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Antonio Gramsci
Scritti politici I

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  • 1918
    • La critica critica
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1918

La critica critica36

 

Claudio Treves scrive un articolo nella Critica sociale per passare agli archivi una lettera di Leone Martoff e per constatare la «spaventosa incultura della nuova generazione socialista italiana».

La «nuova generazione» ha accomodato la dottrina di Marx in modo che il determinismo è sostituito dal volontarismo, la forza trasformatrice dello strumento del lavoro dalla violenza eroica o isterica degli individui o dei gruppi, il soggettivismo piú frenetico lusinga ed applaude le peggiori enfasi dei demagoghi.

Certo grande è l'incultura della «nuova generazione». Ma probabilmente essa non è maggiore di quella della «vecchia guardia», e piú probabilmente ancora essa non coincide affatto con ciò che il Treves vuole intendere. La «nuova generazione» ha letto, per esempio, oltre che il Manifesto dei comunisti, anche il trattatello di Marx ed Engels sulla Critica critica e le è parso che i Bauer non siano ancora guariti dai loro vagellamenti pseudofilosofici ed arruffatori di concetti e di realtà. Ha letto e studiato anche i libri che in Europa sono stati scritti dopo la fioritura del positivismo, ed ha scoperto (ohibò, quanto piccola scoperta) che la sterilizzazione operata dai socialisti positivisti delle dottrine di Marx non è stata precisamente una grande conquista di cultura, e non è stata neppure (necessariamente) accompagnata da grandi conquiste di realtà.

Come è avvenuto che la Critica sociale sia divenuta la Critica critica? Per il fenomeno stesso per cui Marx sbeffeggiava i signori Bruno Bauer, Faucher e Szeliga, scrittori della Allgemeine Literaturzeitung: perché il Treves «al posto dell'uomo individuale realmente esistente» pone il «determinismo» o la «forza trasformatrice», cosí come Bruno Bauer poneva «l'autocoscienza». Perché il Treves, nella sua alta cultura, ha ridotto la dottrina di Marx a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente verificantesi all'infuori della volontà degli uomini, della loro attività associativa, delle forze sociali che questa attività sviluppa, diventando essa stessa determinante di progresso, motivo necessario di nuove forme di produzione.

La dottrina di Marx divenne cosí la dottrina dell'inerzia del proletariato. Non che il volontarismo (usiamo pure questa parola, che significa poco, per necessità pratiche del linguaggio) venisse rinnegato di fatto. Esso fu ridotto alla piccola schermaglia riformista: divenne una cosa volgare, divenne la volontà del compromesso ministeriale, la volontà di piccole conquiste, dell'uovo oggi meglio che la gallina domani, anche se, come dice il Ruta, l'uovo è un uovo di pidocchio.

L'opera di proselitismo fu abbandonata (cosa possono contare gli «uomini individuali»?). L'azione storica del proletariato non poté, con tutta la sua efficacia, inserirsi nel processo di sviluppo dell'economia capitalistica. Anche dal punto di vista riformistico, la Critica critica operò deleteriamente. Per la solita concezione dell'«uovo di pidocchio» furono trascurati i grandi problemi nazionali, che interessano tutto il proletariato italiano. Non bisogna dimenticare che nel 1913, quando il Partito socialista si presentò alle elezioni a suffragio universale con programma nettamente liberista, la Critica critica pubblicò due articoli protezionistici scritti da Treves e da Turati.

Se non esistessero le annate dell'Unità di Gaetano Salvemini, Treves potrebbe forse parlare di «incultura della nuova generazione socialista». Ma Salvemini e Mondolfo hanno troppo spesso documentato (e citiamo uomini della stessa tendenza del Treves) di che cosa fosse materiata la cultura della Critica critica, perché anche i giovanissimi possano troppo preoccuparsi del rimprovero di Very Well.

La «nuova generazione» si rifiuta pertanto di prendere sul serio, non la vecchia, ma la generazione definitivamente assestatasi nelle colonne della Critica critica.

La nuova generazione pare voglia ritornare alla genuina dottrina di Marx, per la quale l'uomo e la realtà, lo strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell'atto storico. Credono, pertanto, che i canoni del materialismo storico valgano solo post factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato, e non debbano diventare ipoteca sul presente e sul futuro. Credono non già che la guerra abbia distrutto il materialismo storico, ma solo che la guerra abbia modificato le condizioni dell'ambiente storico normale, per cui la volontà sociale, collettiva degli uomini abbia acquistato una importanza che normalmente non aveva. Queste nuove condizioni sono anch'esse fatti economici, hanno dato ai sistemi di produzione un carattere che prima non avevano: l'educazione del proletariato si è ad essi adeguata necessariamente, ed ha in Russia portato alla dittatura [diciotto righe censurate].

La volontà, in fondo in fondo, esiste anche per Treves, ma è difensiva, non offensiva, è acquattata, non palese. Non esiste solo la cultura che avrebbe potuto far ricordare al Treves che Gio. Battista Vico ha detto prima di Marx che anche la credenza nella divina provvidenza ha operato beneficamente nella storia diventando stimolo dell'azione consapevole, e che pertanto anche la credenza nel «determinismo» potrebbe avere avuto la stessa efficacia, in Russia per Lenin, e altrove per altri.






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36 Siglato A.G., Il Grido del Popolo, 12 gennaio 1918.





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