Demagogico e demagogia sono le
due parole piú in voga presso le persone ben pensanti e i pietisti in pantofole
per dare il colpo di grazia all'attività dei «caporioni», dei «sobillatori»
socialisti. Demagogia, per lo squisito senso linguistico di Tartufo, ha solo
questo preciso significato: attività, propaganda socialista in quanto volta a
scuotere i dormienti, a organizzare gli indifferenti, a dare stimoli di
ricerca, di libertà a quanti finora si sono tenuti in disparte dalla vita e
dalle lotte sociali.
La demagogia non è insomma, un modo
di fare la propaganda, ma è tutta una certa propaganda, la propaganda
socialista. Demagogia non è il giudizio morale che si può dare della
leggerezza, della superficialità, dell'avventatezza con cui si cerca di formare
una qualsiasi convinzione, ma è un fatto storico, il movimento ideale che è la
faccia piú appariscente dell'azione educativa del Partito socialista. Tartufo
cosí modifica il vocabolario, determina una certa fortuna alle parole. Ha
riabilitato la parola teppista, sta nobilitando la parola demagogia. Tra
qualche tempo, quando il movimento socialista avrà tanta forza da imprimere
anche alla lingua il suo sigillo di bontà e di libero corso, teppista prenderà
definitivamente il significato di galantuomo, e viceversa, e demagogia, vorrà
dire metodo di politica e di propaganda serio, fondato sulla realtà dei fatti,
e non sulle apparenze piú vistose, e perciò piú fallaci.
Aspettando quel giorno noi
continuiamo a dare alla parola il suo vecchio significato, e continuiamo ad
applicarla ai demagoghi, cioè a quelli che si servono di sgambetti logici per
apparire nel vero, che falsano scientemente i fatti per apparire i trionfatori,
che per ubriacarsi della vittoria di un istante sono insinceri o affrettati.
Ci hanno chiamati demagoghi
perché ci piace chiamare «pescicani» i fornitori militari. E ci hanno fatto
osservare che alcuni di questi pescicani pagano duemila lire la loro inserzione
nel nostro giornale. Siamo «demagoghi» perché non ci lasciamo guidare nelle
nostre valutazioni dal criterio dell'utile; evviva dunque la demagogia. Siamo
demagoghi perché non siamo imbecilli, perché non vogliamo confondere
l'inconfondibile. Perché non ci vergogniamo che il nostro giornale prenda
duemila lire per un contratto di pubblicità liberamente accettato, perché in
libera concorrenza con gli altri datori di pubblicità, mentre siamo persuasi
che debbono vergognarsi dei loro guadagni, che possono essere chiamati
«pescicani» quelli che abusano della loro indispensabilità, della mancanza di
concorrenza per svaligiare l'erario pubblico, per imporre i prezzi che
permettano gli arricchimenti subitanei e il ritiro in pensione dei fortunati
che hanno approfittato del momento buono. Perché non muoviamo dalle apparenze
fallaci, perché non giudichiamo dal criterio dell'utile immediato, siamo
demagoghi, e gli altri sono persone serie, maestri di bel vivere. Con questi
capovolgimenti di senso comune si dimostra la nostra disonestà, la nostra demagogia.
E si contribuisce niente altro che a una trasformazione dei significati delle
parole del vocabolario italiano.
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