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Antonio Gramsci
Scritti politici I

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  • 1918
    • Cultura e lotta di classe
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Cultura e lotta di classe49

 

La Giustizia di Camillo Prampolini, offre ai suoi lettori una rassegna delle opinioni espresse dai settimanali socialisti sulla polemica tra la direzione dell'Avanti! ed il gruppo parlamentare. L'ultimo capitolo della rassegna è spiritosamente intitolato Gli interpreti del proletariato e spiega:

La Difesa di Firenze e Il Grido di Torino, i due esponenti piú rigidi e culturali della dottrina intransigente, svolgono larghe considerazioni teoriche che ci è impossibile riassumere e che ad ogni modo sarebbe poco utile riprodurre, perché — quantunque quei due giornali affermino di essere genuini interpreti del proletariato e di avere con sé la grande massa — i nostri lettori non sarebbero abbastanza colti per capire il loro linguaggio.

E l'implacabile Giustizia, perché non si dica che «faccia della maligna ironia», riporta quindi due passi staccati di un articolo del Grido, per concludere: «Piú proletariamente chiari di cosí non si potrebbe essere».

Il compagno Prampolini ci offre lo spunto per trattare una questione di non piccolo momento nei riguardi della propaganda socialista.

Ammettiamo che l'articolo del Grido fosse il non plus ultra della difficoltà e della oscurità proletaria. Avremmo potuto scriverlo in altra maniera? Esso era di risposta a un articolo della Stampa, e nell'articolo della Stampa si faceva uso di un preciso linguaggio filosofico, che non era una superfluità né una posa, poiché ogni indirizzo di pensiero ha un suo particolare linguaggio e un suo particolare vocabolario. Nella risposta dovevamo rimanere nel dominio di pensiero dell'avversario, dimostrare che anche, anzi proprio per quell'indirizzo di pensiero (che è il nostro, che è l'indirizzo di pensiero del socialismo non acciabattone né fanciullescamente puerile), la tesi collaborazionistica era un errore. Per essere facili avremmo dovuto snaturare, impoverire un dibattito che versava su concetti di massima importanza, sulla sostanza piú intima e piú preziosa del nostro spirito. Far questo non è essere facili: significa frodare, tal quale il vinattiere che vende acqua tinta per barolo o lambrusco. Un concetto che sia difficile di per sé non può essere reso facile nell'espressione senza che si muti in una sguaiataggine. E d'altronde fingere che la sguaiataggine sia sempre quel concetto è da bassi demagoghi, da imbroglioni della logica e della propaganda.

Perché dunque Camillo Prampolini fa della facile ironia sugli «interpreti» del proletariato che non si fanno comprendere dai proletari? Perché il Prampolini, con tutto il suo buon senso e la sua praticoneria, è un astrattista. Il proletariato è uno schema pratico, nella realtà esistono i proletari singoli, piú o meno colti, piú o meno preparati dalla lotta di classe alla comprensione dei piú squisiti concetti socialisti. I settimanali socialisti s'adattano al livello medio dei ceti regionali ai quali si rivolgono; il tono degli scritti e della propaganda deve però sempre essere un tantino superiore a questa media perché ci sia uno stimolo al progresso intellettuale, perché almeno un certo numero di lavoratori esca dall'indistinto generico delle rimasticature da opuscoletti, e consolidi il suo spirito in una visione critica superiore della storia e del mondo in cui vive e lotta.

Torino è città moderna. L'attività capitalistica vi pulsa col fragore immane di officine ciclopiche che addensano in poche migliaia di metri quadrati diecine e diecine di migliaia di proletari. Torino ha piú di mezzo milione di abitanti; la umanità vi è divisa in due classi con caratteri di distinzione quali non esistono altrove in Italia. Non abbiamo democratici, non abbiamo riformistucci fra i piedi. Abbiamo una borghesia capitalistica audace, spregiudicata, abbiamo organizzazioni poderose, abbiamo un movimento socialista complesso, vario, ricco di impulsi e di bisogni intellettuali.

Crede il compagno Prampolini che a Torino i socialisti debbano fare la propaganda imboccando la zampogna pastorale, parlando idillicamente di bontà, di giustizia, di fraternità arcadica? Qui la lotta di classe vive in tutta la sua rude grandiosità, non è una finzione retorica, non è una estensione dei concetti scientifici e antiveggenti a fenomeni sociali ancora in germe e in maturazione.

Certo anche a Torino la classe proletaria si integra continuamente di nuovi individui, non elaborati spiritualmente, non capaci di comprendere tutta la portata dello sfruttamento cui sottostanno. Bisognerebbe per loro incominciare sempre dai primi princípi, dalla propaganda elementare. Ma, e gli altri? E i proletari già intellettualmente progrediti, già adusati al linguaggio della critica socialista? Chi bisogna sacrificare, a chi ci si deve rivolgere? Il proletariato è meno complicato di quanto può sembrare. Si è formata una gerarchia spirituale e culturale spontaneamente, e l'educazione scambievole opera là dove non può arrivare l'attività degli scrittori e dei propagandisti. Nei circoli, nei fasci, nelle conversazioni dinanzi all'officina si sminuzza, si propaga, resa duttile e plastica a tutti i cervelli, a tutte le culture, la parola della critica socialista. In un ambiente complesso e vario come è quello di una grande città industriale, si suscitano spontaneamente gli organi di trasmissione capillare delle opinioni che la volontà dei dirigenti non riuscirebbe mai a costituire e creare.

E noi si dovrebbe rimanere sempre alle georgiche, al socialismo agreste e idillico? Si dovrebbe sempre, con monotona insistenza, ripetere l'abecedario, dato che c'è sempre qualcuno che l'abecedario non conosce?

Ricordiamo appunto un vecchio professore di università, che da quarant'anni avrebbe dovuto svolgere un corso di filosofia teorica sull'«Essere evolutivo finale». Ogni anno incominciava una «scorsa» sui precursori del sistema, e parlava di Lao-tse, il vecchio-fanciullo, l'uomo nato a ottant'anni, della filosofia cinese. E ogni anno ricominciava a parlare di Lao-tse, perché nuovi studenti erano sopraggiunti, ed anche essi dovevano erudirsi su Lao-tse per bocca del professore. E cosí l'«Essere evolutivo finale» divenne una leggenda, una evanescente chimera, e l'unica realtà vivente, per gli studenti di tante generazioni, fu Lao-tse, il vecchio-fanciullo, il fantolino nato ad ottant'anni.

Cosí come succede per la lotta di classe nella vecchia Giustizia di Camillo Prampolini; anch'essa è una chimera evanescente, e ogni settimana è del vecchio-fanciullo che vi si scrive, che non matura mai, che non evolve mai, che non diventa mai l'«Essere evolutivo finale» che pure si aspetterebbe dover finalmente sbocciare dopo tanta lenta evoluzione, dopo tanta perseverante opera di educazione evangelica.






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49 Non firmato, Il Grido del Popolo, 25 maggio 1918.





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