Il
Canto decimo dell'Inferno
Quistione su «struttura e poesia» nella Divina
Commedia secondo B. Croce e Luigi Russo. Lettura di Vincenzo Morello come
«corpus vile». Lettura di Fedele Romani su Farinata. De Sanctis. Quistione
della «rappresentazione indiretta» e delle didascalie nel dramma: le
«didascalie» hanno un valore artistico? contribuiscono alla rappresentazione
dei caratteri? In quanto limitano l'arbitrio dell'attore e caratterizzano piú
concretamente il personaggio dato, certamente. Il caso del Don Giovanni di
Shaw con l'appendice del manualetto di John Tanner: quest'appendice è una
didascalia, da cui un attore intelligente può e deve trarre elementi per la sua
interpretazione. La pittura pompeiana di Medea che uccide i figli avuti da
Giasone: Medea è rappresentata col viso bendato: il pittore non sa o non vuole
rappresentare quel viso. (C'è però il caso di Niobe, ma in opera di scultura:
coprire il viso avrebbe significato togliere il contenuto proprio all'opera).
Farinata e Cavalcante: il padre e il suocero di Guido. Cavalcante è il punito
del girone. Nessuno ha osservato che se non si tien conto del dramma di
Cavalcante, in quel girone non si vede in atto il tormento del dannato:
la struttura avrebbe dovuto condurre a una valutazione estetica del
canto piú esatta, poiché ogni punizione è rappresentata in atto. Il De Sanctis
notò l'asprezza contenuta nel canto per il fatto che Farinata d'un tratto muta
carattere: dopo essere stato poesia diventa struttura, egli
spiega, fa da Cicerone a Dante. La rappresentazione poetica di Farinata è stata
mirabilmente rivissuta dal Romani: Farinata è una serie di statue. Poi
Farinata recita una didascalia. Il libro di Isidoro del Lungo sulla Cronica
di Dino Compagni: in esso è stabilita la data della morte di Guido. È
strano che gli eruditi non abbiano prima pensato a servirsi del Canto X per
fissare approssimativamente questa data (qualcuno l'ha fatto?). Ma neanche
l'accertamento fatto dal Del Lungo serví a interpretare la figura di Cavalcante
e a dare una spiegazione dell'ufficio fatto fare da Dante a Farinata.
Qual è la posizione di Cavalcante, qual è il suo
tormento? Cavalcante vede nel passato e vede nell'avvenire, ma non vede nel
presente, in una zona determinata del passato e dell'avvenire in cui è compreso
il presente. Nel passato Guido è vivo, nell'avvenire Guido è morto, ma nel
presente? È morto o vivo? Questo è il tormento di Cavalcante, il suo assillo,
il suo unico pensiero dominante. Quando parla, domanda del figlio; quando sente
«ebbe», il verbo al passato, egli insiste e tardando la risposta, egli
non dubita piú: suo figlio è morto; egli scompare nell'arca infuocata.
Come Dante rappresenta questo dramma? Egli lo
suggerisce al lettore, non lo rappresenta; egli dà al lettore gli elementi
perché il dramma sia ricostruito e questi elementi sono dati dalla struttura.
Tuttavia una parte drammatica c'è e precede la didascalia. Tre battute:
Cavalcante appare, non dritto e virile come Farinata, ma umile, abbattuto,
forse inginocchiato e domanda dubbiosamente del figlio. Dante risponde,
indifferente o quasi e adopera il verbo che si riferisce a Guido al passato.
Cavalcante coglie subito questo fatto e urla disperatamente. C'è il dubbio in
lui, non la certezza; domanda altre spiegazioni con tre domande in cui c'è una
gradazione di stati d'animo. «Come dicesti: egli "ebbe"?» – «Non vive
egli ancora?» – «Non fiere gli occhi suoi lo dolce lome?» Nella terza domanda
c'è tutta la tenerezza paterna di Cavalcante; la generica «vita» umana è vista
in una condizione concreta, nel godimento della luce, che i dannati e i morti
hanno perduto. Dante indugia a rispondere e allora il dubbio cessa in
Cavalcante. Farinata invece non si scuote. Guido è il marito di sua figlia, ma
questo sentimento non ha in lui potere in quel momento. Dante sottolinea questa
sua forza d'animo. Cavalcante si affloscia ma Farinata non muta aspetto,
non muove collo, non piega costa. Cavalcante cade supino, Farinata non ha
nessun gesto di abbattimento; Dante analizza negativamente Farinata per
suggerire i (tre) movimenti di Cavalcante, lo stravolgimento del sembiante, la
testa che ricade, il dorso che si piega. Tuttavia c'è qualcosa di mutato anche
in Farinata. La sua ripresa non è piú cosí altera come la prima sua
apparizione.
Dante non interroga Farinata solo per «istruirsi»,
egli lo interroga perché è rimasto colpito della scomparsa di Cavalcante. Egli
vuole che gli sia sciolto il nodo che gli impedí di rispondere a Cavalcante;
egli si sente in colpa dinanzi a Cavalcante. Il brano strutturale non è solo
struttura, dunque, è anche poesia, è un elemento necessario del dramma che si è
svolto.
Critica dell'«inespresso»?.
Le osservazioni da me fatte potrebbero dar luogo all'obbiezione: che si tratti
di una critica dell'inespresso, di una storia dell'inesistito, di un'astratta
ricerca di plausibili intenzioni mai diventate concreta poesia, ma di cui
rimangono tracce esteriori nel meccanismo della struttura. Qualcosa come la
posizione che spesso assume il Manzoni nei Promessi Sposi, come quando
Renzo, dopo aver errato alla ricerca dell'Adda e del confine, pensa alla
treccia nera di Lucia: «... e contemplando l'immagine di Lucia! non ci
proveremo a dire ciò che sentisse: il lettore conosce le circostanze: se
lo figuri». Si potrebbe anche qui trattare di cercare di «figurarsi» un
dramma, conoscendone le circostanze.
L'obbiezione ha una parvenza di verità: se Dante
non può immaginarsi, come il Manzoni, ponente dei limiti alla sua espressione
per ragioni pratiche (il Manzoni si propose di non parlare dell'amore sessuale
e di non rappresentarne le passioni nella loro pienezza, per ragioni di «morale
cattolica»), il fatto sarebbe avvenuto per «tradizione di linguaggio poetico»,
che del resto Dante non avrebbe sempre osservato (Ugolino, Mirra, ecc.),
«rincalzato» dai suoi speciali sentimenti per Guido. Ma si può ricostruire e
criticare una poesia se non nel mondo dell'espressione concreta, del linguaggio
storicamente realizzato? Non un elemento «volontario» dunque, «di carattere
pratico o intellettivo» tarpò le ali a Dante: egli «volò con le ali che
aveva» per cosí dire, e non rinunziò volontariamente a nulla. Su questo
argomento del neomaltusianismo artistico del Manzoni cfr. il libretto del
Croce; e l'articolo di Giuseppe Citanna nella «Nuova Italia» del giugno 1930.
Plinio ricorda che Timante di Sicione aveva
dipinto la scena del sacrificio di Ifigenia effigiando Agamennone velato. Il
Lessing, nel Laocoonte, per primo (?) riconobbe in questo artificio non
l'incapacità del pittore a rappresentare il dolore del padre, ma il sentimento
profondo dell'artista che attraverso gli atteggiamenti piú strazianti del volto,
non avrebbe saputo dare un'impressione tanto penosa d'infinita mestizia come
con questa figura velata, il cui viso è coperto dalla mano. Anche nella pittura
pompeiana del sacrifizio d'Ifigenia, diversa per la composizione generale dal
dipinto di Timante, la figura di Agamennone è velata.
Di queste diverse rappresentazioni del sacrifizio
di Ifigenia parla Paolo Enrico Arias nel «Bollettino dell'Istituto Nazionale
del dramma antico di Siracusa», articolo riassunto dal «Marzocco» del 13 luglio
1930.
Nelle pitture pompeiane esistono altri esempi di
figure velate: es. Medea che uccide i figli. La quistione è stata
trattata dopo il Lessing, la cui interpretazione non è completamente
soddisfacente?
Il disdegno di Guido. Nella recensione
scritta da G. S. Gargàno (La lingua nei tempi di Dante e l'interpretazione
della poesia, «Marzocco», 14 aprile 1929) del libro postumo di Enrico
Sicardi, La lingua italiana in Dante (Casa Ed. «Optima», Roma), si
riporta l'interpretazione del Sicardi sul «disdegno» di Guido. Cosí, scrive il
Sicardi, dovrebbe interpretarsi il passo: «Io non faccio il viaggio di mia
libera scelta; non sono libero di venire o non venire; invece sono qui condotto
da colui che m'aspetta lí fermo e col quale il vostro Guido ebbe a
disdegno di venire qui, ossia di accompagnarsi qui con lui». L'interpretazione
del Sicardi è formale, non sostanziale: egli non si ferma a spiegare in che
consista il «disdegno» (o della lingua latina, o dell'imperialismo virgiliano o
delle altre spiegazioni date dagli interpreti). Dante ebbe largita la «grazia»
dal Cielo: come potevasi concedere la medesima grazia ad un ateo? (ciò non è
esatto: perché la «grazia» per la sua stessa natura, non può essere limitata da
nessuna ragione). Per il Sicardi nel verso: «Forse cui Guido vostro ebbe a
disdegno» il cui si riferisce certamente a Virgilio, ma non è un
complemento oggetto, ma uno dei soliti pronomi a cui manca il segnacaso con.
E l'oggetto di ebbe a disdegno? Si ricava dal precedente «da me
stesso non vegno» ed è, mettiamo il caso, o il sostantivo venuta o,
se si vuole, una proposizione oggettiva: di venire.
Nella sua recensione il Gargàno scrive a un certo
punto: «L'amico di Guido dice al povero padre deluso di non veder vivo
per l'Inferno anche il suo figliolo ecc.». Deluso? È troppo poco: si
tratta di una parola del Gargàno o è ricavata dal Sicardi? Non si pone il
problema: ma perché Cavalcante deve proprio aspettarsi che Guido venga con
Dante nell'Inferno? «Per l'altezza d'ingegno»? Cavalcante non è mosso dalla
«razionalità» ma dalla «passione»: non c'è nessuna ragione perché Guido dovesse
accompagnare Dante; c'è solo che Cavalcante vuol sapere se Guido in quel
momento è vivo o morto ed uscire cosí dalla sua pena.
La parola piú importante del verso: «Forse cui
Guido vostro ebbe a disdegno» non è «cui» o «disdegno» ma è solo ebbe.
Su «ebbe» cade l'accento «estetico» e «drammatico» del verso ed esso è
l'origine del dramma di Cavalcante, interpretato nelle didascalie di Farinata:
e c'è la «catarsi»; Dante si corregge, toglie dalla pena Cavalcante, cioè
interrompe la sua punizione in atto.
La data della morte di Guido Cavalcanti fu fissata
criticamente per la prima volta da Isidoro Del Lungo nella sua opera Dino
Compagni e la sua Cronica di cui nel 1887 fu pubblicato il «volume terzo,
contenente gli indici storico e filologico a tutta l'opera e il testo della
"Cronica" secondo il codice Laurenziano Ashburnhamiano»; i volumi I e
II furono finiti nel 1880 e stampati poco dopo. Bisogna vedere se il Del Lungo,
nel fissare la data della morte di Guido, pone in rapporto questa data con il
Canto X: mi pare di ricordare di no. Sullo stesso argomento bisognerebbe vedere
del Del Lungo: Dante nei tempi di Dante, Bologna 1888; Dal secolo e
dal poema di Dante, Bologna 1898, e specialmente Da Bonifazio VIII ad
Arrigo VII, pagine di storia fiorentina per la vita di Dante, che è una
riproduzione, riveduta e corretta, e talvolta accresciuta, di una parte
dell'opera su Dino Compagni e la sua Cronica.
Vincenzo Morello. Dante, Farinata, Cavalcante,
in 8°, p. 80, ed. Mondadori, 1927. Contiene due scritti: 1) Dante e
Farinata. Il canto X dell'Inferno letto nella «Casa di Dante» in
Roma il XXV aprile MCMXXV e 2) Cavalcanti e il suo disdegno. Nella
scheda bibliografica dell'editore è detto: «Le interpretazioni del Morello
daranno occasione a discussioni fra gli studiosi, perché si distaccano
completamente da quelle tradizionali, e vengono a conclusioni diverse e nuove».
Ma il Morello aveva una qualsiasi preparazione per questo lavoro e per questa
indagine? Egli inizia il primo scritto cosí: «La critica dell'ultimo trentennio
ha cosí profondamente esplorato le sorgenti (!) dell'opera dantesca, che ormai
i sensi piú oscuri, i riferimenti piú difficili, le allusioni piú astruse e
perfino i particolari piú intimi dei personaggi delle Tre Cantiche, si può dire
siano penetrati e chiarificati». Chi si contenta gode! Ed è molto comodo
muovere da una simile premessa: esime dal fare un proprio lavoro e molto
faticoso di scelta e di approfondimento dei risultati raggiunti dalla critica
storica ed estetica. E continua: «Sí che, dopo la debita preparazione,
noi possiamo oggi leggere ed intendere la Divina Commedia,
senza piú smarrirci nei labirinti delle vecchie congetture, che la incompleta
informazione storica e la deficiente disciplina intellettuale gareggiavano
nel costruire e rendere inestricabili». Il Morello dunque avrebbe fatto la debita
preparazione e sarebbe in possesso di una perfetta disciplina
intellettuale: non sarà difficile mostrare che egli ha letto superficialmente
lo stesso canto X e non ne ha compreso la lettera piú evidente. Il canto X è,
secondo il Morello, «per eccellenza politico» e «la politica, per Dante, è cosa
tanto sacra, quanto la religione», quindi occorre una «disciplina piú che mai
rigida» nella interpretazione del canto X per non sostituire le proprie
tendenze e le proprie passioni a quelle altrui e per non abbandonarsi alle piú
strane aberrazioni. Il Morello afferma che il canto X è per eccellenza
politico, ma non lo dimostra e non lo può dimostrare perché non è vero: il
canto X è politico come politica è tutta la Divina Commedia,
ma non è politico per eccellenza. Ma al Morello questa affermazione fa comodo
per non affaticare le sue meningi; poiché egli si reputa grande uomo politico e
grande teorico e della politica, gli sarà facile dare una interpretazione
politica del canto X dopo aver leggiucchiato il canto nella prima edizione
venuta alla mano, servendosi delle idee generali che circolano sulla politica
di Dante e di cui ogni buon giornalista di cartello, come il Morello, deve
avere una qualche infarinatura nonché un certo numero di schede d'erudizione.
Che il Morello non abbia letto che
superficialmente il canto X si vede dalle pagine in cui tratta dei rapporti tra
Farinata e Guido Cavalcanti (p. 35). Il Morello vuol spiegare l'impassibilità
di Farinata durante lo svolgimento «dell'episodio» di Cavalcante.
Ricorda l'opinione del Foscolo, per il quale questa indifferenza dimostra la
forte tempra dell'uomo, che «non permette agli affetti domestici di
distoglierlo dal pensare alle nuove calamità della patria» e del De Sanctis,
per il quale Farinata rimane indifferente, perché «le parole di Cavalcante
giungono al suo orecchio, non all'anima che è tutta fisa in un pensiero unico:
l'arte mal appresa». Per il Morello vi può essere «forse una spiegazione piú
convincente». Cioè: «Se Farinata non muta aspetto, né muove collo, né piega
costa, cosí come il poeta vuole, è forse, non perché insensibile o non curante
del dolore altrui, ma perché ignora la persona di Guido, come ignorava
quella di Dante e perché ignora che Guido ha stretto matrimonio con sua figlia.
Egli è morto nel 1264, tre anni prima del ritorno dei Cavalcanti a Firenze,
quando Guido aveva sette anni; e si fidanzò con Bice all'età di nove anni
(1269), cinque anni dopo la morte di Farinata. Se è vero che i morti non
possono conoscere da sé i fatti dei vivi, ma soltanto per mezzo delle anime che
li avvicinano, o degli angeli o dei demoni, Farinata può non conoscere la
sua parentela con Guido e rimanere indifferente alle sorti di lui, se nessuna
anima o nessun angelo o demone gliene abbian portata notizia. Cosa che non
pare avvenuta». Il brano è strabiliante da parecchi punti di vista e mostra
quanto sia deficiente la disciplina intellettuale del Morello. 1) Farinata
stesso dice apertamente e chiaramente che gli eresiarchi del suo gruppo
ignorano i fatti «quando s'approssiman e son», non sempre, e in ciò consiste la
loro punizione specifica oltre l'arca infuocata «per avere voluto vedere nel
futuro» e solamente in questo caso «s'altri non ci adduce» essi ignorano.
Dunque il Morello non ha neanche letto bene il testo. 2) È proprio da
dilettante, nei personaggi di un'opera d'arte, andare a cercare le intenzioni
oltre la portata della espressione letterale dello scritto. Il Foscolo e il De
Sanctis (specialmente il De Sanctis) non si allontanano dalla serietà critica;
il Morello invece pensa realmente alla vita concreta di Farinata nell'Inferno
oltre il canto di Dante e pensa persino poco probabile che i demoni o gli
angeli abbiano potuto, a tempo perso, informare Farinata di ciò che gli era
ignoto. È la mentalità dell'uomo del popolo che quando ha letto un romanzo
vorrebbe sapere cosa hanno fatto ulteriormente tutti i personaggi (donde la fortuna
delle avventure a catena): è la mentalità del Rosini che scrive la Monaca di Monza o
di tutti gli scribacchiatori che scrivono le continuazioni di opere illustri o
ne svolgono e amplificano episodi parziali.
Che tra Cavalcante e Farinata vi sia rapporto
intimo nella poesia di Dante risulta dalla lettera del Canto e dalla sua
struttura: Cavalcante e Farinata sono vicini (qualche illustratore immagina
addirittura che siano nella stessa arca), i loro due drammi si intrecciano
strettamente e Farinata viene ridotto alla funzione strutturale di «explicator»
per far penetrare il lettore nel dramma di Cavalcante. Esplicitamente, dopo
l'«ebbe», Dante contrappone Farinata a Cavalcante nell'aspetto fisico-statuario
che esprime la loro posizione morale: Cavalcante cade, si affloscia, né
piú appare fuori, Farinata «analiticamente» non muta aspetto né muove collo né
piega costa.
Ma l'incomprensione della lettera del canto da
parte del Morello si rivela anche dove egli parla di Cavalcante, pp. 31 e
segg.: «È rappresentato, in questo canto, anche il dramma della famiglia
attraverso lo strazio delle guerre civili; ma non da Dante e da Farinata; sí
bene da Cavalcante». Perché «attraverso lo strazio delle guerre civili»? Questa
è un'aggiunta cervellotica del Morello. Il doppio elemento, famiglia-politica,
è in Farinata e infatti la politica lo sorregge sotto l'impressione del
disastro famigliare della figlia. Ma in Cavalcante solo motivo drammatico è
l'amore figliale e infatti egli crolla appena è certo che il figlio è morto.
Secondo il Morello, Cavalcante «domanda a Dante piangendo – Perché mio
figlio non è teco? – Piangendo. Questo di Cavalcante si può veramente dire il
pianto della guerra civile». Stupidaggine, conseguente all'affermazione che il
canto X è «per eccellenza politico». E piú oltre: «Guido era vivo all'epoca del
mistico viaggio; ma era morto quando Dante scriveva. E dunque di un morto Dante
realmente scriveva, non ostante, per la cronologia del viaggio, dovesse infine
apprendere al padre il contrario», ecc.: passo che dimostra come il Morello
abbia appena sfiorato il contenuto drammatico e poetico del canto e l'abbia,
letteralmente, sorvolato nella lettera testuale.
Superficialità piena di contraddizioni perché poi
il Morello si ferma sulla predizione di Farinata, senza pensare che se questi
eresiarchi possono sapere il futuro, devono sapere il passato, dato che il
futuro diventa sempre passato: ciò non lo porta a rileggersi il testo e ad
accertarne il significato.
Ma anche la cosí detta interpretazione politica
che il Morello fa del X canto è superficialissima: essa non è altro che la
ripresa della vecchia quistione: Dante fu guelfo o ghibellino? Per il Morello,
sostanzialmente, Dante fu ghibellino e Farinata è «il suo eroe», solo che Dante
fu ghibellino come Farinata, cioè «uomo politico» piú che «uomo di parte». Si
può, in questo argomento dire tutto ciò che si vuole. In realtà Dante, come
egli stesso dice, «fece parte per se stesso»: egli è essenzialmente un
«intellettuale» e il suo settarismo e la sua partigianeria sono d'ordine
intellettuale piú che politico in senso immediato. D'altronde la posizione
politica di Dante potrebbe esser fissata solo con un'analisi minutissima non
solo di tutti gli scritti di Dante stesso, ma delle divisioni politiche del suo
tempo che erano molto diverse da quelle di cinquant'anni prima. Il Morello è
troppo irretito nella retorica letteraria per essere in grado di concepire
realisticamente le posizioni politiche degli uomini del Medio Evo verso
l'Impero, il Papato e la loro repubblica comunale.
Quello che fa sorridere nel Morello è il suo
«disdegno» per i commentatori che affiora qua e là come a p. 52, nello scritto Cavalcanti
e il suo disdegno dove dice che «la prosa dei commentatori spesso altera il
senso dei versi»; ma guarda chi lo dice!
Questo scritto Cavalcanti e il suo disdegno appartiene
precisamente a quella letteratura d'appendice intorno alla Divina Commedia,
inutile e ingombrante con le sue congetture, le sue sottigliezze, le sue alzate
d'ingegno da parte di gente che per avere la penna in mano, si crede in diritto
di scrivere di qualunque cosa, sgomitolando le fantasticherie del suo
talentaccio.
Le «rinunzie descrittive» nella
Divina Commedia. Da un articolo di Luigi Russo, Per la poesia del «Paradiso»
dantesco (nel «Leonardo» dell'agosto 1927), tolgo alcuni accenni alle
«rinunzie descrittive» di Dante che, in ogni caso, hanno diversa origine e
spiegazione che per l'episodio di Cavalcante. Se ne è occupato A. Guzzo nella
«Rivista d'Italia» del 15 novembre 1924, pp. 456-79 (Il «Paradiso»
e la critica del De Sanctis). Scrive il Russo: «Il Guzzo parla delle
"rinunzie descrittive" che sono frequenti nel Paradiso: – Qui vince
la memoria mia lo ingegno, – Se mò sonasser tutte quelle lingue – ecc., ed egli
ritiene che questa è una prova che, dove Dante non può trasfigurare
celestialmente la terra, egli "piuttosto rinunzia a descrivere il fenomeno
celeste anziché, con astratta e artificiosa fantasia, capovolgere, invertire,
violentare l'esperienza" (p. 478). Ora anche qui il Guzzo, come gli altri
dantisti, riman vittima di una valutazione psicologica di parecchi versi di
quel genere, che ricorrono nel Paradiso. Tipico il caso del Vossler che una
volta si serví di queste "rinunzie descrittive" del poeta, come
fossero confessioni d'impotenza fantastica, per concludere, sulla testimonianza
dell'artista stesso, sull'inferiorità dell'ultima cantica; e, recentemente, nel
suo ravvedimento critico, si richiamò invece proprio a quelle rinunzie
descrittive, per attribuir loro un valore religioso, quasi il poeta volesse
avvertire di tratto in tratto che quello è il regno dell'assoluto trascendente
(Die Göttliche Komödie, 1925, II Band, pp. 771-72). Ora a me pare che
mai il poeta riesce tanto espressivo, come in queste sue confessioni di
impotenza espressiva, le quali, invero, vanno considerate non nel loro
contenuto (che è negativo), ma nel loro tono lirico (che è positivo, e qualche
volta iperbolicamente positivo). Quella è la poesia dell'ineffabile; e non
bisogna scambiare la poesia dell'ineffabile per ineffabilità poetica» ecc.
Per il Russo non si può parlare di rinunzie
descrittive in Dante. Si tratta, in forma negativa, di espressioni piene,
sufficienti, di tutto quello che si agita veramente nel petto del poeta.
Il Russo accenna in nota a un suo studio, Il
Dante del Vossler e l'unità poetica della Commedia, nel vol. XII degli
«Studi Danteschi» diretti da M. Barbi, ma il richiamo al Vossler si deve
riferire ai tentativi di gerarchizzare artisticamente le tre cantiche.
[Il cieco Tiresia.] Nel 1918, in un «Sotto la Mole» intitolato Il cieco
Tiresia è pubblicato un cenno dell'interpretazione data in queste note
della figura di Cavalcante. Nella nota pubblicata nel 1918 si prendeva lo
spunto dalla notizia pubblicata dai giornali che una ragazzina, in un paesello
d'Italia, dopo aver preveduto la fine della guerra per il 1918 diventò cieca.
Il nesso è evidente. Nella tradizione letteraria e nel folclore, il dono della
previsione è sempre connesso con l'infermità attuale del veggente, che mentre
vede il futuro non vede l'immediato presente perché cieco. (Forse ciò è legato
alla preoccupazione di non turbare l'ordine naturale delle cose: perciò i
veggenti non sono creduti, come Cassandra; se fossero creduti, le loro
previsioni non si verificherebbero, in quanto gli uomini, posti sull'avviso,
opererebbero diversamente e i fatti allora si svolgerebbero diversamente dalla
previsione ecc.).
[Una lettera di Umberto Cosmo] Da una
lettera del prof. U. Cosmo (dei primi mesi del 1932) riporto alcuni brani
sull'argomento di Cavalcante e Farinata: «Mi pare che l'amico nostro abbia
colpito giusto, e qualche cosa che s'avvicinava alla sua interpretazione ho
sempre insegnato io. Accanto al dramma di Farinata c'è anche il dramma di
Cavalcante, e male hanno fatto i critici, e fanno, a lasciarlo nell'ombra.
L'amico farebbe dunque opera ottima a lumeggiarlo. Ma per lumeggiarlo
bisognerebbe discendere un po' piú nell'anima medioevale. Ognuno dei due,
Farinata e Cavalcante, soffre il suo dramma. Ma il proprio dramma non tocca
l'altro. Sono legati dalla parentela dei figli, ma sono di parte avversa.
Perciò non si incontrano. È la loro forza come dramatis personae, è il loro
torto come uomini. Piú difficile mi pare provare che l'interpretazione lede in
modo vitale la tesi del Croce sulla poesia e la struttura della Commedia. Senza
dubbio anche la struttura dell'opera ha valore di poesia. Con la sua tesi il
Croce riduce la poesia della Commedia a pochi tratti e perde quasi tutta la
suggestione che si sprigiona da essa. Cioè perde quasi tutta la sua poesia. La
virtú della grande poesia è di suggerire piú che non dica e suggerire sempre
cose nuove. Di qui la sua eternità. Bisognerebbe dunque mettere bene in chiaro
che tale virtú di suggestione che promana dal dramma di Cavalcante promana
dalla struttura dell'opera (la previsione dei dannati del futuro e l'ignoranza
del presente, il loro essere in quel determinato cono d'ombra, come dice assai
felicemente l'amico, l'essere nella stessa tomba (!?) i due sofferenti, l'essere
legati da quelle determinate leggi costruttive). Tutte parti della struttura
che diventano fonte di poesia. Togliete queste e la poesia svanisce. – Per
raggiungere piú sicuro l'effetto, mi pare, sarebbe bene riprovare la tesi con
qualche altro esempio. Io, scrivendo del Paradiso, sono arrivato alla
conclusione che dove la costruzione è debole, è debole anche la
poesia... Ma piú efficace sarebbe forse di cercare la riprova in qualche
episodio plastico dell'Inferno o del Purgatorio. Penso dunque che l'amico
farebbe assai bene a svolgere con il rigore del suo raziocinio e la chiarezza
della sua espressione la sua tesi. Il ravvicinamento con le Didascalie dei
drammi propriamente detti è arguto e può illuminare. Ti soggiungo qualche
indicazione bibliografica piú facile. Lo studio del Russo si può vedere
completo in L. Russo, Problemi di metodo critico, Bari, Laterza, 1929.
Nella «Critica» sarebbe bene vedere ciò che scrisse l'Arangio Ruiz («Critica»,
XX, 340-57). L'articolo è dichiarato dal Barbi «bellissimo». Pretenzioso nella
sua filosofica sicumera, lo studio di Mario Botti (Per lo studio della
genesi della poesia dantesca. La seconda cantica: poesia e struttura nel poema)
in «Annali dell'Istruzione media», 1930, pp. 432-73. Il Barbi se ne occupa, ma
non dice nulla di nuovo, nell'ultimo fascicolo degli «Studi Danteschi» (XVI,
pp. 47 sgg.), Poesia e struttura nella Divina Commedia. Per la genesi
dell'ispirazione centrale della Divina Commedia. Anche il Barbi, in uno
studio Con Dante e coi suoi interpreti (vol. XV, «Studi Danteschi»),
passa in rivista le ultime interpretazioni del canto di Farinata. E pure il
Barbi pubblicò un suo commento nel vol. VIII degli «Studi Danteschi».
Ci sarebbe da osservare molte cose su queste note
del prof. Cosmo.
[Rastignac.] Poiché occorre infischiarsi
del gravissimo compito di far progredire la critica dantesca o di portare la
propria pietruzza all'edifizio commentatorio e chiarificatorio del divino poema
ecc., il modo migliore di presentare queste osservazioni sul Canto decimo pare
debba proprio essere quello polemico, per stroncare un filisteo classico come
Rastignac, per dimostrare, in modo drastico e fulminante, e sia pure
demagogico, che i rappresentanti di un gruppo sociale subalterno possono far le
fiche, scientificamente e come gusto artistico, a ruffiani intellettuali come
Rastignac. Ma Rastignac conta meno di un fuscello nel mondo culturale
ufficiale! Non ci vuole molta bravura per mostrarne l'inettitudine e la zerità.
Ma intanto la sua conferenza è stata tenuta alla Casa di Dante romana: da chi è
diretta questa Casa di Dante della città eterna? Anche la Casa di Dante e i suoi
dirigenti contano nulla? E se contano nulla perché la grande cultura non li
elimina? E come è stata giudicata la conferenza dai dantisti? Ne ha parlato il
Barbi, nelle sue rassegne degli «Studi Danteschi» per mostrarne la deficienza
ecc.? Eppoi, piace poter prendere per il bavero un uomo come il Rastignac e
servirsene da palla per un gioco solitario del calcio.
Shaw e Gordon Craig. Polemica tra i due sul
teatro. Shaw difende le sue didascalie lunghissime come aiuto non alla
rappresentazione ma alla lettura. Secondo Aldo Sorani («Marzocco» del 1°
novembre 1931) queste didascalie dello Shaw «sono precisamente il contrario di
quel che Gordon Craig desidera e richiede come atto a ridar vita sulla scena
alla fantasia dell'autore drammatico, a ricreare quell'atmosfera da cui l'opera
d'arte è sorta e si è imposta allo stesso autore».
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