioni). Certo che molti italiani furono chiamati dall'estero, per organizzarvi università sul modello bolognese, pavese, ecc.
Un «Dizionario degli italiani all'estero».Cesare Balbo aveva scritto: «Una storia intiera e magnifica e peculiare all'Italia sarebbe a fare degli Italiani fuori d'Italia». Nel 1890 fu pubblicato un saggio di Dizionario degli italiani all'estero, come opera postuma di Leo Benvenuti (uno studioso modesto). Nella prefazione il Benvenuti osservava che date le condizioni delle ricerche bibliografiche al suo tempo, non sarebbe stato possibile andare oltre a un indice che avrebbe poi dovuto servire a chi si fosse accinto a scrivere la storia. Le categorie in cui il Benvenuti suddivide l'elenco onomastico (le principali) sono: Ambasciatori, antiquari, architetti, artisti (drammatici, coreografici, acrobati), astronomi, botanici, cantanti, eruditi, filosofi, fisici, geografi, giureconsulti, incisori, ingegneri (civili e militari), linguisti, insegnanti, matematici, medici e chirurghi, maestri di musica, mercanti, missionari, naturalisti, nunzi apostolici, pittori scultori e poeti, soldati di mare, soldati di terra, sovrani, storici, teologi, uomini di chiesa, viaggiatori, statisti. (Come si vede, il Benvenuti non aveva altro punto di vista che quello della nazionalità e l'opera sua, se completa, sarebbe stata un censimento degli italiani all'estero; secondo me la ricerca deve essere di carattere qualitativo e cioè studiare come le classi dirigenti – politiche e culturali – di una serie di paesi, furono rafforzate da elementi italiani i quali contribuirono a crearvi una civiltà nazionale, mentre in Italia appunto una classe nazionale mancava e non riusciva a formarsi: è questa emigrazione di elementi dirigenti che rappresenta un fatto storico peculiare, corrispondente all'impossibilità italiana di utilizzare e unificare i suoi cittadini piú energici e intraprendenti). Il Benvenuti prendeva le mosse dall'anno 1000. Promossa dal Capo del Governo, affidata al ministero degli Affari Esteri, con la collaborazione del Reale Istituto di Archeologia e Storia dell'Arte, è in preparazione una voluminosissima pubblicazione intitolata L'Opera del Genio italiano all'estero. L'idea pare sia stata suggerita da Gioacchino Volpe che deve avere scritto il programma dell'opera (in un discorso all'Accademia, annotato in altro quaderno, il Volpe preannunziò questo lavoro). Nel programma si legge: «La Storia del genio italiano all'estero che noi vogliamo narrare trascura i tempi antichi staccati da noi da secoli oscuri e muove dalla civiltà che, spuntata dopo il Mille, ha raggiunto, sia pure tra soste e sussulti, i nostri giorni, rinnovellata da conquiste ideali e da conquiste politiche, donde l'odierna unità dell'anima e della patria italiana. Sarà opera oggettiva, scevra di antagonismi e di polemiche, ma di giusta celebrazione per quanto il genio italiano, considerato nel suo complesso, operò nel mondo per il bene di tutti». L'opera sarà divisa in dodici serie le quali sono indicate in ordine progressivo, avvertendosi che ogni serie comprenderà uno o piú volumi distribuiti in massima secondo il criterio geografico. Le 12 serie sarebbero: 1) Artisti di ogni arte; 2) Musicisti; 3) Letterati; 4) Architetti militari; 5) Uomini di guerra; 6) Uomini di mare; 7) Esploratori e Viaggiatori; 8) Principi; 9) Uomini politici; 10) Santi sacerdoti missionari; 11) Scienziati; 12) Banchieri mercanti colonizzatori. L'opera sarà riccamente illustrata. La Commissione Direttiva è composta del prof. Giulio Quirino Giglioli, di S. E. Vincenzo Lojacono e del Sen. Corrado Ricci. Segretario generale della Commissione è il barone Giovanni Di Giura. L'edizione sarà di 1000 esemplari di cui 50 di lusso. (Queste notizie sono ricavate dal «Marzocco» del 6 marzo 1932).
Nell'ICS [Italia che scrive] dell'ottobre 1929, Dino Provenzal, nella rubrica «Libri da fare» propone: Una storia degli italiani fuori d'Italia, e scrive: «L'invocava Cesare Balbo tanti anni fa, come ricorda il Croce nella sua recente Storia della età barocca in Italia. Chi raccogliesse notizie ampie, sicure, documentate, intorno all'opera di nostri connazionali esuli, o semplicemente emigrati, mostrerebbe un lato ancora ignoto dell'attitudine che gli Italiani hanno sempre posseduto a diffondere idee e costruire opere in ogni parte del mondo. Il Croce, nel ricordare il disegno del Balbo, dice che questa non sarebbe storia d'Italia. Secondo come s'intende: storia del pensiero e del lavoro italiano sí». Né il Croce né il Provenzal intendono ciò che potrebbe essere questa ricerca. Vedere e studiare questa parte del Croce, che vede il fenomeno, mi pare, troppo legato (o esclusivamente legato) alla Controriforma e alle condizioni dell'Italia nel Seicento. Ora è certo invece che proprio la Controriforma doveva automaticamente accentuare il carattere cosmopolitico degli intellettuali italiani e il loro distacco dalla vita nazionale. Botero, Campanella, ecc., sono politici «europei», ecc.
Da un articolo di Arturo Pompeati (Tre secoli d'italianismo in Europa, «Marzocco» del 6 marzo 1932) sul volume di Antero Meozzi: Azione e diffusione della letteratura italiana in Europa (sec. XV-XVII) , Pisa, Vallerini, 1932, in 8°, pp. XXXII-304. È il primo volume di una serie. Il libro è composto di tre lunghi capitoli: Gli italiani all'estero, Stranieri in Italia, Le vie di diffusione dell'italianesimo. Capitolo per capitolo, le suddivisioni sono metodiche: paese per paese, le correnti, i gruppi, gli scrittori e non scrittori migrati dall'Italia o in Italia: e nell'ultimo capitolo i traduttori, i divulgatori, gli imitatori della nostra letteratura, genere per genere, autore per autore. Il libro ha l'andamento di un repertorio di nomi, a cui nelle note corrisponde la bibliografia relativa. Ci sono cosí i materiali della «egemonia» letteraria italiana, durata appunto tre secoli, dal XV al XVII, quando è cominciata la reazione antitaliana: dopo non si può piú parlare di influssi italiani in Europa (l'espressione «egemonia» è qui errata, perché gli intellettuali italiani non esercitarono l'influsso come gruppo nazionale, ma ogni individuo direttamente e per emigrazione di massa). Il Pompeati elogia il libro del Meozzi, sia per la raccolta dei materiali, sia per i criteri di ricerca e per l'ideologia moderata. È evidente che per molti aspetti il Meozzi si pone dei problemi inesistenti o retorici. Molto severo è invece il Croce nella «Critica» del maggio 1932. Per il Croce il libro del Meozzi è una futilità inutile, una raccolta arida di nomi e di notizie né nuove né peregrine. «L'autore ha compilato da libri ed articoli notissimi, e, non avendo seguito ricerche originali in alcuno dei vari campi da lui toccati, non essendo pratico di essi, ha compilato senza discernimento». «Anche la materiale esattezza delle notizie e delle citazioni lascia assai da desiderare». Il Croce dà un mazzetto di errori di fatto e di metodo molto gravi. Tuttavia il libro del Meozzi potrebbe essere utile per questa rubrica come materiale di prima approssimazione.
Gioacchino Volpe nell'articolo (discorso) Il primo anno dell'Accademia d'Italia («Nuova Antologia», 16 giugno 1930) a p. 494 tra i libri di storia che l'Accademia (Sezione di scienze morali-storiche) desidererebbe fossero scritti accenna: «O dedicati a quella mirabile irradiazione della nostra cultura che si ebbe fra il XV e XVII secolo, dall'Italia verso l'Europa, pur mentre dall'Europa muovevano verso l'Italia le nuove invasioni e dominazioni».
[Mercanti lucchesi in Francia.] Nel «Bollettino storico lucchese» del 1929 o degli inizi del 1930 è apparso uno studio di Eugenio Lazzareschi sui rapporti colla Francia dei mercanti lucchesi nel Medioevo. I lucchesi, frequentando ininterrottamente dal secolo XII i grandi mercati delle città e le famose fiere della Fiandra e della Francia, erano divenuti proprietari di larghi fondi, agenti commerciali o fornitori delle Corone di Francia e di Borgogna, funzionari ed appaltatori nelle amministrazioni civili e finanziarie: avevano contratto parentadi illustri e s'erano cosí bene acclimatati in Francia che potevano ormai dire di avere due patrie: Lucca e la Francia. Perciò uno di loro, Galvano Trenta, all'inizio del 1411 scriveva a Paolo Guinigi di pregare il nuovo Papa, non appena eletto, che richiedesse al re di Francia che ogni lucchese fosse riconosciuto «borghese» di Parigi.
[Pippo Spano in Ungheria.] Il «Marzocco» del 4 ottobre 1931 riassume dall'«Illustrazione Toscana» un articolo del dottor Ladislao Holik-Barabàs su Filippo Scolari detto Pippo Spano, che fu «una delle figure piú caratteristiche fra gli italiani che hanno portato lungi dalla patria straordinarie energie conquistando gradi eminenti nei paesi d'elezione». Lo Scolari fu successivamente intendente delle miniere, poi liberatore del sovrano, re Sigismondo d'Ungheria, conte di Temesvar, governatore generale dell'Ungheria e condottiero degli ungheresi contro i turchi. Pippo Spano morí il 27 dicembre 1426.
[La diplomazia libero mestiere.] Cfr. Renaud Przezdziecki, Ambasciatori veneti in Polonia, «Nuova Antologia», 1° luglio 1930: «La mancanza di una unità patria, di una dinastia unica, creava tra gli italiani uno stato di spirito indipendente, per cui ciascuno che fosse fornito di capacità politiche e diplomatiche, le considerava come un talento personale che poteva mettere, secondo il suo interesse, al servizio di qualunque causa, allo stesso modo che i capitani di ventura disponevano della loro spada. La diplomazia considerata come un libero mestiere, creava cosí, nei secoli XVII e XVIII, il tipo del diplomatico senza patria, di cui l'esempio piú classico è probabilmente il cardinale di Mazzarino». La diplomazia, secondo il Przezdziecki, avrebbe trovato in Italia un terreno naturale per nascere e svilupparsi: 1) vecchia cultura; 2) frazionamento «statale» che dava luogo a contrasti e lotte politiche e commerciali e quindi favoriva lo sviluppo delle capacità diplomatiche. In Polonia si ritrovano di questi diplomatici italiani al servizio di altri Stati: un prelato fiorentino, monsignor Bonzi, fu ambasciatore di Francia a Varsavia, dal 1664 al 1669; un marchese de Monti, bolognese, fu ambasciatore di Luigi XV presso Stanislao Lesczynski; un marchese Lucchesini, fu ministro plenipotenziario del re di Prussia a Varsavia alla fine del '700. I re di Polonia si servirono spesso delle abilità diplomatiche di italiani, quantunque la nobiltà polacca avesse fatto approvare delle leggi che vietavano ai sovrani di affidare a forestieri funzioni pubbliche. Ladislao Jagellone, al principio del '400, aveva incaricato tal Giacomo de Paravesino di missioni diplomatiche, come suo ambasciatore a Venezia, a Milano, a Mantova. L'umanista fiorentino Filippo Buonaccorsi da Fiesole detto il Callimaco, dopo essere stato pedagogo dei figli di Casimiro III, andò ambasciatore di questo re presso Sisto IV, Innocenzo VIII, la Repubblica di Venezia e il Sultano. Nel secolo XVI, furono ambasciatori polacchi in vari Stati Luigi del Monte, Pietro degli Angeli, i fratelli Magni di Como. Nel secolo XVI, Domenico Roncalli è ministro di Ladislao IV a Parigi e negozia il matrimonio di quel sovrano con Luisa Maria Gonzaga; Francesco Bibboni è ambasciatore polacco a Madrid, Andrea Bollo è ministro di Polonia presso la Repubblica di Genova e un dall'Oglio incaricato d'affari a Venezia alla fine del secolo XVIII. Tra i rappresentanti polacchi presso la Santa Sede troviamo anche, nella seconda metà del secolo XVIII, un cardinale Antici e un conte di Lagnasco. Gli Italiani hanno creato la diplomazia moderna. La Santa Sede, durante lunghi secoli arbitra in buona parte della politica mondiale, fu la prima a istituire Nunziature stabili e la Repubblica di Venezia fu il primo Stato che organizzò un servizio diplomatico regolare.
[Italiani in Russia.] Articolo di Ferdinando Nunziante Gli italiani in Russia durante il secolo XVIII, nella «Nuova Antologia» del 16 luglio 1929. Articolo mediocre e superficiale, senza indicazioni di fonti per le notizie riportate. Se ne possono trarre spunti e indicazioni generiche. Già l'importanza degli intellettuali italiani era caduta e si apriva l'èra degli avventurieri. Scrive il Nunziante per la Russia del '700: «Dalla Germania venivano ingegneri e generali per l'esercito; dall'Inghilterra ammiragli per la flotta; dalla Francia ballerini, parrucchieri e filosofi, cuochi ed enciclopedisti; dall'Italia principalmente pittori, maestri di cappella e cantanti». Ricorda che i Panini d'origine lucchese furono il ceppo della famiglia dei conti Panin, ecc.
Cfr. l'articolo di Giuseppe Tucci, Del supposto architetto del Taj e di altri italiani alla corte del Mogul, nella «Nuova Antologia» del 1° maggio 1930. Il supposto architetto del Taj sarebbe stato Jeromino Veroneo, morto nel 1640, cioè prima che Taj fosse ultimato (1648), ma che si suppone abbia fatto il piano, ultimato poi da un mussulmano (vedi l'articolo per i dettagli).
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