È davvero meravigliosa la lotta
che l'umanità combatte da tempo immemorabile; lotta incessante, con cui essa
tenta di strappare e lacerare tutti i vincoli che la libidine di dominio di un
solo, di una classe, o anche di un intero popolo, tentano di imporle. È questa una epopea che ha avuto innumerevoli eroi ed è stata scritta
dagli storici di tutto il mondo. L'uomo, che ad un certo tempo si sente forte,
con la coscienza della propria responsabilità e del proprio
valore, non vuole che alcun altro gli imponga la sua volontà e pretenda di
controllare le sue azioni e il suo pensiero. Perché pare che sia un crudele
destino per gli umani, questo istinto che li domina di
volersi divorare l'un l'altro, invece di convergere le forze unite per lottare
contro la natura e renderla sempre piú utile ai bisogni degli uomini. Invece,
un popolo quando si sente forte e agguerrito, subito pensa a
aggredire i suoi vicini, per cacciarli ed opprimerli. Perché
è chiaro che ogni vincitore vuol distruggere il vinto. Ma l'uomo che per
natura è ipocrito e finto, non dice già «io voglio conquistare per distruggere», ma, «io voglio conquistare per incivilire». E tutti gli altri, che lo invidiano, ma aspettano la loro
volta per fare lo stesso, fingono di crederci e lodano.
Cosí abbiamo avuto che la
civiltà ha tardato di piú ad espandersi e a progredire; abbiamo avuto che razze
di uomini, nobili e intelligenti, sono state distrutte
o sono in via di spegnersi. L'acquavite e l'oppio che i maestri di civiltà
distribuivano loro abbondantemente, hanno compiuto la loro opera deleteria.
Poi un giorno si sparge la voce:
uno studente ha ammazzato il governatore inglese delle Indie, oppure: gli
italiani sono stati battuti a Dogali, oppure: i boxers hanno sterminato
i missionari europei; e allora la vecchia Europa inorridita impreca contro i
barbari, contro gli incivili, e una nuova crociata viene
bandita contro quei popoli infelici.
E
badate: i popoli europei hanno avuto i loro oppressori e hanno combattuto lotte
sanguinose per liberarsene, ed ora innalzano statue e ricordi marmorei ai loro
liberatori, ai loro eroi, e innalzano a religione nazionale il culto dei morti
per la patria. Ma non andate a dire agli italiani, che gli
austriaci erano venuti per portarci la civiltà: anche le colonne marmoree
protesterebbero. Noi, sí, siamo andati per portare la civiltà ed infatti ora quei popoli ci sono affezionati e ringraziano
il cielo della loro fortuna. Ma si sa; sic vos non
vobis. La verità invece consiste in una brama insaziabile che tutti hanno
di smungere i loro simili, di strappare loro quel po' che hanno potuto
risparmiare con privazioni. Le guerre sono fatte per il commercio, non per la
civiltà: gli inglesi hanno bombardato non so quante città della
Cina perché i cinesi non volevano sapere del loro oppio. Altro che
civiltà! E russi e giapponesi si sono massacrati per
avere il commercio della Corea e della Manciuria. Si
delapidano le sostanze dei soggetti, si toglie loro ogni personalità; non basta
però ai moderni civilissimi: i romani si accontentavano di legare i vinti al
loro carro trionfale, ma poi riducevano a provincia la terra conquistata: ora
invece si vorrebbe che tutti gli abitanti delle colonie sparissero per lasciar
largo ai nuovi venuti.
Se poi una voce di onesto uomo si leva a rimproverare queste prepotenze, questi
abusi, che la morale sociale e la civiltà sanamente intesa dovrebbero impedire,
gli si ride in faccia; perché è un ingenuo, e non sa tutti i machiavellici
cavilli che reggono la vita politica. Noi italiani adoriamo Garibaldi; fin da
piccoli ci hanno insegnato ad ammirarlo, il Carducci
ci ha entusiasmato con la sua leggenda garibaldina: se si domandasse ai
fanciulli italiani chi vorrebbero essere, la gran maggioranza certo
sceglierebbe di essere il biondo eroe. Mi ricordo che a
una dimostrazione per una commemorazione dell'indipendenza, un compagno mi
disse: ma perché tutti gridano: «viva Garibaldi! e
nessuno: viva il re?» ed io non seppi darne una spiegazione. Insomma, in Italia
dai rossi ai verdi, ai gialli idolatrano Garibaldi, ma nessuno veramente ne sa
apprezzare le alte idealità; e quando i marinai italiani sono mandati a Creta
per abbassare la bandiera greca innalzata dagli insorti e rimettere la bandiera
turca, nessuno levò un grido di protesta. Già: la colpa era dei candioti che
volevano turbare l'equilibrio europeo. E nessuno degli italiani che in quello
stesso giorno forse acclamavano l'eroe liberatore della Sicilia, pensò che
Garibaldi se fosse stato vivo, avrebbe sostenuto anche l'urto di tutte le
potenze europee, pur di fare acquistare la libertà a
un popolo. E poi si protesta se qualcuno viene a dirci
che siamo un popolo di rètori!
E chi sa per
quanto tempo ancora durerà questo contrasto. Il
Carducci si domandava: «Quando il lavoro sarà lieto?
Quando sicuro sarà l'amore?». Ma
ancora si aspetta una risposta, e chi sa chi saprà darla. Molti dicono che ormai l'uomo tutto ciò che doveva conquistare
nella libertà, e nella civiltà, l'abbia già fatto, e che ormai non gli resta
che godere il frutto delle sue lotte. Invece, io credo che ben altro da fare ci
sia ancora: gli uomini non sono che verniciati di
civiltà; ma se appena sono scalfiti, subito appare la pellaccia del lupo. Gli
istinti sono ammansati, ma non distrutti, e il diritto del piú forte è il solo
riconosciuto. La
Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha
sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe ad un'altra
nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le
differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono
essere sorpassate. L'umanità ha bisogno d'un altro lavacro di sangue per
cancellare molte di queste ingiustizie: che i dominanti non si pentano allora
d'aver lasciato le folle in uno stato di ignoranza e di ferocia quali sono
adesso!
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