Claudio Treves scrive un
articolo nella Critica sociale per passare agli archivi una lettera di
Leone Martoff e per constatare la «spaventosa incultura della nuova generazione
socialista italiana».
La «nuova generazione» ha
accomodato la dottrina di Marx in modo che il determinismo è sostituito
dal volontarismo, la forza trasformatrice dello strumento del
lavoro dalla violenza eroica o isterica degli individui o dei gruppi, il
soggettivismo piú frenetico lusinga ed applaude le peggiori enfasi dei demagoghi.
Certo grande è l'incultura della
«nuova generazione». Ma probabilmente essa non è maggiore di quella della
«vecchia guardia», e piú probabilmente ancora essa non coincide affatto con ciò
che il Treves vuole intendere. La «nuova generazione» ha letto, per esempio,
oltre che il Manifesto dei comunisti, anche il trattatello di Marx ed
Engels sulla Critica critica e le è parso che i Bauer non siano ancora
guariti dai loro vagellamenti pseudofilosofici ed arruffatori di concetti e di
realtà. Ha letto e studiato anche i libri che in Europa sono stati scritti dopo
la fioritura del positivismo, ed ha scoperto (ohibò, quanto piccola scoperta)
che la sterilizzazione operata dai socialisti positivisti delle dottrine di
Marx non è stata precisamente una grande conquista di cultura, e non è stata
neppure (necessariamente) accompagnata da grandi conquiste di realtà.
Come è avvenuto che la Critica sociale sia
divenuta la Critica
critica? Per il fenomeno stesso per cui Marx sbeffeggiava i signori Bruno
Bauer, Faucher e Szeliga, scrittori della Allgemeine Literaturzeitung:
perché il Treves «al posto dell'uomo individuale realmente esistente» pone il
«determinismo» o la «forza trasformatrice», cosí come Bruno Bauer poneva
«l'autocoscienza». Perché il Treves, nella sua alta cultura, ha ridotto la
dottrina di Marx a uno schema esteriore, a una legge naturale, fatalmente
verificantesi all'infuori della volontà degli uomini, della loro attività
associativa, delle forze sociali che questa attività sviluppa, diventando essa stessa
determinante di progresso, motivo necessario di nuove forme di produzione.
La dottrina di Marx divenne cosí
la dottrina dell'inerzia del proletariato. Non che il volontarismo
(usiamo pure questa parola, che significa poco, per necessità pratiche del linguaggio)
venisse rinnegato di fatto. Esso fu ridotto alla piccola schermaglia
riformista: divenne una cosa volgare, divenne la volontà del compromesso
ministeriale, la volontà di piccole conquiste, dell'uovo oggi meglio che la
gallina domani, anche se, come dice il Ruta, l'uovo è un uovo di pidocchio.
L'opera di proselitismo fu
abbandonata (cosa possono contare gli «uomini individuali»?). L'azione storica
del proletariato non poté, con tutta la sua efficacia, inserirsi nel processo
di sviluppo dell'economia capitalistica. Anche dal punto di vista riformistico,
la Critica
critica operò deleteriamente. Per la solita concezione dell'«uovo di
pidocchio» furono trascurati i grandi problemi nazionali, che interessano tutto
il proletariato italiano. Non bisogna dimenticare che nel 1913, quando il
Partito socialista si presentò alle elezioni a suffragio universale con
programma nettamente liberista, la
Critica critica pubblicò due articoli
protezionistici scritti da Treves e da Turati.
Se non esistessero le annate dell'Unità
di Gaetano Salvemini, Treves potrebbe forse parlare di «incultura della nuova
generazione socialista». Ma Salvemini e Mondolfo hanno troppo spesso
documentato (e citiamo uomini della stessa tendenza del Treves) di che cosa
fosse materiata la cultura della Critica critica, perché anche i
giovanissimi possano troppo preoccuparsi del rimprovero di Very Well.
La «nuova generazione» si
rifiuta pertanto di prendere sul serio, non la vecchia, ma la generazione
definitivamente assestatasi nelle colonne della Critica critica.
La nuova generazione pare voglia
ritornare alla genuina dottrina di Marx, per la quale l'uomo e la realtà, lo
strumento di lavoro e la volontà, non sono dissaldati, ma si identificano nell'atto
storico. Credono, pertanto, che i canoni del materialismo storico valgano solo post
factum, per studiare e comprendere gli avvenimenti del passato, e non
debbano diventare ipoteca sul presente e sul futuro. Credono non già che la
guerra abbia distrutto il materialismo storico, ma solo che la guerra abbia
modificato le condizioni dell'ambiente storico normale, per cui la volontà
sociale, collettiva degli uomini abbia acquistato una importanza che
normalmente non aveva. Queste nuove condizioni sono anch'esse fatti economici,
hanno dato ai sistemi di produzione un carattere che prima non avevano:
l'educazione del proletariato si è ad essi adeguata necessariamente, ed ha in
Russia portato alla dittatura [diciotto righe censurate].
La volontà, in fondo in fondo,
esiste anche per Treves, ma è difensiva, non offensiva, è acquattata, non
palese. Non esiste solo la cultura che avrebbe potuto far ricordare al Treves
che Gio. Battista Vico ha detto prima di Marx che anche la credenza nella
divina provvidenza ha operato beneficamente nella storia diventando stimolo
dell'azione consapevole, e che pertanto anche la credenza nel «determinismo»
potrebbe avere avuto la stessa efficacia, in Russia per Lenin, e altrove per
altri.
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