Una volta, due volte, tre
volte... Scrivi e raschiano, scrivi e raschiano... Intingi la penna, la mano
rimane a mezz'aria, titubante. Il cervello è impastoiato, non trasmette alla
mano, alle dita, l'impulso a muoversi. La mano cala sulla carta e la punta
d'acciaio passeggia sul biancore descrivendo complicatissimi ghirigori,
labirinti senza uscita. Si cerca affannosamente l'uscita. Il pensiero si
assottiglia nell'angustia, bussa alle pareti per cercar di vedere se esse si
spalanchino in una sortita possibile. Si incomincia. Si cancella. Si
ricomincia. L'espressione fluisce, il lavorio di conglutinamento delle frasi,
dei periodi, riposa, allenta lo sforzo iniziale. Si è persuasi d'aver trovato
l'equilibrio necessario tra i bisogni della propria sincerità e le aggressioni
irrazionali della censura. Si aspetta trepidanti. Sicuro, trepidanti, perché amiamo
tutto ciò che ci ha domandato uno sforzo per nascere, per estrinsecarsi.
Sentiamo le stesse impressioni di una volta, dinanzi agli esaminatori, con
questa differenza: che negli esaminatori eravamo persuasi di aver a che fare
con individui assolutamente superiori, che avevano veramente la capacità di
giudicare dei nostri sforzi, dei nostri meriti. Adesso sentiamo invece
l'incapacità assoluta, l'impreparazione assoluta, in chi, armato di matita,
come allora, giudica e manda. Ma un'uguaglianza c'è, tra gli uni e gli altri:
sentiamo che un'uguaglianza c'è. Ci troviamo ora, come allora, dinanzi a
italiani, a vecchi italiani (anche se giovanissimi nel tempo) che non dànno
nessuna importanza agli altri, al lavoro, allo sforzo degli altri, alla
personalità morale degli altri. Che, detentori per un momento di un potere
(anche se piccolo potere), vogliono lasciare una traccia di esso, una traccia
quanto è possibile maggiore. Il vecchio italiano non è abituato alla libertà: e
non già alla libertà con L maiuscolo, astrazione ideologica, ma la piccola,
concreta libertà, che si esprime nel rispetto degli altri, del lavoro, degli
sforzi, della personalità e dei bisogni morali degli altri: che abbassa le
piccole, esasperanti, inutili irritazioni: che impone, a chi ha il potere (sia
pure un piccolo potere), di evitare anche l'apparenza di un'ingiustizia, di un
sopruso. Che ha fiducia nelle energie buone degli uomini, e non passa l'erpice
su un campo di grano per distruggere quattro papaveri e mezza dozzina di teneri
steli di loglio. Che crede anzi naturale che cosí sia, che al grano si mescoli
loglio e papavero, perché una vita collettiva è sana solo quando c'è lotta,
attrito, urto di sentimenti e passioni, e solo nella lotta si rivelano i forti,
gli indispensabili, gli uomini di fede e d'azione che chiudono la bocca alla
critica agendo fortemente. Ma il vecchio italiano non comprende un potere senza
repressioni: se in Italia ci fosse la pena di morte, e nessuno cadesse sotto
questa sanzione, il carnefice per non stare con le mani in mano diventerebbe
mandatario di assassinii e di stupri, per poter lavorare i suoi
complici. Cosí come in molti paesi dell'Italia meridionale le guardie campestri
danneggiano esse stesse la proprietà privata per far sentire la propria
indispensabilità. Cosí come il censore, per far sentire quanto faticoso ed
improbo sia il suo ufficio, cancella, cancella, cancella tutto tutto tutto,
grano e papaveri, lavoro e noia, bene e male. E la penna continua a tracciare
ghirigori, aspettando perché sente che questa barbarie (la confusione nei
criteri, l'arbitrio, il sopruso è barbarie) si esaurirà nella propria rabbia.
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