Questi sono i termini della situazione
storica. L'aggruppamento giolittiano, in venti anni di dittatura incontrollata,
ha illuso con largizioni formali di libertà, ma ha consolidato, di fatto, lo
Stato dispotico caro alla memoria di Emanuele Filiberto. L'arma del suo
dominio, della sua dittatura, è caduta in mano all'aggruppamento avversario
(non chiamiamo partito né l'uno né l'altro perché ambedue mancano di sagoma
politica ed economica) e questo l'ha tenuta piú a lungo di quanto si credesse,
e se ne serve, e la plasma per sé, e la rivolge contro gli antichi padroni. Se
la lotta rimane di ceti, di aggruppamenti borghesi, dal cozzo furioso delle due
parti nascerà lo Stato nuovo, liberale, si inizierà l'èra dei governi di
partito, si costituiranno i grandi partiti, i piccoli dissidi spariranno,
assorbiti dagli interessi superiori.
I giolittiani vogliono evitare
il cozzo, non vogliono dare battaglia su grandi programmi istituzionali, che
possono arroventare la temperie politica della nazione; il dio dei borghesi sa
se la nazione ha bisogno di nuove arroventature e quali contraccolpi può avere
nel proletariato un urto cosí formidabile. I giolittiani vogliono evitare il
cozzo e risolvere nell'ambito parlamentare il problema che li assilla.
Continuano cosí nella loro tradizione di rimpicciolire ogni grande problema, di
estraniare il paese dalla vita politica, di evitare ogni controllo
dell'opinione pubblica. I giolittiani sono in minoranza. Ed ecco i deputati
socialisti in caccia di farfalle, ecco le sirene a cantare le nostalgiche
ariette della libertà, del controllo parlamentare e della necessità di
collaborare per muoversi, per agire, per uscire dall'inerzia.
Ed ecco La Stampa venire a
rincalzo con gli articoli del «simpatizzante», il quale mette a servizio della
cattiva causa la fresca cultura che manca purtroppo ai rappresentanti del
proletariato nel Parlamento, e imprestar loro un «realismo», un hegelismo
marxista che non hanno mai saputo cosa fosse. Ecco che gli intransigenti sono
presentati come mistici sognatori, vacui astrattisti, e addirittura come
stupidi, perché la loro concezione non sarebbe basata che sulla ipotesi
semplicistica e gratuita che «i lavoratori torneranno dalle trincee, dopo la
pace, con la deliberata volontà e la capacità politica di attuare il
socialismo». L'intransigenza è presentata come inerzia mentale e politica; si
accenna alle posizioni migliori che il proletariato potrebbe
conquistare. E un sottinteso domina, sovrano, ammaliatore, affascinante per il
fatto stesso che è inespresso, ma pare che i periodi secchi e nervosi ne
diventino turgidi di misteriosi significati: è la risoluzione della guerra, il
problema della pace che si vuole insinuare possa essere risolto da un
pateracchio parlamentare. È il motivo dominante, questo che è taciuto. Si spera
per esso, specialmente per esso, di creare nel proletariato uno stato d'animo
di disagio intellettuale, un ottundimento del senso critico di classe che porti
a una pressione sugli organi direttivi del partito e faccia ottenere, se non
addirittura un consenso entusiastico e neppure freddo alla alleanza, per lo
meno uno scioglimento provvisorio del gruppo parlamentare dall'obbligo della
disciplina. Ciò che importa è l'azione parlamentare, il voto che faccia andare
al potere i giolittiani. L'intervento diretto del proletariato viene
esorcizzato: l'esempio della Russia e della miserevole fine della borghesia
antizarista, travolta dall'ondata sopravveniente della furia popolare, spaventa
queste anime pavide di democratici trogloditi, di parassiti, usi solo a rodere
in segreto le casse dello Stato e a distribuire leggine e favori cosí come i
frati distribuiscono brodo di lasagne alla pezzentaglia tignosa.
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