Le Costituzioni politiche sono
necessariamente dipendenti dalla struttura economica, dalle forme di produzione
e di scambio. Con la semplice enunciazione di questa formula molti credono di
aver risolto ogni problema politico e storico, credono di essere in grado di
impartire lezioni a destra e a mancina, di poter senz'altro giudicare gli avvenimenti
e concludere per esempio: Lenin è un utopista, gli infelici proletari russi
vivono in piena illusione utopistica, un terribile risveglio li attende
implacabile.
La verità è che non esistono due
Costituzioni politiche uguali fra di loro, cosí come non esistono due uguali
strutture economiche. La verità è che la formula non è affatto la secca
espressione di una legge naturale che subito salti agli occhi. Tra la premessa
(struttura economica) e la conseguenza (Costituzione politica) i rapporti sono
tutt'altro che semplici e diretti: e la storia di un popolo non è documentata
solo dai fatti economici. Lo snodarsi della causazione è complesso e
imbrogliato, e a districarlo non giova che lo studio approfondito e diffuso di
tutte le attività spirituali e pratiche, e questo studio è possibile solo dopo
che gli avvenimenti si sono assestati in una continuità, cioè molto, ma molto
tempo dopo l'accadimento dei fatti. Lo studioso può affermare con sicurezza che
una certa Costituzione politica non si affermerà vittoriosa (non durerà
permanentemente), se non aderisce indissolubilmente e intrinsecamente a una
determinata struttura economica, ma la sua affermazione non ha altro valore che
di indizio generico; mentre i fatti si svolgono come potrebbe egli infatti sapere
in che preciso modo questa dipendenza si stabilirà? Le incognite sono piú
numerose dei dati accertati e controllabili, e ognuna di queste incognite può
rovesciare una induzione avventata. La storia non è un calcolo matematico: non
esiste in essa un sistema metrico decimale, una numerazione progressiva di
quantità uguali che permetta le quattro operazioni, le equazioni e le
estrazioni di radici: la quantità (struttura economica) vi diventa qualità
poiché diventa strumento di azione in mano agli uomini, agli uomini che non
valgono solo per il peso, la statura, la energia meccanica che possono
sviluppare dai muscoli e dai nervi, ma valgono specialmente in quanto sono
spirito, in quanto soffrono, comprendono, gioiscono, vogliono o negano. In una
rivoluzione proletaria la incognita «umanità» è piú oscura che in qualunque
altro avvenimento: la spiritualità diffusa del proletariato russo, come degli
altri proletariati in genere, non è stata mai studiata, e forse era impossibile
studiarla. Il successo o l'insuccesso della rivoluzione potrà darci un
documento attendibile della sua capacità a creare la storia: per ora non è dato
che aspettare.
Chi non aspetta, ma vuol subito
fissare un giudizio definitivo, si propone altri scopi: scopi politici attuali,
da raggiungere tra gli uomini ai quali si rivolge la sua propaganda.
L'affermare che Lenin è un utopista non è un fatto di cultura, non è un
giudizio storico: è un atto politico attuale. L'affermare, cosí seccamente, che
le Costituzioni politiche, ecc., ecc., non è un fatto dottrinario, è il
tentativo di suscitare una certa mentalità, perché l'azione si diriga in un
modo piuttosto che in un altro.
Nessun atto rimane senza
risultati nella vita, e il credere in una piuttosto che in un'altra teoria ha i
suoi particolari riflessi sull'azione: anche l'errore lascia tracce di sé, in
quanto divulgato e accettato può ritardare (non certo impedire) il
raggiungimento di un fine.
È questa una prova che non la
struttura economica determina direttamente l'azione politica, ma l'interpretazione
che si dà di essa e delle cosí dette leggi che ne governano lo svolgimento.
Queste leggi non hanno niente di comune con le leggi naturali, sebbene anche
queste non siano obiettivi dati di fatto, ma solo costruzioni del nostro
pensiero, schemi utili praticamente per comodità di studio e di insegnamento.
Gli avvenimenti non dipendono
dall'arbitrio di un singolo, e neppure da quello di un gruppo anche numeroso:
dipendono dalle volontà di molti, le quali si rivelano dal fare o non fare certi
atti e dagli atteggiamenti spirituali corrispondenti, e dipendono dalla
consapevolezza che una minoranza ha di queste volontà, e dal saperli piú o meno
rivolgere a un fine comune dopo averle inquadrate nei poteri dello Stato.
Perché gli individui, nella loro
maggioranza, compiono solo determinati atti? Perché essi non hanno altro fine
sociale che la conservazione della propria integrità fisiologica e morale: cosí
è che si adattano alle circostanze, ripetono meccanicamente alcuni gesti i
quali, per la esperienza propria o per l'educazione ricevuta (risultato delle
esperienze altrui), si sono dimostrati idonei a raggiungere il fine voluto:
poter vivere. Questa rassomiglianza di atti della maggioranza produce una
somiglianza di effetti, dà all'attività economica una certa struttura: nasce il
concetto di legge. Solo il perseguire un fine maggiore corrode questo
adattamento all'ambiente: se il fine umano non è più il puro vivere, ma il
vivere qualificato, si compiono degli sforzi maggiori, e a seconda della diffusione
del fine umano superiore si riesce a trasformare l'ambiente, si instaurano
nuove gerarchie, diverse da quelle esistenti per regolare i rapporti tra i
singoli e lo Stato, tendenti a sostituirsi permanentemente a queste per la
realizzazione diffusa del fine umano superiore.
Chi pone queste pseudo-leggi
come qualcosa di assoluto, di estraneo alle volontà singole, e non come un
adattamento psicologico all'ambiente, dovuto alla debolezza dei singoli (al non
essere organizzati e quindi all'incertezza del futuro), non può immaginare che
la psicologia possa mutare, che la debolezza possa diventare forza. Eppure cosí
avviene, e la legge, la pseudo-legge si frange. Gli individui escono dalla loro
solitudine e si associano. Ma come avviene questo processo associativo? Anche
esso non si riesce a concepirlo che alla stregua della legge assoluta, della
normalità, e quando — per il tardo ingegno o per il pregiudizio — la legge non
salta agli occhi subito, si giudica e si manda: utopia, utopisti.
Lenin è dunque un utopista, il
proletariato russo, dal giorno della rivoluzione bolscevica ad oggi, vive in
piena utopia e un terribile risveglio lo attende implacabile.
Se alla storia russa si
applicano gli schemi astratti, generici, costruiti per poter seguire i momenti
dello sviluppo normale dell'attività economica e politica del mondo
occidentale, l'illazione non può essere altra che questa. Ma ogni fenomeno
storico è «individuo»; lo sviluppo è governato dal ritmo della libertà; la
ricerca non deve essere di necessità generica, ma di particolare necessità. Il
processo di causazione deve essere studiato instrinsecamente agli avvenimenti
russi, non da un punto di vista generico e astratto.
Negli avvenimenti di Russia
esiste indubbiamente il rapporto di necessità, ed è un rapporto di necessità
capitalistica: la guerra è stata la condizione economica, il sistema di vita
pratica che ha determinato lo Stato nuovo, che ha sostanziato di necessità la
dittatura del proletariato: la guerra che la Russia arretrata ha dovuto
combattere nelle stesse forme degli Stati capitalistici piú progrediti.
Nella Russia patriarcale non potevano avvenire quegli
addensamenti di individui che avvengono in un paese industrializzato, e che
sono la condizione perché i proletari si conoscano tra loro, si organizzino e
acquistino consapevolezza della propria potenza di classe da rivolgere a un
fine umano universale. Un paese ad agricoltura estensiva isola gli individui,
rende impossibile la consapevolezza uguale e diffusa, rende impossibili le
unità sociali proletarie, la coscienza concreta di classe che dà la misura
della propria forza e la volontà di instaurare un regime legittimato
permanentemente da quella forza.
La guerra è la massima
concentrazione dell'attività economica nelle mani di pochi (i dirigenti dello
Stato); e le corrisponde la massima concentrazione di individui nelle caserme e
nelle trincee. La Russia in guerra era davvero il paese di utopia: con uomini
da invasione barbarica lo Stato ha creduto di poter fare una guerra di tecnica,
di organizzazione, di resistenza spirituale, quale poteva dare solo un'umanità
rinsaldata cerebralmente e fisicamente dall'officina e dalla macchina. La
guerra era l'utopia, e la Russia zarista patriarcale si è sfasciata sotto
l'altissima tensione dello sforzo impostosi e impostole dal nemico agguerrito.
Ma le condizioni suscitate artificialmente, per l'immane potenza dello Stato
dispotico, hanno prodotto le conseguenze necessarie: le grandi masse degli
individui socialmente solitari, accostate, addensate in piccolo spazio
geografico, hanno sviluppato sentimenti nuovi, hanno sviluppato una solidarietà
umana inaudita. Quanto piú si sentivano deboli prima, nell'isolamento, e si
piegavano al dispotismo, tanto piú grande fu la rivelazione della forza
collettiva esistente, tanto piú prepotente e tenace il desiderio di
conservarla, e di costruire su di essa la società nuova.
La disciplina dispotica si
liquefece: un periodo di caos subentrò. Gli individui cercavano di
organizzarsi, ma come? e come conservare l'unità umana creatasi nella
sofferenza?
Il filisteo si fa avanti e
risponde: la borghesia doveva ricondurre l'ordine nel caos, perché cosí sempre
è successo, perché all'economia patriarcale e feudale succede sempre l'economia
borghese e la Costituzione politica borghese. Il filisteo non vede salvezza
fuori degli schemi prestabiliti, non concepisce la storia che come un organismo
naturale che attraversa momenti fissi e prevedibili di sviluppo. Se tu semini
una ghianda, sei sicuro che non può nascere altro che un germoglio di quercia,
che lentamente cresce, e solo dopo un certo numero d'anni darà i frutti. Ma la
storia non è un querceto, e gli uomini non sono ghiande.
Dov'era in Russia la borghesia
capace di adempiere questo compito? E se il suo dominio è una legge naturale,
come mai la legge non ha funzionato?
Questa borghesia non si è
rivelata: pochi borghesi hanno cercato di imporsi e furono travolti. Dovevano
vincere, dovevano imporsi anche se pochi, incapaci e deboli? Ma di quale santo
crisma erano stati dunque unti gli infelici per dover trionfare anche perdendo?
Il materialismo storico è dunque solo una reincarnazione del legittimismo, del
diritto divino?
Chi trova Lenin utopista, chi
afferma che il tentativo della dittatura proletaria in Russia è un tentativo
utopistico, non può esser socialista consapevole, non costruí la sua cultura
studiando la dottrina del materialismo storico: è un cattolico, è impaludato
nel Sillabo. Egli è il solo e autentico utopista.
L'utopia consiste infatti nel
non riuscire a concepire la storia come libero sviluppo, nel vedere il futuro
come una solidità già sagomata, nel credere ai piani prestabiliti. L'utopia è
il filisteismo, quale lo sbeffeggia Enrico Heine: i riformisti sono i filistei
e gli utopisti del socialismo, come i protezionisti e i nazionalisti sono i
filistei e gli utopisti della borghesia capitalistica. Enrico von Treitschke è
l'esponente massimo del filisteismo tedesco (gli statolatri tedeschi ne sono i
figli spirituali), come Augusto Comte e Ippolito Taine rappresentano il
filisteismo francese, e Vincenzo Gioberti quello italiano. Sono quelli che
predicano le missioni storiche nazionali, o credono alle vocazioni individuali,
sono tutti quelli che ipotecano il futuro e credono imprigionarlo nei loro
schemi prestabiliti, che non concepiscono la divina libertà, e gemono
continuamente sul passato perché gli avvenimenti si sono svolti male.
Non concepiscono la storia come
sviluppo libero — di energie libere, che nascono e si integrano liberamente —
diverso dall'evoluzione naturale, come l'uomo e le associazioni umane sono
diversi dalle molecole e dagli aggregati di molecole. Non hanno imparato che la
libertà è la forza immanente della storia, che fa scoppiare ogni schema
prestabilito. I filistei del socialismo hanno ridotto la dottrina socialista a
uno strofinaccio del pensiero, l'hanno insozzata e s'infuriano buffamente
contro chi, a loro parere, non la rispetta.
In Russia la libera affermazione
delle energie individuali e associate ha schiantato gli ostacoli delle parole e
dei piani prestabiliti. La borghesia ha cercato di imporre il suo dominio ed ha
fallito. Il proletariato ha assunto la direzione della vita politica ed
economica e realizza il suo ordine. Il suo ordine, non il socialismo, perché il
socialismo non s'esprime con un fiat magico: il socialismo è un
divenire, uno sviluppo di momenti sociali sempre piú ricchi di valori
collettivi. Il proletariato realizza il suo ordine, costituendo istituti
politici che garantiscano la libertà di questo sviluppo, che assicurino la
permanenza del suo potere.
La dittatura è l'istituto
fondamentale che garantisce la libertà, che impedisce i colpi di mano delle
minoranze faziose. È garanzia di libertà perché non è un metodo da perpetuare,
ma permette di creare e solidificare gli organismi permanenti in cui la
dittatura si dissolverà, dopo aver compiuto la sua missione.
Dopo la rivoluzione la Russia non era ancora libera,
perché non esistevano le garanzie della libertà, perché la libertà non era
stata ancora organizzata.
Il problema era di suscitare una
gerarchia, ma che fosse aperta, che non potesse cristallizzarsi in ordine di
casta e di classe.
Dalla massa, dal numero si
doveva arrivare all'uno, in modo che esistesse una unità sociale, che
l'autorità fosse solo autorità spirituale.
I nuclei vivi di questa
gerarchia sono i Soviet e i partiti popolari. I Soviet sono l'organizzazione
primordiale da integrare e sviluppare e i bolscevichi diventano il partito del
governo perché sostengono che i poteri dello Stato devono dipendere ed essere
controllati dai Soviet.
Il caos russo si rapprende
intorno a questi elementi d'ordine: incomincia l'ordine nuovo. Una gerarchia si
costituisce: dalla massa disorganizzata e sofferente si passa agli operai e
contadini organizzati, ai Soviet, al partito bolscevico e all'uno: Lenin. È la
gradazione gerarchica del prestigio e della fiducia, che si è formata
spontaneamente, che si mantiene per libera elezione.
Dov'è l'utopia in questa
spontaneità? Utopia è l'autorità, non la spontaneità, ed è utopia in quanto diventa
carrierismo, diventa casta, e presume essere eterna: la libertà non è utopia
perché aspirazione primordiale, perché tutta la storia degli uomini è lotta e
lavoro per suscitare istituti sociali che garantiscano il massimo di libertà.
Formatasi questa gerarchia essa
sviluppa la sua logica. I Soviet e il partito bolscevico non sono organismi
chiusi: si integrano continuamente. Ecco il dominio della libertà, ecco le
garanzie della libertà. Non sono caste, sono organismi in continuo sviluppo.
Rappresentano la progressione della consapevolezza, rappresentano
l'organizzabilità della società russa.
Tutti i lavoratori possono far
parte dei Soviet, tutti i lavoratori possono influire nel modificarli e renderli
meglio espressivi delle loro volontà e dei loro desideri. La vita politica
russa è indirizzata in modo che tende a coincidere con la vita morale, con lo
spirito universale della umanità russa. Avviene uno scambio continuo tra queste
tappe gerarchiche: un individuo grezzo si affina nella discussione per la
elezione del suo rappresentante al Soviet, egli stesso può essere il
rappresentante; egli controlla questi organismi perché li ha sempre sotto gli
occhi, vicini nel territorio. Acquista il senso della responsabilità sociale,
diventa cittadino operante nel decidere dei destini del suo paese. E il potere,
la consapevolezza si estende, per il tramite di questa gerarchia, dall'uno ai
molti, e la società è quale mai ne apparve nella storia.
Questo è lo slancio vitale della
nuova storia russa. Cosa vi è in esso di utopistico? Dove è il piano
prestabilito che si vuole attuare anche contro le condizioni dell'economia e
della politica? La rivoluzione russa è dominio della libertà: l'organizzazione
si fonda per spontaneità, non per arbitrio di un «eroe» che s'impone con la
violenza. È un'elevazione umana continua e sistematica, che segue una
gerarchia, che si crea volta a volta gli organi necessari della nuova vita
sociale.
Ma allora non è il
socialismo?... No, non è il socialismo, nel senso balordissimo che alla parola
dànno i filistei costruttori di progetti mastodontici; è la società umana che
si sviluppa sotto il controllo del proletariato. Quando questo sarà organizzato
nella sua maggioranza, la vita sociale sarà piú ricca di contenuto socialista
di quanto non sia ora, e il processo di socializzazione andrà sempre piú
intensificandosi e perfezionandosi. Perché il socialismo non si instaura a data
fissa, ma è un continuo divenire, uno sviluppo infinito in regime di libertà
organizzata e controllata dalla maggioranza dei cittadini, o dal proletariato.
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