Questa incapacità a comprendere
la storia e quindi a farla attualmente attraverso la lotta politica, è in
dipendenza con un indirizzo di cultura e una tradizione politica nati in
Francia nel secolo XVIII, e che hanno avuto la prima e piú significativa
espressione nel giacobinismo della rivoluzione borghese dell'89.
Il giacobinismo è una visione
messianica della storia; esso parla sempre per astrazioni, il male, il bene,
l'oppressione, la libertà, la luce, le tenebre che esistono assolutamente,
genericamente e non in forme concrete e storiche come sono gli istituti
economici e politici nei quali la società si disciplina attraverso o contro i
quali si sviluppa: lo Stato cioè, variamente organizzato a seconda dei rapporti
di sommessione o di indipendenza che intercedono tra i poteri responsabili (il
sovrano e il governo, il parlamento e la magistratura), lo Stato che è
costituito in modo da permettere facilmente un ulteriore sviluppo della società
verso forme superiori di libertà e responsabilità sociale, o è un aggregato
parassitario di individui e gruppi che ne rivolgono a proprio beneficio le
energie, e con lo Stato le organizzazioni libere sorte come affermazione di
interessi legittimi delle classi e dei ceti economici e politici.
Il giacobinismo astrae da queste
forme concrete della società umana che operano permanentemente sullo svolgersi
degli eventi, e pone la storia come un contratto, come la rivelazione di una
verità assoluta che si realizza perché un certo numero di cittadini di buona
volontà si sono messi d'accordo, hanno giurato di portare a realtà il pensiero.
Cosí concepita la storia è una lunga serie di disillusioni, di rimbrotti, di
richiami, di «se». Se gli avvenimenti non si svolgono secondo lo schema
prestabilito, si grida al tradimento, alla defezione, si suppone che perverse
volontà ne abbiano attraversato il «naturale» decorso. E il giacobinismo trae
dal suo spirito messianico, dalla sua fede nella verità rivelata, la pretesa
politica di sopprimere violentemente ogni opposizione, ogni volontà che rifiuti
di aderire al contratto sociale. E si cade nelle contraddizioni, cosí comuni
nei regimi democratici, tra le professioni di fede inneggianti alla libertà piú
sconfinata e la pratica di tirannia e di intolleranza brutale.
Il giacobinismo politico, se può
essere innocuo fintantoché rimane pura forma mentale, è dannoso allo sviluppo
della storia e delle forme concrete che disciplinano la società, quando riesce
a imporsi politicamente e a diventare il datore della cultura. Esso disabitua i
cervelli dallo studio serio, dalla seria ricerca delle fonti permanentemente
vive delle ingiustizie, dei mali, delle oppressioni, dissolve le associazioni
sorte per operare secondo una nozione esatta della realtà e produrre quindi
conseguenze utili, teglie il senso della responsabilità sociale, rende vana
ogni critica, perché la critica rivolge la sua ricerca non al concreto ma ai
fantasmi fluttuanti della contingenza piú svaporata.
Contro questo indirizzo di
cultura, contro la concezione della storia che si esaurisce nei «se», ha
reagito vigorosamente la critica marxista; ma si è ben lungi dall'aver
raggiunto una cultura critica diffusa che efficacemente si opponga a questo
deleterio imperversare dei cani urlanti alla luna.
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