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Antonio Gramsci
Scritti politici I

IntraText CT - Lettura del testo

  • 1918
    • La politica del «se»
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La politica del «se»52

 

La politica del «se» ha molti seguaci in Italia; si può dire anzi che la maggioranza dei cittadini italiani che fanno professione di fede politica, che discutono i problemi della vita pubblica, nazionali o internazionali, non hanno altro criterio direttivo che il «se»; e se ne trovano bene, perché il «se» esime dal pensare e dallo studiare.

La politica del «se» consiste nel non tener conto alcuno delle forze sociali organizzate, nel non dare importanza alcuna alle responsabilità legittime, liberamente accettate nell'assumere un potere, nel trascurare la ricerca della funzione, dei modi in cui si svolge l'attività economica e delle conseguenze necessariamente determinate da questi speciali modi nei rapporti culturali e di convivenza sociale. La politica del «se» non è pertanto che dominio della pigrizia mentale nei semplici cittadini che fingono di controllare i poteri responsabili e le energie libere operanti nella vita del paese, ed è dominio dell'irresponsabilità nei cittadini troppo leggermente sobbarcatisi alla responsabilità del potere; per essa infatti si trascurano le forze permanentemente attive nello svolgersi degli eventi umani e che continuano ad operare nonostante tutti i bei discorsi, e si ferma invece l'attenzione sul transeunte, sull'occasionale o su una energia libera che nella realtà ha importanza limitata. E si procede per ipotesi: «se» Tizio non avesse detto, «se» Caio avesse fatto, «se» il gruppo X avesse sostenuto questa verità sacrosanta... e cosí via.

La politica del «se» è una prova dell'incapacità a comprendere la storia e pertanto anche una prova della incapacità a fare la storia.

Un ex ministro pubblica un opuscolo che ha la pretesa di essere un contributo alla storia scientifica di un periodo oscuro e doloroso della vita nazionale italiana, e ha la pretesa di essere uno stimolo pedagogico per l'attualità. Nell'opuscolo non si accenna neppure all'attività svolta dal governo del tempo per disciplinare le energie della nazione, per rivolgere utilmente ed efficacemente i mezzi dello Stato al raggiungimento di un certo bene o all'allontanamento di un certo male: il governo sembra non esistesse in quel tempo, sembra che in quel tempo lo Stato non fosse quella suprema organizzazione di tutta la vita pubblica che esso invece è, ed è con gravi responsabilità per gli uomini che lo dirigono. Avviene cosí che in questo opuscolo la causa degli avvenimenti è tutta riposta nella buona o perversa volontà di individui irresponsabili; piccoli episodi, di valore puramente aneddotico, vengono dilatati artificiosamente e si ha l'impressione che il paese non fosse allora un organismo disciplinato dai poteri, ma fosse un aggregato meccanico di tribú barbariche, sempre in piazza a danzare intorno a un feticcio e le quali si precipitavano da un lato o dall'altro disordinatamente e incoerentemente, a seconda che la volontà misteriosa del feticcio veniva interpretata da un pazzo malvagio, da un pazzo melanconico o da un pazzo miracolosamente ragionante.

E fu giusta l'acuta riflessione di un cittadino che dopo aver letto l'opuscolo e aver constatato queste deficienze concluse: l'ex ministro non tiene conto del governo, dello Stato, dei poteri responsabili nel descrivere la storia del passato, perché il governo di cui ha fatto parte fu assente dalla vita pubblica; l'ex ministro non concepisce l'importanza sovrana dello Stato nello svolgersi degli eventi passati perché lo Stato, quando egli fu al potere, non aveva alcuna importanza per l'inettitudine dei responsabili.

 

 






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52 Non firmato, Il Grido del Popolo, 29 giugno 1918.





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