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Antonio Gramsci Gli intellettuali e l'organizzazione della cultura IntraText CT - Lettura del testo |
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Europa, America, Asia
[Popoli e intellettuali moderni nei vari paesi.] Quando incomincia la vita culturale nei vari paesi del mondo e dell'Europa? Ciò che noi dividiamo in «Storia antica», «medioevale», «moderna», come si può applicare ai diversi paesi? Pure queste diverse fasi della storia mondiale sono state assorbite dagli intellettuali moderni anche dei paesi solo di recente entrati nella vita culturale. Tuttavia il fatto dà luogo ad attriti. Le civiltà dell'India e della Cina resistono all'introduzione della civiltà occidentale, che pure in una forma o nell'altra finirà col vincere: possono esse d'un colpo decadere alle condizioni di folklore? di superstizione? Questo fatto però non può accelerare la rottura tra popolo e intellettuali e la espressione da parte del popolo di nuovi intellettuali formatisi nella sfera del materialismo storico?
[Nazionalismo e particolarsimo.] Julien Benda. Un suo articolo nelle «Nouvelles Littéraires» del 2 novembre 1929: Comment un écrivain sert-il l'universel? è un corollario del libro Il tradimento degli intellettuali. Accenna a un'opera recente, Esprit und Geïst del Wechssler, in cui si cerca di dimostrare la nazionalità del pensiero e di spiegare che il Geist tedesco è ben diverso dall'esprit francese; invita i tedeschi a non dimenticare questo particolarismo del loro cervello e tuttavia pensa di lavorare all'unione dei popoli in virtú di un pensiero di André Gide, secondo cui si serve meglio l'interesse generale quanto piú si è particolari. Il Benda ricorda il manifesto dei 54 scrittori francesi pubblicato nel «Figaro» del 19 luglio 1919, Manifeste du parti de l'Intelligence in cui si diceva:«N'est-ce pas en se nationalisant qu'une littérature prend une signification plus universelle, un intérêt plus humainement général?». Per il Benda è giusto che l'universale si serve meglio quanto piú si è particolari. Ma una cosa è essere particolari, altra cosa predicare il particolarismo. Qui è l'equivoco del nazionalismo, che in base a questo equivoco pretende spesso di essere il vero universalista, il vero pacifista. Nazionale, cioè, è diverso da nazionalista. Goethe era «nazionale» tedesco, Stendhal «nazionale» francese, ma né l'uno né l'altro nazionalista. Un'idea non è efficace se non è espressa in qualche modo, artisticamente, cioè particolarmente. Ma uno spirito è particolare in quanto nazionale? La nazionalità è una particolarità primaria; ma il grande scrittore si particolarizza ancora tra i suoi connazionali e questa seconda «particolarità» non è il prolungamento della prima. Renan, in quanto Renan non è affatto una conseguenza necessaria dello spirito francese; egli è, per rapporto a questo spirito, un evento originale, arbitrario, imprevedibile (come dice Bergson). E tuttavia Renan resta francese, come l'uomo, pur essendo uomo, rimane un mammifero; ma il suo valore, come per l'uomo, è appunto nella sua differenza dal gruppo donde è nato. Ciò appunto non vogliono i nazionalisti, per i quali il valore dei grandi intellettuali, dei maestri, consiste nella loro somiglianza con lo spirito del loro gruppo, nella loro fedeltà, nella loro puntualità ad esprimere questo spirito (che d'altronde viene definito come lo spirito dei grandi intellettuali, dei maestri per cui si finisce sempre con l'aver ragione). Perché tanti scrittori moderni ci tengono tanto all'«anima nazionale» che dicono di rappresentare? È utile, per chi non ha personalità, decretare che l'essenziale è di essere nazionali. Max Nordau scrive di un tale che esclamò: «Dite che io non sono niente. Ebbene: sono pur qualche cosa: sono un contemporaneo!». Cosí molti dicono di essere scrittori francesissimi ecc. (in questo modo si costituisce una gerarchia e una organizzazione di fatto e questo è l'essenziale di tutta la quistione: il Benda, come il Croce, esamina la quistione degli intellettuali astraendo dalla situazione di classe degli intellettuali stessi e dalla loro funzione, che si è venuta precisando con l'enorme diffusione del libro e della stampa periodica). Ma se questa posizione è spiegabile per i mediocri, come spiegarla nelle grandi personalità? (forse la spiegazione è coordinata: le grandi personalità dirigono i mediocri e ne partecipano necessariamente certi pregiudizi pratici che non sono di danno alle loro opere). Wagner (cfr. l'Ecce homo di Nietzsche) sapeva ciò che faceva affermando che la sua arte era l'espressione del genio tedesco, invitando cosí tutta una razza ad applaudire se stessa nelle sue opere. Ma in molti il Benda vede come ragione del fatto la credenza che lo spirito è buono nella misura in cui adotta una certa maniera collettiva di pensare e cattivo in quanto cerca di individuarsi. Quando Barrès scriveva: «C'est le rôle des maîtres de justifier les habitudes et préjugés qui sont ceux de la France, de manière à préparer pour le mieux nos enfants à prendre leur rang dans la procession nationale», egli intendeva appunto che il suo dovere e quello dei pensatori francesi degni di questo nome, era di entrare, anch'essi, in questa processione. Questa tendenza ha avuto effetti disastrosi nella letteratura (insincerità). In politica: questa tendenza alla distinzione nazionale ha fatto sí che la guerra, invece di essere semplicemente politica, è diventata una guerra di anime nazionali, con i suoi caratteri di profondità passionale e di ferocia. Il Benda conclude osservando che tutto questo lavorio per mantenere la nazionalizzazione dello spirito significa che lo spirito europeo sta nascendo e che è nel seno dello spirito europeo che l'artista dovrà individualizzarsi se vuol servire l'universale. (La guerra appunto ha dimostrato che questi atteggiamenti nazionalistici non erano casuali o dovuti a cause intellettuali – errori logici, ecc. –: essi erano e sono legati a un determinato periodo storico in cui solo l'unione di tutti gli elementi nazionali può essere una condizione di vittoria. La lotta intellettuale, se condotta senza una lotta reale che tenda a capovolgere questa situazione, è sterile. È vero che lo spirito europeo sta nascendo e non solamente europeo, ma appunto ciò inasprisce il carattere nazionale degli intellettuali, specialmente dello strato piú elevato).
Gli intellettuali francesi. Nelle «Nouvelles Littéraires» del 12 ottobre 1929 in un articolo Deux époques littéraires et d'angoisse: 1815-1830 et 1918-1930, Pierre Mille cita un articolo di André Berge nella «Révue des deux mondes»: L'Esprit de la Littérature moderne, in cui si segnala l'inquietudine delle giovani generazioni letterarie francesi: disillusione, malessere e persino disperazione; non si sa piú perché si vive, perché si è sulla terra. Secondo il Mille, questo stato d'animo rassomiglia a quello da cui nacque il romanticismo, con questa differenza che i romantici se ne liberavano con l'effusione letteraria, col lirismo, con le «parole» (ma è poi vero? al romanticismo si accompagnarono anche dei fatti: il '30, il '31, il '48; ci fu l'effusione letteraria, ma non solo questa). Oggi invece le giovani generazioni non credono piú alla letteratura, al lirismo, all'effusione verbale, di cui hanno orrore: predomina la noia, il disgusto. Per il Mille si tratta di questo: non è tanto la guerra che ha cambiato il mondo; si tratta di una rivoluzione sociale: si è formato un «supercapitalismo» che alleato tacitamente alla classe operaia e ai contadini, schiaccia la vecchia borghesia. Il Mille vuol dire che in Francia c'è stato un ulteriore sviluppo industriale e bancario e che la piccola e media borghesia che prima sembravano dominare, sono in crisi: quindi crisi degli intellettuali. La guerra e la rivoluzione russa hanno accelerato il movimento che già esisteva prima dell'agosto '14. Crisi economica delle classi medie che «n'arrivent même pas à concevoir que vingt-cinq francs ne valent plus que cent sous» e «voudraient que ce soit comme avant»; gli operai che pensano: laggiú, all'est, c'è un paese dove il proletario è dittatore; classi che nel passato erano dirigenti, e ora non dirigono piú, che sognano all'Italia fascista. Il Mille scrive che è proprio «opportuno» ciò che domanda Emmanuel Berl nella Mort de la Pensée bourgeoise quando vorrebbe che gli scrittori, borghesi per il 90%, abbiano delle simpatie per quelli che vogliono spossessarli! Alcuni tratti del quadro mi sembrano esatti e interessanti. La vecchia Francia piccolo-borghese attraversa una crisi molto profonda, che però è ancora piú morale che immediatamente politica.
Un ricco materiale da spigolare sulle concezioni diffuse tra gli intellettuali si potrà trovare nelle raccolte di interviste pubblicate nelle «Nouvelles Littéraires» da Frédéric Lefèvre col titolo Une heure avec... . Ne sono già usciti piú volumi. In queste interviste non si trattano solo quistioni letterarie e artistiche, ma anche politiche, economiche, ecc., ideologiche in generale. Il modo di pensare è espresso con maggiore spontaneità ed evidenza che nei libri degli autori.
Emmanuel Berl. Ha scritto un libro Mort de la pensée bourgeoise che pare abbia fatto un certo chiasso. Nel 1929 ha tenuto, a Médan, nella casa di Zola, un discorso in occasione del pellegrinaggio annuale (credo) degli «amici di Zola» (democratici, Jeunesses laïques et républicaines, ecc.). «Dopo la morte di Zola e di Jaurès nessuno piú sa parlare al popolo del popolo e la nostra "letteratura di esteti" muore per il suo egocentrismo». Zola in letteratura, Jaurès in politica sono stati gli ultimi rappresentanti del popolo. Pierre Hamp parla del popolo, ma i suoi libri sono letti dai letterati. V. Margueritte è letto dal popolo, ma non parla del popolo. Il solo libro francese che continui Zola è Le feu di Barbusse, perché la guerra aveva fatto rinascere in Francia una certa fraternità. Oggi il romanzo popolare (cosa intende per romanzo popolare?) si separa sempre piú dalla letteratura propriamente detta che è diventata letteratura di esteti. La letteratura, separata dal popolo, deperisce – il proletariato escluso dalla vita spirituale (!) «n'est plus fondé en dignité» (perde la sua dignità) – (è vero che la letteratura si allontana dal popolo e diventa fenomeno di casta; ma ciò porta a una maggior dignità del popolo; la tradizionale «fraternità» non è stata che l'espressione della bohème letteraria francese, un certo momento della cultura francese intorno al '48 e fino al '70; ha avuto una certa ripresa con Zola). «Et autour de nous, nous sentons croître cette famine du peuple qui nous interroge sans que nous puissions lui répondre, qui nous presse sans que nous puissions le satisfaire, qui réclame une justification de sa peine sans que nous puissions la lui donner. On dirait que les usines géantes déterminent une zone de silence de laquelle l'ouvrier ne peut plus sortir et oú l'intellectuel ne peut plus entrer. Tellement séparés que l'intellectuel, issu du milieu ouvrier, n'en retrouve point l'accès». «La fidélité difficile, écrit Jean Guéhenno, peut-être la fidélité impossible. Le boursier n'établit nullement, comme on pouvait l'espérer, un pont entre le prolétariat et la bourgeoisie. Un bourgeois de plus, et c'est bien. Mais ses frères cessent de le reconnaître. Ils ne voient plus en lui un des leurs. Comme le peuple ne participe nullement aux modes d'expression des intellectuels, il faut, ou bien qu'il s'oppose à eux, qu'il constitue une sorte de nationalité avec son langage propre, ou bien qu'il n'ait pas de langage du tout et s'enlise dans une sorte de barbarie». La colpa è degli intellettuali, divenuti conformisti, mentre Zola era rivoluzionario (!), raffinati e preziosi nello stile, scrittori di giornali intimi mentre Zola [era] epico. Ma anche il mondo è cambiato. Zola conosceva un popolo che oggi non esiste piú, o almeno non ha piú la stessa importanza. Alto capitalismo – operaio taylorizzato – sostituisce il vecchio popolo che non si distingueva ancor bene dalla piccola borghesia e che appare in Zola, come in Proudhon, in V. Hugo, nella Sand, in E. Sue. Zola descrive l'industria nascente. Ma se è piú difficile il compito dello scrittore, non deve perciò essere trascurato. Quindi ritorno a Zola, ritorno al popolo. «Avec Zola donc ou avec rien, la fraternité ou la mort. Telle est notre devise. Tel notre drame. Et telle notre loi».
[Gli intellettuali in Spagna.] Sulla funzione che hanno avuto gli intellettuali in Ispagna prima della caduta della monarchia è da vedere il libro di S. de Madariaga, Spagna. Saggio di storia contemporanea, a cura di Alessandro Schiavi, Laterza, Bari, 1932. Sull'argomento deve esistere una larga letteratura in Ispagna, attualmente, poiché la repubblica si presenta come una repubblica di intellettuali. Il fenomeno spagnolo ha caratteri propri, peculiari, determinati dalla speciale situazione delle masse contadine in Ispagna. Pure è da riavvicinare alla funzione dell'«intellighenzia» russa, alla funzione degli intellettuali italiani nel Risorgimento, degli intellettuali tedeschi sotto il dominio francese e agli enciclopedisti del '700. Ma in Ispagna la funzione degli intellettuali nella politica ha un suo carattere inconfondibile e può valere la pena di essere studiata.
Alla Università di Madrid, Eugenio D'Ors sta (1931) svolgendo un largo corso di conferenze su La scienza e la storia della Cultura che, da alcuni cenni pubblicati nelle «Nouvelles Littéraires» del 31 ottobre 1931 pare debba essere una enorme sociologia del fatto culturale o della civiltà. Il corso sarà pubblicato in volumi, certamente.
Intellettuali tedeschi. 1) Hans Frank, Il diritto è l'ingiustizia. Nove racconti che sono nove esempi per dimostrare che summum jus, summa injuria. Il Frank non è un giovane che voglia fare dei paradossi: ha cinquant'anni ed è stata pubblicata una antologia di suoi racconti di storia tedesca per le scuole. Uomo di forti convinzioni. Combatte il diritto romano, la dura lex, e non già questa o quest'altra legge inumana e antiquata, ma la stessa nozione di norma giuridica, quella di una giustizia astratta che generalizza e codifica, definisce il delitto e pronunzia la sanzione. Questo di Hans Frank non è un caso individuale: è il sintomo di uno stato d'animo. Un difensore dell'Occidente potrebbe vedere in ciò la rivolta del «disordine tedesco» contro l'ordine latino, dell'anarchia sentimentale contro la regola dell'intelligenza. Ma gli autori tedeschi l'intendono piuttosto come la restaurazione di un ordine naturale sulle rovine d'un ordine artificioso. Di nuovo l'esame personale si oppone al principio d'autorità, che viene attaccato in tutte le sue forme: dogma religioso, potere monarchico, insegnamento ufficiale, stato militare, legame coniugale, prestigio paterno, e soprattutto, la giustizia che protegge queste istituzioni caduche, che non è che coercizione, compressione, deformazione arbitraria della vita pubblica e della natura umana. L'uomo è infelice e cattivo finché è incatenato dalla legge, dal costume, dalle idee ricevute. Bisogna liberarlo per salvarlo. La virtú creatrice della distruzione è diventata un articolo di fede. Stefan Zweig, H. Mann, Remarque, Glaeser, Leonhard Frank... 2) Leonhard Frank, La ragione: l'eroe assassina il suo ex-professore, perché questi gli aveva sfigurato l'anima: l'autore sostiene l'innocenza dell'uccisore. 3) Franz Werfel: in un romanzo sostiene che non l'assassino è colpevole, ma la vittima: non c'è in lui niente del Quincey: c'è un atto morale. Un padre, generale imperioso e brutale, spezza la vita del figlio facendone un soldato senza vocazione: non commette un delitto di lesa umanità? Deve essere immolato come due volte usurpatore; come capo e come padre. Nasce cosí il motivo del parricidio e la sua apologia, l'assoluzione di Oreste, non in nome della pietà per la colpa tragica, in ragione di un imperativo categorico, di un mostruoso postulato morale. La teoria di Freud, il complesso di Edípo, l'odio per il padre – padrone, modello, rivale, espressione prima del principio d'autorità – posto nell'ordine delle cose naturali. L'influenza del Freud sulla letteratura tedesca è incalcolabile: essa è alla base di una nuova etica rivoluzionaria (!). Freud ha dato un aspetto nuovo all'eterno conflitto tra padri e figli. L'emancipazione dei figli dalla tutela paterna è la tesi in voga presso i romanzieri attuali. I padri abdicano al loro «patriarcato» e fanno ammenda onorevole dinanzi ai figli il cui senso morale ingenuo è solo capace di spezzare il contratto sociale tirannico e perverso, di abolire le costrizioni di un dovere menzognero (cfr. Hauptmann, Michael Kramer; la novella di Jacob Wassermann, Un padre). 4) Wassermann, Der Fall Mauritius: tipico contro la giustizia.
Noterelle sulla cultura inglese. Guido Ferrando, in un articolo del «Marzocco» (17 aprile 1932, Libri nuovi e nuove tendenze nella cultura inglese), analizza i mutamenti organici che si stanno verificando nella cultura moderna inglese, e che hanno le loro manifestazioni piú vistose nel campo editoriale e nell'organizzazione complessiva degli istituti universitari del Regno Unito. «... in Inghilterra si va sempre piú accentuando un orientamento verso una forma di cultura tecnica e scientifica, a scapito della cultura umanistica». «In Inghilterra, fino a tutto il secolo scorso, si potrebbe quasi dire fino alla guerra mondiale, il fine educativo piú alto che si proponevano le migliori scuole era quello di formare il gentleman. La parola gentleman, come tutti sanno, non corrisponde a "gentiluomo" italiano; e non può esser resa con precisione nella nostra lingua; indica una persona che abbia non solo buone maniere, ma che possegga un senso di equilibrio, una padronanza sicura di se stesso, una disciplina morale che gli permetta di subordinare volontariamente il proprio interesse egoistico a quelli piú vasti della società in cui vive». «Il gentleman è dunque la persona colta, nel significato piú nobile del termine, se per cultura intendiamo non semplicemente ricchezza di cognizioni intellettuali, ma capacità di compiere il proprio dovere e di comprendere i propri simili, rispettando ogni principio, ogni opinione, ogni fede che sia sinceramente professata. È chiaro quindi che l'educazione inglese mirava non tanto a coltivare la mente, ad arricchirla di vaste cognizioni, quanto a sviluppare il carattere, a preparare una classe aristocratica la cui superiorità morale veniva istintivamente riconosciuta ed accettata dalle classi piú umili. L'educazione superiore o universitaria, anche perché costosissima, era riservata ai pochi, ai figli di famiglie grandi per nobiltà o per censo, senza per questo esser preclusa ai piú poveri, purché riuscissero, per virtú d'ingegno, a vincere una borsa di studio. Gli altri, la grande maggioranza, dovevano accontentarsi di un'istruzione, buona senza dubbio, ma prevalentemente tecnica e professionale, che li preparava per quegli uffici non direttivi, che sarebbero stati piú tardi chiamati a coprire nelle industrie, nel commercio, nelle pubbliche amministrazioni». Fino a qualche decennio fa esistevano in Inghilterra solo tre grandi università complete, Oxford, Cambridge e Londra, e una minore a Durham. Per entrare a Oxford e a Cambridge bisogna venire dalle cosí dette public schools che sono tutto, tranne che pubbliche. La piú celebre di queste scuole, quella di Eton, fu fondata nel 1440 da Enrico VI per accogliere «settanta scolari poveri e indigenti», è diventata oggi la piú aristocratica scuola dell'Inghilterra, con piú di mille allievi; ci sono ancora i settanta posti interni che dànno diritto all'istruzione e al mantenimento gratuito e vengono assegnati per concorso ai ragazzi piú studiosi; gli altri sono esterni e pagano somme enormi. «I settanta collegiali... son quelli che poi all'università si specializzeranno e diventeranno i futuri professori e scienziati; gli altri mille, che in genere studiano meno, ricevono un'educazione soprattutto morale e diventeranno, attraverso il crisma universitario, la classe dirigente, destinata ad occupare i piú alti posti nell'esercito, nella marina, nella vita politica, nell'amministrazione pubblica». «Questa concezione dell'educazione che è prevalsa finora in Inghilterra, è a base umanistica». Nella maggior parte delle public schools e nelle università di Oxford e Cambridge che hanno mantenuto la tradizione del Medioevo e del Rinascimento, «la conoscenza dei grandi autori greci e latini, viene ritenuta non solo utile, ma indispensabile per la formazione del gentleman, dell'uomo politico: serve a dargli quel senso di equilibrio, di armonia, quella raffinatezza di gusto che sono elemento integrante della vera cultura». L'educazione scientifica sta prendendo il sopravvento. «La cultura si va democratizzando e fatalmente livellando». Negli ultimi trenta o quaranta anni sono sorte nuove università nei grandi centri industriali: Manchester, Liverpool, Birmingham, Sheffield, Leeds, Bristol; il Galles volle la sua università e la fondò a Bangor, con ramificazioni a Cardiff, Swansea e Aberystwyth. Dopo la guerra e in questi ultimi anni le università si sono ancora moltiplicate; a Hull, a Newcastle, a Southampton, a Exeter, a Reading e se ne annunziano altre due, a Nottingham e a Leicester. In tutti questi centri la tendenza è di dare alla cultura un carattere prevalentemente tecnico per soddisfare le richieste del gran pubblico degli studiosi. Le materie che piú interessano sono, oltre le scienze applicate, fisica, chimica ecc., quelle professionali, medicina, ingegneria, economia politica, sociologia ecc. «Anche Oxford e Cambridge hanno dovuto far concessioni, e sviluppare sempre piú la parte scientifica»; inoltre esse hanno istituito gli Extension Courses. Il movimento verso la nuova cultura è generale: sorgono scuole e istituzioni private, serali, per adulti, con un insegnamento ibrido ma essenzialmente tecnico e pratico. Sorge intanto tutta una letteratura scientifica popolare. Infine l'ammirazione [per] la scienza è tanta che anche i giovani delle classi colte ed aristocratiche considerano gli studi classici come un inutile perditempo. Il fenomeno è mondiale. Ma l'Inghilterra aveva resistito piú a lungo di altri e ora si orienta verso una forma di cultura prevalentemente tecnica. «Il tipo del gentleman non ha piú ragione di essere; rappresentava l'ideale dell'educazione inglese quando la Gran Bretagna, dominatrice dei mari e padrona dei grandi mercati del mondo, poteva permettersi il lusso di una politica di splendido isolamento, e di una cultura che aveva in sé, indubbiamente, una nota aristocratica. Oggi le cose sono mutate». Perdita della supremazia navale e commerciale; [l'Inghilterra] dall'America è minacciata anche nella propria cultura. Il libro americano è stato commercializzato con la cultura e diventa un competitore sempre piú minaccioso del libro inglese. Gli editori britannici, specialmente quelli che hanno succursali in America, hanno dovuto adottare i metodi di propaganda e di diffusione americani. «In Inghilterra il libro, appunto perché piú letto e diffuso che da noi, esercita un'efficacia formativa ed educativa notevole, e rispecchia piú fedelmente che da noi la vita intellettuale della nazione». In questa vita intellettuale sta avvenendo un mutamento. Dei volumi pubblicati nel primo trimestre del 1932 (che numericamente sono cresciuti in confronto al 1° trimestre del '31), il romanzo mantiene il primo posto; il secondo posto non è piú dei libri per bambini, ma dei libri pedagogici ed educativi in genere, e c'è un sensibile aumento nelle opere storiche e biografiche e nei volumi di carattere tecnico e scientifico, soprattutto popolare. Dai volumi inviati alla Fiera Internazionale del Libro a Firenze «noi vediamo che i recenti libri di carattere culturale, sono piú tecnici che educativi, tendono a discutere quistioni scientifiche e aspetti della vita sociale, o a fornire cognizioni pratiche, piú che a formare il carattere».
Gli inglesi e la religione. Da un articolo della «Civiltà Cattolica» del 4 gennaio 1930, L'opera della grazia in una recente conversione dall'anglicanismo, tolgo questa citazione dal libro di Vernon Johnson One Lord, one Faith (Un signore una fede, Londra, Sheed and Ward, 1929; il Johnson è appunto il convertito): «L'inglese medio non pensa quasi mai alla quistione dell'autorità nella sua religione. Egli accetta quella forma d'insegnamento della Chiesa anglicana, in cui è stato allevato, sia anglo-cattolica, sia latitudinarista, sia evangelica, e la segue sino al punto in cui comincia a non soddisfare ai suoi bisogni o viene in conflitto con la sua personale opinione. Perciò, essendo sostanzialmente onesto e sincero, non volendo professare piú di quello che egli realmente crede, scarta tutto quello che non può accettare e si forma una religione personale sua propria». Lo scrittore della «Civiltà Cattolica», continua, forse parafrasando: «Egli (l'inglese medio) considera la religione come un affare esclusivamente privato tra Dio e l'anima; ed in tale atteggiamento, è estremamente cauto, diffidente e restío ad ammettere l'intervento di qualsiasi autorità. Onde va crescendo il numero di coloro che nella loro mente accolgono sempre piú il dubbio: se veramente i Vangeli siano degni di fede, se la religione cristiana sia obbligatoria per tutto il mondo e se si possa conoscere con certezza quale fosse realmente la dottrina di Cristo. Quindi esita ad ammettere che Gesú Cristo fosse veramente Dio». E ancora: «... La maggiore di tutte (le difficoltà al ritorno degli inglesi alla Chiesa romana): l'amore per l'indipendenza in ogni inglese. Egli non ammette nessuna ingerenza, molto meno in religione e meno ancora da parte di uno straniero. Innato e profondamente radicato nel suo animo è l'istinto che l'indipendenza nazionale e l'indipendenza religiosa siano inseparabili. Egli sostiene che l'Inghilterra non accetterà mai una Chiesa governata da italiani».
Sulla civiltà inglese. Le pubblicazioni sulla letteratura inglese di J. J. Jusserand (Storia letteraria del popolo inglese, Histoire littéraire, ecc.). L'opera di Jusserand è fondamentale anche per gli studiosi inglesi. Jusserand fu diplomatico francese a Londra; era stato allievo di Gaston Paris e di Ippolito Taine. Al momento della sua morte (verso il settembre 1932), dell'opera principale dello Jusserand, Histoire littéraire du peuple anglais, erano usciti due volumi; un terzo e conclusivo doveva seguire. Altri lavori sulla letteratura inglese e sulla storia della cultura inglese dello stesso autore.
[Educazione e lingua nell'Impero inglese.] Guido Ferrando nel «Marzocco» del 4 ottobre 1931 pubblica un articolo, Educazione e colonie, da cui traggo alcuni spunti. Il Ferrando ha assistito a un grande convegno «The British Commonwealth Education Conference», a cui parteciparono centinaia d'insegnanti di ogni grado, dai maestri elementari a professori universitari, provenienti da tutte le parti dell'Impero, dal Canadà e dall'India, dal Sud Africa e dall'Australia, dal Kenja e dalla Nuova Zelanda, e che ebbe luogo a Londra alla fine di luglio. Il Congresso si propose di discutere i vari aspetti del problema educativo «in a changing Empire», in un impero in trasformazione; erano presenti vari ben noti educatori degli Stati Uniti. Uno dei temi fondamentali del Congresso era quello dell'interracial understanding, del come promuovere e sviluppare una migliore intesa tra le diverse razze, specialmente tra gli europei colonizzatori e gli africani e asiatici colonizzati. «Era interessante vedere con quanta franchezza e quanto acume dialettico, i rappresentanti dell'India rimproverassero agli inglesi la loro incomprensione dell'anima indiana, che si rivela, per esempio, in quel senso quasi di disgusto, in quell'attitudine di sprezzante superiorità che la maggioranza del popolo britannico ha ancor oggi verso gli indiani, e che perfino durante la guerra spingeva gli ufficiali inglesi ad allontanarsi da tavola e a lasciar la stanza quando entrava un ufficiale indiano». Tra i tanti temi discussi fu quello della lingua. Si trattava cioè di decidere se fosse opportuno insegnare anche alle popolazioni semiselvagge dell'Africa a leggere prendendo per base l'inglese anziché il loro idioma nativo, se fosse meglio mantenere il bilinguismo o tendere, per mezzo dell'istruzione, a far scomparire la lingua indigena. Ormsby Gore, ex sottosegretario alle colonie, sostenne che era un errore il tentare di snaturalizzare le tribú africane e si dichiarò favorevole ad una educazione tendente a dare agli africani il senso della propria dignità di popolo e la capacità di governarsi da sé. Nel dibattito che seguí la comunicazione dell'Ormsby «mi colpirono le brevi dichiarazioni di un africano, credo che fosse uno zulú, il quale tenne ad affermare che i suoi, diciamo cosí, connazionali, non avevano alcuna voglia di diventar europei; si sentiva nelle sue parole una punta di nazionalismo, un leggero senso di orgoglio di razza». «Non vogliamo esser inglesi»: a questo grido che prorompeva spontaneo dal petto dei rappresentanti degli indigeni delle colonie britanniche dell'Africa e dell'Asia, faceva eco l'altro grido dei rappresentanti dei Dominions: «Non ci sentiamo inglesi». Australiani e canadesi, cittadini della Nuova Zelanda e dell'Africa del Sud, erano tutti concordi nell'affermare questa loro indipendenza non solo politica, ma anche spirituale. Il prof. Cillie, preside della facoltà di lettere in una università sudafricana, aveva argutamente osservato che l'Inghilterra, tradizionalista e conservatrice, viveva nello ieri, mentre essi, i sudafricani, vivevano nel domani.
Noterelle di cultura americana. G. A. Borgese in Strano interludio («Corriere della Sera», 15 marzo 1932), divide la popolazione degli Stati Uniti in quattro strati: la classe finanziaria, la classe politica, l'Intelligenza, l'Uomo comune. L'Intelligenza è minuscola all'estremo, in confronto alle prime due: alcune decine di migliaia, accentrate specialmente nell'East, fra cui qualche migliaio di scrittori. «Non si giudichi soltanto dal numero. Essa è spiritualmente fra le meglio attrezzate del mondo. Uno che ne fa parte la compara a ciò che fu l'Enciclopedia nella Francia del Settecento. Per ora, a chi non ami esorbitare dai fatti, essa appare un cervello senza membra, un'anima priva di forza operante, la sua influenza sulla cosa pubblica è presso che nulla». Osserva che dopo la crisi, la classe finanziaria che prima padroneggiava la classe politica, in questi ultimi mesi ne ha «subíto» il soccorso, virtualmente un controllo. «Il Congresso sorregge la banca e la borsa; il Campidoglio di Washington puntella Wall Street. Ciò mina l'antico equilibrio dello Stato americano; senza che un nuovo ordine sorga». Poiché in realtà classe finanziaria e classe politica sono in America la stessa cosa, o due aspetti della stessa cosa, il fatto significherebbe solo che è avvenuta una vera e propria differenziazione, cioè che la fase economico-corporativa della storia americana è in crisi e si sta per entrare in una nuova fase: ciò apparirà chiaramente solo se si verifica una crisi dei partiti storici (repubblicano e democratico) e la creazione di qualche potente nuovo partito che organizzi permanentemente la massa dell'Uomo Comune. I germi di tale sviluppo esistevano già (partito progressista), ma la struttura economico-corporativa ha finora sempre reagito efficacemente contro di essi. L'osservazione che l'Intelligenza americana ha una posizione storica come quella dell'Enciclopedia francese nel '700 è molto acuta e può essere sviluppata.
[Cattolici e protestanti nel Sud-America.] Confrontare l'articolo Il protestantesimo degli Stati Uniti e l'evangelizzazione protestante nell'America latina nella «Civiltà Cattolica» del 18 ottobre 1930. L'articolo è interessante e istruttivo per apprendere come lottano tra loro cattolici e protestanti: naturalmente i cattolici presentano le missioni protestanti come l'avanguardia della penetrazione economica e politica degli Stati Uniti e lottano contro sollevando il sentimento nazionale. Lo stesso rimprovero fanno i protestanti ai cattolici, presentando la Chiesa e il papa come potenze terrene che si ammantano di religione, ecc.
Noterelle di cultura islamitica. Assenza di un clero regolare che serva di trait-d'union tra l'Islàm teorico e le credenze popolari. Bisognerebbe studiare bene il tipo di organizzazione ecclesiastica dell'Islàm e l'importanza culturale delle Università teologiche (come quella del Cairo) e dei dottori. Il distacco tra intellettuali e popolo deve essere molto grande, specialmente in certe zone del mondo musulmano: cosí è spiegabile che le tendenze politeiste del folklore rinascano e cerchino di adattarsi al quadro generale del monoteismo maomettano. Cfr. l'articolo I santi nell'Islàm di Bruno Ducati, nella «Nuova Antologia» del 1° agosto 1929. Il fenomeno dei santi è specifico dell'Africa settentrionale, ma ha una certa diffusione anche in altre zone. Esso ha la sua ragione di essere nel bisogno (esistente anche nel Cristianesimo) popolare di trovare intermediari tra sé e la divinità. Maometto, come Cristo, fu proclamato, – si proclamò – l'ultimo dei profeti, cioè l'ultimo legame vivente tra la divinità e gli uomini; gli intellettuali (sacerdoti o dottori) avrebbero dovuto mantenere questo legame attraverso i libri sacri; ma una tal forma di organizzazione religiosa tende a diventare razionalistica e intellettualistica (cfr. il protestantesimo che ha avuto questa linea di sviluppo), mentre il popolo primitivo tende a un misticismo proprio, rappresentato dall'unione con la divinità con la mediazione dei santi (il protestantesimo non ha e non può avere santi e miracoli); il legame tra gli intellettuali dell'Islàm e il popolo divenne solo il «fanatismo», che non può essere che momentaneo, limitato, ma che accumula masse psichiche di emozioni e di impulsi che si prolungano in tempi anche normali. (Il cattolicesimo agonizza per questa ragione: che non può creare, periodicamente, come nel passato, ondate di fanatismo; negli ultimi anni, dopo la guerra, ha trovato dei sostituti, le cerimonie collettive eucaristiche che si svolgono con splendore fiabesco e suscitano relativamente un certo fanatismo: anche prima della guerra qualcosa di simile suscitavano, ma in piccolo, su scala localissima, le cosí dette missioni, la cui attività culminava nell'erezione di un'immensa croce con scene violente di penitenza ecc.). Questo movimento nuovo dell'Islàm è il sufismo. I santi musulmani sono uomini privilegiati che possono, per speciale favore, entrare in contatto con Dio, acquistando una perenne virtú miracolosa e la capacità di risolvere i problemi e i dubbi teologici della ragione e della coscienza. Il sufismo, organizzatosi a sistema ed esternatosi nelle scuole sufiche e nelle confraternite religiose, sviluppò una vera teoria della santità e fissò una vera gerarchia di santi. L'agiografia popolare è piú semplice di quella sufica. Sono santi per il popolo i piú celebri fondatori o capi di confraternite religiose; ma anche uno sconosciuto, un viandante che si fermi in una località a compiere opere di ascetismo e beneficî portentosi a favore delle popolazioni circostanti, può essere proclamato santo dalla pubblica opinione. Molti santi ricordano i vecchi iddii delle religioni vinte dall'Islàm. Il Marabutismo dipende da una fonte della santità musulmana, diversa dal sufismo: Murâbit (marabutto) vuol dire che è nel ribât, cioè nel luogo fortificato della frontiera dal quale irrompere, nella guerra santa, contro gli infedeli. Nel ribât il culto doveva essere piú austero, per la funzione di quei soldati presidiari, piú fanatici e costituiti spesso di volontari (arditi dell'Islàm): quando lo scopo militare perdé d'importanza, rimase un particolare abito religioso e i «santi» piú popolari ancora che quelli sufici. Il centro del Marabutismo è il Marocco; verso Est, le tombe di Marabutti vanno sempre piú diradandosi. Il Ducati analizza minutamente questo fenomeno africano, insistendo sull'importanza politica che hanno i Marabutti, che si trovano a capo delle insurrezioni contro gli europei, che esercitano una funzione di giudici di pace, e che talvolta furono il veicolo di una civiltà superiore. Conclude: «Questo culto (dei santi) per le conseguenze sociali, civilizzatrici e politiche, le quali ne derivano, merita di esser sempre meglio studiato e sempre piú attentamente sorvegliato, poiché i Santi costituiscono una potenza, una forza straordinaria, la quale può essere l'ostacolo maggiore alla diffusione della civiltà occidentale, come pure, se abilmente sfruttata, può divenire un'ausiliaria preziosa dell'espansione europea».
La nuova evoluzione dell'Islàm. 1) Michelangelo Guidi, 2) Sirdar Ikbal Ali Shah, «Nuova Antologia», 1° ottobre 1928. Si tratta di un articolo mediocre del diplomatico afgano anglofilo Ikbal Ali Shah e di una breve nota introduttiva del prof. Michelangelo Guidi. La nota del Guidi pone, senza risolverlo, il problema se l'Islàm sia come religione conciliabile con il progresso moderno e se esso sia suscettibile d'evoluzione. Si riferisce a un recente libretto del prof. R. Hartmann, «profondo e diligente studioso tedesco di lingue e civiltà orientali», Die Krisis des Islams, pubblicato dopo un soggiorno ad Angora e che risponde affermativamente alla quistione; e riporta il giudizio espresso dal prof. Kampffmeyer in una recensione pubblicata del libretto dello Hartmann nell'«Oriente Moderno» (agosto 1928) che un breve soggiorno in Anatolia non può essere sufficiente per giudicare su quistioni cosí vive, ecc., e che troppe delle fonti dell'Hartmann sono di origine letteraria e le apparenze ingannano, in Oriente piú che altrove, ecc. Il Guidi (almeno in questa nota) non conclude, ricordando solo che può soccorrerci l'opinione degli orientali stessi (ma non sono essi «apparenza» che inganna, presi uno per uno ecc.?), sebbene all'inizio abbia scritto che sarebbe utopistico pensare che l'Islàm possa mantenersi nel suo splendido isolamento e che nell'attesa maturino in esso nuovi formidabili agenti religiosi e la forza insita nella concezione orientale della vita abbia ragione del materialismo occidentale e riconquisti il mondo. Mi pare che il problema sia molto piú semplice di quanto lo si voglia fare apparire, per il fatto che implicitamente si considera il «Cristianesimo» come inerente alla civiltà moderna, o almeno non si ha il coraggio di porre la quistione dei rapporti tra Cristianesimo e civiltà moderna. Perché l'Islàm non potrebbe fare ciò che ha fatto il Cristianesimo? Mi pare anzi che l'assenza di una massiccia organizzazione ecclesiastica del tipo cristiano-cattolico dovrebbe rendere piú facile l'adattamento. Se si ammette che la civiltà moderna nella sua manifestazione industriale-economico-politica finirà col trionfare in Oriente (e tutto prova che ciò avviene e che anzi queste discussioni sull'Islàm avvengono perché c'è una crisi determinata appunto da questa diffusione di elementi moderni) perché non bisogna concludere che necessariamente l'Islàm si evolverà? Potrà rimanere tal quale? No: già non è piú quello di prima della guerra. Potrà cadere d'un colpo? Assurdo. Potrà essere sostituito da una religione cristiana? Assurdo pensarlo per le grandi masse. Il Vaticano stesso si accorge come sia contraddittorio voler introdurre il Cristianesimo nei paesi orientali in cui viene introdotto il capitalismo: gli orientali ne vedono l'antagonismo che nei nostri paesi non si vede perché il Cristianesimo si è adattato molecolarmente ed è diventato gesuitismo, cioè una grande ipocrisia sociale: da ciò le difficoltà dell'opera delle missioni e lo scarso valore delle conversioni, d'altra parte molto limitate. In realtà la difficoltà piú tragica per l'Islàm è data dal fatto che una società intorpidita da secoli di isolamento e da un regime feudale imputridito (naturalmente i signori feudali non sono materialisti!!) è troppo bruscamente messa a contatto con una civiltà frenetica che è già nella sua fase di dissoluzione. Il Cristianesimo ha impiegato nove secoli a evolversi e ad adattarsi, lo ha fatto a piccole tappe, ecc. L'Islàm è costretto a correre vertiginosamente. Ma in realtà esso reagisce proprio come il Cristianesimo: la grande eresia su cui si fonderanno le eresie propriamente dette è il «sentimento nazionale» contro il cosmopolitismo teocratico. Appare poi il motivo del ritorno alle «origini» tale e quale come nel Cristianesimo: alla purezza dei primi testi religiosi contrapposta alla corruzione della gerarchia ufficiale: i Wahabiti rappresentano proprio questo e il Sirdar Ikbal Ali Shah spiega con questo principio le riforme di Kemal Pascià in Turchia: non si tratta di «novità» ma di un ritorno all'antico, al puro, ecc. Questo Sirdar Ikbal Ali Shah mi pare dimostri proprio come tra i mussulmani esista un gesuitismo e una casistica altrettanto sviluppati che nel cattolicismo.
L'influsso della cultura araba nella civiltà occidentale. Ezio Levi ha pubblicato nel volume Castelli di Spagna (Treves, Milano) una serie di articoli pubblicati sparsamente nelle riviste e riguardanti i rapporti di cultura tra la civiltà europea e gli arabi, verificatisi specialmente attraverso la Spagna, dove gli studi in proposito sono numerosi e contano molti specialisti: i saggi del Levi prendevano quasi sempre lo spunto dalle opere di arabisti spagnoli. Nel «Marzocco» del 29 maggio 1932 il Levi recensisce la introduzione al libro L'eredità dell'Islàm di Angel Gonzales Palencia (l'introduzione è uscita in opuscolo indipendente col titolo: El Islam y Occidente, Madrid, 1931) ed enumera tutta una serie di prestiti fatti all'Europa dal mondo orientale nella cucina, nella medicina, nella chimica, ecc. Il libro completo del Gonzales Palencia sarà molto interessante per lo studio del contributo dato dagli arabi alla civiltà europea, per un giudizio della funzione avuta dalla Spagna nel Medioevo e per una caratterizzazione del Medioevo stesso piú esatta di quella corrente.
Noterelle di cultura indiana. Dall'intervista di F. Lefèvre con Aldous Huxley (nelle «Nouvelles Littéraires» del 1° novembre 1930): «Qu'est-ce que vous pensez des révoltes et de tout ce qui se passe aux Indes? – Je pense qu'on y a commencé la civilisation du mauvais côté. On a créé des hautes universités, on n'a pas fondé d'écoles primaires. On a cru qu'il suffisait de donner des lumières à une caste et qu'elle pourrait ensuite élever les masses, mais je ne vois pas que les résultats obtenus aient été très heureux. Ces gens qui ont bénéficié de la civilisation occidentale sont tous chattryas ou brahmanes. Une fois instruits, ils demeurent sans travail et deviennent dangereux. Ce sont eux qui veulent prendre le gouvernement. C'est en visitant les Indes que j'ai le mieux compris la différence qu'il pouvait y avoir au moyen âge entre un vilain et un cardinal. L'Inde est un pays oú la supériorité de droit divin est encore acceptée par les intouchables qui reconnaissent eux-mêmes leur indignité». C'è qualcosa di vero, ma quanto poco. Come creare le scuole elementari per le masse indiane senza aver creato il personale adeguato: e per creare questo non bisognerà rivolgersi inizialmente alle classi intellettuali già esistenti? E poi, il solo fatto che dei gruppi intellettuali sono disoccupati, può creare una situazione come quella indiana? (Ricordare la famigerata teoria di Loria sugli intellettuali disoccupati). Questi intellettuali sono «isolati» o non sono piuttosto divenuti l'espressione delle classi medie e industriali che lo sviluppo economico ha prodotto nell'India?
Confrontiamo la serie di articoli pubblicati nella «Civiltà Cattolica» del luglio 1930 e mesi seguenti: Sistemi filosofici e sètte dell'Induismo. I gesuiti si pongono questo problema: il cattolicismo in India riesce a far proseliti solo, e anche in questo caso in misura limitata, fra le caste inferiori. Gli intellettuali indiani sono refrattari alla propaganda, e il papa ha detto che occorre operare anche fra loro tanto piú in quanto le masse popolari si convertirebbero se si convertissero dei nuclei intellettuali importanti (il papa conosce il meccanismo di riforma culturale delle masse popolari-contadine piú di molti elementi del laicismo di sinistra: egli sa che una grande massa non si può convertire molecolarmente; occorre, per affrettare il processo, conquistare i dirigenti naturali delle grandi masse, cioè gli intellettuali o formare gruppi di intellettuali di nuovo tipo, onde la creazione di vescovi indigeni); quindi la necessità di conoscere esattamente i modi di pensare e le ideologie di questi intellettuali, per meglio intenderne l'organizzazione di egemonia culturale e morale per distruggerla o assimilarla. Questi studi di parte gesuitica hanno perciò una particolare importanza oggettiva, in quanto non sono «astratti» e accademici, ma sono rivolti a scopi pratici concreti. Essi sono molto utili per conoscere le organizzazioni di egemonia culturale e morale nei grandi paesi asiatici come la Cina e l'India.
Noterelle sulla cultura cinese. 1) La posizione dei gruppi intellettuali in Cina è «determinata» dalle forme pratiche che l'organizzazione materiale della cultura vi ha assunto storicamente. Il primo elemento di questa specie è il sistema di scrittura, quella ideografica. Il sistema di scrittura è ancor piú difficile di quanto volgarmente si supponga, perché la difficoltà non è solo data dal- l'enorme quantità di segni materiali, ma questa quantità è ancora complicata dalle «funzioni» dei singoli segni a seconda del posto che occupano. Inoltre l'ideogramma non è organicamente legato a una determinata lingua, ma serve a tutta quella serie di lingue che sono parlate dai cinesi colti, cioè l'ideogramma ha un valore «esperantistico»: è un sistema di scrittura «universale» (entro un certo mondo culturale) e tenuto conto che le lingue cinesi hanno un'origine comune. Questo fenomeno deve essere studiato accuratamente, perché può servire contro le infatuazioni «esperantistiche»: cioè serve a dimostrare come le cosí dette lingue universali convenzionali, in quanto non sono l'espressione storica di condizioni adeguate e necessarie, diventano elemento di stratificazione sociale e di fossilizzazione di alcuni strati. In queste condizioni non può esistere in Cina una cultura popolare di larga diffusione: l'oratoria, la conversazione rimangono la forma piú popolare di diffusione della cultura. Bisognerà, ad un certo punto, introdurre l'alfabeto sillabico: questo fatto presenta una serie di difficoltà: 1) la scelta dell'alfabeto stesso: quello russo o quello inglese (intendo per «alfabeto inglese» non solo la pura notazione dei segni fondamentali, uguale per l'inglese e le altre lingue ad alfabeto latino, ma il nesso diacritico di consonanti e vocali che dànno la notazione dei suoni effettivi, come sh per ś, j per g italiano, ecc.): certo che l'alfabeto inglese avrà il sopravvento in caso di scelta e ciò sarà legato a conseguenze di carattere internazionale: una certa cultura avrà il sopravvento, cioè. 2) L'introduzione dell'alfabeto sillabico avrà conseguenze di grande portata sulla struttura culturale cinese: sparita la scrittura «universale», affioreranno le lingue popolari e quindi nuovi gruppi di intellettuali su questa nuova base. Cioè si romperebbe l'unità attuale di tipo «cosmopolitico» e ci sarebbe un pullulare di forze «nazionali» in senso stretto. Per alcuni aspetti la situazione cinese può essere paragonata a quella dell'Europa occidentale e centrale nel Medioevo, al «cosmopolitismo cattolico», cioè, quando il «mediolatino» era la lingua delle classi dominanti e dei loro intellettuali: in Cina la funzione del «mediolatino» è svolta dal «sistema di scrittura», proprio delle classi dominanti e dei loro intellettuali. La differenza fondamentale è data da ciò: che il pericolo che teneva unita l'Europa medioevale, pericolo mussulmano in generale – arabi, a Sud, tartari e poi turchi a Oriente e Sud-Est – non può essere neanche lontanamente paragonato ai pericoli che minacciano l'autonomia cinese nel periodo contemporaneo. Arabi, tartari, turchi erano relativamente «meno» organizzati e sviluppati dell'Europa di quel tempo e il pericolo era «meramente» o quasi tecnico-militare. Invece l'Inghilterra, l'America, il Giappone sono superiori alla Cina non solo «militarmente» ma economicamente, culturalmente, su tutta l'area sociale, insomma. Solo l'unità «cosmopolitica» attuale, di centinaia di milioni di uomini, col suo particolare nazionalismo di «razza» – xenofobia – permette al governo centrale cinese di avere la disponibilità finanziaria e militare minima per resistere alla pressione dei rapporti internazionali, e per tenere disuniti i suoi avversari. La politica dei successori di destra di Sun Yat-sen deve essere esaminata da questo punto di vista. Il tratto caratteristico di questa politica è rappresentato dalla «non volontà» di preparare, organizzare e convocare una Convenzione pancinese a mezzo del suffragio popolare (secondo i principi di Sun), ma nel voler conservare la struttura burocratico-militare dello Stato: la paura cioè di abbandonare le forme tradizionali di unità cinese e di scatenare le masse popolari. Non bisogna dimenticare che il movimento storico cinese è localizzato lungo le coste del Pacifico e dei grandi fiumi che vi sboccano: la grande massa popolare dell'hinterland è piú o meno passiva. La convocazione di una Convenzione pancinese darebbe il terreno per un grande movimento anche di queste masse e per l'affiorare, attraverso i deputati eletti, delle configurazioni nazionali in senso stretto esistenti nella cosmopoli cinese, renderebbe difficile l'egemonia degli attuali gruppi dirigenti senza la realizzazione di un programma di riforme popolari e costringerebbe a cercare l'unità in una unione federale e non nell'apparato burocratico-militare. Ma questa è la linea di sviluppo. La guerra incessante dei generali è una forma primitiva di manifestarsi del nazionalismo contro il cosmopolitismo: essa non sarà superata, cioè non avrà termine il caos militare-burocratico senza l'intervento organizzato del popolo nella forma storica di una Convenzione pancinese. (Sulla quistione degli intellettuali cinesi occorre raccogliere e organizzare molto materiale per elaborare un paragrafo sistematico della rubrica sugli intellettuali: il processo di formazione e il modo di funzionare sociale degli intellettuali cinesi ha caratteri propri e originali, degni di molta attenzione). Rapporti della cultura cinese con l'Europa. Prime notizie sulla cultura cinese sono date dai missionari, specialmente gesuiti, nei secoli XVII-XVIII. Intorcetta, Herdrich, Rougemont, Couplet, rivelano all'Occidente l'universalismo confuciano; du Halde (1736) scrive la Description de l'Empire de la Chine; Fourmont (1742), da Glemona, Prémare. Nel 1815, con la formazione nel Collège de France della prima cattedra di lingua e letteratura cinese, la cultura cinese viene studiata dai laici (per fini e con metodi scientifici e non di apostolato cattolico com'era il caso dei gesuiti); questa cattedra è tenuta da Abel Rémusat, considerato oggi come il fondatore della sinologia europea. Discepolo del Rémusat fu Stanislas Julien, che è considerato come il primo sinologo del suo tempo; tradusse un'enorme massa di testi cinesi, romanzi, commedie, libri di viaggi e opere di filosofia e infine riassunse la sua esperienza filologica nella Syntaxe nouvelle de la langue chinoise. L'importanza scientifica del Julien è data dal fatto che egli riuscí a penetrare il carattere della lingua cinese e le ragioni della sua difficoltà per gli europei, abituati alle lingue flessive. Anche per un cinese lo studio della sua lingua è piú difficile di ciò che non sia per un europeo lo studio della propria: occorre un doppio sforzo, di memoria e d'intelligenza, di memoria per ricordare i molteplici significati di un ideogramma, di intelligenza per collegare questi in modo da trovare in ognuno di essi la parte, per cosí dire, connettiva che permette di trarre dal nesso delle frasi un senso logico ed accettabile. Piú il testo è denso ed elevato (nel senso dell'astrazione) e piú difficile è tradurlo: anche il piú esperto letterato cinese deve sempre far precedere un lavoro d'analisi, piú o meno rapido, all'interpretazione del testo che legge. L'esperienza ha nel cinese un valore piú grande che in altre lingue, dove base prima all'intelligenza è la morfologia che in cinese non esiste. (Mi pare difficile accettare che in cinese non esista assolutamente la morfologia: nelle descrizioni della lingua cinese fatte da europei bisogna tener conto del fatto che il «sistema di scrittura» prende necessariamente il primo posto nell'importanza: ma il «sistema di scrittura» coincide perfettamente con la lingua parlata che è la «lingua reale»? è possibile che la funzione morfologica in cinese sia piú legata alla fonetica e alla sintassi, cioè al tono dei singoli suoni e al ritmo musicale del periodo, cosa che non potrebbe apparire nella scrittura se non sotto forma di notazione musicale, ma anche in questo caso mi pare difficile escludere una qualche funzione morfologica autonoma: bisognerebbe vedere il libretto del Finck sui tipi principali di lingue. Ricordare ancora che la funzione morfologica anche nelle lingue flessive ha come origine parole indipendenti divenute suffissi, eccetera: questa traccia forse può servire per identificare la morfologia del cinese, che rappresenta una fase linguistica forse piú antica delle piú antiche lingue di cui si è conservata la documentazione storica. Le notizie che qui riassumo sono prese da un articolo di Alberto Castellani, Prima sinologia, nel «Marzocco» del 24 febbraio 1929). Nel cinese «chi piú legge piú sa»: infatti, tutto riducendosi a sintassi, solo una lunga pratica con i modi, le clausole della lingua può essere di certo indirizzo alla intelligenza del testo. Tra il vago valore degli ideogrammi e la comprensione integrale del testo ci deve essere un esercizio dell'intelligenza che, nella necessità di adattamento logico, non ha quasi limite in paragone alle lingue flessive. Un libro sulla cultura cinese. Eduard Erkes, Chinesische Literatur, Ferdinand Hirt, Breslau, 1926. È un volumetto di meno che cento pagine in cui, secondo Alberto Castellani, mirabilmente si condensa tutto il ciclo culturale cinese, dalla piú antica età fino ai giorni nostri. Non si può comprendere il presente cinese senza conoscerne il passato, senza una informazione demopsicologica: questo è giusto, ma è esagerata, o almeno nella forma data, questa affermazione: «La conoscenza del passato dimostra che la gente cinese è già da diverse diecine di secoli, confucianamente comunista: tanto che certi recenti tentativi d'innesto eurasiatico ci ricordano il portar nottole ad Atene». Questa affermazione si può fare per ogni popolo arretrato di fronte all'industrialismo moderno e poiché si può fare per molti popoli, ha un valore primitivo: tuttavia la conoscenza della reale psicologia delle masse popolari, da questo punto di vista o come si può ricostruire attraverso la letteratura, ha grande importanza. La letteratura cinese è d'impronta genuinamente religioso-statale. L'Erkes tenta una ricostruzione critico-sintetica dei diversi momenti della letteratura cinese, attraverso le epoche piú significative, per dare a questi momenti maggior rilievo di necessità storica. (Non è cioè una storia della letteratura in senso erudito e descrittivo, ma una storia della cultura). Tratteggia la figura e l'opera di Chu Hsi (1130-1200), che pochi occidentali sanno essere stata la personalità piú significativa della Cina, dopo Confucio, grazie ai meditati silenzi dei missionari che hanno visto in questo riplasmatore della moderna coscienza cinese l'ostacolo piú grande ai loro sforzi di propaganda. Libro del Wieger, La Chine à travers les âges. L'Erkes arriva fino alla fase recente della Cina europeizzante e informa anche sullo svolgimento che si sta compiendo anche a proposito della lingua e dell'educazione. Nel «Marzocco» del 23 ottobre 1927 Alberto Castellani dà notizia del libro di Alfredo Forke: Die Gedankenwelt des chinesischen Kulturkreiser, München-Berlin, 1927 (Filosofia cinese in veste europea e... giapponese). Il Forke è professore di lingua e di civiltà della Cina all'Università di Amburgo ed è noto come specialista dello studio della filosofia cinese. Lo studio del pensiero cinese è difficile per un occidentale per varie ragioni: 1) i filosofi cinesi non hanno scritto trattati sistematici del loro pensiero: furono i discepoli a raccogliere le parole dei maestri, non i maestri a scriverle per gli eventuali discepoli; 2) la filosofia vera e propria era intrecciata e come soffocata nelle tre grandi correnti religiose, Confucianismo, Taoismo, Buddismo; cosí i cinesi passarono spesso agli occhi dell'europeo non specialista o come privi di filosofia vera e propria o come aventi tre religioni filosofiche (questo fatto però, che la filosofia sia stata intrecciata alla religione ha un significato dal punto di vista della cultura e caratterizza la posizione storica degli intellettuali cinesi). Il Forke appunto ha cercato di presentare il pensiero cinese secondo le forme europee, ha cioè liberato la filosofia vera e propria dai miscugli e dalle promiscuità eterogenee; quindi ha reso possibile qualche parallelo tra il pensiero europeo e quello cinese. L'Etica è la parte piú rigogliosa di questa ricostruzione: la Logica è meno importante «perché anche i cinesi stessi ne hanno avuto sempre, piú un senso istintivo, come intuizione, che non un concetto esatto, come scienza». (Questo punto è molto importante, come momento culturale). Solo alcuni anni fa, uno scrittore cinese, il prof. Hu Shi, nella sua Storia della Filosofia Cinese (Scianghai, 1919) assegna alla Logica un posto eminente, ridisseppellendola dagli antichi testi classici, di cui, non senza qualche sforzo, tenta di rivelare il magistero. Forse il rapido invadere del Confucianismo, del Taoismo e del Buddismo, che non hanno interesse per i problemi della Logica, può avere intralciato il suo divenire come scienza. «Sta di fatto che i cinesi non hanno mai avuto un'opera come il Nyàya di Gautama e come l'Organon di Aristotile». Cosí manca in Cina una disciplina filosofica sulla «conoscenza» (Erkenntnistheorie). Il Forke non vi trova che tendenze. Il Forke esamina inoltre le diramazioni della filosofia cinese fuori della Cina, specialmente nel Giappone. Il Giappone ha preso dalla Cina insieme alle altre forme di cultura anche la filosofia, pur dandole un certo carattere proprio. Il giapponese non ha tendenze metafisiche e speculative come il cinese (è «pragmatista» ed empirista). I filosofi cinesi tradotti in giapponese, acquistano però una maggiore perspicuità. (Ciò significa che i giapponesi hanno preso dal pensiero cinese ciò che era utile per la loro cultura, un po' come i romani hanno fatto coi greci). Il Castellani ha recentemente pubblicato: La dottrina del Tao ricostruita sui testi ed esposta integralmente, Bologna, Zanichelli, e La regola celeste di Lao-Tse, Firenze, Sansoni, 1927. Il Castellani fa un paragone tra Lao-Tse e Confucio (non so in quale di questi due libri): «Confucio è il cinese del Settentrione, nobile, colto, speculativo: Lao-tse, 50 anni piú vecchio di lui, è il cinese del mezzogiorno, popolare, audace, fantasioso. Confucio è uomo di Stato; Lao-Tse sconsiglia l'attività pubblica: quegli non può vivere se non a contatto col governo, questi fugge il consorzio civile e non partecipa alle sue vicende. Confucio si contenta di richiamare i regnanti e il popolo agli esempi del buon tempo antico; Lao-Tse sogna senz'altro l'èra dell'innocenza universale e lo stato virgineo di natura; quegli è l'uomo di corte e dell'etichetta, questi l'uomo della solitudine e della parola brusca. Per Confucio, riboccante di forme, di regole di rituali, la volontà dell'uomo entra in maniera essenziale nella produzione e determinazione del fatto politico; Lao-Tse invece crede che i fatti tutti, senza eccezione, si facciano da sé, oltre e senza la nostra volontà; ch'essi abbiano tutti in se stessi un ritmo inalterato e inalterabile da qualunque nostro intervento. Nulla per lui di piú ridicolo dell'ometto confuciano, faccendiero e ficcanaso, che crede all'importanza e quasi al peso specifico di ogni suo gesto; nulla di piú meschino di quest'animula miope e presuntuosa, lontana dal Tao, che crede di dirigere ed è diretta, crede di tenere ed è tenuta». (Questo brano è tolto da un articolo di A. Faggi nel «Marzocco» del 12 giugno 1927, Sapere cinese). Il «non fare» è il principio del Taoismo, è appunto il «Tao», la «strada». La forma statale cinese. La monarchia assoluta è fondata in Cina nell'anno 221 avanti Cristo e dura fino al 1912, nonostante il mutare di dinastie, le invasioni straniere ecc. Questo è il punto interessante: ogni nuovo padrone trova l'organismo bello e fatto, di cui si impadronisce impadronendosi del potere centrale. La continuità è cosí un fenomeno di morte e di passività del popolo cinese. Evidentemente anche dopo il 1912 la situazione è rimasta ancora relativamente stazionaria, nel senso che l'apparato generale è rimasto quasi intatto: i militari tuciun si sono sostituiti ai mandarini e uno di essi, volta a volta, tenta di rifare l'unità formale, impadronendosi del centro. L'importanza del Kuomintang, sarebbe stata ben piú grande se avesse posto realmente la quistione della Convenzione pancinese. Ma ora che il movimento è scatenato, mi pare difficile che senza una profonda rivoluzione nazionale di massa, si possa ricostituire un ordine duraturo.
[I cattolici e il nazionalismo cinese.] Dall'articolo Il riformatore cinese Suen Uen e le sue teorie politiche e sociali, nella «Civiltà Cattolica» del 4 maggio e del 18 maggio 1929. «Il partito nazionalista ha promulgato decreti su decreti per onorare Suen Uen. Il piú importante è quello che prescrive la "cerimonia del lunedí". In tutte le scuole, uffici, posti militari, in qualsiasi istituzione appartenente in qualche modo al partito nazionalista, ogni lunedí, tutti si aduneranno innanzi al ritratto del "padre della patria" e gli faranno, tutti insieme, il triplice inchino della testa. Indi si leggerà il suo "Testamento politico", che contiene la quintessenza delle sue dottrine, e seguiranno tre minuti di silenzio per meditarne i grandi principii. Questa cerimonia sarà fatta in ogni adunanza importante». A tutte le scuole è fatto obbligo di studiare il Sen-Min-ciu-i (triplice demismo), anche alle scuole dei cattolici e di qualsiasi confessione religiosa, come conditio sine qua non per la loro esistenza legale. Il delegato apostolico della Cina, mons. Celso Costantini, in una lettera al padre Pasquale d'Elia S. J., missionario italiano e membro dell'Ufficio Sinologico di Zi-Ka-Wei, ha preso posizione su questi obblighi legali. La lettera è pubblicata al principio dell'opera: Le triple demisme de Sun Wen, traduit, annoté et apprécié par Pascal M. D'Elia S. J. Bureau Sinologique de Zi-Ka-Wei, imprimerie de T'ou-Sé-Wé, Chang-Hai, 1929, in 8°, pp. CLVIII-530, 4 dollari cinesi. Il Costantini non crede che Sun sia stato «divinizzato»: «Quanto agli inchini del capo innanzi al ritratto di Sun Yat-sen, gli scolari cristiani non sono da inquietarsi. Per sé e di sua natura l'inchino del capo non ha senso superstizioso. Secondo l'intenzione del governo questa cerimonia non è altro che un ossequio meramente civile ad un uomo considerato quale Padre della Patria. Potrà essere eccessivo, ma non è in nessun modo idolatrico (il governo per sé è ateo) e non vi è legato nessun sacrifizio. Se in qualche luogo per abuso si facessero dei sacrifizi, ciò dovrà ritenersi superstizioso e i cristiani non vi potrebbero assistere in niun modo. Non è nostro ufficio creare una coscienza erronea, ma illuminare gli alunni dove fosse qualche dubbio sul significato di tali cerimonie civili». Quanto all'insegnamento obbligatorio del triplice demismo, il Costantini scrive: «Secondo il mio giudizio personale, è lecito, se non insegnare, almeno spiegare nelle scuole pubbliche i principî del triplice demismo del dott. Sun Yat-sen. Trattasi di materia non libera, ma imposta dal governo, come condizione sine qua non. Parecchie cose, nel triplice demismo, sono buone, o almeno non cattive, e corrispondono piú o meno o possono accomodarsi con la sociologia cattolica (Rerum novarum, Immortale Dei, Codice Sociale). Si deve procurare, nelle nostre scuole, di deputare alla spiegazione di questa materia, dei maestri cattolici ben formati nella dottrina e nella sociologia cristiana. Alcune cose devono essere spiegate e corrette...». L'articolo della «Civiltà Cattolica» riassume la posizione dei cattolici verso le dottrine del nazionalismo cinese, posizione attiva, come si vede, perché tende a creare una tendenza «nazionalistica cattolica» con una interpretazione particolare delle dottrine stesse. Dal punto di vista storico politico sarebbe bene vedere come i gesuiti sono giunti a questo risultato, rivedendo tutte le pubblicazioni della «Civiltà Cattolica», sugli avvenimenti cinesi dal '25 in poi. Nel suo libro il Padre D'Elia, prevedendo l'obiezione che potrebbe venirgli da parte di alcuni dei suoi lettori i quali avrebbero consigliato piuttosto il silenzio che la pubblicità di queste idee nuove «con ragione [...] risponde: "Non parlare di queste quistioni, non vuol dire risolverle. Si voglia o non si voglia, i nostri cattolici cinesi le conosceranno per mezzo di commentari tendenziosi e ostili. Sembra che vi sia meno pericolo d'istruirli noi stessi, proponendo loro direttamente la dottrina di Suen Uen. Sforziamoci di far vedere come i cinesi possono essere buoni cattolici, non solo restando cinesi, ma anche tenendo conto di alcune teorie di Suen Uen"».
Noterelle sulla cultura giapponese. Nella «Nuova Antologia» del 1° giugno 1929 è pubblicata l'introduzione («La religione nazionale del Giappone e la politica religiosa dello Stato giapponese») al volume su La Mitologia Giapponese, che Raffaele Pettazzoni ha pubblicato nella collana di «Testi e Documenti per la Storia della Religione», editi dalla Zanichelli di Bologna. Perché il Pettazzoni ha intitolato il suo libro Mitologia? C'è una certa differenza tra «Religione» e «Mitologia», e sarebbe bene tenere ben distinte le due parole. La religione è diventata nel Giappone una semplice «mitologia» cioè un elemento puramente «artistico» o di «folklore» oppure ha ancora il valore di una concezione del mondo ancora viva e operante? Poiché pare, dall'introduzione, che sia quest'ultimo il valore che il Pettazzoni dà alla religione giapponese, il titolo è equivoco. Da questa introduzione noto alcuni elementi che potranno essere utili per studiare un paragrafo «giapponese» alla rubrica degli «intellettuali»: Introduzione del buddismo nel Giappone, avvenuta nel 552 d. C. Fino allora il Giappone aveva conosciuto una sola religione, la sua religione nazionale. Dal 552 ad oggi la storia religiosa del Giappone è stata determinata dai rapporti e dalle interferenze fra questa religione nazionale e il Buddismo (tipo di religione extranazionale e supernazionale come il Cristianesimo e l'Islamismo); il Cristianesimo, introdotto nel Giappone nel 1549 dai Gesuiti (Francesco Saverio), fu sradicato con la violenza nei primi decenni del secolo XVII; reintrodotto dai missionari protestanti e cattolici nella seconda metà del secolo XIX, non ha avuto grande importanza complessivamente. Dopo l'introduzione del Buddismo, la religione nazionale fu chiamata con parola sino-giapponese Shinto cioè «via (cinese: tao) degli dei (cinese: Shen)» mentre butsu-do indicò il buddismo («do», via, «butsu», Budda). In giapponese Shinto si dice Kami-no-michi (Kami, divinità). Kami non significa «dio» nel senso occidentale, ma piú genericamente «esseri divini» compresi anche gli antenati divinizzati. (Dalla Cina fu introdotto nel Giappone non solo il Buddismo, ma anche il culto degli antenati, che, a quanto pare, si incorporò piú intimamente nella religione nazionale). Lo Scintoismo è però fondamentalmente una religione naturistica, un culto di divinità (Kami) della natura, tra cui primeggiano la dea del sole Amatérasu, il dio degli uragani Susanowo, la coppia Cielo e Terra, Izanagi e Izanami, ecc. È interessante il fatto che lo Scintoismo rappresenta un tipo di religione che è scomparsa del tutto nel mondo moderno occidentale, ma che era frequente presso i popoli civili dell'antichità (religioni nazionali e politeistiche degli egiziani, dei babilonesi, degli indiani, dei greci, dei romani, ecc.). Amatérasu è una divinità come Osiride, o Apollo o Artemide; è interessante che un popolo civile moderno come il giapponese, creda e adori una tale divinità. (Forse però le cose non sono cosí semplici come può apparire). Tuttavia, accanto a questa religione nazionale sussiste il Buddismo, tipo di religione supernazionale, per cui si può dire che anche in Giappone si è avuto fondamentalmente lo stesso sviluppo religioso che nell'Occidente (col Cristianesimo). Anzi Cristianesimo e Buddismo si diffondono nelle rispettive zone sincronicamente e ancora: il Cristianesimo che si diffonde in Europa non è quello della Palestina, ma quello di Roma o di Bisanzio (con la lingua latina o greca per la liturgia) cosí come il Buddismo che si diffonde nel Giappone non è quello dell'India, ma quello cinese, con la lingua cinese per la liturgia. Ma, a differenza del Cristianesimo, il Buddismo lasciò sussistere le religioni nazionali preesistenti (in Europa le tendenze nazionali si manifestarono in seno al Cristianesimo). All'inizio il Buddismo fu accolto nel Giappone dalle classi colte, insieme alla civiltà cinese (ma la civiltà cinese portò solo il Buddismo?). Successe un sincretismo religioso: Buddismo-Scintoismo. Elementi di confucianismo. Nel secolo XVIII ci fu una reazione al sincretismo in nome della religione nazionale che culminò nel 1868 con l'avvento del Giappone moderno. [Lo Scintoismo] dichiarato religione di Stato. Persecuzione del Buddismo. Ma per breve tempo. Nel 1872 il Buddismo fu riconosciuto ufficialmente e parificato allo Scintoismo tanto nelle funzioni, tra cui principalmente quella pedagogica di educare il popolo ai sentimenti e ai principî del patriottismo del civismo, e del lealismo, quanto nei diritti con la soppressione dell'«Ufficio dello Shinto» e la istituzione di un Ministero della religione, avente giurisdizione tanto sullo Scintoismo che sul Buddismo. Ma nel 1875 il governo mutò ancora la politica: le due religioni furono separate e [lo Scintoismo] andò assumendo una posizione speciale e unica. Provvedimenti burocratici vari andarono succedendosi che culminarono nella elevazione dello Scintoismo a istituzione patriottica e nazionale, con la rinunzia ufficiale al suo carattere religioso (divenne una istituzione – mi pare – del tipo di quella romana del culto dell'Imperatore, ma senza carattere religioso in senso stretto, per cui anche un Cristiano può esercitarlo). I giapponesi possono appartenere a qualsiasi religione, ma devono inchinarsi dinanzi all'immagine dell'Imperatore. Cosí lo Shinto di Stato si è separato dallo Shinto delle sètte religiose. Anche burocraticamente si ebbe una sanzione: esiste oggi un «Ufficio delle religioni» presso il Ministero dell'Educazione, per le varie Chiese dello Scintoismo popolare, per le varie Chiese buddistiche e cristiane e un «Ufficio dei santuari» per lo Scintoismo di Stato presso il Ministero dell'Interno. Secondo il Pettazzoni questa riforma fu dovuta all'applicazione meccanica delle Costituzioni occidentali al Giappone: per affermare cioè il principio della libertà religiosa e della uguaglianza di tutte le religioni dinanzi allo Stato e per togliere il Giappone dallo stato di inferiorità e arretratezza che lo Scintoismo, come religione, gli conferiva in confronto col tipo di religione vigente in Occidente. Mi pare artificiale la critica del Pettazzoni (vedere anche in Cina quel che avviene a proposito di Sun Yat-sen e dei tre principi: si sta formando un tipo di culto di Stato, areligioso: mi pare che l'immagine di Sun abbia un culto come quello dell'Imperatore vivente in Giappone). Nel popolo e anche nelle persone colte rimane però viva la coscienza e il sentimento dello Shinto come religione (ciò è naturale, ma mi pare innegabile l'importanza della Riforma, che tende, coscientemente o no, alla formazione di una coscienza laica, in forme paradossali quanto si vuole). (Questa discussione, se lo Shinto di Stato sia una religione o no mi pare la parte piú importante del problema culturale giapponese: ma tale discussione non si può fare per il Cristianesimo, certamente).
Cfr. altra nota sulle religioni nel Giappone di fronte allo Stato, sulla riforma apportata allo Shintoismo, che mentre da una parte è stato ridotto a religione (o superstizione) popolare, dall'altra è stato privato dell'elemento costituito dal «culto dell'Imperatore», divenuto elemento a se stante e costituito in dovere civico, in coefficiente morale dell'unità dello Stato. Studiare come è nata questa riforma, che ha una grande portata e che è legata alla nascita e allo sviluppo del parlamentarismo e della democrazia nel Giappone. Dopo il suffragio allargato (quando e in che forma?) ogni elezione, con gli spostamenti nelle forze politiche dei partiti e con i cambiamenti che i risultati possono portare nel governo, opera attivamente a dissolvere la forma mentale «teocratica» e assolutista delle grandi masse popolari giapponesi. La convinzione che l'autorità e la sovranità non è posta nella persona dell'Imperatore, ma nel popolo, conduce a una vera e propria riforma intellettuale e morale, corrispondente a quella avvenuta in Europa per opera dell'illuminismo e della filosofia classica tedesca, portando il popolo giapponese al livello della sua moderna struttura economica e sottraendolo all'influsso politico e ideologico dei baroni e della burocrazia feudale. |
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