I. Problemi di critica letteraria
Arte e
cultura
Ritorno al De Sanctis. Cosa significa e
cosa può e dovrebbe significare la parola d'ordine di Giovanni Gentile: «Torniamo
al De Sanctis!»? (cfr. tra l'altro il 1° numero del settimanale «Il
Quadrivio»). Significa «tornare» meccanicamente ai concetti che il De Sanctis
svolse intorno all'arte e alla letteratura, o significa assumere verso l'arte e
la vita un atteggiamento simile a quello assunto dal De Sanctis ai suoi tempi?
Posto questo atteggiamento come «esemplare», è da vedere: 1) in che sia
consistita tale esemplarità; 2) quale atteggiamento sia oggi corrispondente,
cioè quali interessi intellettuali e morali corrispondano oggi a quelli che
dominarono l'attività del De Sanctis e le impressero una determinata direzione.
Né si può dire che la biografia del De Sanctis,
pur essendo essenzialmente coerente, sia stata «rettilinea», come volgarmente
s'intende. Il De Sanctis, nell'ultima fase della sua vita e della sua attività,
rivolse la sua attenzione al romanzo «naturalista» o «verista» e questa forma
di romanzo, nell'Europa occidentale, fu l'espressione «intellettualistica» del
movimento piú generale di «andare al popolo», di un populismo di alcuni gruppi
intellettuali sullo scorcio del secolo scorso, dopo il tramonto della
democrazia quarantottesca e l'avvento di grandi masse operaie per lo sviluppo
della grande industria urbana. Del De Sanctis è da ricordare il saggio Scienza
e Vita, il suo passaggio alla sinistra parlamentare, il suo timore di
tentativi forcaioli velati da forme pompose ecc. Un giudizio del De Sanctis:
«Manca la fibra perché manca la fede. E manca la fede perché manca la cultura».
Ma cosa significa «cultura» in questo caso? Significa indubbiamente una
coerente, unitaria e di diffusione nazionale, «concezione della vita e
dell'uomo», una «religione laica», una filosofia che sia diventata appunto
«cultura», cioè che ha generato un'etica, un modo di vivere, una condotta
civile e individuale. Ciò domandava innanzi tutto l'unificazione della «classe
colta», e in tal senso lavorò il De Sanctis con la fondazione del «Circolo
filologico» che avrebbe dovuto determinare «l'unione di tutti gli uomini colti
e intelligenti» di Napoli, ma domandava specialmente un nuovo atteggiamento
verso le classi popolari, un nuovo concetto di ciò che è «nazionale», diverso
da quello della destra storica, piú ampio, meno esclusivista, meno «poliziesco»
per cosí dire. È questo lato dell'attività del De Sanctis che occorrerebbe
lumeggiare, questo elemento della sua attività che d'altronde non era nuovo ma
rappresentava lo sviluppo di germi già esistenti in tutta la sua carriera di
letterato e di uomo politico.
Arte e lotta per una nuova civiltà. Il
rapporto artistico mostra, specialmente nella filosofia della prassi, la fatua
ingenuità dei pappagalli che credono di possedere in poche formulette
stereotipate, la chiave per aprire tutte le porte (queste chiavi si chiamano
propriamente «grimaldelli»). Due scrittori possono rappresentare (esprimere) lo
stesso momento storico-sociale, ma uno può essere artista e l'altro un semplice
untorello. Esaurire la quistione limitandosi a descrivere ciò che i due
rappresentano o esprimono socialmente, cioè riassumendo, piú o meno bene, le
caratteristiche di un determinato momento storico-sociale, significa non
sfiorare neppure il problema artistico. Tutto ciò può essere utile e
necessario, anzi lo è certamente, ma in un altro campo: in quello della critica
politica, della critica del costume, nella lotta per distruggere e superare
certe correnti di sentimenti e credenze, certi atteggiamenti verso la vita e il
mondo; non è critica e storia dell'arte, e non può essere presentato come tale,
pena il confusionismo e l'arretramento o la stagnazione dei concetti
scientifici, cioè appunto il non conseguimento dei fini inerenti alla lotta
culturale.
Un determinato momento storico-sociale non è mai
omogeneo, anzi è ricco di contraddizioni. Esso acquista «personalità», è un
«momento» dello svolgimento, per il fatto che una certa attività fondamentale
della vita vi predomina sulle altre, rappresenta una «punta» storica: ma ciò
presuppone una gerarchia, un contrasto, una lotta. Dovrebbe rappresentare il
momento dato, chi rappresenta questa attività predominante, questa «punta»
storica; ma come giudicare chi rappresenta le altre attività, gli altri
elementi? Non sono «rappresentativi» anche questi? E non è «rappresentativo»
del «momento» anche chi ne esprime gli elementi «reazionari» e anacronistici?
Oppure sarà da ritenersi rappresentativo chi esprimerà tutte le forze e gli
elementi in contrasto e in lotta, cioè chi rappresenta le contraddizioni
dell'insieme storico-sociale?
Si può anche pensare che una critica della civiltà
letteraria, una lotta per creare una nuova cultura, sia artistica nel senso che
dalla nuova cultura nascerà una nuova arte, ma ciò appare un sofisma. In ogni
modo è forse partendo da tali presupposti che si può intendere meglio il
rapporto De Sanctis-Croce e le polemiche sul contenuto e la forma. La critica
del De Sanctis è militante, non «frigidamente» estetica, è la critica di un
periodo di lotte culturali, di contrasti tra concezioni della vita
antagonistiche. Le analisi del contenuto, la critica della «struttura» delle
opere; cioè della coerenza logica e storico-attuale delle masse di sentimenti
rappresentati artisticamente sono legate a questa lotta culturale: proprio in
ciò pare consista la profonda umanità e l'umanesimo del De Sanctis, che rendono
tanto simpatico anche oggi il critico. Piace sentire in lui il fervore
appassionato dell'uomo di parte che ha saldi convincimenti morali e politici e
non li nasconde e non tenta neanche di nasconderli. Il Croce riesce a
distinguere questi aspetti diversi del critico che nel De Sanctis erano
organicamente uniti e fusi. Nel Croce vivono gli stessi motivi culturali che
nel De Sanctis, ma nel periodo della loro espansione e del loro trionfo;
continua la lotta, ma per un raffinamento della cultura (di una certa cultura)
non per il suo diritto di vivere: la passione e il fervore romantico si sono
composti nella serenità superiore e nell'indulgenza piena di bonomia. Ma anche
nel Croce questa posizione non è permanente: subentra una fase in cui la
serenità e l'indulgenza s'incrinano e affiora l'acrimonia e la collera a stento
repressa: fase difensiva non aggressiva e fervida e pertanto non confrontabile
con quella del De Sanctis.
Insomma, il tipo di critica letteraria propria
della filosofia della prassi è offerto dal De Sanctis, non dal Croce o da
chiunque altro (meno che mai dal Carducci): in essa devono fondersi la lotta
per una nuova cultura, cioè per un nuovo umanesimo, la critica del costume, dei
sentimenti e delle concezioni del mondo con la critica estetica o puramente
artistica nel fervore appassionato, sia pure nella forma del sarcasmo.
In un tempo recente alla fase De Sanctis ha
corrisposto, su un piano subalterno, la fase della «Voce». Il De Sanctis lottò
per la creazione ex novo in Italia di un'alta cultura nazionale, in opposizione
ai vecchiumi tradizionali, la retorica e il gesuitismo (Guerrazzi e il padre
Bresciani): la «Voce» lottò solo per la divulgazione, in uno strato intermedio,
di quella stessa cultura, contro il provincialismo ecc. ecc.: la «Voce» fu un
aspetto del crocismo militante, perché volle democratizzare ciò che
necessariamente era stato «aristocratico» nel De Sanctis e si era mantenuto
«aristocratico» nel Croce. Il De Sanctis doveva formare uno Stato Maggiore
culturale, la «Voce» volle estendere agli ufficiali subalterni lo stesso tono
di civiltà e perciò ebbe una funzione, lavorò nella sostanza e suscitò correnti
artistiche, nel senso che aiutò molti a ritrovare se stessi, suscitò un maggior
bisogno di interiorità e di espressione sincera di essa, anche se dal movimento
non fu espresso nessun grande artista.
(Scritto da Raffaello Ramat nell'«Italia
Letteraria» del 4 febbraio 1934: «È stato detto che per la storia della cultura
a volte può maggiormente servire lo studio di uno scrittore minore che quello
d'un sommo; e in parte è pur vero: perché se in questo – nel sommo –
stravince l'individuo, che finisce col non esser piú di alcun tempo, e potrebbe
darsi il caso – come s'è dato – di attribuire al secolo qualità proprie
dell'uomo; in quello, nel minore, pur che sia uno spirito attento e
autocritico, è dato scorgere i momenti della dialettica di quella particolare
cultura con chiarezza maggiore, in quanto non riescono, come nel sommo, a
«unificarsi»).
Il problema qui accennato trova un riscontro per
assurdo nell'articolo di Alfredo Gargiulo Dalla cultura alla letteratura,
nell'«Italia Letteraria» del 6 aprile 1930 (sesto capitolo di uno studio
panoramico intitolato 1900-1930 che sarà probabilmente raccolto in
volume e che occorrerà tener presente per «I nipotini del padre Bresciani»). In
questa serie di articoli il Gargiulo mostra il piú completo esaurimento
intellettuale (uno dei tanti giovani senza «maturità»): egli si è completamente
incanagliato nella banda dell'«Italia Letteraria» e nel capitolo citato assume
come proprio questo giudizio espresso da G. B. Angioletti nella prefazione
all'antologia Scrittori Nuovi compilata da Enrico Falqui ed Elio
Vittorini: «Gli scrittori di questa Antologia sono dunque nuovi non perché
abbiano trovato nuove forme o cantato nuovi soggetti, tutt'altro; lo
sono perché hanno dell'arte un'idea diversa da quella degli scrittori che li
precedettero. O, per venir subito all'essenziale, perché credono all'arte,
mentre quelli credevano a molte altre cose che con l'arte nulla avevano a che
vedere. Tale novità, perciò, può consentire la forma tradizionale e il
contenuto antico; ma non può consentire deviamenti dall'idea essenziale
dell'arte. Quale possa essere questa idea, non è qui il luogo di ripetere. Ma
mi sia consentito ricordare che gli scrittori nuovi, compiendo una rivoluzione
(!) che per essere stata silenziosa (!) non sarà meno memorabile (!), intendono
di essere soprattutto artisti, laddove i loro predecessori si compiacevano
di essere moralisti, predicatori, estetizzanti, psicologisti, edonisti, ecc.».
Il discorso non è molto chiaro e ordinato: se qualcosa di concreto se ne può
estrarre è la tendenza a un secentismo programmatico, niente altro. Questa
concezione dell'artista è un nuovo «guardarsi la lingua» nel parlare, è un
nuovo modo di costruire «concettini». E puri costruttori di concettini, non di
immagini, sono i piú dei poeti esaltati dalla «banda», con a capo Giuseppe
Ungaretti (che tra l'altro scrive una lingua sufficientemente infranciosata e
impropria). Il movimento della «Voce» non poteva creare artisti, ut sic, è
evidente; ma lottando per una nuova cultura, per un nuovo modo di vivere,
indirettamente promuoveva anche la formazione di temperamenti artistici
originali, poiché nella vita c'è anche l'arte. La «rivoluzione silenziosa» di
cui parla l'Angioletti è stata solo una serie di confabulazioni da caffè e di
mediocri articoli di giornale standardizzato e di rivistucole provinciali. La
macchietta del «sacerdote dell'arte» non è una grande novità anche se muta il
rituale.
Arte e cultura. Che si debba parlare, per
essere esatti, di lotta per una «nuova cultura» e non per una «nuova arte» (in
senso immediato) pare evidente. Forse non si può neanche dire, per essere
esatti, che si lotta per un nuovo contenuto dell'arte, perché questo non può
essere pensato astrattamente, separato dalla forma. Lottare per una nuova arte
significherebbe lottare per creare nuovi artisti individuali, ciò che è
assurdo, poiché non si possono creare artificiosamente gli artisti. Si deve
parlare di lotta per una nuova cultura, cioè per una nuova vita morale che non
può non essere intimamente legata a una nuova intuizione della vita, fino a che
essa diventi un nuovo modo di sentire e di vedere la realtà e quindi mondo
intimamente connaturato con gli «artisti possibili» e con le «opere d'arte
possibili». Che non si possa artificiosamente creare degli artisti individuali
non significa quindi che il nuovo mondo culturale, per cui si lotta, suscitando
passioni e calore di umanità, non susciti necessariamente «nuovi artisti»; non
si può, cioè, dire che Tizio e Caio diventeranno artisti, ma si può affermare
che dal movimento nasceranno nuovi artisti. Un nuovo gruppo sociale che entra
nella vita storica con atteggiamento egemonico, con una sicurezza di sé che
prima non aveva, non può non suscitare dal suo intimo personalità che prima non
avrebbero trovato una forza sufficiente per esprimersi compiutamente in un
certo senso.
Cosí non si può dire che si formerà una nuova «aura
poetica», secondo una frase che è stata di moda qualche anno fa. L'«aura
poetica» è solo una metafora per esprimere l'insieme degli artisti già
formatisi e rivelatisi o almeno il processo iniziato e già consolidato di
formazione e rivelazione.
Per una nuova letteratura (arte) attraverso
una nuova cultura. Cfr. nel volume di B. Croce, Nuovi saggi sulla
letteratura italiana del seicento (1931), il capitolo in cui parla delle
accademie gesuitiche di poesia e le ravvicina alle «scuole di poesia» create in
Russia (il Croce avrà preso lo spunto dal solito Fülöp-Miller). Ma perché non
le avvicina alle botteghe di pittura e di scultura del '400-500? Erano anche
quelle «accademie gesuitiche»? E perché ciò che si faceva per la pittura e la
scultura non potrebbe farsi per la poesia? Il Croce non tiene conto
dell'elemento sociale che «vuole avere» una propria poesia, elemento «senza
scuola», cioè che non si è impadronito della «tecnica» e dello stesso
linguaggio: in realtà si tratta di una «scuola» per adulti, che educa il gusto
e crea il sentimento «critico» in senso largo. Un pittore che «copia» un quadro
di Raffaello fa «accademia gesuitica»? Egli nel modo migliore «si cala»
nell'arte di Raffaello, cerca di ricrearsela, ecc. E perché non potrebbero
farsi esercizi di versificazione fra operai? Non servirà ciò a educare
l'orecchio alla musicalità del verso, ecc.?
[L'arte educatrice] «L'arte è educatrice in
quanto arte, ma non in quanto "arte educatrice", perché in tal caso è
nulla, e il nulla non può educare. Certo, sembra che tutti concordemente
desideriamo un'arte che somigli a quella del Risorgimento e non, per esempio, a
quella del periodo dannunziano; ma, in verità, se ben si consideri, in questo
desiderio non c'è il desiderio di un'arte a preferenza di un'altra, sí bene di
una realtà morale a preferenza di un'altra. Allo stesso modo chi desideri che
uno specchio rifletta una bella anziché una brutta persona, non si augura già
uno specchio che sia diverso da quello che ha innanzi, ma una persona diversa».
(Croce, Cultura e Vita morale, pp. 169-70; cap. Fede e programmi del
1911).
«Quando un'opera di poesia o un ciclo di opere
poetiche si è formato, è impossibile proseguire quel ciclo con lo studio e con
l'imitazione e con le variazioni intorno a quelle opere; per questa via si
ottiene solamente la cosiddetta scuola poetica, il servum pecus degli
epigoni. Poesia non genera poesia; la partenogenesi non ha luogo; si richiede
l'intervento dell'elemento maschile, di ciò che è reale, passionale, pratico,
morale. I piú alti critici di poesia ammoniscono, in questo caso, di non
ricorrere a ricette letterarie, ma, com'essi dicono, di "rifare
l'uomo". Rifatto l'uomo, rinfrescato lo spirito, sorta una nuova vita di
affetti, da essa sorgerà, se sorgerà, una nuova poesia». (B. Croce, Cultura
e Vita morale, pp. 241-42; capitolo Troppa filosofia del 1922).
Questa osservazione può essere propria del
materialismo storico. La letteratura non genera letteratura ecc., cioè le
ideologie non creano ideologie, le superstrutture non generano superstrutture
altro che come eredità di inerzia e di passività: esse sono generate, non per
«partenogenesi» ma per l'intervento dell'elemento «maschile» – la storia
–l'attività rivoluzionaria che crea il «nuovo uomo», cioè nuovi rapporti sociali.
Da ciò si deduce anche questo: che il vecchio
«uomo», per il cambiamento, diventa anch'esso «nuovo», poiché entra in nuovi
rapporti, essendo stati quelli primitivi capovolti. Donde il fatto che, prima
che il «nuovo uomo» creato positivamente abbia dato poesia, si possa assistere
al «canto del cigno» del vecchio uomo rinnovato negativamente: e spesso questo
canto del cigno è di mirabile splendore; il nuovo vi si unisce al vecchio, le
passioni vi si arroventano in modo incomparabile ecc. (Non è forse la Divina Commedia
un po' il canto del cigno medioevale, che pure anticipa i nuovi tempi e la
nuova storia?)
Criteri di critica letteraria. Il concetto
che l'arte è arte e non propaganda politica «voluta» e proposta, è poi, in se
stesso, un ostacolo alla formazione di determinate correnti culturali che siano
il riflesso del loro tempo e che contribuiscano a rafforzare determinate
correnti politiche? Non pare, anzi pare che tale concetto ponga il problema in
termini piú radicali e di una critica piú efficiente e conclusiva. Posto il
principio che nell'opera d'arte sia solamente da ricercare il carattere
artistico, non è per nulla esclusa la ricerca di quale massa di sentimenti, di
quale atteggiamento verso la vita circoli nell'opera d'arte stessa. Anzi che
ciò sia ammesso dalle moderne correnti estetiche si vede nel De Sanctis e nello
stesso Croce. Ciò che si esclude è che un'opera sia bella per il suo contenuto
morale e politico e non già per la sua forma in cui il contenuto astratto si è
fuso e immedesimato. Ancora si ricerca se un'opera d'arte non sia fallita
perché l'autore sia stato deviato da preoccupazioni pratiche esteriori, cioè
posticce e insincere. Questo pare il punto cruciale della polemica: Tizio
«vuole» esprimere artificiosamente un determinato contenuto e non fa opera
d'arte. Il fallimento artistico dell'opera d'arte data (poiché Tizio ha
dimostrato di essere artista in altre opere da lui realmente sentite e vissute)
dimostra che quel tale contenuto in Tizio è materia sorda e ribelle, che
l'entusiasmo di Tizio è fittizio e voluto esteriormente, che Tizio in realtà
non è, in quel determinato caso, artista, ma servo che vuol piacere ai padroni.
Ci sono dunque due serie di fatti: uno di carattere estetico, o di arte pura,
l'altro di politica culturale (cioè di politica senz'altro). Il fatto che si
giunge a negare il carattere artistico di un'opera può servire al critico
politico come tale per dimostrare che Tizio come artista non appartiene a quel
determinato mondo politico, e poiché la sua personalità è prevalentemente
artistica, che nella sua vita intima e piú sua, quel determinato mondo non
opera, non esiste: Tizio pertanto è un commediante della politica, vuol far
credere di essere ciò che non è ecc. ecc. Il critico politico dunque denuncia
Tizio, non come artista, ma come «opportunista politico». Che l'uomo politico
faccia una pressione perché l'arte del suo tempo esprima un determinato mondo
culturale è attività politica, non di critica artistica: se il mondo culturale
per il quale si lotta è un fatto vivente e necessario, la sua espansività sarà
irresistibile, esso troverà i suoi artisti. Ma se nonostante la pressione,
questa irresistibilità non si vede e non opera, significa che si trattava di un
mondo fittizio e posticcio, elucubrazione cartacea di mediocri che si lamentano
che gli uomini di maggior statura non siano d'accordo con loro. Lo stesso modo
di porre la quistione può essere un indizio della saldezza di un tal mondo
morale e culturale: e infatti il cosí detto «calligrafismo» non è che la difesa
di piccoli artisti che opportunisticamente affermano certi principii ma si
sentono incapaci di esprimerli artisticamente cioè nell'attività loro propria e
allora vaneggiano di pura forma che è il suo stesso contenuto ecc. ecc. Il
principio formale della distinzione delle categorie spirituali e della loro
unità di circolazione, pur nel suo astrattismo, permette di cogliere la realtà
effettuale e di criticare l'arbitrarietà e la pseudovita di chi non vuole
giocare a carte scoperte o è semplicemente un mediocre che è stato dal caso
posto a un luogo di comando.
Critica letteraria. Nel fascicolo del marzo
1933 dell'«Educazione Fascista» l'articolo polemico di Argo con Paul Nizan (Idee
d'oltre confine) a proposito della concezione di una nuova letteratura che
sorga da un integrale rinnovamento intellettuale e morale. Il Nizan pare ponga
bene il problema quando comincia dal definire che cosa è un integrale
rinnovamento delle premesse culturali e limita il campo della ricerca stessa.
L'unica obbiezione fondata di Argo è questa: l'impossibilità di saltare uno
stadio nazionale, autoctono della nuova letteratura e i pericoli
«cosmopolitici» della concezione del Nizan. Da questo punto di vista molte
critiche del Nizan a gruppi di intellettuali francesi sono da rivedere: «N. R.
F.», il «populismo» ecc., fino al gruppo del «Monde», non perché le critiche
non colpiscano giusto politicamente, ma appunto perché è impossibile che la
nuova letteratura non si manifesti «nazionalmente» in combinazioni e leghe
diverse, piú o meno ibride. È tutta la corrente che occorre esaminare e
studiare, obbiettivamente. D'altronde per il rapporto tra letteratura e
politica, occorre tener presente questo criterio: che il letterato deve avere
prospettive necessariamente meno precise e definite che l'uomo politico, deve
essere meno «settario» se cosí si può dire, ma in modo «contraddittorio». Per
l'uomo politico ogni immagine «fissata» a priori è reazionaria: il politico
considera tutto il movimento nel suo divenire. L'artista deve invece avere
immagini «fissate» e colate nella loro forma definitiva. Il politico immagina
l'uomo come è e nello stesso tempo come dovrebbe essere per raggiungere un
determinato fine; il suo lavoro consiste appunto nel condurre gli uomini a
muoversi, a uscire dal loro essere presente per diventare capaci
collettivamente di raggiungere il fine proposto, cioè a «conformarsi» al fine.
L'artista rappresenta necessariamente «ciò che è» in un certo momento di
personale, di non conformista ecc., realisticamente. Perciò dal punto di vista
politico, il politico non sarà mai contento dell'artista e non potrà esserlo:
lo troverà sempre in arretrato coi tempi, sempre anacronistico, sempre superato
dal movimento reale. Se la storia è un continuo processo di liberazione e di
autocoscienza, è evidente che ogni stadio, come storia, in questo caso come
cultura, sarà subito superato e non interesserà piú. Di ciò mi pare occorra
tener conto nel valutare i giudizi del Nizan sui diversi gruppi.
Ma da un punto di vista obiettivo, come ancora
oggi per certi strati della popolazione è «attuale» Voltaire, cosí possono
essere attuali, e anzi lo sono, questi gruppi letterari e le combinazioni che
essi rappresentano: obiettivo vuol dire, in questo caso, che lo sviluppo del
rinnovamento intellettuale e morale non è simultaneo in tutti gli strati
sociali, tutt'altro: ancora oggi, giova ripeterlo, molti sono tolemaici e non
copernicani. (Esistono molti «conformismi», molte lotte per nuovi conformismi,
e combinazioni diverse tra ciò che è, variamente atteggiato, e ciò chi si
lavora a far diventare, e sono molti che lavorano in questo senso). Porsi dal
punto di vista di una «sola» linea di movimento progressivo, per cui ogni
acquisizione nuova si accumula e diventa la premessa di nuove acquisizioni, è grave
errore: non solo le linee sono molteplici, ma si verificano anche dei passi
indietro nella linea «piú» progressiva. Inoltre il Nizan non sa porre la
quistione della cosí detta «letteratura popolare», cioè della fortuna che ha in
mezzo alle masse nazionali la letteratura da appendice (avventurosa,
poliziesca, gialla ecc.), fortuna che è aiutata dal cinematografo e dal
giornale. Eppure è questa quistione che rappresenta la parte maggiore del
problema di una nuova letteratura in quanto espressione di un rinnovamento
intellettuale e morale: perché solo dai lettori della letteratura d'appendice
si può selezionare il pubblico sufficiente e necessario per creare la base
culturale della nuova letteratura. Mi pare che il problema sia questo: come
creare un corpo di letterati che artisticamente stia alla letteratura
d'appendice come Dostojevskij stava a Sue e a Soulié o come Chesterton, nel
romanzo poliziesco, sta a Conan Doyle e a Wallace ecc. Bisogna a questo scopo
abbandonare molti pregiudizi, ma specialmente occorre pensare che non si può
avere il monopolio, non solo, ma che si ha di contro una formidabile
organizzazione d'interessi editoriali. Il pregiudizio piú comune è questo: che
la nuova letteratura debba identificarsi con una scuola artistica di origine intellettuale,
come fu per il futurismo. La premessa della nuova letteratura non può non
essere storico-politica, popolare: deve tendere a elaborare ciò che già esiste,
polemicamente o in altro modo non importa; ciò che importa è che essa affondi
le sue radici nell'humus della cultura popolare cosí come è, coi suoi gusti, le
sue tendenze ecc., col suo mondo morale e intellettuale sia pure arretrato e
convenzionale.
Ricerca delle tendenze e degli interessi morali
e intellettuali prevalenti tra i letterati. Per quali forme di attività
hanno «simpatia» i letterati italiani? Perché l'attività economica, il lavoro
come produzione individuale e di gruppo non li interessa? Se nelle opere d'arte
si tratta di argomento economico, è il momento della «direzione», del
«dominio», del «comando» di un «eroe» sui produttori che interessa. Oppure
interessa la generica produzione, il generico lavoro in quanto generico
elemento della vita e della potenza nazionale, e quindi motivo di volate
oratorie. La vita dei contadini occupa un maggior spazio nella letteratura, ma
anche qui non come lavoro e fatica, ma dei contadini come «folclore», come
pittoreschi rappresentanti di costumi e sentimenti curiosi e bizzarri: perciò
la «contadina» ha ancora piú spazio, coi suoi problemi sessuali nel loro
aspetto piú esterno e romantico e perché la donna con la sua bellezza può
facilmente salire ai ceti sociali superiori.
Il lavoro dell'impiegato è fonte inesausta di
comicità: in ogni impiegato si vede l'Oronzo E. Marginati del vecchio «Travaso».
Il lavoro dell'intellettuale occupa poco spazio, o è presentato nella sua
espressione di «eroismo» e di «superumanismo», con l'effetto comico che gli
scrittori mediocri rappresentano «genii» della loro propria taglia e, si sa, se
un uomo intelligente può fingersi sciocco, uno sciocco non può fingersi
intelligente.
Non si può certo imporre a una o a piú generazioni
di scrittori di aver «simpatia» per uno o altro aspetto della vita, ma che una
o piú generazioni di scrittori abbiano certi interessi intellettuali e morali e
non altri ha pure un significato, indica che un certo indirizzo culturale
predomina fra gli intellettuali. Anche il verismo italiano si distingue dalle
correnti realistiche degli altri paesi, in quanto o si limita a descrivere la
«bestialità» della cosí detta natura umana (un verismo in senso gretto) oppure
rivolge la sua attenzione alla vita provinciale e regionale, a ciò che era
l'Italia reale in contrasto con l'Italia «moderna» ufficiale: non offre
apprezzabili rappresentazioni del lavoro e della fatica. Per gli intellettuali
della tendenza verista la preoccupazione assillante non fu (come in Francia) di
stabilire un contatto con le masse popolari già «nazionalizzate» in senso
unitario, ma di dare gli elementi da cui appariva che l'Italia reale non era
ancora unificata: del resto c'è differenza tra il verismo degli scrittori
settentrionali e di quelli meridionali (per esempio Verga, nel quale il
sentimento unitario era molto forte, come appare dall'atteggiamento assunto nel
1920 verso il movimento autonomista di «Sicilia Nuova»).
Ma non basta che gli scrittori non ritengano degna
di epos l'attività produttiva che pure rappresenta tutta la vita degli elementi
attivi della popolazione: quando se ne occupano, il loro atteggiamento è quello
del Padre Bresciani.
(Sono da vedere gli scritti di Luigi Russo sul
Verga e su G. C. Abba). G. C. Abba può essere citato come esempio italiano di
scrittore «nazionale-popolare», pur non essendo «popolaresco» e non facendo
parte di nessuna corrente che critichi per ragioni di partito o settarie la
posizione della classe dirigente. Sono da analizzare non solo gli scritti
dell'Abba che hanno valore poetico, ma anche gli altri, come quello rivolto ai
soldati, che fu premiato dalle autorità governative e militari e per qualche
tempo fu diffuso nell'esercito. Nella stessa direzione è da ricordare il saggio
del Papini pubblicato in «Lacerba» dopo gli avvenimenti del giugno 1914. La
posizione di Alfredo Oriani è anche da rilevare, ma essa è troppo astratta e
oratoria, e deturpata dal suo titanismo di genio incompreso. Qualcosa è
notevole nell'opera di Piero Jahier (ricordare le simpatie dello Jahier per il
Proudhon), anche di carattere popolare-militare, mal condita però dallo stile
biblico e claudelliano dello scrittore, che spesso lo rende meno efficace e
indisponente, perché maschera una forma snobistica di retorica. (Tutta la
letteratura di Strapaese dovrebbe essere «nazionale-popolare» come programma,
ma lo è appunto per programma, ciò che la ha resa una manifestazione deteriore
della cultura: il Longanesi deve anche aver scritto un libriccino per le
reclute, ciò che dimostra come le scarse tendenze nazionali-popolari nascano
forse piú che altro da preoccupazioni militari). La preoccupazione
nazionale-popolare nell'impostazione del problema critico-estetico e
morale-culturale appare rilevante in Luigi Russo (del quale è da vedere il
volumetto su i Narratori) come risultato di un «ritorno» alle esperienze
del De Sanctis dopo il punto d'arrivo del crocianesimo.
È da osservare che il brescianesimo in fondo è
individualismo antistatale e antinazionale anche quando e quantunque si veli di
nazionalismo e statalismo frenetico. «Stato» significa specialmente direzione
consapevole delle grandi moltitudini nazionali; è quindi necessario un
«contatto» sentimentale e ideologico con tali moltitudini e, in una certa
misura, simpatia e comprensione dei loro bisogni e delle loro esigenze. Ora,
l'assenza di una letteratura nazionale-popolare, dovuta all'assenza di
preoccupazioni e di interesse per questi bisogni ed esigenze, ha lasciato il
«mercato» letterario aperto all'influsso di gruppi intellettuali di altri
paesi, che «popolari-nazionali» in patria, lo diventano in Italia perché le
esigenze e i bisogni che cercano soddisfare sono simili anche in Italia. Cosí
il popolo italiano si è appassionato, attraverso il romanzo storico-popolare
francese (e continua ad appassionarsi, come dimostrano anche i piú recenti
bollettini librari), alle tradizioni francesi, monarchiche e rivoluzionarie e
conosce la figura popolaresca di Enrico IV piú che quella di Garibaldi, la Rivoluzione del 1789
piú che il Risorgimento, le invettive di Victor Hugo contro Napoleone III piú
che le invettive dei patrioti italiani contro Metternich; si appassiona per un passato
non suo, si serve nel suo linguaggio e nel suo pensiero di metafore e di
riferimenti culturali francesi ecc., è culturalmente piú francese che italiano.
Per l'indirizzo nazionale-popolare dato dal De
Sanctis alla sua attività critica, è da vedere l'opera di Luigi Russo: Francesco
De Sanctis e la cultura napoletana, 1860-1885, Ed. La Nuova Italia, 1928 e
il saggio del De Sanctis La
Scienza e la Vita. Si può
forse dire che il De Sanctis abbia fortemente sentito il contrasto
«Riforma-Rinascimento», cioè appunto il contrasto tra Vita e Scienza che era
nella tradizione italiana come una debolezza della struttura nazionale-statale
e abbia cercato di reagire contro di esso. Ecco perché ad un certo punto si
stacca dall'idealismo speculativo e si avvicina al positivismo e al verismo
(simpatie per Zola, come il Russo per Verga e Di Giacomo). Come pare osservi il
Russo nel suo libro (cfr. la recensione di G. Marzot, nella «Nuova Italia» del
maggio 1932) «il segreto dell'efficacia di De Sanctis è tutto da cercare nella
sua spiritualità democratica, la quale lo fa sospettoso e nemico di ogni
movimento o pensiero che assuma carattere assolutistico e privilegiato [...]; e
nella tendenza e nel bisogno di concepire lo studio come momento di un'attività
piú vasta, sia spirituale che pratica, racchiusa nella formula di un suo famoso
discorso La Scienza
e la Vita».
L'antidemocrazia negli scrittori brescianeschi non
ha nessun significato politicamente rilevante e coerente; è la forma di
opposizione a ogni forma di movimento nazionale-popolare, determinato dallo
spirito economico-corporativo di casta, di origine medioevale e feudale.
Alfredo Oriani. Occorre studiarlo
come il rappresentante piú onesto e appassionato per la grandezza
nazionale-popolare italiana fra gli intellettuali italiani della vecchia
generazione. La sua posizione non è però critica-ricostruttiva, e quindi tutti
i motivi della sua sfortuna e dei suoi fallimenti. In realtà a chi si
richiamava l'Oriani? Non alle classi dominanti, da cui tuttavia si attendeva
riconoscimenti e onori, nonostante le sue diatribe corrosive. Non ai
repubblicani, cui tuttavia si apparenta la sua forma mentale recriminatoria. La Lotta politica sembra
il manifesto per un grande movimento democratico nazionale popolare, ma l'Oriani
è troppo imbevuto di filosofia idealistica, quale si venne foggiando nell'epoca
della Restaurazione, per saper parlare al popolo come capo e come eguale nello
stesso tempo, per far partecipare il popolo alla critica di se stesso e delle
sue debolezze senza tuttavia fargli perdere la fede nella propria forza e nel
proprio avvenire. La debolezza dell'Oriani è in questo carattere meramente
intellettuale delle sue critiche, che creano una nuova forma di dottrinarismo e
di astrattismo. Tuttavia vi è un movimento abbastanza sano di pensiero che si
dovrebbe approfondire. La fortuna di Oriani in questi ultimi tempi è piú
un'imbalsamazione funeraria che un'esaltazione di nuova vita del suo pensiero.
Il libro di don Chisciotte di E. Scarfoglio
(Alfredo Oriani). È un episodio della lotta per svecchiare la cultura italiana
e sprovincializzarla. In sé il libro è mediocre. Vale per il tempo e perché
forse è stato il primo tentativo del genere.
Dovendo scrivere su Oriani è da notare il brano
che gli dedica lo Scarfoglio (p. 227 dell'edizione Mondadori, 1925). Per lo
Scarfoglio (che scrive verso il 1884) l'Oriani è un debole, uno sconfitto, che
si consola atterrando tutto e tutti: «Il signor di Banzole ha la memoria
ammucchiata di letture frettolose e smozzicate, di teoriche male intese e mal
digerite, di fantasmi malamente e fiaccamente formati; di piú, l'instrumento
della lingua non gli sta troppo sicuramente nelle mani». È interessante una
citazione, forse dal libro Quartetto, in cui Oriani scrive: «Vinto ad
ogni battaglia ed insultato come tutti i vinti, non scesi mai né scenderò mai
alla scempiaggine della replica, alla bassezza del lamento: i vinti hanno
torto». Questo tratto mi pare fondamentale del carattere di Oriani, che era un
velleitario, sempre scontento di tutti perché nessuno riconosceva il suo genio
e che, in fondo, rinunziava a combattere per imporsi, cioè aveva egli stesso
una ben strana stima di sé. È uno pseudo-titano; e nonostante certe sue
innegabili doti, prevale in lui il «genio incompreso» di provincia che sogna la
gloria, la potenza, il trionfo, proprio come la signorina sogna il principe
azzurro.
Floriano Del Secolo, Contributo alla biografia
di Oriani. Con lettere inedite, nel «Pègaso» dell'ottobre 1930.
Appare l'Oriani nella cosí detta «tragedia» della
sua vita intellettuale di «genio» incompreso dal pubblico nazionale, di
apostolo senza seguaci ecc. Ma fu poi Oriani «incompreso», o si trattava di una
sfinge senza enigmi, di un vulcano che eruttava solo topolini? E adesso è
Oriani diventato «popolare», «maestro di vita», ecc.? Molto si pubblica su di
lui, ma l'edizione nazionale delle sue opere è comprata e letta? C'è da
dubitarne. Oriani e Sorel (in Francia). Ma Sorel è stato enormemente piú
attuale di Oriani. Perché Oriani non riuscí a formarsi una scuola, un gruppo di
discepoli, perché non organizzò una rivista? Voleva essere «riconosciuto» senza
sforzo da parte sua (oltre ai lamenti presso gli amici piú intimi). Mancava di
volontà, di attitudini pratiche, e voleva influire sulla vita politica e morale
della nazione. Ciò che lo rendeva antipatico a molti doveva essere appunto
questo giudizio istintivo che si trattava di un velleitario che voleva essere
pagato prima d'aver compiuto l'opera, che voleva esser riconosciuto «genio»,
«capo», «maestro», per un diritto divino da lui affermato perentoriamente.
Certo Oriani deve essere avvicinato al Crispi come psicologia e a tutto uno
strato di intellettuali italiani, che, in certi rappresentanti piú bassi, cade
nel ridicolo e nella farsa intellettuale.
Croce e la critica letteraria. L'estetica
di Croce sta diventando normativa, sta diventando una «rettorica»? Bisognerebbe
aver letto la sua Aesthetica in nuce (che è l'articolo sull'estetica
dell'ultima edizione dell'Encyclopedia Britannica). Un'affermazione di
essa dice che compito precipuo dell'estetica moderna ha da essere «la
restaurazione e difesa della classicità contro il romanticismo, del momento
sintetico e formale e teoretico, in cui è il proprio dell'arte, contro quello
affettivo, che l'arte ha per istituto di risolvere in sé». Questo brano mostra
quali siano le preoccupazioni «morali» del Croce, oltre che le sue
preoccupazioni estetiche, cioè le sue preoccupazioni «culturali» e quindi
«politiche». Si potrebbe domandare se l'estetica, come scienza, possa avere
altro compito oltre quello di elaborare una teoria dell'arte e della bellezza,
dell'espressione. Qui estetica significa «critica in atto» in «concreto», ma la
critica in atto non dovrebbe solo criticare, cioè fare la storia dell'arte in concreto,
delle «espressioni artistiche individuali»?
Criteri metodici. Sarebbe assurdo
pretendere che ogni anno o anche ogni dieci anni, la letteratura di un paese
produca un Promessi Sposi o un Sepolcri ecc. Appunto perciò
l'attività critica normale non può avere prevalentemente carattere «culturale»
ed essere una critica di «tendenze» a meno di diventare un continuo massacro.
E in questo caso, come scegliere l'opera da
massacrare, lo scrittore da dimostrare estraneo all'arte? Pare questo un
problema trascurabile e invece, a rifletterci dal punto di vista
dell'organizzazione moderna della vita culturale, è fondamentale. Una attività
critica che fosse permanentemente negativa, fatta di stroncature, di
dimostrazioni che si tratta di «non poesia» e non di «poesia», diventerebbe
stucchevole e rivoltante: la «scelta» sembrerebbe una caccia all'uomo, oppure
potrebbe essere ritenuta «casuale» e quindi irrilevante. Pare certo che
l'attività critica debba sempre avere un aspetto positivo, nel senso che debba
mettere in rilievo, nell'opera presa in esame, un valore positivo, che se non
può essere artistico, può essere culturale e allora non tanto varrà il singolo
libro – salvo casi eccezionali – quanto i gruppi di lavori messi in serie per
tendenza culturale. Sulla scelta: il criterio piú semplice, oltre l'intuizione
del critico e l'esame sistematico di tutta la letteratura, lavoro colossale e
quasi impossibile da farsi individualmente, pare quello della «fortuna
libraria», intesa in due sensi: «fortuna di lettori» e «fortuna presso gli
editori» che in certi paesi dove la vita intellettuale è controllata da organi
governativi, ha pure il suo significato perché indica quale indirizzo lo Stato
vorrebbe dare alla cultura nazionale. Partendo dai criteri della estetica crociana,
si presentano gli stessi problemi: poiché «frammenti» di poesia possono
trovarsi da per tutto, nell'«Amore Illustrato» come nell'opera di scienza
strettamente specializzata, il critico dovrebbe conoscere «tutto» per essere in
grado di rilevare la «perla» nel brago. In realtà ogni singolo critico sente di
appartenere a una organizzazione di cultura che opera come insieme; ciò che
sfugge a uno viene «scoperto» e segnalato da un altro ecc. Anche il dilagare
dei «premi letterari» non è che una manifestazione, piú o meno bene
organizzata, con maggiori o minori elementi di frode, di questo servizio di
«segnalazione» collettiva della critica letteraria militante.
È da notare che in certi periodi storici
l'attività pratica può assorbire le maggiori intelligenze creative di una
nazione: in un certo senso, in tali periodi, tutte le migliori forze umane
vengono concentrate nel lavoro strutturale e non ancora si può parlare di
superstrutture: secondo ciò che scrive il Cambon nella prefazione all'edizione
francese dell'autobiografia di Henri Ford, in America si è costruita una teoria
sociologica su questa base, per giustificare l'assenza, negli Stati Uniti, di
una fioritura culturale umanistica e artistica. In ogni caso questa teoria, per
avere almeno un'apparenza di giustificazione, deve essere in grado di mostrare
una vasta attività creatrice nel campo pratico, sebbene rimanga senza risposta
la quistione: se questa attività «poetico-creativa» esiste ed è vitale,
esaltando tutte le forze vitali, le energie, le volontà, gli entusiasmi
dell'uomo, come non esalta l'energia letteraria e non crea un'epica? Se ciò non
avviene, nasce il legittimo dubbio che si tratti di energie «burocratiche», di
forze non espansive universalmente, ma repressive e brutali: si può pensare che
i costruttori delle Piramidi, schiavi trattati con la frusta, concepissero
liricamente il loro lavoro? Ciò che è da rilevare è che le forze che dirigono
questa grandiosa attività pratica, non sono repressive solo nei confronti del
lavoro strumentale, ciò che può capirsi, ma sono repressive universalmente, ciò
che appunto è tipico e fa sí che una certa energia letteraria, come in America,
si manifesti nei refrattari all'organizzazione dell'attività pratica che si
vorrebbe gabellare come «epica» in se stessa. Tuttavia la situazione è peggiore
dove alla nullità artistica non corrisponde neanche un'attività
pratico-strutturale di una certa grandiosità e si giustifica la nullità
artistica con un'attività pratica che si «verificherà» e a sua volta produrrà
un'attività artistica.
In realtà ogni forza innovatrice è repressiva nei
confronti dei propri avversari, ma in quanto scatena forze latenti, le
potenzia, le esalta, è espansiva e l'espansività è di gran lunga il suo
carattere distintivo. Le restaurazioni, con qualsiasi nome si presentino, e in
special modo le restaurazioni che avvengono nell'epoca attuale, sono
universalmente repressive: il «padre Bresciani», la letteratura brescianesca
diventa predominante. La psicologia che ha preceduto una tale manifestazione
intellettuale è quella creata dal panico, da una paura cosmica di forze
demoniache che non si comprendono e non si possono quindi controllare altro che
con una universale costruzione repressiva. Il ricordo di questo panico (della
sua fase acuta) perdura a lungo e dirige la volontà e i sentimenti: la libertà
e la spontaneità creatrice spariscono e rimane l'astio, lo spirito di vendetta,
l'accecamento balordo ammantati dalla mellifluità gesuitica. Tutto diventa
pratico (nel senso deteriore), tutto è propaganda, polemica, negazione
implicita, in forma meschina, angusta, spesso ignobile e rivoltante come nell'Ebreo
di Verona.
Quistione della gioventú letteraria di una
generazione. Certo, nel giudicare uno scrittore, di cui si esamina il primo
libro, occorrerà tener conto dell'«età», perché il giudizio sarà sempre anche
di cultura: un frutto acerbo di un giovane può essere apprezzato come una
promessa e ottenere un incoraggiamento. Ma i bozzacchioni non sono promesse,
anche se paiono aver lo stesso gusto dei frutti acerbi.
Criteri. Essere un'epoca. Nella «Nuova
Antologia» del 16 ottobre 1928 Arturo Calza scrive: «Bisogna cioè riconoscere
che – dal 1914 in
qua – la letteratura ha perduto non solo il pubblico che le forniva gli
alimenti (!), ma anche quello che le forniva gli argomenti. Voglio dire che in
questa [nostra] società europea, la quale traversa ora uno di quei momenti piú
acuti e piú turbinosi di crisi morale e spirituale che preparano (!) le grandi
rinnovazioni, il filosofo, e dunque anche, necessariamente, il poeta, il
romanziere e il drammaturgo, vedono intorno a sé piuttosto una società "in
divenire" che una società assestata e assodata in uno schema definitivo
(!) di vita morale e intellettuale; piuttosto vaghe e sempre mutevoli parvenze
di costumi e di vita che non vita e costumi saldamente stabiliti e organizzati;
piuttosto semi e germogli, che non fiori sbocciati e frutti maturati. Ond'è che
– come scriveva in questi giorni egregiamente il Direttore della
"Tribuna" (Roberto Forges Davanzati), e hanno ripetuto poi e anzi
"intensificato" altri giornali – "noi viviamo nella maggiore
assurdità artistica fra tutti gli stili e tutti i tentativi, senza piú
capacità di essere un'epoca"». Quante parole inutili tra il Calza e il
Forges Davanzati. Forse che solo oggi c'è stata una crisi storica? E non è anzi
vero che proprio nei periodi di crisi storica, le passioni e gli interessi e i
sentimenti si arroventano e si ha in letteratura il «romanticismo»? Gli
argomenti dei due scrittori zoppicano e si rivoltano contro gli argomentatori:
come mai il Forges Davanzati non si accorge che il non aver capacità di essere
un'epoca non può limitarsi all'arte ma investe tutta la vita? L'assenza di un
ordine artistico (nel senso in cui può intendersi l'espressione) è coordinata
all'assenza di ordine morale e intellettuale, cioè all'assenza di sviluppo
storico organico. La società gira su se stessa, come un cane che vuol prendersi
la coda, ma questa parvenza di movimento non è svolgimento.
[L'espressione linguistica della parola scritta
e parlata e le altre arti.] Il De Sanctis in qualche parte scrive che egli,
prima di scrivere un saggio o fare una lezione su un canto di Dante, per
esempio, leggeva parecchie volte ad alta voce il canto, lo studiava a memoria
ecc. ecc. Ciò si ricorda per sostenere l'osservazione che l'elemento artistico
di un'opera non può essere, eccettuate rare occasioni (e si vedrà quali),
gustato a prima lettura, spesso neppure dai grandi specialisti come era il De
Sanctis. La prima lettura dà solo la possibilità di introdursi nel mondo
culturale e sentimentale dello scrittore, e neanche questo è sempre vero,
specialmente per gli scrittori non contemporanei, il cui mondo culturale e
sentimentale è diverso dall'attuale: una poesia di un cannibale sulla gioia di
un lauto banchetto di carne umana, può essere concepita come bella, e domandare
per essere artisticamente gustata, senza pregiudizi «extraestetici», un certo
distacco psicologico dalla cultura odierna. Ma l'opera d'arte contiene anche
altri elementi «storicistici» oltre al determinato mondo culturale e
sentimentale, ed è il linguaggio, inteso non solo come espressione puramente
verbale, quale può essere fotografato in un certo tempo e luogo dalla
grammatica, ma come un insieme di immagini e modi di esprimersi che non
rientrano nella grammatica. Questi elementi appaiono piú chiaramente nelle
altre arti. La lingua giapponese appare subito diversa dalla lingua italiana,
non cosí il linguaggio della pittura, della musica e delle arti figurative in
genere: eppure esistono anche queste differenze di linguaggio ed esse sono
tanto piú appariscenti quanto piú dalle manifestazioni artistiche degli artisti
si scende alle manifestazioni artistiche del folklore in cui il linguaggio di
queste arti è ridotto all'elemento piú autoctono e primordiale (ricordare
l'aneddoto del disegnatore che fa il profilo di un negro e gli altri negri
scherniscono il ritrattato perché il pittore gli ha riprodotto «solo mezza
faccia»). Esiste però, dal punto di vista culturale e storico, una grande
differenza tra l'espressione linguistica della parola scritta e parlata e le
espressioni linguistiche delle altre arti. Il linguaggio «letterario» è
strettamente legato alla vita delle moltitudini nazionali e si sviluppa
lentamente e solo molecolarmente; se si può dire che ogni gruppo sociale ha una
sua «lingua», tuttavia occorre notare (salvo rare eccezioni) che tra la lingua
popolare e quella delle classi colte c'è una continua aderenza e un continuo
scambio. Ciò non avviene per i linguaggi delle altre arti, per i quali, si può
notare che attualmente si verificano due ordini di fenomeni: 1) in essi sono
sempre vivi, per lo meno in quantità enormemente maggiore che per la lingua
letteraria, gli elementi espressivi del passato, si può dire di tutto il
passato; 2) in essi si forma rapidamente una lingua cosmopolita che assorbe gli
elementi tecnico-espressivi di tutte le nazioni che volta per volta producono
grandi pittori, scrittori, musicisti, ecc. Wagner ha dato alla musica elementi
linguistici che tutta la letteratura tedesca non ha dato in tutta la sua
storia, ecc. Ciò avviene perché il popolo partecipa scarsamente alla produzione
di questi linguaggi, che sono propri di una élite internazionale ecc., mentre
può abbastanza rapidamente (e come collettività, non come singoli) giungere
alla loro comprensione. Tutto ciò per indicare che realmente il «gusto»
puramente estetico, se può chiamarsi primario come forma e attività dello
spirito, non è tale praticamente, in senso cronologico, cioè.
È stato detto da taluno (per esempio da
Prezzolini, nel volumetto Mi pare...) che il teatro non può dirsi
un'arte ma uno svago di carattere meccanicistico. Ciò perché gli spettatori non
possono gustare esteticamente il dramma rappresentato, ma si interessano solo
all'intrigo ecc. (o qualcosa di simile). L'osservazione è falsa nel senso che,
nella rappresentazione teatrale, l'elemento artistico non è dato solo dal
dramma nel senso letterario, il creatore non è solo lo scrittore: l'autore
interviene nella rappresentazione teatrale con le parole e con le didascalie
che limitano l'arbitrio dell'attore e del régisseur, ma realmente nella
rappresentazione l'elemento letterario diventa occasione a nuove creazioni
artistiche, che da complementari e critico-interpretative stanno diventando
sempre piú importanti: l'interpretazione dell'autore singolo e il complesso
scenico creato dal régisseur. È giusto però che solo la lettura ripetuta può
far gustare il dramma cosí come l'autore l'ha prodotto. La conclusione è
questa: un'opera d'arte è tanto piú «artisticamente» popolare quanto piú il suo
contenuto morale, culturale, sentimentale è aderente alla moralità, alla
cultura, ai sentimenti nazionali, e non intesi come qualcosa di statico, ma
come un'attività in continuo sviluppo. L'immediata presa di contatto tra
lettore e scrittore avviene quando nel lettore l'unità di contenuto e forma ha
la premessa di unità del mondo poetico e sentimentale: altrimenti il lettore
deve incominciare a tradurre la «lingua» del contenuto nella sua propria
lingua: si può dire che si forma la situazione come di uno che ha imparato
l'inglese in un corso accelerato Berlitz e poi legge Shakespeare; la fatica
della comprensione letterale, ottenuta con il continuo sussidio di un mediocre
dizionario, riduce la lettura a un esercizio scolastico pedantesco e nulla piú.
Neolalismo. Il neolalismo come
manifestazione patologica del linguaggio (vocabolario) individuale. Ma non si
può impiegare il termine in senso piú generale, per indicare tutta una serie di
manifestazioni culturali, artistiche, intellettuali? Cosa sono tutte le scuole
e scolette artistiche e letterarie se non manifestazioni di neolalismo
culturale? Nei periodi di crisi si hanno le manifestazioni piú estese e
molteplici di neolalismo. La lingua e i linguaggi. Ogni espressione culturale
ha una sua lingua storicamente determinata, ogni attività morale e
intellettuale: questa lingua è ciò che si chiama anche «tecnica» e anche
«struttura». Se un letterato si mettesse a scrivere in un linguaggio personalmente
arbitrario (cioè diventasse un «neolalico» nel senso patologico della parola) e
fosse imitato da altri (ognuno con linguaggio arbitrario) si parlerebbe di
Babele. La stessa impressione non si prova per il linguaggio (tecnica)
musicale, pittorico, plastico ecc. (Questo punto è da meditare e approfondire).
Dal punto di vista della storia della cultura, e quindi anche della «creazione»
culturale (da non confondersi con la creazione artistica, ma da avvicinare
invece alle attività politiche, e infatti in questo senso si può parlare di una
«politica culturale») tra l'arte letteraria e le altre forme di espressione
artistica (figurative, musicali, orchestriche ecc.) esiste una differenza che
bisognerebbe definire e precisare in modo teoricamente giustificato e
comprensibile. L'espressione «verbale» ha un carattere strettamente
nazionale-popolare-culturale: una poesia di Goethe, nell'originale, può essere
capita e rivissuta compiutamente solo da un tedesco (o da chi si è
«intedescato»). Dante può essere capito e rivissuto solo da un italiano colto
ecc. Una statua di Michelangelo, un brano musicale di Verdi, un balletto russo,
un quadro di Raffaello ecc., possono invece essere capiti quasi immediatamente
da qualsiasi cittadino del mondo, anche di spiriti non cosmopolitici, anche se
non ha superato l'angusta cerchia di una provincia del suo paese. Tuttavia la
cosa non è cosí semplice come potrebbe credersi tenendosi alla buccia.
L'emozione artistica che un giapponese o un lappone prova dinanzi a una statua
di Michelangelo o ascoltando una melodia di Verdi è certo un'emozione artistica
(lo stesso giapponese o lappone resterebbe insensibile e sordo se ascoltasse la
declamazione di una poesia di Dante, di Goethe, di Shelley o ammirerebbe l'arte
del declamatore come tale); tuttavia l'emozione artistica del giapponese o del
lappone non sarà della stessa intensità e colore dell'emozione di un italiano
medio e tanto meno di un italiano colto. Ciò che significa che accanto o meglio
al di sotto dell'espressione di carattere cosmopolitico del linguaggio
musicale, pittorico ecc., c'è una piú profonda sostanza culturale, piú
ristretta, piú «nazionale-popolare». Non basta: i gradi di questo linguaggio
sono diversi; c'è un grado nazionale-popolare (e spesso prima di questo un grado
provinciale-dialettale-folcloristico), poi il grado di una determinata
«civiltà», che può determinarsi empiricamente dalla tradizione religiosa (per
esempio cristiana, ma distinta in cattolica, protestante, ortodossa ecc.) e
anche, nel mondo moderno, di una determinata «corrente culturale-politica».
Durante la guerra, per esempio, un oratore inglese, francese, russo, poteva
parlare a un pubblico italiano, nella sua lingua incompresa, delle devastazioni
compiute dai tedeschi nel Belgio; se il pubblico simpatizzava con l'oratore, il
pubblico ascoltava attentamente e «seguiva» l'oratore, si può dire che lo
«comprendeva». È vero che nell'oratoria non è solo elemento la «parola»: c'è il
gesto, il tono della voce ecc., cioè un elemento musicale che comunica il leitmotiv
del sentimento predominante, della passione principale e l'elemento
orchestrico: il gesto in senso largo che scandisce e articola l'onda
sentimentale e passionale.
Per stabilire una politica di cultura queste
osservazioni sono indispensabili; per una politica di cultura delle masse
popolari esse sono fondamentali. Ecco la ragione del «successo» internazionale
del cinematografo modernamente e, prima, del melodramma e della musica in
generale.
Sincerità (o spontaneità) e
disciplina. La sincerità (o spontaneità) è sempre un pregio e un valore? È
un pregio e un valore se disciplinata. Sincerità (e spontaneità) significa
massimo di individualismo, ma anche nel senso di idiosincrasia (originalità in
questo caso è uguale a idiotismo). L'individuo è originale storicamente quando
dà il massimo di risalto e di vita alla «socialità», senza cui egli sarebbe un
«idiota» (nel senso etimologico, che però non si allontana dal senso volgare e
comune). C'è dell'originalità, della personalità, della sincerità un significato
romantico, e questo significato è giustificato storicamente in quanto nacque in
opposizione con un certo conformismo essenzialmente «gesuitico»: cioè un
conformismo artificioso, fittizio, creato superficialmente per gli interessi di
un piccolo gruppo o cricca, non di una avanguardia. C'è un conformismo
«razionale» cioè rispondente alla necessità, al minimo sforzo per ottenere un
risultato utile e la disciplina di tale conformismo è da esaltare e promuovere,
è da fare diventare «spontaneità» o «sincerità». Conformismo significa poi
niente altro che «socialità», ma piace impiegare la parola «conformismo»
appunto per urtare gli imbecilli. Ciò non toglie la possibilità di formarsi una
personalità e di essere originali, ma rende piú difficile la cosa. È troppo
facile essere originali facendo il contrario di ciò che fanno tutti; è una cosa
meccanica. È troppo facile parlare diversamente dagli altri, essere neolalici,
il difficile è distinguersi dagli altri senza perciò fare delle acrobazie.
Avviene proprio oggi che si cerca una originalità e personalità a poco prezzo.
Le carceri e i manicomi sono pieni di uomini originali e di forte personalità.
Battere l'accento sulla disciplina, sulla socialità, e tuttavia pretendere
sincerità, spontaneità, originalità, personalità: ecco ciò che è veramente
difficile e arduo. Né si può dire che il conformismo è troppo facile e riduce
il mondo a un convento. Intanto: qual è il «vero conformismo», cioè qual è la
condotta «razionale» piú utile, piú libera in quanto ubbidisce alla
«necessità»? Cioè quale è la «necessità»? Ognuno è portato a far di sé
l'archetipo della «moda», della «socialità» e a porsi come «esemplare».
Pertanto la socialità, il conformismo, è il risultato di una lotta culturale (e
non solo culturale), è un dato «oggettivo» o universale, cosí come non può non
essere oggettiva e universale la «necessità» su cui si innalza l'edificio della
libertà. Libertà e arbitrio, ecc.
Nella letteratura (arte) contro la sincerità e
spontaneità si trova il meccanismo o calcolo, che può essere un falso
conformismo, una falsa socialità, cioè l'adagiarsi nelle idee fatte e
abitudinarie. Ricordare l'esempio classico di Nino Berrini che «scheda» il
passato e cerca l'originalità nel fare ciò che non appare nelle schede.
Principii del Berrini per il teatro: 1) lunghezza del lavoro: fissare la media
della lunghezza, stabilendola su quei lavori che hanno avuto successo; 2)
studio dei finali. Quali finali hanno avuto successo e strappato l'applauso? 3)
studio delle combinazioni: per esempio nel dramma sessuale borghese, marito,
moglie, amante, vedere quali combinazioni [sono] piú sfruttate, e per
esclusione «inventare» nuove combinazioni, meccanicamente trovate. Cosí il
Berrini aveva trovato che un dramma non deve avere piú di 50.000 parole, cioè
non deve durare piú di un tanto tempo. Ogni atto o ogni scena principale deve
culminare in un modo dato e questo modo è studiato sperimentalmente, secondo
una media di quei sentimenti e di quegli stimoli che tradizionalmente hanno
avuto successo, ecc. Con questi criteri è certo che non si possono avere
catastrofi commerciali. Ma è questo «conformismo», o «socialità», nel senso
detto? Certo no. È un adagiarsi nel già esistente.
La disciplina è anche uno studio del passato, in
quanto il passato è elemento del presente e del futuro, ma non elemento
«ozioso», ma necessario, in quanto è linguaggio, cioè elemento di «uniformità»
necessaria, non di uniformità «oziosa», impigrita.
[Letteratura «funzionale».] Cosa
corrisponde in letteratura al «razionalismo» architettonico? Certamente la
letteratura «secondo un piano», cioè là letteratura «funzionale», secondo un
indirizzo sociale prestabilito. È strano che in architettura il razionalismo
sia acclamato e giustificato e non nelle altre arti. Ci deve essere un
equivoco. Forse che l'architettura sola ha scopi pratici? Certo apparentemente
cosí pare, perché l'architettura costruisce le case d'abitazione, ma non si
tratta di questo: si tratta di «necessità». Si dirà che le case sono piú
necessarie che non le altre arti e si vuol dire solo che le case sono
necessarie per tutti, mentre le altre arti sono necessarie solo per gli
intellettuali, per gli uomini di coltura. Si dovrebbe concludere che proprio i
«pratici» si propongono di rendere necessarie tutte le arti per tutti gli
uomini, di rendere tutti «artisti». Ancora. La coercizione sociale! Quanto si
blatera contro questa coercizione. Non si pensa che essa è una parola! La
coercizione, l'indirizzo, il piano, sono semplicemente un terreno di selezione
degli artisti, nulla piú: e da scegliere per scopi pratici, cioè in un campo in
cui la volontà e la coercizione sono perfettamente giustificate. Sarebbe da
vedere se la coercizione non è sempre esistita! Perché è esercitata
inconsciamente dall'ambiente e dai singoli e non da un potere centrale o da una
forza centralizzata non sarebbe forse coercizione? Si tratta in fondo sempre di
«razionalismo» contro l'arbitrio individuale. Allora la quistione non verte
sulla coercizione, ma sul fatto se si tratta di razionalismo autentico, di
reale funzionalità, o di atto d'arbitrio, ecco tutto. La coercizione è tale
solo per chi non l'accetta, non per chi l'accetta: se la coercizione si
sviluppa secondo lo sviluppo delle forze sociali non è coercizione, ma
«rivelazione» di verità culturale ottenuta con un metodo accelerato. Si può
dire della coercizione ciò che i religiosi dicono della determinazione divina:
per i «volenti» essa non è determinazione, ma libera volontà. In realtà la
coercizione in parola è combattuta perché si tratta di una lotta contro gli
intellettuali e contro certi intellettuali, quelli tradizionali e
tradizionalisti, i quali, tutto al piú, ammettono che le novità si facciano
strada a poco a poco, gradualmente. È curioso che in architettura si
contrappone il razionalismo al «decorativismo», e questo viene chiamato «arte
industriale». È curioso, ma giusto. Infatti dovrebbe chiamarsi sempre
industriale qualsiasi manifestazione artistica che è diretta a soddisfare i
gusti di singoli compratori ricchi, ad «abbellire» la loro vita, come si dice.
Quando l'arte, specialmente nelle sue forme collettive, è diretta a creare un
gusto di massa, ad elevare questo gusto, non è «industriale», ma
disinteressata, cioè arte. Mi pare che il concetto di razionalismo in
architettura, cioè di «funzionalismo», sia molto fecondo di conseguenze di
principi di politica culturale; non è casuale che esso sia nato proprio in
questi tempi di «socializzazioni» (in senso vasto) e di interventi di forze
centrali per organizzare le grandi masse contro i residui di individualismo e
di estetiche dell'individualismo nella politica culturale.
[Il razionalismo nell'architettura.]
Quistioni di nomi. È evidente che in architettura «razionalismo» significa
semplicemente «moderno»: è anche evidente che «razionale» non è altro che un
modo di esprimere il bello secondo il gusto di un certo tempo. Che ciò sia
avvenuto nell'architettura prima che in altre arti si capisce, perché
l'architettura è «collettiva» non solo come «impiego», ma come «giudizio». Si
potrebbe dire che il «razionalismo» è sempre esistito, cioè che si è sempre
cercato di raggiungere un certo fine secondo un certo gusto e secondo le
conoscenze tecniche della resistenza e dell'adattabilità del «materiale».
Di quanto e del come il «razionalismo»
dell'architettura possa diffondersi nelle altre arti è quistione difficile e
che sarà risolta dalla «critica dei fatti» (ciò che non vuol dire che sia
inutile la critica intellettuale ed estetica che prepara quella dei fatti).
Certo è che l'architettura pare di per sé, e per le sue connessioni immediate
col resto della vita, la piú riformabile e «discutibile» delle arti. Un quadro
o un libro o una statuina, può tenersi in luogo «personale» per il gusto
personale; non cosí una costruzione architettonica. È anche da ricordare
indirettamente (per ciò che vale in questo caso) l'osservazione del Tilgher che
l'opera d'architettura non può essere messa alla stregua delle altre opere
d'arte per il «costo», l'ingombro, ecc... Distruggere un'opera costruttiva, cioè
fare e rifare, tentando e riprovando, non si adatta molto all'architettura.
È giusto che lo studio della funzione non è
sufficiente, pur essendo necessario, per creare la bellezza: intanto sulla
stessa «funzione» nascono discordie, cioè anche l'idea e il fatto di funzione è
individuale o dà luogo a interpretazioni individuali. Non è poi detto che la
«decorazione» non sia «funzionale» e si intende «decorazione» in senso largo,
per tutto ciò che non è strettamente «funzionale» come la matematica. Intanto la
«razionalità» porta alla «semplificazione», ciò che è già molto. (Lotta contro
il secentismo estetico che appunto è caratterizzato dal prevalere dell'elemento
esternamente decorativo su quello «funzionale» sia pure in senso largo, cioè di
funzione in cui sia compresa la «funzione estetica»). È molto che si sia giunti
ad ammettere che l'«architettura è l'interpretazione di ciò che è pratico».
Forse questo potrebbe dirsi di tutte le arti che sono una «determinata
interpretazione di ciò che è pratico», dato che all'espressione «pratico» si
tolga ogni significato «deteriore, giudaico» (o piattamente borghese: è da
notare che «borghese» in molti linguaggi significa solo «piatto, mediocre,
interessato», cioè ha assunto il significato che una volta aveva l'espressione
«giudaico»: tuttavia questi problemi di linguaggio hanno importanza, perché
linguaggio = pensiero, modo di parlare indica modo di pensare e di sentire non
solo ma anche di esprimersi, cioè di far capire e sentire). Certo per le altre
arti le quistioni di «razionalismo» non si pongono nello stesso modo che per
l'architettura, tuttavia il «modello» dell'architettura è utile, dato che a
priori si deve ammettere che il bello è sempre tale e presenta gli stessi
problemi, qualunque sia l'espressione formale particolare di esso. Si potrebbe
dire che si tratta di «tecnica», ma tecnica non è che espressione e il problema
rientra nel suo circolo iniziale con diverse parole.
L'architettura nuova. Speciale carattere
obbiettivo dell'architettura. Realmente l'«opera d'arte» è il «progetto»
(l'insieme dei disegni e dei piani e dei calcoli, coi quali persone diverse
dall'architetto «artista-progettista» possono realizzare l'edifizio, ecc.): un
architetto può essere giudicato grande artista dai suoi piani, anche senza aver
edificato materialmente nulla. Il progetto sta all'edifizio materiale come il
«manoscritto» sta al libro stampato: l'edifizio è l'estrinsecazione sociale
dell'arte, la sua «diffusione», la possibilità data al pubblico di partecipare
alla bellezza (quando è tale), cosí come il libro stampato.
Cade l'obbiezione del Tilgher al Croce a proposito
della «memoria» come causa dell'estrinsecazione artistica: l'architetto non ha
bisogno dell'edifizio per «ricordare» ma del progetto. Ciò sia detto anche solo
considerando la «memoria» crociana come approssimazione relativa nel problema
del perché il pittore dipinge, lo scrittore scrive ecc. e non si accontenta di
costruire fantasmi per solo suo uso e consumo: e tenendo conto che ogni
progetto architettonico ha un carattere di «approssimazione» maggiore che il
manoscritto, la pittura ecc. Anche lo scrittore introduce innovazioni per ogni
edizione del libro (o corregge le bozze modificando ecc., cfr. Manzoni):
nell'architettura la quistione è piú complessa, perché l'edifizio è compiuto
mai in sé completamente, ma deve avere degli adattamenti anche in rapporto al
«panorama» in cui viene inserito ecc. (e non si possono fare di esso delle
seconde edizioni cosí facilmente come di un libro ecc.). Ma il punto piú
importante da osservare oggi è questo: che in una civiltà a rapido sviluppo, in
cui il «panorama» urbano deve essere molto «elastico», non può nascere una
grande arte architettonica, perché è piú difficile pensare edifizi fatti per
l'«eternità». In America si calcola che un grattacielo debba durare non piú di
25 anni, perché si suppone che in 25 anni l'intera città «possa» mutare
fisionomia, ecc. ecc. Secondo me, una grande arte architettonica può nascere
solo dopo una fase transitoria di carattere «pratico», in cui cioè si cerchi
solo di raggiungere la massima soddisfazione ai bisogni elementari del popolo
col massimo di convenienze: ciò inteso in senso largo, non cioè solo per quanto
riguarda il singolo edifizio, la singola abitazione o il singolo luogo di
riunione per grandi masse, ma in quanto riguarda un complesso architettonico,
con strade, piazze, giardini, parchi, ecc.
Adriano Tilgher, Perché l'artista scrive o
dipinge, o scolpisce, ecc.?, nell'«Italia che scrive» del febbraio 1929.
Articolo tipico della incongruenza logica e della
leggerezza morale del Tilgher, il quale dopo aver «sfottuto» banalmente la
teoria del Croce in proposito, alla fine dell'articolo la ripresenta tale e
quale come sua, in una forma fantasiosa e immaginifica. Dice il Tilgher che secondo
il Croce «l'estrinsecazione fisica [...] del fantasma artistico ha scopo
essenzialmente mnemonico», ecc. Questo argomento è da vedere: cosa significa
per il Croce in questo caso «memoria»? Ha un valore puramente personale,
individuale, o anche di gruppo? Lo scrittore si preoccupa solo di sé o
storicamente è portato a pensare anche agli altri? ecc.
Alcuni criteri di giudizio «letterario».
Un lavoro può essere pregevole: 1) perché espone una nuova scoperta che fa
progredire una determinata attività scientifica. Ma non solo l'«originalità»
assoluta è un pregio. Può infatti avvenire: 2) che fatti ed argomenti già noti
siano stati scelti e disposti secondo un ordine, una connessione, un criterio
piú adeguato e probante di quelli precedenti. La struttura (l'economia,
l'ordine) di un lavoro scientifico può essere «originale» essa stessa. 3) I
fatti e gli argomenti già noti possono aver dato luogo a considerazioni
«nuove», subordinate, ma tuttavia importanti.
Il giudizio «letterario» deve, evidentemente, tener
conto dei fini che un lavoro si è proposto: di creazione e riorganizzazione
scientifica, di divulgazione dei fatti ed argomenti noti in un determinato
gruppo culturale, di un determinato livello intellettuale e culturale ecc.
Esiste perciò una tecnica della divulgazione che occorre adattare volta per
volta e rielaborare: la divulgazione è un atto eminentemente pratico, in cui
occorre esaminare la conformità dei mezzi al fine, cioè appunto la tecnica
adoperata. Ma anche l'esame e il giudizio del fatto e dell'argomentazione
«originale», ossia dell'«originalità» dei fatti (concetti - nessi di pensiero)
e degli argomenti sono molto difficili e complessi e richiedono le piú ampie
cognizioni storiche. È da vedere nel capitolo dal Croce dedicato al Loria questo
criterio: «Altro è metter fuori una osservazione incidentale, che si lascia poi
cadere senza svolgerla, ed altro stabilire un principio di cui si sono scorte
le feconde conseguenze; altro enunciare un pensiero generico ed astratto ed
altro pensarlo realmente e in concreto; altro, finalmente, inventare, ed altro
ripetere di seconda o di terza mano». Si presentano i casi estremi: di chi
trova che non c'è mai stato nulla di nuovo sotto il sole e che tutto il mondo è
paese, anche nella sfera delle idee e di chi invece trova «originalità» a tutto
spiano e pretende sia originale ogni rimasticatura per via della nuova saliva.
Il fondamento di ogni attività critica pertanto deve basarsi sulla capacità di
scoprire la distinzione e le differenze al di sotto di ogni superficiale e
apparente uniformità e somiglianza, e l'unità essenziale al disotto di ogni
apparente contrasto e differenziazione alla superficie. (Che occorra, nel
giudicare un lavoro, tener conto del fine che l'autore si propone
esplicitamente, non significa certo perciò che debba essere sottaciuto o
misconosciuto o svalutato un qualsiasi apporto reale dell'autore, anche se in
opposizione al fine proposto. Che Cristoforo Colombo si proponesse di andare «a
la busca del Gran Khan», non sminuisce il valore del suo viaggio reale e delle
sue reali scoperte per la civiltà europea).
Criteri metodologici. Nell'esaminare
criticamente una «dissertazione» può essere quistione: 1) di valutare se
l'autore dato ha saputo con rigore e coerenza dedurre tutte le conseguenze
dalle premesse che ha assunto come punto di partenza (o di vista): può darsi
che manchi il rigore, che manchi la coerenza, che ci siano omissioni
tendenziose, che manchi la «fantasia» scientifica (che cioè non si sappia
vedere tutta la fecondità del principio assunto ecc.); 2) di valutare i punti
di partenza (o di vista), le premesse, che possono essere negate in tronco, o
limitate, o dimostrate non piú valide storicamente; 3) di ricercare se le
premesse sono omogenee tra loro, o se, per incapacità o insufficienza
dell'autore (o ignoranza dello stato storico della quistione) è avvenuta
contaminazione tra premesse o principii contradditori o eterogenei o
storicamente non avvicinabili. Cosí la valutazione critica può avere diversi
fini culturali (o anche polemico-politici): può tendere a dimostrare che Tizio
individualmente è incapace e nullo; che il gruppo culturale a cui Tizio
appartiene è scientificamente irrilevante; che Tizio il quale «crede» o
pretende di appartenere a un gruppo culturale, si inganna o vuole ingannare,
che Tizio si serve delle premesse teoriche di un gruppo rispettabile per trarre
deduzioni tendenziose e particolaristiche ecc.
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