III. Letteratura popolare
Letteratura
popolare
Concetto di «nazionale-popolare». In
una nota della «Critica Fascista» del 1° agosto 1930 si lamenta che due grandi
quotidiani, uno di Roma e l'altro di Napoli, abbiano iniziato la pubblicazione
in appendice di questi romanzi: Il conte di Montecristo e Giuseppe
Balsamo di A. Dumas, e il Calvario di una madre di Paolo Fontenay.
Scrive la «Critica»: «L'ottocento francese è stato senza dubbio un periodo
aureo per il romanzo d'appendice, ma debbono avere un ben scarso concetto dei
propri lettori quei giornali che ristampano romanzi di un secolo fa, come se il
gusto, l'interesse, l'esperienza letteraria non fossero per niente mutate da
allora ad ora. Non solo, ma [...] perché non tener conto che esiste, malgrado
le opinioni contrarie, un romanzo moderno italiano? E pensare che questa gente
è pronta a spargere lacrime d'inchiostro sulla infelice sorte delle patrie
lettere». La «Critica» confonde diversi ordini di problemi: quello della non
diffusione tra il popolo della cosí detta letteratura artistica e quello della
non esistenza in Italia di una letteratura «popolare», per cui i giornali sono
«costretti» a rifornirsi all'estero (certo nulla impedisce teoricamente che
possa esistere una letteratura popolare artistica – l'esempio piú evidente è la
fortuna «popolare» dei grandi romanzieri russi – anche oggi; ma non esiste, di
fatto, né una popolarità della letteratura artistica, né una produzione paesana
di letteratura «popolare» perché manca una identità di concezione del mondo tra
«scrittori» e «popolo», cioè i sentimenti popolari non sono vissuti come propri
dagli scrittori, né gli scrittori hanno una funzione «educatrice nazionale»,
cioè non si sono posti e non si pongono il problema di elaborare i sentimenti
popolari dopo averli rivissuti e fatti propri); la «Critica» non si pone
neanche questi problemi e non sa trarre le conclusioni «realistiche» dal fatto
che se i romanzi di cento anni fa piacciono, significa che il gusto e
l'ideologia del popolo sono proprio quelli di cento anni fa. I giornali sono
organismi politico-finanziari e non si propongono di diffondere le belle
lettere «nelle proprie colonne», se queste belle lettere fanno aumentare la
resa. Il romanzo d'appendice è un mezzo per diffondersi tra le classi popolari
(ricordare l'esempio del «Lavoro» di Genova sotto la direzione di Giovanni
Ansaldo, che ristampò tutta la letteratura francese d'appendice, nello stesso
tempo in cui cercava di dare ad altre parti del quotidiano il tono della piú
raffinata cultura), ciò che significa successo politico e successo finanziario.
Perciò il giornale cerca quel romanzo, quel tipo di romanzo che piace
«certamente» al popolo, che assicurerà una clientela «continuativa» e
permanente. L'uomo del popolo compra un solo giornale, quando lo compra: la
scelta del giornale non è neanche personale, ma spesso di gruppo famigliare: le
donne pesano molto nella scelta e insistono per il «bel romanzo interessante»
(ciò non significa che anche gli uomini non leggano il romanzo, ma certo le
donne si interessano specialmente al romanzo e alla cronaca dei fatti diversi).
Da ciò derivò sempre il fatto che i giornali puramente politici o d'opinione
non hanno mai potuto avere una grande diffusione (eccetto periodi di intensa
lotta politica): essi erano comprati dai giovani, uomini e donne, senza
preoccupazioni famigliari troppo grandi e che si interessavano fortemente alla
fortuna delle loro opinioni politiche e da un numero mediocre di famiglie
fortemente compatte come idee. In generale i lettori di giornali non sono
dell'opinione del giornale che acquistano, o ne sono scarsamente influenzati:
perciò è da studiare, dal punto di vista della tecnica giornalistica, il caso
del «Secolo» e del «Lavoro» che pubblicavano fino a tre romanzi d'appendice per
conquistare una tiratura alta e permanente (non si pensa che per molti lettori
il «romanzo d'appendice» è come la «letteratura» di classe per le persone
colte: conoscere il «romanzo» che pubblicava la «Stampa» era una specie di
«dovere mondano» di portineria, di cortile e di ballatoio in comune; ogni
puntata dava luogo a «conversazioni» in cui brillava l'intuizione psicologica,
la capacità logica d'intuizione dei «piú distinti» ecc.; si può affermare che i
lettori di romanzo d'appendice s'interessano e si appassionano ai loro autori
con molta maggiore sincerità e piú vivo interesse umano di quanto nei salotti
cosí detti colti non s'interessassero ai romanzi di D'Annunzio o non
s'interessino alle opere di Pirandello).
Ma il problema piú interessante è questo: perché i
giornali italiani del 1930, se vogliono diffondersi (o mantenersi) devono
pubblicare i romanzi d'appendice di un secolo fa (o quelli moderni dello stesso
tipo)? E perché non esiste in Italia una letteratura «nazionale» del genere,
nonostante che essa debba essere redditizia? È da osservare il fatto che in
molte lingue, «nazionale» e «popolare» sono sinonimi o quasi (cosí in russo,
cosí in tedesco in cui «volkisch» ha un significato ancora piú intimo, di
razza, cosí nelle lingue slave in genere; in francese «nazionale» ha un
significato in cui il termine «popolare» è già piú elaborato politicamente,
perché legato al concetto di «sovranità», sovranità nazionale e sovranità
popolare hanno uguale valore o l'hanno avuto). In Italia il termine «nazionale»
ha un significato molto ristretto ideologicamente e in ogni caso non coincide
con «popolare», perché in Italia gli intellettuali sono lontani dal popolo,
cioè dalla «nazione» e sono invece legati a una tradizione di casta, che non è
mai stata rotta da un forte movimento politico popolare o nazionale dal basso:
la tradizione è «libresca» e astratta e l'intellettuale tipico moderno si sente
piú legato ad Annibal Caro o Ippolito Pindemonte che a un contadino pugliese o
siciliano. Il termine corrente «nazionale» è in Italia legato a questa
tradizione intellettuale e libresca, quindi la facilità sciocca e in fondo
pericolosa di chiamare «antinazionale» chiunque non abbia questa concezione
archeologica e tarmata degli interessi del paese.
Sono da vedere gli articoli di Umberto Fracchia
nell'«Italia Letteraria» del luglio 1930 e la Lettera a
Umberto Fracchia sulla critica di Ugo Ojetti nel «Pègaso» dell'agosto 1930.
I lamenti del Fracchia sono molto simili a quelli della «Critica Fascista». La
letteratura «nazionale» cosí detta «artistica», non è popolare in Italia. Di
chi la colpa? Del pubblico che non legge? Della critica che non sa presentare
ed esaltare al pubblico i «valori» letterari? Dei giornali che invece di
pubblicare in appendice «il romanzo moderno italiano» pubblicano il vecchio Conte
di Montecristo? Ma perché il pubblico non legge in Italia mentre legge
negli altri paesi? Ed è poi vero che in Italia non si legga? Non sarebbe piú
esatto porsi il problema: perché il pubblico italiano legge la letteratura
straniera, popolare e non popolare, e non legge invece quella italiana? Lo
stesso Fracchia non ha pubblicato degli ultimatum agli editori che pubblicano
(e quindi devono vendere, relativamente) opere straniere, minacciando
provvedimenti governativi? E un tentativo di intervento governativo non c'è
stato, almeno in parte, per opera dell'on. Michele Bianchi, sottosegretario
agli interni?
Cosa significa il fatto che il popolo italiano
legge di preferenza gli scrittori stranieri? Significa che esso subisce l'egemonia
intellettuale e morale degli intellettuali stranieri, che esso si sente legato
piú agli intellettuali stranieri che a quelli «paesani», cioè che non esiste
nel paese un blocco nazionale intellettuale e morale, né gerarchico e tanto
meno egualitario. Gli intellettuali non escono dal popolo, anche se
accidentalmente qualcuno di essi è d'origine popolana, non si sentono legati ad
esso (a parte la retorica), non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le
aspirazioni, i sentimenti diffusi, ma, nei confronti del popolo, sono qualcosa
di staccato, di campato in aria, una casta, cioè, e non un'articolazione, con
funzioni organiche, del popolo stesso. La quistione deve essere estesa a tutta
la cultura nazionale-popolare e non ristretta alla sola letteratura narrativa:
le stesse cose si devono dire del teatro, della letteratura scientifica in
generale (scienze della natura, storia ecc.). Perché non sorgono in Italia
degli scrittori come il Flammarion? perché non è nata una letteratura di
divulgazione scientifica come in Francia e negli altri paesi? Questi libri
stranieri, tradotti, sono letti e ricercati e conoscono spesso grandi successi.
Tutto ciò significa che tutta la «classe colta», con la sua attività
intellettuale, è staccata dal popolo-nazione, non perché il popolo-nazione non
abbia dimostrato e non dimostri di interessarsi a questa attività in tutti i
suoi gradi, dai piú infimi (romanzacci d'appendice) ai piú elevati, tanto vero
che ricerca i libri stranieri in proposito, ma perché l'elemento intellettuale
indigeno è piú straniero degli stranieri di fronte al popolo-nazione. La
quistione non è nata oggi; essa si è posta fin dalla fondazione dello Stato
italiano, e la sua esistenza anteriore è un documento per spiegare il ritardo
della formazione politico-nazionale unitaria della penisola. Il libro di
Ruggero Bonghi sulla impopolarità della letteratura italiana. Anche la
quistione della lingua posta dal Manzoni riflette questo problema, il problema
della unità intellettuale e morale della nazione e dello Stato, ricercato
nell'unità della lingua. Ma l'unità della lingua è uno dei modi esterni e non
esclusivamente necessario dell'unità nazionale: in ogni caso è un effetto e non
una causa. Scritti di F. Martini sul teatro: sul teatro esiste e continua a
svilupparsi tutta una letteratura.
In Italia è sempre mancata e continua a mancare
una letteratura nazionale-popolare, narrativa e d'altro genere. (Nella poesia
sono mancati i tipi come Béranger e in genere il tipo dello chansonnier francese).
Tuttavia sono esistiti scrittori, popolari individualmente e che hanno avuto
grande fortuna: il Guerrazzi ha avuto fortuna e i suoi libri continuano ad
essere pubblicati e diffusi: Carolina Invernizio è stata letta e forse continua
ad esserlo, nonostante sia di un livello piú basso dei Ponson e dei Montépin.
F. Mastriani è stato letto ecc. (G. Papini ha scritto un articolo sulla
Invernizio nel «Resto del Carlino», durante la guerra, verso il 1916: vedere se
l'articolo è stato raccolto in volume. Il Papini scrisse qualcosa
d'interessante su questa onesta gallina della letteratura popolare, appunto
notando come essa si facesse leggere dal popolino. Forse, nella bibliografia
del Papini pubblicata nel saggio del Palmieri – o in altra – si potrà trovare
la data di questo articolo e altre indicazioni).
In assenza di una sua letteratura «moderna», alcuni
strati del popolo minuto soddisfano in vari modi le esigenze intellettuali e
artistiche che pur esistono, sia pure in forma elementare ed incondita:
diffusione del romanzo cavalleresco medioevale – Reali di Francia, Guerino
detto il Meschino ecc. – specialmente nell'Italia meridionale e nelle
montagne; I Maggi in Toscana (gli argomenti rappresentati dai Maggi sono
tratti dai libri, novelle e specialmente da leggende divenute popolari, come la Pia dei Tolomei; esistono
varie pubblicazioni sui Maggi e sul loro repertorio).
I laici hanno fallito al loro compito storico di
educatori ed elaboratori della intellettualità e della coscienza morale del
popolo-nazione, non hanno saputo dare una soddisfazione alle esigenze
intellettuali del popolo: proprio per non aver rappresentato una cultura laica,
per non aver saputo elaborare un moderno «umanesimo» capace di diffondersi fino
agli strati piú rozzi e incolti, come era necessario dal punto di vista
nazionale, per essersi tenuti legati a un mondo antiquato, meschino, astratto,
troppo individualistico o di casta. La letteratura popolare francese, che è la
piú diffusa in Italia, rappresenta invece, in maggiore o minor grado, in un
modo che può essere piú o meno simpatico, questo moderno umanesimo, questo
laicismo a suo modo moderno: lo rappresentarono il Guerrazzi, il Mastriani e
gli altri pochi scrittori paesani popolari. Ma se i laici hanno fallito, i
cattolici non hanno avuto miglior successo. Non bisogna lasciarsi illudere
dalla discreta diffusione che hanno certi libri cattolici: essa è dovuta alla
vasta e potente organizzazione della chiesa, non ad una intima forza di
espansività: i libri vengono regalati nelle cerimonie numerosissime e vengono
letti per castigo, per imposizione o per disperazione. Colpisce il fatto che
nel campo della letteratura avventurosa i cattolici non abbiano saputo
esprimere che meschinerie: eppure essi hanno una sorgente di prim'ordine nei
viaggi e nella vita movimentata e spesso arrischiata dei missionari. Tuttavia
anche nel periodo di maggior diffusione del romanzo geografico d'avventure, la
letteratura cattolica in proposito è stata meschina e per nulla comparabile a
quella laica francese, inglese e tedesca: le vicende del cardinal Massaja in
Abissinia sono il libro piú notevole, per il resto c'è stata l'invasione dei
libri di Ugo Mioni (già padre gesuita), inferiori a ogni esigenza. Anche nella
letteratura popolare scientifica i cattolici hanno ben poco, nonostante i loro
grandi astronomi come il padre Secchi (gesuita) e che l'astronomia sia la
scienza che piú interessa il popolo. Questa letteratura cattolica trasuda di
apologetica gesuitica come il becco di muschio e stucca per la sua meschinità
gretta. L'insufficienza degli intellettuali cattolici e la poca fortuna della
loro letteratura sono uno degli indizi piú espressivi della intima rottura che
esiste tra la religione e il popolo: questo si trova in uno stato miserrimo di
indifferentismo e di assenza di una vivace vita spirituale: la religione è
rimasta allo stato di superstizione, ma non è stata sostituita da una nuova
moralità laica e umanistica per l'impotenza degli intellettuali laici (la
religione non è stata né sostituita né intimamente trasformata e nazionalizzata
come in altri paesi, come in America lo stesso gesuitismo: l'Italia popolare è
ancora nelle condizioni create immediatamente dalla Controriforma: la
religione, tutt'al piú, si è combinata col folclore pagano ed è rimasta in
questo stadio).
Cfr. ciò che ho scritto a proposito del Conte
di Montecristo come modello esemplare di romanzo d'appendice. Il romanzo
d'appendice sostituisce (e favorisce nel tempo stesso) il fantasticare
dell'uomo del popolo, è un vero sognare ad occhi aperti. Si può vedere ciò che
sostengono Freud e i psicanalisti sul sognare ad occhi aperti. In questo caso
si può dire che nel popolo il fantasticare è dipendente dal «complesso di
inferiorità» (sociale) che determina lunghe fantasticherie sull'idea di
vendetta, di punizione dei colpevoli dei mali sopportati, ecc. Nel Conte di
Montecristo ci sono tutti gli elementi per cullare queste fantasticherie e
per quindi propinare un narcotico che attutisca il senso del male, ecc.
[Scrittori popolari.] Nel «Marzocco» del 13
settembre 1931, Aldo Sorani (che si è occupato spesso, in diverse riviste e
giornali, della letteratura popolare) ha pubblicato un articolo: Romanzieri
popolari contemporanei in cui commenta la serie di articoli sugli «Illustri
ignoti» pubblicati dallo Charensol nelle «Nouvelles Littéraires» (di cui è nota
piú avanti). «Si tratta di scrittori popolarissimi di romanzi d'avventure e
d'appendice, sconosciuti o quasi al pubblico letterario, ma idoleggiati e
seguiti ciecamente da quel piú grosso pubblico di lettori che decreta le
tirature mastodontiche e di letteratura non s'intende affatto, ma vuol essere
interessato e appassionato da intrecci sensazionali di vicende criminali od
amorose. Per il popolo sono essi i veri scrittori e il popolo sente per
loro un'ammirazione ed una gratitudine che questi romanzieri tengon deste
somministrando ad editori e lettori una mole di lavoro cosí continua ed
imponente da parere incredibile e insostenibile da forze, non dico
intellettuali, ma fisiche». Il Sorani osserva che questi scrittori «si sono
asserviti ad un compito stremante e adempiono ad un servizio pubblico reale se
infinite schiere di lettori e di lettrici non possono farne a meno e gli
editori conseguono dalla loro inesauribile attività lauti guadagni». Il Sorani
impiega l'espressione di «servizio pubblico reale» ma ne dà una definizione
meschina, e che non corrisponde a quella di cui si parla in queste note. Il
Sorani nota che questi scrittori, come appare dagli articoli dello Charensol,
«hanno reso piú severi i loro costumi e piú morigerata in genere la loro vita,
dal tempo ormai remoto in cui Ponson du Terrail o Xavier de Montépin esigevano
una notorietà mondana e facevano di tutto per accaparrarsela [...], pretendendo
che, alla fine, essi non si distinguevano dai loro piú accademici confratelli
che per una diversità di stile. Essi scrivevano come si parla, mentre gli altri
scrivevano come non si parla!» (Tuttavia anche gli «illustri ignoti» fanno
parte, in Francia, delle associazioni di letterati, tal quale il Montépin.
Ricordare anche l'astio di Balzac contro Sue per i successi mondani e finanziari
di questo).
Scrive ancora il Sorani: «Un lato non trascurabile
della persistenza di questa letteratura popolare (...) è offerto dalla passione
del pubblico. Specialmente il grosso pubblico francese, quel pubblico che
taluno crede il piú smaliziato, critico e blasé del mondo, è rimasto
fedele al romanzo d'avventure e d'appendice. Il giornalismo francese di
informazione e di grande tiratura è quello che non ha ancora saputo o potuto
rinunziare al romanzo d'appendice. Proletariato e borghesia sono ancora in
grandi masse cosí ingenui (?) da aver bisogno degli interminabili racconti
emozionanti e sentimentali, raccapriccianti o larmoyants per nutrimento
quotidiano della loro curiosità e della loro sentimentalità, hanno ancora
bisogno di parteggiare tra gli eroi della delinquenza e quelli della giustizia
o della vendetta».
«A differenza del pubblico francese, quello
inglese o americano s'è riversato sul romanzo d'avventure storiche (e i
francesi no?!) o su quello d'avventure poliziesche ecc. (luoghi comuni sui
caratteri nazionali)».
«Quanto all'Italia, credo che ci si potrebbe
domandare perché la letteratura popolare non sia popolare in Italia. (Non è
detto con esattezza: non ci sono in Italia scrittori, ma i lettori sono una
caterva). Dopo il Mastriani e l'Invernizio, mi pare che siano venuti a mancare
tra noi i romanzieri capaci di conquistare la folla facendo inorridire e
lacrimare un pubblico di lettori ingenui, fedeli e insaziabili. Perché questo
genere di romanzieri non ha continuato (?) ad allignare tra noi? La nostra
letteratura è stata anche nei suoi bassifondi troppo accademica e letterata? I
nostri editori non hanno saputo coltivare una pianta ritenuta troppo
spregevole? I nostri scrittori non hanno fantasia capace d'animare le appendici
e le dispense? O noi, anche in questo campo, ci siamo contentati e ci
contentiamo di importare quanto producono gli altri mercati? Certo non
abbondiamo come la Francia
di "illustri sconosciuti" e una qualche ragione per questa deficienza
ci deve essere e varrebbe forse la pena di ricercarla».
Diversi tipi di romanzo popolare. Esiste
una certa varietà di tipi di romanzo popolare ed è da notare che, seppure tutti
i tipi simultaneamente godano di una qualche diffusione e fortuna, tuttavia
prevale uno di essi e di gran lunga. Da questo prevalere si può identificare un
cambiamento dei gusti fondamentali, cosí come dalla simultaneità della fortuna
dei diversi tipi si può ricavare la prova che esistono nel popolo diversi
strati culturali, diverse «masse di sentimenti» prevalenti nell'uno o
nell'altro strato, diversi «modelli di eroi» popolari. Fissare un catalogo di
questi tipi e stabilire storicamente la loro relativa maggiore o minore fortuna
ha pertanto una importanza ai fini del presente saggio: 1) Tipo Victor Hugo – Eugenio
Sue (I Miserabili, I Misteri di Parigi): a carattere
spiccatamente ideologico-politico, di tendenza democratica legata alle
ideologie quarantottesche; 2) Tipo sentimentale, non politico in senso stretto,
ma in cui si esprime ciò che si potrebbe definire una «democrazia sentimentale»
(Richebourg-Decourcelle ecc.); 3) Tipo che si presenta come di puro intrigo, ma
ha un contenuto ideologico conservatore-reazionario (Montépin); 4) Il romanzo
storico di A. Dumas e di Ponson du Terrail, che oltre al carattere storico, ha
un carattere ideologico-politico, ma meno spiccato: Ponson du Terrail tuttavia
è conservatore-reazionario e l'esaltazione degli aristocratici e dei loro servi
fedeli ha un carattere ben diverso dalle rappresentazioni storiche di A. Dumas,
che tuttavia non ha una tendenza democratico-politica spiccata, ma è piuttosto
pervaso da sentimenti democratici generici e «passivi» e spesso si avvicina al
tipo «sentimentale»; 5) Il romanzo poliziesco nel suo doppio aspetto (Lecocq,
Rocambole, Sherlock Holmes, Arsenio Lupin); 6) Il romanzo tenebroso (fantasmi,
castelli misteriosi ecc.: Anna Radcliffe ecc.); 7) Il romanzo scientifico
d'avventure, geografico, che può essere tendenzioso o semplicemente d'intrigo
(J. Verne – Boussenard).
Ognuno di questi tipi ha poi diversi aspetti
nazionali (in America il romanzo d'avventure è l'epopea dei pionieri ecc.). Si
può osservare come nella produzione d'insieme di ogni paese sia implicito un
sentimento nazionalistico, non espresso retoricamente, ma abilmente insinuato nel
racconto. Nel Verne e nei francesi il sentimento antinglese, legato alla
perdita delle colonie e al bruciore delle sconfitte marittime è vivissimo: nel
romanzo geografico d'avventure i francesi non si scontrano coi tedeschi, ma con
gli inglesi. Ma il sentimento antinglese è vivo anche nel romanzo storico e
persino in quello sentimentale (per es. George Sand). (Reazione per la guerra
dei cento anni e l'assassinio di Giovanna D'Arco e per la fine di Napoleone).
In Italia nessuno di questi tipi ha avuto scrittori
(numerosi) di qualche rilievo (non rilievo letterario, ma valore «commerciale»,
di invenzione, di costruzione ingegnosa di intrighi, macchinosi sí ma elaborati
con una certa razionalità). Neanche il romanzo poliziesco, che ha avuto tanta
fortuna internazionale (e finanziaria per gli autori e gli editori) ha avuto
scrittori in Italia; eppure molti romanzi, specialmente storici, hanno preso
per argomento l'Italia e le vicende storiche delle sue città, regioni,
istituzioni, uomini. Cosí la storia veneziana, con le sue organizzazioni
politiche, giudiziarie, poliziesche, ha dato e continua a dare argomento ai
romanzieri popolari di tutti i paesi, eccetto l'Italia. Una certa fortuna ha
avuto in Italia la letteratura popolare sulla vita dei briganti, ma la produzione
è di valore bassissimo.
L'ultimo e piú recente tipo di libro popolare è la
vita romanzata, che in ogni modo rappresenta un tentativo inconsapevole di
soddisfare le esigenze culturali di alcuni strati popolari piú smaliziati
culturalmente, che non si accontentano della storia tipo Dumas. Anche questa
letteratura non ha in Italia molti rappresentanti (Mazzucchelli, Cesare
Giardini ecc.): non solo gli scrittori italiani non sono paragonabili per
numero, fecondità, e doti di piacevolezza letteraria ai francesi, ai tedeschi,
agli inglesi, ma ciò che è piú significativo essi scelgono i loro argomenti
fuori d'Italia (Mazzucchelli e Giardini in Francia, Eucardio Momigliano in
Inghilterra), per adattarsi al gusto popolare italiano che si è formato sui romanzi
storici specialmente francesi. Il letterato italiano non scriverebbe una
biografia romanzata di Masaniello, di Michele di Lando, di Cola di Rienzo senza
credersi in dovere di inzepparla di stucchevoli «pezze d'appoggio» retoriche,
perché non si creda... non si pensi... ecc. ecc. È vero che la fortuna delle
vite romanzate ha indotto molti editori a iniziare la pubblicazione di collane
biografiche, ma si tratta di libri che stanno alla vita romanzata come la Monaca di Monza sta
al Conte di Montecristo; si tratta del solito schema biografico, spesso
filologicamente corretto, che può trovare al massimo qualche migliaio di
lettori, ma non diventare popolare.
È da notare che alcuni dei tipi di romanzo
popolare su elencati hanno una corrispondenza nel teatro e oggi nel
cinematografo. Nel teatro la fortuna considerevole di D. Niccodemi è certo
dovuta a ciò: che egli ha saputo drammatizzare spunti e motivi eminentemente
legati all'ideologia popolare; cosí in Scampolo, nell'Aigrette,
nella Volata ecc. Anche in G. Forzano esiste qualcosa del genere, ma sul
modello di Ponson du Terrail, con tendenze conservatrici. Il lavoro teatrale
che in Italia ha avuto il maggior successo popolare è La Morte Civile
del Giacometti, di carattere italiano: non ha avuto imitatori di pregio (sempre
in senso non letterario). In questo reparto teatrale si può notare come tutta
una serie di drammaturghi, di grande valore letterario, possono piacere
moltissimo anche al pubblico popolare: Casa di Bambola di Ibsen è molto
gradita al popolo delle città, in quanto i sentimenti rappresentati e la
tendenza morale dell'autore trovano una profonda risonanza nella psicologa
popolare. E cosa dovrebbe essere poi il cosí detto teatro d'idee se non
questo, la rappresentazione di passioni legate ai costumi con soluzioni
drammatiche che rappresentino una catarsi «progressiva», che rappresentino il
dramma della parte piú progredita intellettualmente e moralmente di una società
e che esprime lo sviluppo storico immanente negli stessi costumi esistenti?
Queste passioni e questo dramma però devono essere rappresentati e non svolti
come una tesi, un discorso di propaganda, cioè l'autore deve vivere nel mondo
reale, con tutte le sue esigenze contraddittorie e non esprimere sentimenti
assorbiti solo dai libri.
Romanzo e teatro popolare. Il dramma
popolare viene chiamato, con un significato dispregiativo, dramma o drammone da
arena, forse perché esistono in alcune città dei teatri all'aperto chiamati
Arene (l'Arena del Sole a Bologna). È da ricordare ciò che scrisse Edoardo
Boutet sugli spettacoli classici (Eschilo, Sofocle) che la Compagnia Stabile
di Roma diretta appunto dal Boutet dava all'Arena del Sole di Bologna il lunedí
– giorno delle lavandaie – e sul grande successo che tali rappresentazioni
avevano. (Questi ricordi di vita teatrale del Boutet furono stampati per la
prima volta nella rivista «Il Viandante» pubblicata a Milano da T. Monicelli
negli anni 1908-9). È anche da rilevare il successo che nelle masse popolari
hanno sempre avuto alcuni drammi dello Shakespeare, ciò che appunto dimostra
come si possa essere grandi artisti e nello stesso tempo «popolari».
Nel «Marzocco» del 17 novembre 1929 è pubblicata
una nota di Gaio (Adolfo Orvieto), molto significativa: «Danton», il
melodramma e il «romanzo nella vita». La nota dice: «Una compagnia
drammatica di recente "formazione", che ha messo insieme un
repertorio di grandi spettacoli popolari – dal Conte di Montecristo alle
Due orfanelle – con la speranza legittima di richiamare un po' di gente
a teatro, ha visto i suoi voti esauditi – a Firenze – con un novissimo dramma
d'autore ungherese e di soggetto franco-rivoluzionario: Danton». Il
dramma è di De Pekar ed è «pura favola patetica con particolari fantastici di
estrema libertà» (per es. Robespierre e Saint-Just assistono al processo di
Danton e altercano con lui, ecc.). «Ma è favola, tagliata alla brava, che si
vale dei vecchi metodi infallibili del teatro popolare, senza pericolose
deviazioni modernistiche. Tutto è elementare, limitato, di taglio netto. Le tinte
fortissime e i clamori si alternano alle opportune smorzature e il pubblico
respira e consente. Mostra di appassionarsi e si diverte. Che sia questa la
strada migliore per riportarlo al teatro di prosa?» La conclusione dell'Orvieto
è significativa. Cosí nel 1929 per aver pubblico a teatro bisogna rappresentare
il Conte di Montecristo e le Due Orfanelle e nel 1930 per far
leggere i giornali bisogna pubblicare in appendice il Conte di Montecristo e
Giuseppe Balsamo.
Verne e il romanzo geografico-scientifico. Nei
libri del Verne non c'è mai nulla di completamente impossibile: le
«possibilità» di cui dispongono gli eroi del Verne sono superiori a quelle
realmente esistenti nel tempo, ma non troppo superiori e specialmente non
«fuori» della linea di sviluppo delle conquiste scientifiche realizzate;
l'immaginazione non è del tutto «arbitraria» e perciò possiede la facoltà di
eccitare la fantasia del lettore già conquistato dall'ideologia dello sviluppo
fatale del progresso scientifico nel dominio del controllo delle forze
naturali. Diverso è il caso di Wells e di Poe, in cui appunto domina in gran
parte l'«arbitrario», anche se il punto di partenza può essere logico e
innestato in una realtà scientifica concreta: nel Verne c'è l'alleanza
dell'intelletto umano e delle forze materiali, in Wells e in Poe l'intelletto
umano predomina e perciò Verne è stato piú popolare, perché piú comprensibile.
Nello stesso tempo però questo equilibrio nelle costruzioni romanzesche del
Verne è diventato un limite, nel tempo, alla sua popolarità (a parte il valore
artistico scarso): la scienza ha superato Verne e i suoi libri non sono piú
«eccitanti psichici».
Qualche cosa di simile si può dire delle avventure
poliziesche, per es. di Conan Doyle; per il tempo erano eccitanti, oggi quasi
nulla e per varie ragioni: perché il mondo delle lotte poliziesche è oggi piú
noto, mentre Conan Doyle in gran parte lo rivelava, almeno a un gran numero di
pacifici lettori. Ma specialmente perché in Sherlock Holmes c'è un equilibrio
razionale (troppo) tra l'intelligenza e la scienza. Oggi interessa di piú
l'apporto individuale dell'eroe, la tecnica «psichica» in sé, e quindi Poe e
Chesterton sono piú interessanti ecc.
Nel «Marzocco» del 19 febbraio 1928, Adolfo Faggi
(Impressioni da Giulio Verne) scrive che il carattere antinglese di
molti romanzi del Verne è da riportare a quel periodo di rivalità fra la Francia e l'Inghilterra
che culminò nell'episodio di Fashoda. L'affermazione è errata e anacronistica:
l'antibritannicismo era (e forse è ancora) un elemento fondamentale della
psicologia popolare francese; l'antitedeschismo è relativamente recente ed era
meno radicato dell'antibritannicismo, non esisteva prima della Rivoluzione
francese e si è incancrenito dopo il '70, dopo la sconfitta e la dolorosa
impressione che la Francia
non era la piú forte nazione militare e politica dell'Europa occidentale,
perché la Germania,
da sola, non in coalizione, aveva vinto la Francia. L'antinglesismo
risale alla formazione della Francia moderna, come Stato unitario e moderno,
cioè alla guerra dei cento anni e ai riflessi dell'immaginazione popolare della
epopea di Giovanna D'Arco; è stato rinforzato modernamente dalle guerre per
l'egemonia sul continente (e nel mondo) culminate nella Rivoluzione francese e
in Napoleone: l'episodio di Fashoda, con tutta la sua gravità, non può essere
paragonato a questa imponente tradizione che è testimoniata da tutta la
letteratura francese popolare.
Sul romano poliziesco. Il romanzo
poliziesco è nato ai margini della letteratura sulle «Cause Celebri». A questa,
d'altronde, è collegato anche il romanzo del tipo Conte di Montecristo;
non si tratta anche qui di «cause celebri» romanzate, colorite con l'ideologia
popolare intorno all'amministrazione della giustizia, specialmente se ad essa
si intreccia la passione politica? Rodin dell'Ebreo Errante non è un
tipo di organizzatore di «intrighi scellerati» che non si ferma dinanzi a
qualsiasi delitto ed assassinio e invece il principe Rodolfo non è, al contrario,
l'«amico del popolo» che sventa altri intrighi e delitti? Il passaggio da tale
tipo di romanzo a quelli di pura avventura è segnato da un processo di
schematizzazione del puro intrigo, depurato da ogni elemento di ideologia
democratica e piccolo borghese: non piú la lotta tra il popolo buono, semplice
e generoso e le forze oscure della tirannide (gesuiti, polizia segreta legata
alla ragion di Stato o all'ambizione di singoli principi ecc.) ma solo la lotta
tra la delinquenza professionale o specializzata e le forze dell'ordine legale,
private o pubbliche, sulla base della legge scritta. La collezione delle «Cause
Celebri», nella celebre collezione francese, ha avuto il corrispettivo negli
altri paesi; fu tradotta in italiano, la collezione francese, almeno in parte,
per i processi di fama europea, come quello Fualdès, per l'assassinio del
corriere di Lione ecc.
L'attività «giudiziaria» ha sempre interessato e
continua a interessare: l'atteggiamento del sentimento pubblico verso
l'apparato della giustizia (sempre screditato e quindi fortuna del poliziotto
privato o dilettante) e verso il delinquente è mutato spesso o almeno si è
colorito in vario modo. Il grande delinquente è stato spesso rappresentato
superiore all'apparato giudiziario, addirittura come il rappresentante della
«vera» giustizia: influsso del romanticismo, I Masnadieri di Schiller,
racconti di Hoffmann, Anna Radcliffe, il Vautrin di Balzac.
Il tipo di Javert dei Miserabili è
interessante dal punto di vista della psicologia popolare: Javert ha torto dal
punto di vista della «vera giustizia», ma l'Hugo lo rappresenta in modo
simpatico, come «uomo di carattere», ligio al dovere «astratto» ecc.; da Javert
nasce forse una tradizione secondo cui anche il poliziotto può essere
«rispettabile». Rocambole di Ponson du Terrail. Gaboriau continua la
riabilitazione del poliziotto col «signor Lecoq» che apre la strada a Sherlock
Holmes.
Non è vero che gli Inglesi nel romanzo
«giudiziario» rappresentano la «difesa della legge», mentre i Francesi rappresentano
l'esaltazione del delinquente. Si tratta di un passaggio «culturale» dovuto al
fatto che questa letteratura si diffonde anche in certi strati colti. Ricordare
che il Sue, molto letto dai democratici delle classi medie, ha escogitato tutto
un sistema di repressione della delinquenza professionale.
In questa letteratura poliziesca si sono sempre
avute due correnti: una meccanica – d'intrigo – l'altra artistica: Chesterton
oggi è il maggiore rappresentante dell'aspetto «artistico» come lo fu un tempo
Poe: Balzac con Vautrin, si occupa del delinquente, ma non è «tecnicamente»
scrittore di romanzi polizieschi.
1) È da vedere il libro di Henry Jagot: Vidocq,
ed. Berger-Levrault, Parigi, 1930. Vidocq ha dato lo spunto al Vautrin di
Balzac e ad Alessandro Dumas (lo si ritrova anche un po' nel Jean Valjean
dell'Hugo e specialmente in Rocambole). Vidocq fu condannato a otto anni come
falso monetario, per una sua imprudenza, 20 evasioni ecc. Nel 1812 entrò a far
parte della polizia di Napoleone e per 15 anni comandò una squadra di agenti
creata apposta per lui: divenne famoso per gli arresti sensazionali. Congedato
da Luigi Filippo, fondò un'agenzia privata di detectives, ma con scarso
successo: poteva operare solo nelle file della polizia statale. Morto nel 1857. Ha lasciato le sue Memorie
che non sono state scritte da lui solo e in cui sono contenute molte
esagerazioni e vanterie.
2) È da vedere l'articolo di Aldo Sorani Conan
Doyle e la fortuna del romanzo poliziesco, nel «Pègaso» dell'agosto 1930,
notevole per l'analisi di questo genere di letteratura e per le diverse
specificazioni che ha avuto finora. Nel parlare del Chesterton e della serie di
novelle del padre Brown il Sorani non tiene conto di due elementi culturali che
paiono invece essenziali: a) non accenna all'atmosfera caricaturale che
si manifesta specialmente nel volume L'innocenza di padre Brown e che
anzi è l'elemento artistico che innalza la novella poliziesca del Chesterton,
quando, non sempre, l'espressione è riuscita perfetta; b) non accenna al
fatto che le novelle del padre Brown sono «apologetiche» del cattolicismo e del
clero romano, educato a conoscere tutte le pieghe dell'animo umano
dall'esercizio della confessione e della funzione di guida spirituale e di
intermediario tra l'uomo e la divinità, contro lo «scientismo» e la psicologia
positivistica del protestante Conan Doyle. Il Sorani, nel suo articolo,
riferisce sui diversi tentativi, specialmente anglosassoni, e di maggior
significato letterario, per perfezionare tecnicamente il romanzo poliziesco.
L'archetipo è Sherlock Holmes, nelle sue due fondamentali caratteristiche: di
scienziato e di psicologo: si cerca di perfezionare l'una o l'altra
caratteristica o ambedue insieme. Il Chesterton ha appunto insistito
sull'elemento psicologico, nel gioco delle induzioni e deduzioni col padre
Brown, ma pare abbia ancora esagerato nella sua tendenza col tipo del
poeta-poliziotto Gabriel Gale.
Il Sorani schizza un quadro della inaudita fortuna
del romanzo poliziesco in tutti gli ordini della società e cerca di
identificarne l'origine psicologica: sarebbe una manifestazione di rivolta
contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di
evadere dal tritume quotidiano. Ma questa spiegazione si può applicare a tutte
le forme della letteratura, popolare o d'arte: dal poema cavalleresco (Don
Chisciotte non cerca di evadere anch'egli, anche praticamente, dal tritume e
dalla standardizzazione della vita quotidiana di un villaggio spagnolo?) al
romanzo d'appendice di vario genere. Tutta la letteratura e la poesia sarebbe
dunque uno stupefacente contro la banalità quotidiana? In ogni modo l'articolo
del Sorani è indispensabile per una futura ricerca piú organica su questo
genere di letteratura popolare.
Il problema: perché è diffusa la letteratura
poliziesca? è un aspetto particolare del problema piú generale: perché è
diffusa la letteratura non-artistica? Per ragioni pratiche e culturali
(politiche e morali), indubbiamente: e questa risposta generica è la piú
precisa, nei suoi limiti approssimativi. Ma anche la letteratura artistica non
si diffonde anch'essa per ragioni pratiche e politico-morali e solo
mediatamente per ragioni di gusto artistico, di ricerca e godimento della
bellezza? In realtà si legge un libro per impulsi pratici (e occorre ricercare
perché certi impulsi si generalizzino piú di altri) e si rilegge per ragioni
artistiche. L'emozione estetica non è quasi mai di prima lettura. Ciò si
verifica ancor di piú nel teatro, in cui l'emozione estetica è una
«percentuale» minima dell'interesse dello spettatore, perché nella scena
giocano altri elementi, molti dei quali non sono neppure d'ordine
intellettuale, ma di ordine meramente fisiologico, come il «sex-appeal», ecc.
In altri casi l'emozione estetica nel teatro non è originata dall'opera
letteraria, ma dall'interpretazione degli attori e del regista: in questi casi
occorre però che il testo letterario del dramma che dà il pretesto
all'interpretazione non sia «difficile» e ricercato psicologicamente, ma invece
«elementare e popolare» nel senso che le passioni rappresentate siano le piú
profondamente «umane» e di immediata esperienza (vendetta, onore, amore
materno, ecc.) e quindi l'analisi si complica anche in questi casi. I grandi
attori tradizionali venivano acclamati nella Morte civile, nelle Due
orfanelle, nella Gerla di papà Martin, ecc., piú che nelle
complicate macchine psicologiche: nel primo caso l'applauso era senza riserve,
nel secondo era piú freddo, destinato a scindere l'attore amato dal pubblico,
dal lavoro rappresentato, ecc.
Una giustificazione simile a quella del Sorani
della fortuna dei romanzi popolari si trova in un articolo di Filippo Burzio
sui Tre Moschettieri di Alessandro Dumas (pubblicato nella «Stampa» del
22 ottobre 1930 e riportato in estratti dall'«Italia Letteraria» del 9
novembre). Il Burzio considera i Tre Moschettieri una felicissima
personificazione, come il Don Chisciotte e l'Orlando Furioso, del mito
dell'avventura, «cioè di qualcosa di essenziale alla natura umana, che sembra
gravemente e progressivamente straniarsi dalla vita moderna. Quanto piú
l'esistenza si fa razionale (o razionalizzata, piuttosto, per coercizione, che
se è razionale per i gruppi dominanti, non è razionale per quelli dominati, e
che è connessa con l'attività economico-pratica, per cui la coercizione si
esercita, sia pure indirettamente, anche sui ceti «intellettuali»?) e
organizzata, la disciplina sociale ferrea, il compito assegnato all'individuo
preciso e prevedibile (ma non prevedibile per i dirigenti come appare dalle
crisi e dalle catastrofi storiche), tanto piú il margine dell'avventura si
riduce, come la libera selva di tutti fra i muretti soffocanti della proprietà
privata... Il taylorismo è una bella cosa e l'uomo è un animale adattabile,
però forse ci sono dei limiti alla sua meccanizzazione. Se a me chiedessero le
ragioni profonde dell'inquietudine occidentale, risponderei senza esitare: la
decadenza della fede (!) e la mortificazione dell'avventura». «Vincerà il
taylorismo o vinceranno i Moschettieri? Questo è un altro discorso e la
risposta, che trent'anni fa sembrava certa, sarà meglio tenerla in sospeso. Se
l'attuale civiltà non precipita, assisteremo forse a interessanti miscugli dei
due».
La quistione è questa: che il Burzio non tiene
conto del fatto che c'è sempre stata una gran parte di umanità la cui attività
è sempre stata taylorizzata e ferreamente disciplinata e che essa ha cercato di
evadere dai limiti angusti dell'organizzazione esistente che la schiacciava,
con la fantasia e col sogno. La piú grande avventura, la piú grande «utopia»
che l'umanità ha creato collettivamente, la religione, non è un modo di evadere
dal «mondo terreno»? E non è in questo senso che Balzac parla del lotto come di
oppio della miseria, frase ripresa poi da altri? (Cfr. nel quaderno 1° degli Argomenti
di cultura). Ma il piú notevole è che accanto a Don Chisciotte esiste
Sancho Panza, che non vuole «avventure», ma certezza di vita e che il gran
numero degli uomini è tormentato proprio dall'ossessione della non
«prevedibilità del domani», dalla precarietà della propria vita quotidiana,
cioè da un eccesso di «avventure» probabili. Nel mondo moderno la quistione si
colorisce diversamente che nel passato per ciò che la razionalizzazione
coercitiva dell'esistenza colpisce sempre piú le classi medie e intellettuali,
in una misura inaudita; ma anche per esse si tratta non di decadenza
dell'avventura, ma di troppa avventurosità della vita quotidiana, cioè di
troppa precarietà nell'esistenza, unita alla persuasione che contro tale
precarietà non c'è modo individuale di arginamento: quindi si aspira
all'avventura «bella» e interessante, perché dovuta alla propria iniziativa
libera, contro l'avventura «brutta» e rivoltante, perché dovuta alle condizioni
imposte da altri e non proposte.
La giustificazione del Sorani e del Burzio vale
anche a spiegare il tifo sportivo, cioè spiega troppo e quindi nulla. Il
fenomeno è vecchio almeno come la religione, ed è poliedrico, non unilaterale:
ha anche un aspetto positivo, cioè il desiderio di «educarsi» conoscendo un
modo di vita che si ritiene superiore al proprio, il desiderio di innalzare la
propria personalità proponendosi modelli ideali (cfr. lo spunto sull'origine
popolaresca del superuomo negli Argomenti di cultura), il desiderio di
conoscere piú mondo e piú uomini di quanto sia possibile in certe condizioni di
vita, lo snobismo ecc. ecc. Lo spunto della «letteratura popolare come oppio
del popolo» è annotato in una nota sull'altro romanzo di Dumas: Il Conte di
Montecristo.
Derivazioni culturali del romanzo d'appendice. È
da vedere il fascicolo della «Cultura» dedicato a Dostojevskij nel 1931.
Vladimiro Pozner in un articolo sostiene giustamente che i romanzi di
Dostojevskij sono derivati culturalmente dai romanzi d'appendice tipo E. Sue
ecc. Questa derivazione è utile tener presente per lo svolgimento di questa
rubrica sulla letteratura popolare, in quanto mostra come certe correnti
culturali (motivi e interessi morali, sensibilità, ideologie ecc.) possono
avere una doppia espressione: quella meramente meccanica di intrigo
sensazionale (Sue ecc.) e quella «lirica» (Balzac, Dostojevskij e in parte V.
Hugo). I contemporanei non sempre si accorgono della deteriorità di una parte
di queste manifestazioni letterarie, come è avvenuto in parte per il Sue, che fu
letto da tutti i gruppi sociali e «commuoveva» anche le persone di «cultura»,
mentre poi decadde a scrittore letto solo dal «popolo» (la «prima lettura» dà
puramente, o quasi, sensazioni «culturali» o di contenuto e il «popolo» è
lettore di prima lettura, acritico, che si commuove per la simpatia verso
l'ideologia generale di cui il libro è espressione spesso artificiosa e
voluta).
Per questo stesso argomento è da vedere: 1) Mario
Praz: La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, in
16°, pp. X-505, Milano-Roma, ed. La
Cultura, L. 40 (vedere la recensione di L. F. Benedetto nel
«Leonardo» del marzo 1931: da essa appare che il Praz non ha fatto con
esattezza la distinzione tra i vari gradi di cultura, onde alcune
obbiezioni del Benedetto, che d'altronde non pare colga egli stesso il nesso
storico della quistione storico-letteraria); 2) Servais Étienne: Le genre
romanesque en France depuis l'apparition de la «Nouvelle Héloïse» jusqu'aux
approches de la Révolution,
ed. Armand Colin; 3) Alice Killen: Le Roman terrifiant ou «Roman noir» de
Walpole a Anne Radcliffe et son influence sur la littérature française jusqu'en
1840, ed. Champion e di Reginald W. Hartland (presso lo stesso editore) Walter
Scott et le «Roman frénétique» (l'affermazione del Pozner che il romanzo di
Dostojevskij sia «romanzo d'avventura» è probabilmente derivata da un saggio di
Jacques Rivière sul «romanzo d'avventure», forse pubblicato nella «N. R. F.»,
che significherebbe «una vasta rappresentazione di azioni che sono insieme
drammatiche e psicologiche» cosí come l'hanno concepito Balzac, Dostojevskij,
Dickens e George Elliot); 4) un saggio di André Moufflet su Le style du
roman feuilleton nel «Mercure de France» del 1° febbraio 1931.
Articolo di Andrea Moufflet nel «Mercure de
France» del 1° febbraio 1931 sul romanzo d'appendice. Il romanzo d'appendice,
secondo il Moufflet, è nato dal bisogno di illusione, che infinite
esistenze meschine provavano, e forse provano ancora, quasi a rompere la grama
monotonia a cui si vedono condannate.
Osservazione generica: si può fare per tutti i
romanzi e non solo d'appendice: occorre analizzare quale particolare
illusione dà al popolo il romanzo d'appendice, e come questa illusione
cambi coi periodi storico-politici: c'è lo snobismo, ma c'è un fondo di
aspirazioni democratiche che si riflettono nel romanzo d'appendice classico.
Romanzo «tenebroso» alla Radcliffe, romanzo d'intrigo, d'avventura, poliziesco,
giallo, della malavita ecc. Lo snob si vede nel romanzo d'appendice che
descrive la vita dei nobili o delle classi alte in generale, ma questo piace
alle donne e specialmente alle ragazze, ognuna delle quali, del resto, pensa
che la bellezza può farla entrare nella classe superiore.
Esistono per il Moufflet i «classici» del romanzo
d'appendice, ma ciò è inteso in un certo senso: pare che il romanzo d'appendice
classico sia quello «democratico» con diverse sfumature da V. Hugo, a Sue, a
Dumas. L'articolo del Moufflet sarà da leggere, ma occorre tener presente che
egli esamina il romanzo d'appendice come «genere letterario», per lo stile
ecc., come espressione di un'«estetica popolare» ciò che è falso. Il popolo è
«contenutista», ma se il contenuto popolare è espresso da grandi artisti,
questi sono preferiti. Ricordare ciò che [ho] scritto per l'amore del popolo
per Shakespeare, per i classici greci, e modernamente per i grandi romanzieri
russi (Tolstoi, Dostojevskij). Cosí, nella musica, Verdi.
Nell'articolo Le mercantilisme littéraire di
J. H. Rosny aîné, nelle «Nouvelles Littéraires» del 4 ottobre 1930 si è
detto che V. Hugo scrisse i Miserabili ispirato dai Misteri di Parigi
di Eugenio Sue e dal successo che questi ebbero, tanto grande che
quarant'anni dopo l'editore Lacroix ne era ancora stupefatto. Scrive il Rosny:
«Le appendici, sia nell'intenzione del direttore del giornale, sia
nell'intenzione dell'appendicista, furono prodotti ispirati dal gusto del
pubblico e non dal gusto degli autori». Questa definizione è anch'essa
unilaterale. E infatti il Rosny scrive solo una serie di osservazioni sulla
letteratura «commerciale» in genere (quindi anche quella pornografica) e sul
lato commerciale della letteratura. Che il «commercio» e un determinato «gusto»
del pubblico si incontrino non è casuale, tanto è vero che le appendici scritte
intorno al '48 avevano un determinato indirizzo politico-sociale che ancora
oggi le fa ricercare e leggere da un pubblico che vive gli stessi sentimenti
del '48.
A proposito di V. Hugo ricordare la sua
dimestichezza con Luigi Filippo e quindi il suo atteggiamento monarchico
costituzionale nel '48. È interessante notare che, mentre scriveva i Miserabili,
scriveva anche le note di Choses vues (pubblicate postume) e che le due
scritture non sempre vanno d'accordo. Vedere queste quistioni, perché di solito
l'Hugo è considerato uomo d'un blocco solo, ecc. (Nella «Revue des Deux Mondes»
del '28 o '29, piú probabilmente del '29, ci deve essere un articolo su questo
argomento).
Origine popolaresca del «superuomo».
Ogni volta che ci si imbatte in qualche ammiratore del Nietzsche, è opportuno
domandarsi e ricercare se le sue concezioni «superumane», contro la morale
convenzionale, ecc. ecc., siano di pretta origine nicciana, siano cioè il
prodotto di una elaborazione di pensiero da porsi nella sfera della «alta
cultura», oppure abbiano origini molto piú modeste, siano, per esempio,
connesse con la letteratura d'appendice. (E lo stesso Nietzsche non sarà stato
per nulla influenzato dai romanzi francesi d'appendice? Occorre ricordare che
tale letteratura, oggi degradata alle portinerie e ai sottoscala, è stata molto
diffusa tra gli intellettuali, almeno fino al 1870, come oggi il cosí detto
romanzo «giallo»). In ogni modo pare si possa affermare che molta sedicente
«superumanità» nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non
Zaratustra ma Il conte di Montecristo di A. Dumas. Il tipo piú
compiutamente rappresentato dal Dumas in Montecristo trova, in altri romanzi
dello stesso autore, numerose repliche: esso è da identificare, per esempio,
nell'Athos dei Tre Moschettieri, in Giuseppe Balsamo e forse
anche in altri personaggi.
Cosí, quando si legge che uno è ammiratore del
Balzac, occorre porsi in guardia: anche nel Balzac c'è molto del romanzo
d'appendice. Vautrin è anch'egli, a suo modo, un superuomo, e il discorso che
egli fa a Rastignac nel Papà Goriot ha molto di... nicciano in senso
popolaresco; lo stesso deve dirsi di Rastignac e di Rubempré. (Vincenzo Morello
è diventato «Rastignac» per una tale filiazione... popolaresca e ha difeso
«Corrado Brando»).
La fortuna del Nietzsche è stata molto composita:
le sue opere complete sono edite dall'editore Monanni e si conoscono le origini
culturali-ideologiche del Monanni e della sua piú affezionata clientela.
Vautrin e l'«amico di Vautrin» hanno lasciato
larga traccia nella letteratura di Paolo Valera e della sua «Folla» (ricordare
il torinese «amico di Vautrin» della «Folla»). Largo seguito popolaresco ha
avuto l'ideologia del «moschettiere» presa dal romanzo del Dumas.
Che si abbia un certo pudore a giustificare
mentalmente le proprie concezioni coi romanzi di Dumas e di Balzac, s'intende
facilmente: perciò le si giustifica col Nietzsche e si ammira Balzac come
scrittore d'arte e non come creatore di figure romanzesche del tipo appendice.
Ma il nesso reale pare certo culturalmente.
Il tipo del «superuomo» è Montecristo, liberato di
quel particolare alone di «fatalismo» che è proprio del basso romanticismo e
che [è] ancor piú calcato in Athos e in G. Balsamo. Montecristo portato nella
politica è certo oltremodo pittoresco: la lotta contro i «nemici personali» del
Montecristo, ecc.
Si può osservare come certi paesi siano rimasti
provinciali e arretrati anche in questa sfera in confronto di altri; mentre già
Sherlock Holmes è diventato anacronistico per molta Europa, in alcuni paesi si
è ancora a Montecristo e a Fenimore Cooper (cfr. «i selvaggi», «pizzo di
ferro», ecc.).
Cfr. il libro di Mario Praz: La carne, la morte
e il diavolo nella letteratura romantica (Edizione della Cultura): accanto
alla ricerca del Praz, sarebbe da fare quest'altra ricerca: del «superuomo»
nella letteratura popolare e dei suoi influssi nella vita reale e nei costumi
(la piccola borghesia e i piccoli intellettuali sono particolarmente
influenzati da tali immagini romanzesche, che sono come il loro «oppio», il
loro «paradiso artificiale» in contrasto con la meschinità e le strettezze
della loro vita reale immediata): da ciò la fortuna di alcuni motti come: «è
meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora», fortuna
particolarmente grande in chi è proprio e irrimediabilmente pecora. Quante di
queste «pecore» dicono: oh! avessi io il potere anche per un giorno solo ecc.;
essere «giustizieri» implacabili è l'aspirazione di chi sente l'influsso di
Montecristo.
Adolfo Omodeo ha osservato che esiste una specie
di «manomorta» culturale, costituita dalla letteratura religiosa, di cui
nessuno pare voglia occuparsi, come se non avesse importanza e funzione nella
vita nazionale e popolare. A parte l'epigramma della «manomorta» e la
soddisfazione del clero che la sua speciale letteratura non sia sottoposta a un
esame critico, esiste un'altra sezione della vita culturale nazionale e
popolare di cui nessuno si occupa e si preoccupa criticamente ed è appunto la
letteratura d'appendice propriamente detta e anche in senso largo (in questo
senso vi rientra Victor Hugo e anche il Balzac).
In Montecristo vi sono due capitoli dove
esplicitamente si disserta del «superuomo» d'appendice: quello intitolato
«Ideologia», quando Montecristo si incontra col procuratore Villefort e quello
che descrive la colazione presso il visconte di Morcerf al primo viaggio di
Montecristo a Parigi. È da vedere se in altri romanzi del Dumas esistono spunti
«ideologici» del genere. Nei Tre moschettieri, Athos ha piú dell'uomo
fatale generico del basso romanticismo: in questo romanzo gli umori
individualistici popolareschi sono piuttosto solleticati con l'attività
avventurosa ed extralegale dei moschettieri come tali. In Giuseppe Balsamo,
la potenza dell'individuo è legata a forze oscure di magia e all'appoggio della
massoneria europea, quindi l'esempio è meno suggestivo per il lettore
popolaresco. Nel Balzac le figure sono piú concretamente artistiche, ma
tuttavia rientrano nell'atmosfera del romanticismo popolaresco. Rastignac e
Vautrin non sono certo da confondersi coi personaggi dumasiani e appunto perciò
la loro influenza è piú «confessabile», non solo da parte di uomini come Paolo
Valera e i suoi collaboratori della «Folla» ma anche da mediocri intellettuali
come V. Morello, che però ritengono (o sono ritenuti da molti) appartenere alla
«alta coltura».
Da avvicinare al Balzac è lo Stendhal con la
figura di Giuliano Sorel e altre del suo repertorio romanzesco.
Per il «superuomo» del Nietzsche, oltre
all'influsso romantico francese (e in generale del culto di Napoleone) sono da
vedere le tendenze razziste che hanno culminato nel Gobineau e quindi nel
Chamberlain e nel pangermanismo (Treitschke, la teoria della potenza ecc.).
Ma forse il «superuomo» popolaresco dumasiano è da
ritenersi proprio una reazione «democratica» alla concezione d'origine feudale
del razzismo, da unire all'esaltazione del «gallicismo» fatta nei romanzi di
Eugenio Sue.
Come reazione a questa tendenza del romanzo
popolare francese è da ricordare Dostojevschi: Raskolnikov è Montecristo
«criticato» da un panslavista-cristiano. Per l'influsso esercitato su
Dostojevschi dal romanzo francese d'appendice è da confrontare il numero unico
dedicato a Dostojevschi dalla «Cultura».
Nel carattere popolaresco del «superuomo» sono
contenuti molti elementi teatrali, esteriori, da «primadonna» piú che da
superuomo; molto formalismo «soggettivo e oggettivo», ambizioni fanciullesche
di essere il «primo della classe», ma specialmente di essere ritenuto e
proclamato tale.
Per i rapporti tra il basso romanticismo e alcuni
aspetti della vita moderna (atmosfera da Conte di Montecristo) è da leggere un
articolo di Louis Gillet nella «Revue des deux mondes» del 15 dicembre 1932.
Questo tipo di «superuomo» ha la sua espressione
nel teatro (specialmente francese, che continua per tanti rispetti la
letteratura d'appendice quarantottesca): è da vedere il repertorio «classico»
di Ruggero Ruggeri come Il marchese di Priola, L'artiglio, ecc. e
molti lavori di Henry Bernstein.
Balzac. (Cfr. qualche altra nota: accenni
all'ammirazione per Balzac dei fondatori della filosofia della prassi; lettera
inedita di Engels in cui questa ammirazione è giustificata criticamente).
Confrontare l'articolo di Paolo Bourget, Les idées politiques et sociales de
Balzac nelle «Nouvelles Littéraires» dell'8 agosto 1931. Il Bourget
comincia col notare come oggi si dà sempre piú importanza alle idee di Balzac:
«l'école traditionaliste (cioè forcaiola), que nous voyons grandir chaque jour,
inscrit son nom à côté de celui de Bonald, de Le Play, de Taine lui même».
Invece non era cosí nel passato. Sainte-Beuve, nell'articolo dei Lundis consacrati
a Balzac dopo la sua morte, non accenna neppure alle sue idee politiche e
sociali. Taine, che ammirava lo scrittore di romanzi, gli negò ogni importanza
dottrinale. Lo stesso critico cattolico Caro, verso gli inizi del secondo
Impero, giudicava futili le idee del Balzac. Flaubert scrive che le idee
politiche e sociali di Balzac non valgono la pena di essere discusse: «Il était
catholique, légitimiste, propriétaire! – scrive Flaubert – un immense bonhomme,
mais de second ordre». Zola scrive: «Rien de plus étrange que ce soutien du
pouvoir absolu, dont le talent est essentiellement démocratique et qui a écrit
l'oeuvre la plus révolutionnaire». Eccetera.
Si capisce l'articolo del Bourget. Si tratta di
trovare in Balzac l'origine del romanzo positivista, ma reazionario, la scienza
al servizio della reazione (tipo Maurras), che d'altronde è il destino piú
esatto del positivismo stabilito dal Comte.
Balzac e la scienza. Cfr. la «Prefazione generale»
della Commedia umana, dove il Balzac scrive che il naturalista avrà
l'onore eterno di aver mostrato che «l'animal est un principe qui prend sa
forme extérieure, ou mieux, les différences de sa forme, dans les milieux où il
est appelé à se développer. Les espèces zoologiques résultent des ces
différences... Pénétré de ce système, je vis que la société ressemble à la
nature. Ne fait-elle pas de l'homme, suivant les milieux où son action se
déploie, autant d'hommes différents qu'il y a des variétés zoologiques?... Il a
donc existé, il existera de tout temps des espèces sociales comme il y a des
espèces zoologiques. Les différences entre un soldat, un ouvrier, un
administrateur, un oisif (!!), un savant, un homme d'Etat, un commerçant, un
marin, un poëte, un pauvre (!!), un prêtre, sont aussi considérables que celles
qui distinguent le loup, le lion, l'âne, le corbeau, le requin, le veau marin,
la brebis».
Che Balzac abbia scritto queste cose e magari le
prendesse sul serio e immaginasse di costruire tutto un sistema sociale su
queste metafore, non fa maraviglia e neanche diminuisce per nulla la grandezza
di Balzac artista. Ciò che è notevole è che oggi il Bourget e, come egli dice,
la «scuola tradizionalista», si fondi su queste povere fantasie «scientifiche»
per costruire sistemi politico-sociali senza giustificazione di attività
artistica.
Partendo da queste premesse il Balzac si pone il
problema di «perfezionare al massimo queste specie sociali» e di armonizzarle
tra loro, ma siccome le «specie» sono create dall'ambiente, bisognerà
«conservare» e organizzare l'ambiente dato per mantenere e perfezionare la
specie data. Eccetera. Pare che non avesse torto Flaubert scrivendo che non
merita la pena di discutere le idee sociali di Balzac. E l'articolo del Bourget
mostra solo quanto sia fossilizzata la scuola tradizionalista francese.
Ma se tutta la costruzione del Balzac è senza
importanza come «programma pratico», cioè dal punto di vista da cui l'esamina
il Bourget, in essa sono elementi che hanno interesse per ricostruire il mondo
poetico del Balzac, la sua concezione del mondo in quanto si è realizzata
artisticamente, il suo «realismo» che, pur avendo origini ideologiche
reazionarie, di restaurazione, monarchiche, ecc., non perciò è meno realismo in
atto. E si capisce l'ammirazione che per il Balzac nutrirono i fondatori della
filosofia della prassi: che l'uomo sia tutto il complesso delle condizioni
sociali in cui egli si è sviluppato e vive, che per «mutare» l'uomo occorre
mutare questo complesso di condizioni è intuito chiaramente dal Balzac. Che
«politicamente e socialmente» egli sia un reazionario, appare solo dalla parte
extra-artistica dei suoi scritti (divagazione, prefazioni, ecc.). Che anche
questo «complesso di condizioni» o «ambiente» sia inteso «naturalisticamente» è
anche vero; infatti il Balzac precede una determinata corrente letteraria
francese, ecc.
Rilievi statistici. Quanti romanzi di
autore italiano hanno pubblicato i periodici popolari piú diffusi, come il
«Romanzo Mensile», la «Domenica del Corriere», la «Tribuna Illustrata», il
«Mattino Illustrato»? La «Domenica del Corriere» forse nessuno in tutta la sua
vita (circa 36 anni) su circa un centinaio di romanzi pubblicati. La «Tribuna
Illustrata» qualcuno (negli ultimi tempi una serie di romanzi polizieschi del
principe Valerio Pignatelli); ma occorre notare che la «Tribuna» è enormemente
meno diffusa della «Domenica», non è bene organizzata redazionalmente ed ha un
tipo di romanzo meno scelto.
Sarebbe interessante vedere la nazionalità degli
autori e il tipo dei romanzi d'avventura pubblicati. Il «Romanzo Mensile» e la
«Domenica» pubblicano molti romanzi inglesi (quelli francesi tuttavia devono prevalere)
e di tipo poliziesco (hanno pubblicato Sherlock Holmes e Arsenio
Lupin) ma anche tedeschi, ungheresi (la baronessa Orczy è molto diffusa e i
suoi romanzi sulla Rivoluzione francese hanno avuto molte ristampe anche nel
«Romanzo Mensile» che pure deve avere una grande diffusione) e persino
australiani (di Guido Boothby che ha avuto diverse edizioni): prevale
certamente il romanzo poliziesco o affine, imbevuto di una concezione
conservatrice e retriva o basato sul puro intrigo. Sarebbe interessante sapere
chi, nella redazione del «Corriere della Sera», era incaricato di scegliere
questi romanzi e quali direttive gli erano state impartite, dato che nel
«Corriere» tutto era organizzato sapientemente. Il «Mattino Illustrato»,
sebbene esca a Napoli, pubblica romanzi del tipo «Domenica», ma si lascia
guidare da quistioni finanziarie e spesso da velleità letterarie (cosí credo
abbia pubblicato Conrad, Stevenson, London): lo stesso è da dire a proposito
dell'«Illustrazione del Popolo» torinese. Relativamente, e forse anche in modo
assoluto, l'amministrazione del «Corriere» è il centro di maggior diffusione
dei romanzi popolari: ne pubblica almeno 15 all'anno con tirature altissime.
Deve venir poi la Casa
Sonzogno, che deve avere anche una pubblicazione periodica.
Un confronto nel tempo dell'attività editoriale della Casa Sonzogno darebbe un
quadro abbastanza approssimativo delle variazioni avvenute nel gusto del
pubblico popolare; la ricerca è difficile, perché la Sonzogno non stampa
l'anno di pubblicazione e non numera spesso le ristampe, ma un esame critico
dei cataloghi darebbe qualche risultato. Già un confronto tra i cataloghi di 50
anni fa (quando il «Secolo» era in auge) e quelli odierni sarebbe interessante:
tutto il romanzo lacrimoso-sentimentale deve essere caduto nel dimenticatoio,
eccetto qualche «capolavoro» del genere che deve ancora resistere (come la Capinera del
Mulino, del Richebourg): d'altronde ciò non vuol dire che tali libri non
siano letti da certi strati della popolazione di provincia, dove «si gusta»
ancora dagli «spregiudicati» Paul De Kock e si discute animatamente sulla
filosofia dei Miserabili. Cosí sarebbe interessante seguire la
pubblicazione dei romanzi a dispense, fino a quelli di speculazione, che
costano decine e decine di lire e sono legati a premi.
Un certo numero di romanzi popolari hanno
pubblicato Edoardo Perino e piú recentemente il Nerbini, tutti a sfondo
anticlericale e legati alla tradizione guerrazziana. (È inutile ricordare il
Salani, editore popolare per eccellenza). Occorrerebbe compilare una lista
degli editori popolari.
[Gli «eroi» della letteratura
popolare.] Uno degli atteggiamenti piú caratteristici del pubblico popolare
verso la sua letteratura è questo: non importa il nome e la personalità
dell'autore, ma la persona del protagonista. Gli eroi della letteratura
popolare, quando sono entrati nella sfera della vita intellettuale popolare, si
staccano dalla loro origine «letteraria» e acquistano la validità del
personaggio storico. Tutta la loro vita interessa, dalla nascita alla morte, e
ciò spiega la fortuna delle «continuazioni», anche se artefatte: cioè può
avvenire che il primo creatore del tipo, nel suo lavoro, faccia morire l'eroe e
il «continuatore» lo faccia rivivere, con grande soddisfazione del pubblico che
si appassiona nuovamente, e rinnova l'immagine prolungandola col nuovo
materiale che gli è stato offerto. Non bisogna intendere «personaggio storico»
in senso letterale, sebbene anche questo avvenga, che dei lettori popolari non
sappiano piú distinguere tra mondo effettuale della storia passata e mondo
fantastico e discutano sui personaggi romanzeschi come farebbero su quelli che
hanno vissuto, ma in un modo traslato, per comprendere che il mondo fantastico
acquista nella vita intellettuale popolare una concretezza fiabesca
particolare. Cosí avviene per esempio che avvengano delle contaminazioni tra
romanzi diversi, perché i personaggi si rassomigliano: il raccontatore popolare
unisce in un solo eroe le avventure dei vari eroi ed è persuaso che cosí debba
essere fatto per essere «intelligenti».
[L'Ebreo Errante.] Diffusione dell'Ebreo
Errante in Italia nel periodo del Risorgimento. Vedere l'articolo di Baccio
M. Bacci Diego Martelli, l'amico dei «Macchiaioli» nel
«Pègaso» del marzo 1931. Il Bacci riporta integralmente in parte e in parte
riassume (pp. 298-99) alcune pagine inedite dei Ricordi della mia prima età,
in cui il Martelli racconta che spesso (tra il '49 e il '59) si riunivano in
casa sua gli amici del padre, tutti patriotti e uomini di studio come il padre
stesso: Atto Vannucci, Giuseppe Arcangeli, insegnante di greco e di latino,
Vincenzo Monteri, chimico, fondatore dell'illuminazione a gas a Firenze, Pietro
Thouar, Antonio Mordini, Giuseppe Mazzoni, triumviro con Guerrazzi e
Montanelli, il Salvagnoli, il Giusti, ecc.: discutevano di arte e di politica e
talvolta leggevano i libri che circolavano clandestini. Vieusseux aveva
introdotto l'Ebreo Errante: ne fu fatta lettura in casa Martelli,
davanti agli amici intervenuti da Firenze e da fuori. Racconta Diego Martelli:
«Chi si strappava i capelli, chi pestava i piedi, chi mostrava le pugna al
cielo...».
In un articolo di Antonio Baldini («Corriere della
Sera», 6 dicembre 1931) su Paolina Leopardi (Tutta-di-tutti) e i suoi
rapporti con Prospero Viani, si ricorda, sulle tracce di un gruppo di lettere
pubblicate da C. Antona-Traversi («Civiltà moderna», anno III, n. 5, Firenze,
Vallecchi) che il Viani soleva inviare alla Leopardi i romanzi di Eugenio Sue (I
misteri di Parigi e anche L'ebreo errante) che Paolina trovava
«deliziosi». Ricordare il carattere di P. Viani, erudito, corrispondente della
Crusca e l'ambiente in cui viveva Paolina, accanto all'ultrareazionario
Monaldo, che scriveva la rivista «Voce della Ragione» (di cui Paolina era la
redattrice capo) ed era avverso alle ferrovie, ecc.
Scientismo e postumi del basso romanticismo. È
da vedere la tendenza della sociologia di sinistra in Italia a occuparsi
intensamente del problema della criminalità. È essa legata al fatto che alla
tendenza di sinistra avevano aderito Lombroso e molti dei piú «brillanti»
seguaci che parevano allora la suprema espressione della scienza e che
influivano con tutte le loro deformazioni professionali e i loro specifici
problemi? O si tratta di un postumo del basso romanticismo del '48 (Sue e le
sue elucubrazioni di diritto penale romanzato)? O è legato a ciò che in Italia
[impressionava] certi gruppi intellettuali la grande quantità di reati di
sangue ed essi pensavano di non poter procedere oltre senza aver spiegato
«scientificamente» (cioè naturalisticamente) questo fenomeno di «barbarie»?
Letteratura popolare. Cfr. E. Brenna, La
letteratura educativa popolare italiana nel secolo XIX (Milano, F.I.L.P.,
1931, pp. 246, L.
6). Dalla recensione dovuta alla prof. E. Formiggini-Santamaria («Italia che
scrive» marzo 1932) si traggono questi spunti: il libro della Brenna ebbe un
premio d'incoraggiamento nel concorso Ravizza, che pare aveva per tema appunto
la «letteratura educativa popolare». La Brenna ha dato un quadro dell'evoluzione del
romanzo, della novella, di scritti di divulgazione morale e sociale, del
dramma, degli scritti vernacoli piú diffusi nel secolo XIX con riferimenti al
secolo XVIII e in rapporto coll'indirizzo letterario nel suo globale svolgimento.
La
Brenna ha dato al termine «popolare» un senso molto largo,
«includendoci cioè anche la borghesia, quella che non fa della coltura il suo
scopo di vita, ma che può accostarsi all'arte»; cosí ha considerato come
«letteratura educativa del popolo tutta quella di stile non aulico e ricercato,
includendovi per es. I Promessi Sposi, i romanzi del D'Azeglio e gli
altri della stessa indole, i versi del Giusti e quelli che prendono ad
argomento le lievi vicende e la serena natura, come le rime del Pascoli e di Ada
Negri. La
Formiggini-Santamaria fa alcune considerazioni interessanti:
«Questa interpretazione del tema si giustifica pensando quanto sia stata scarsa
nella prima metà del secolo scorso la diffusione dell'alfabeto tra gli
artigiani e i contadini (ma la letteratura popolare non si diffonde solo per
lettura individuale, ma anche per letture collettive; altre attività: i Maggi
in Toscana, i cantastorie nell'Italia meridionale, sono proprie di ambienti
arretrati dove [è] diffuso l'analfabetismo; anche le gare poetiche in Sardegna
e Sicilia), e scarsa anche la stampa di libri adatti (cosa vuol dire «adatti»?
e la letteratura non fa nascere nuovi bisogni?) alla povera mentalità di
lavoratori del braccio; l'A. avrà pensato che, rievocando soltanto questi, il suo
studio sarebbe riuscito molto ristretto. Pure a me pare che l'intenzione
implicita nel tema dato, sia stata di far risaltare, insieme con la scarsità di
scritti d'indole popolare del sec. XIX, il bisogno di scrivere per il popolo
libri adatti, e di far ricercare – attraverso l'analisi del passato – i criteri
ai quali una letteratura popolare debba ispirarsi. Non dico che non dovesse
esser dato uno sguardo alle pubblicazioni che nelle intenzioni degli scrittori
dovevano servire ad educare il popolo senza tuttavia arrivare ad esso; ma da
tale cenno avrebbe dovuto piú esplicitamente risultare per quale motivo la
buona intenzione restò intenzione. Vi furono invece altre opere (specialmente
nella seconda metà del sec. XIX) che si proposero in prima linea il successo e
secondariamente l'educazione, ed ebbero molta fortuna nelle classi popolari. È
vero che, prendendole in esame, la
Brenna avrebbe dovuto staccarsi molto spesso dal campo
dell'arte, ma nell'analisi di quei libri che si diffusero e si diffondono tuttora
tra il popolo (per es. gli illogici, complicati, tenebrosi romanzi della
Invernizio), nello studio su quei drammoni d'arena che strapparono lacrime ed
applausi al pubblico domenicale dei teatri secondari (e che sono pur sempre
ispirati ad amore della giustizia e al coraggio) si sarebbe meglio potuto
trovare l'aspetto piú emergente dell'animo popolare, il segreto di ciò che può
educarlo quando sia portato in un campo d'azione meno unilaterale e piú
sereno».
La
Formiggini nota poi che la Brenna non si è occupata dello studio del
folclore, e ricorda che bisogna occuparsi almeno delle favole e novelle tipo
fratelli Grimm.
La
Formiggini insiste sulla parola «educativa» ma non indica il
contenuto che dovrebbe avere tale concetto, eppure la quistione è tutta qui. La
«tendenziosità» della letteratura popolare educativa d'intenzione è cosi
insipida e falsa, risponde cosí poco agli interessi mentali del popolo che
l'impopolarità è la sanzione giusta.
[Le tendenze «populiste».] Cfr.
Alberto Consiglio, Populismo e nuove tendenze della letteratura francese,
«Nuova Antologia», 1° aprile 1931. Il Consiglio prende le mosse dall'inchiesta
delle «Nouvelles Littéraires» sul «Romanzo operaio e contadino» (nei mesi
luglio-agosto 1930). L'articolo è da rileggere, quando l'argomento volesse
esser trattato organicamente. La tesi del Consiglio (piú o meno esplicita e
consapevole) è questa: di fronte al crescere della potenza politica e sociale
del proletariato e della sua ideologia, alcune sezioni dell'intellettualismo
francese reagiscono con questi movimenti «verso il popolo». L'avvicinamento al
popolo significherebbe quindi una ripresa del pensiero borghese che non vuole
perdere la sua egemonia sulle classi popolari e che, per esercitare meglio
questa egemonia, accoglie una parte dell'ideologia proletaria. Sarebbe un
ritorno a forme «democratiche» piú sostanziali del corrente «democratismo»
formale.
È da vedere se anche un fenomeno di questo genere
non sia molto significativo e importante storicamente e non rappresenti una
fase necessaria di transizione e un episodio dell'«educazione popolare»
indiretta. Una lista delle tendenze «populiste» e una analisi di ciascuna di
esse sarebbe interessante: si potrebbe «scoprire» una di quelle che Vico chiama
«astuzie della natura», cioè come un impulso sociale, tendente a un fine,
realizzi il suo contrario.
[Biografie romanzate.] Se è vero che la
biografia romanzata continua, in un certo senso, il romanzo storico popolare
tipo A. Dumas padre, si può dire che da questo punto di vista, in questo
particolare settore, in Italia si sta «colmando una lacuna». È da vedere ciò
che pubblica la Casa
ed. «Corbaccio», e qualche altra, e specialmente i libri di Mazzucchelli. È da
notare però che la biografia romanzata, se ha un pubblico popolare, non è
popolare in senso completo come il romanzo d'appendice: essa si rivolge a un
pubblico che ha o crede avere delle pretese di cultura superiore, alla piccola
borghesia rurale e urbana che crede essere diventata «classe dirigente», e
arbitra dello Stato. Il tipo moderno del romanzo popolare è quello poliziesco,
«giallo», e in questo settore si ha zero. Cosí si ha zero nel romanzo
d'avventure in senso largo, sia del tipo Stevenson, Conrad, London, sia del
tipo francese odierno (Mac-Orlan, Malraux, ecc.).
Teatro. «Il dramma lacrimoso e la commedia
sentimentale avevano popolato il palcoscenico di pazzi e di delinquenti di ogni
genere e la Rivoluzione
francese – tranne pochi lavori d'occasione – niente aveva ispirato agli autori
drammatici che segnasse un nuovo indirizzo d'arte e che sviasse il pubblico dai
sotterranei misteriosi, dalle foreste perigliose, dai manicomi...» (Alberto
Manzi, Il conte Giraud, il Governo italico e la censura nella «Nuova
Antologia» del 1° ottobre 1929).
Il Manzi riporta un brano di un opuscolo dell'avv.
Maria Giacomo Boïeldieu, del 1804: «Ai nostri giorni la scena si è trasformata:
e non è raro il caso di veder gli assassini nelle loro caverne e i pazzi nel
manicomio. Non si può lasciare ai tribunali il compito di punire quei mostri
che disonorano il nome di uomo, e ai medici quello di cercar di curare gli
sventurati i cui delitti colpiscono penosamente l'umanità, anche se simulati?
Quale possente attrattiva, quale soluzione può esercitare sullo spettatore il
quadro dei mali che nell'ordine morale e fisico desolano la specie umana, e dai
quali da un momento all'altro e per la piú piccola scossa dei nostri nervi
esauriti, possiamo noi stessi diventare vittime meritevoli di compassione?! Che
bisogno c'è di andare al teatro per vedere Briganti (commedia tipo: Robert
chef des brigands, di Lamartelière, finito poi impiegato di Stato, e il cui
enorme successo, nel 1791, fu determinato dalla frase «guerre aux châteaux,
paix aux chaumières»; derivata dai Masnadieri di Schiller) Pazze e
Malati d'amore (commedie tipo Nina la pazza per amore, Il
cavaliere de la Barre,
Il delirio, ecc.)», ecc. ecc. Il Boïeldieu critica «il genere che, in
realtà, mi sembra pericoloso e da deplorare».
L'articolo del Manzi contiene qualche spunto
sull'atteggiamento della censura napoleonica contro questo tipo di teatro,
specialmente quando i casi anormali rappresentati toccavano il principio
monarchico.
E. De Amicis e G. C. Abba. Significato
della Vita Militare del De Amicis. La Vita Militare
è da porre accanto ad alcune pubblicazioni di G. C. Abba, nonostante il
contrasto intimo e il diverso atteggiamento. G. C. Abba è piú «educatore» e piú
«nazionale-popolare»: egli è certamente piú concretamente democratico del De
Amicis perché politicamente piú robusto ed eticamente piú austero. Il De
Amicis, nonostante le apparenze superficiali, è piú servile verso i gruppi
dirigenti in forme paternalistiche.
Nella Vita Militare è da vedere il
capitolo: «L'Esercito Italiano durante il colera del 1867» perché ritrae
l'atteggiamento del popolo siciliano verso il governo e gli «italiani» dopo la
sommossa del settembre 1866. Guerra del 1866, sommossa di Palermo, colera: tre
fatti che non possono essere staccati. Sarà da vedere l'altra letteratura sul
colera in tutto il Mezzogiorno nel 1866-67. Non si può giudicare il livello
civile della vita popolare di quel tempo senza trattare questo argomento.
(Esistono pubblicazioni ufficiali sui reati contro le autorità – soldati,
ufficiali, ecc. – durante il colera?)
Il Guerin Meschino. Nel «Corriere della
Sera» del 7 gennaio 1932 è pubblicato un articolo firmato Radius con questi
titoli: I classici del popolo. Guerino detto il Meschino. Il sopratitolo
I classici del popolo è vago e incerto: il Guerino, con tutta una serie
di libri simili (I Reali di Francia, Bertoldo, storie di
briganti, storie di cavalieri, ecc.) rappresenta una determinata letteratura
popolare, la piú elementare e primitiva, diffusa tra gli strati piú arretrati e
«isolati» del popolo: specialmente nel Mezzogiorno, nelle montagne, ecc. I
lettori del Guerino non leggono Dumas o i Miserabili e tanto meno
Sherlock Holmes. A questi strati corrisponde un determinato folclore e un
determinato «senso comune».
Radius ha solo leggiucchiato il libro e non ha
molta dimestichezza con la filologia. Egli dà di Meschino un significato
cervellotico: «il nomignolo fu appioppato all'eroe per via della sua grande
meschinità genealogica»: errore colossale che muta tutta la psicologia popolare
del libro e muta il rapporto psicologico-sentimentale dei lettori popolari
verso il libro. Appare subito che Guerino è di stirpe regia, ma la sua sfortuna
lo fa diventare «servo», cioè «meschino» come si diceva nel Medio Evo e come si
trova in Dante (nella Vita Nova, ricordo perfettamente). Si tratta
dunque di un figlio di re, ridotto in ischiavitú, che riconquista, coi suoi
propri mezzi e con la sua volontà, il suo rango naturale: c'è nel «popolo» piú
primitivo questo ossequio tradizionale alla nascita che diventa «affettuoso»
quando la sfortuna colpisce l'eroe e diventa entusiasmo quando l'eroe
riconquista, contro la sfortuna, la sua posizione sociale.
Guerino come poema popolare «italiano»: è
da notare, da questo punto di vista, quanto sia rozzo e incondito il libro,
cioè come non abbia subíto nessuna elaborazione e perfezionamento, dato
l'isolamento culturale del popolo, lasciato a se stesso. Forse per questa
ragione si spiega l'assenza di intrighi amorosi, l'assenza completa di erotismo
nel Guerino.
Il Guerino come «enciclopedia popolare»: da
osservare quanto debba essere bassa la cultura degli strati che leggono il Guerino
e quanto poco interesse abbiano per la «geografia», per esempio, per
accontentarsi e prendere sul serio il Guerino. Si potrebbe analizzare il
Guerino come «enciclopedia» per averne indicazioni sulla rozzezza
mentale e sulla indifferenza culturale del vasto strato di popolo che ancora se
ne pasce.
Lo «Spartaco» di R. Giovagnoli.
Nel «Corriere della Sera» dell'8 gennaio 1932 è pubblicata la lettera inviata
da Garibaldi a Raffaele Giovagnoli il 25 giugno 1874 da Caprera, subito dopo la
lettura del romanzo Spartaco. La lettera è molto interessante per questa
rubrica sulla «letteratura popolare» poiché il Garibaldi ha scritto anche egli
dei «romanzi popolari» e nella lettera sono gli spunti principali della sua
«poetica» in questo genere. Spartaco del Giovagnoli, d'altronde, è uno
dei pochissimi romanzi popolari italiani che ha avuto diffusione anche
all'estero, in un periodo in cui il «romanzo» popolare da noi era «anticlericale»
e «nazionale», aveva cioè caratteri e limiti strettamente paesani. Per ciò che
ricordo, mi pare che Spartaco si presterebbe specialmente a un tentativo
che, entro certi limiti, potrebbe diventare un metodo: si potrebbe cioè
«tradurlo» in lingua moderna: purgarlo delle forme retoriche e barocche come
lingua narrativa, ripulirlo di qualche idiosincrasia tecnica e stilistica,
rendendolo «attuale». Si tratterebbe di fare, consapevolmente, quel lavorio di
adattamento ai tempi e ai nuovi sentimenti e nuovi stili che la letteratura
popolare subiva tradizionalmente quando si trasmetteva per via orale e non era
stata fissata e fossilizzata dalla scrittura e dalla stampa. Se questo si fa da
una lingua in un'altra, per i capolavori del mondo classico che ogni età ha
tradotto e imitato secondo le nuove culture, perché non si potrebbe e dovrebbe
fare per lavori come Spartaco e altri, che hanno un valore
«culturale-popolare» piú che artistico? (Motivo da svolgere). Questo lavorio di
adattamento si verifica ancora nella musica popolare, per i motivi musicali
popolarmente diffusi: quante canzoni d'amore non sono diventate politiche,
passando per due tre elaborazioni? Ciò avviene in tutti i paesi e si potrebbero
citare dei casi abbastanza curiosi (per es. l'inno tirolese di Andreas Hofer
che ha dato la forma musicale alla Molodaia Gvardia).
Per i romanzi ci sarebbe l'impedimento dei diritti
d'autore che oggi mi pare durino fino a ottanta anni dalla prima pubblicazione
(non si potrebbe però eseguire il rimodernamento per certe opere: per esempio I
Miserabili, l'Ebreo Errante, Il conte di Montecristo, ecc.
che sono troppo fissati nella forma originale).
[«La
Farfalla».] Cfr. Antonio Baldini, Stonature di
cinquant'anni fa: la
Farfalla petroliera, «Nuova Antologia», 16 giugno
1931. «La Farfalla»,
fondata da Angelo Sommaruga a Cagliari e dopo due anni trasportata a Milano
(verso il 1880). Il periodico finí col diventare la rivista di un gruppo di
«artisti... proletari». Vi scrissero Paolo Valera e Filippo Turati. Valera dirigeva
allora «La Plebe»
(quale? vedere) e scriveva i suoi romanzi: Milano sconosciuta e Gli
scamiciati, séguito alla Milano sconosciuta. Vi scrivevano Cesario
Testa, che dirigeva l'«Anticristo», e Ulisse Barbieri. La stessa impresa
editoriale della «Farfalla» pubblicava una «Biblioteca naturalista» e una
«Biblioteca socialista». Almanacco degli Atei per il 1881. Zola, Vallès,
di Goncourt, romanzi sui bassi fondi, galere, postriboli, ospedali, strade
(Lumpenproletariat), anticlericalismo, ateismo, naturalismo (Stecchetti «poeta
civile»). G. Aurelio Costanzo, Gli eroi della soffitta (da ragazzi, in
casa, avendo visto il libro, pensavamo che si parlasse di lotte fra i topi).
Carducci dell'Inno a Satana, ecc. Stile barocco come quello di Turati
(ricordare i suoi versi riportati da Schiavi nell'antologia Fiorita di canti
sociali): «Budda, Socrate, Cristo han detto il vero: – Per Satanasso un
infedel vel giura. – Vivono i morti e strangolarli è vano». (Questo «episodio»
di vita «artistica» milanese potrà essere studiato e ricostruito a titolo di
curiosità e anche non senza un interesse critico ed educativo). Sulla
«Farfalla» del periodo cagliaritano ha scritto Raffa Garzia, Per la storia
del nostro giornalismo letterario, in «Glossa Perenne», febbraio 1929.
Il prigioniero che canta, di Johan Bojer
(tradotto da L. Gray e G. Dauli, casa Editrice Bietti, Milano, 1930). Due
aspetti culturali da osservare: 1) la concezione «pirandelliana» del
protagonista, che continuamente ricrea la sua «personalità» fisica e morale,
che è sempre diversa e pur sempre uguale. Può interessare per la fortuna del
pirandellismo in Europa e allora occorre vedere quando il Bojer ha scritto il
suo libro; 2) aspetto piú strettamente popolare, contenuto nell'ultima parte
del romanzo. Per esprimersi in termini «religiosi» l'autore sostiene in forma
pirandelliana la vecchia concezione religiosa e riformistica del «male»: il
male è nell'interno dell'uomo (in senso assoluto); in ogni uomo c'è per cosí
dire un Caino e un Abele, che lottano tra loro: occorre, se si vuole eliminare
il male dal mondo, che ognuno vinca in sé il Caino e faccia trionfare l'Abele:
il problema del «male» non è dunque politico, o economico-sociale, ma «morale»
o «moralistico». Mutare il mondo esterno, l'insieme dei rapporti, non conta
nulla: ciò che è importante è il problema individuale-morale. In ognuno c'è il
«giudeo» e il «cristiano», l'egoista e l'altruista: ognuno deve lottare in se
stesso ecc., ammazzare il giudaismo che è in se stesso. È interessante che il
pirandellismo sia servito al Bojer per cucinare questo vecchio piatto, che una
teoria che passa per antireligiosa ecc. sia servita per ripresentare la vecchia
impostazione cristiana del problema del male ecc.
Luigi Capuana. Estratto da un articolo di
Luigi Tonelli, Il carattere e l'opera di Luigi Capuana («Nuova
Antologia», 1° maggio 1928): «Re Bracalone (romanzo fiabesco: il secolo
XX è creato, per forza d'incanto, nello spazio di brevi giorni, nei tempi di
"c'era una volta"; ma dopo averne fatta l'amara esperienza, il re lo
distrugge, preferendo ritornare ai tempi primitivi) c'interessa anche sotto il
riguardo ideologico; ché, in un periodo d'infatuazione (!) internazionalista
socialistoide, ebbe il coraggio (!) di bollare a fuoco (!) "le sciocche
sentimentalità della pace universale, del disarmo e le non meno sciocche
sentimentalità dell'uguaglianza economica e della comunità dei beni", ed
esprimere l'urgenza di "tagliar corto alle agitazioni che han già creato
uno Stato dentro lo Stato, un governo irresponsabile", ed affermare la
necessità di una coscienza nazionale: "Ci fa difetto la dignità nazionale;
bisogna creare il nobile orgoglio di essa, spingerlo fino all'eccesso. È
l'unico caso in cui l'eccesso non guasta"». Il Tonelli è sciocco, ma il
Capuana non scherza anche lui col suo frasario da giornaletto crispino di
provincia: bisognerebbe poi vedere cosa valeva allora la sua ideologia del
«C'era una volta», che esaltava un paternalismo anacronistico e tutt'altro che
nazionale, nell'Italia di allora.
Del Capuana occorrerà ricordare il teatro
dialettale e le opinioni sulla lingua nel teatro, a proposito della quistione
della lingua nella letteratura italiana. Alcune commedie del Capuana (come Giacinta,
Malia, Il cavalier Pedagna) furono scritte originariamente in
italiano e poi voltate in dialetto: solo in dialetto ebbero successo. Il
Tonelli, che non capisce nulla, scrive che il Capuana fu indotto alla forma
dialettale nel teatro «non soltanto dalla convinzione che "bisogna passare
pei teatri dialettali, se si vuole davvero arrivare al teatro nazionale
italiano" [...], ma anche e soprattutto dal carattere particolare delle
sue creazioni drammatiche: le quali sono squisitamente (!) dialettali, e nel
dialetto trovano la loro piú naturale e schietta espressione». Ma cosa poi
significa «creazioni squisitamente dialettali»? Il fatto è spiegato col fatto
stesso, cioè non è spiegato (è da ricordare ancora che il Capuana scriveva in
dialetto la sua corrispondenza con una sua «mantenuta», donna del popolo, cioè
comprendeva che l'italiano non gli avrebbe permesso di essere capito con
esattezza e «simpaticamente» dagli elementi del popolo, la cui cultura non era
nazionale, ma regionale, o nazionale-siciliana; come, in tali condizioni, si
potesse passare dal teatro dialettale a quello nazionale è una affermazione per
enigmi e dimostra solo scarsa comprensione dei problemi culturali nazionali).
È da vedere, nel teatro di Pirandello, perché
certe commedie sono scritte in italiano e altre in dialetto: nel Pirandello
l'esame è ancor piú interessante, poiché Pirandello ha, in un altro momento,
acquistato una fisionomia culturale cosmopolitica, cioè è diventato italiano e
nazionale in quanto si è completamente sprovincializzato ed europeizzato. La
lingua non ha ancora acquistato una «storicità» di massa, non è ancora
diventata un fatto nazionale. Liolà di Pirandello, in italiano
letterario vale ben poco, sebbene il Fu Mattia Pascal, da cui è tratta,
possa ancora leggersi con piacere. Nel testo italiano l'autore non riesce a
mettersi all'unisono col pubblico, non ha la prospettiva della storicità della
lingua quando i personaggi vogliono essere concretamente italiani dinanzi a un
pubblico italiano. In realtà in Italia esistono molte lingue «popolari» e sono
i dialetti regionali che vengono solitamente parlati nella conversazione
intima, in cui si esprimono i sentimenti e gli affetti piú comuni e diffusi; la
lingua letteraria è ancora, per molta parte, una lingua cosmopolita, una specie
di «esperanto», cioè limitata all'espressione di sentimenti e nozioni parziali
ecc.
Quando si dice che la lingua letteraria ha una
grande ricchezza di mezzi espressivi, si afferma una cosa equivoca ed ambigua;
si confonde la ricchezza espressiva «possibile» registrata nel vocabolario o
contenuta inerte negli «autori», con la ricchezza individuale, che si può
spendere individualmente; ma è quest'ultima la sola ricchezza reale e concreta
ed è su di essa che si può misurare il grado di unità linguistica nazionale che
è data dalla vivente parlata del popolo, dal grado di nazionalizzazione del
patrimonio linguistico. Nel dialogo teatrale è evidente l'importanza di tale
elemento; dal palcoscenico il dialogo deve suscitare immagini viventi, con
tutta la loro concretezza storica di espressione; invece suggerisce, troppo
spesso, immagini libresche, sentimenti mutilati dall'incomprensione della
lingua e delle sue sfumature. Le parole della parlata famigliare si riproducono
nell'ascoltatore come ricordo di parole lette nei libri e nei giornali o
ricercate nel vocabolario, come sarebbe il sentire in teatro parlar francese da
chi il francese ha imparato nei libri senza maestro: la parola è ossificata,
senza articolazione di sfumature, senza la comprensione del suo significato
esatto che è dato da tutto il periodo ecc. Si ha l'impressione di essere goffi,
o che goffi siano gli altri. Si osservi nell'italiano parlato quanti errori di
pronunzia fa l'uomo del popolo; profúgo, roséo ecc. ciò che significa che tali
parole sono state lette e non sentite, non sentite ripetutamente, cioè
collocate in prospettive diverse (periodi diversi), ognuna delle quali abbia
fatto brillare un lato di quel poliedro che è ogni parola (errori di sintassi
ancor piú significativi).
Ada Negri. Articolo di Michele Scherillo
nella «Nuova Antologia» del 16 settembre 1927. Su Ada Negri bisognerebbe fare
uno studio storico-critico. Può chiamarsi, in un periodo della sua vita,
«poetessa proletaria» o semplicemente «popolare»? Nel campo della cultura mi
pare rappresenti l'ala estrema del romanticismo del '48; il popolo diventa
sempre piú proletariato, ma è visto ancora sotto la specie di popolo, non per i
germi di originale ricostruzione che contiene in sé (ma piuttosto per la caduta
che rappresenta da «popolo» a «proletariato»?) (In Stella mattutina,
Treves, 1921, la Negri
ha narrato i casi della sua vita di bambina e adolescente).
[L'episodio Salgari.] L'episodio Salgari,
contrapposto a Giulio Verne, con l'intervento del ministro Fedele, campagne
ridevoli nel «Raduno» organo del Sindacato autori e scrittori ecc., è da porre
insieme alla rappresentazione della farsa Un'avventura galante ai bagni di
Cernobbio data il 13 ottobre 1928 ad Alfonsine per la celebrazione del
primo centenario della morte di Vincenzo Monti. Questa farsa, pubblicata nel
1858 come complemento editoriale di un lavoro teatrale di Giovanni De Castro, è
di un Vincenzo Monti, professore a Como in quel torno di tempo (a una semplice
lettura appare l'impossibilità dell'attribuzione al Monti) ma fu «scoperta»,
attribuita al Monti e rappresentata ad Alfonsine, dinanzi alle autorità, in una
festa ufficiale, nel centenario montiano. (Vedere, caso mai, nei giornali del
tempo, l'autore della mirabile scoperta e i personaggi ufficiali che la
bevettero cosí grossa).
Emilio De Marchi. Perché il De Marchi,
nonostante che in parecchi suoi libri ci siano molti elementi di popolarità,
non è stato e non è molto letto? Rileggerlo e analizzare questi elementi,
specialmente in Giacomo l'idealista. (Sul De Marchi e il romanzo
d'appendice ha scritto un saggio Arturo Pompeati nella «Cultura», non
soddisfacente).
Sezione cattolica. Il gesuita Ugo Mioni.
Ho letto in questi giorni (agosto 1931) un romanzo di Ugo Mioni La ridda dei
milioni stampato dall'Opera di S. Paolo di Alba. A parte il carattere
prettamente gesuitico (e antisemita) che è particolarissimo di questo
romanzaccio, mi ha colpito la trascuratezza stilistica e anche grammaticale
della scrittura del Mioni. La stampa è pessima, i refusi e gli errori
formicolano e questo è già grave in libretti dedicati ai giovani del popolo che
spesso in essi imparano la lingua letteraria; ma se lo stile e la grammatica
del Mioni possono aver sofferto per la cattiva stampa, è certo che lo scrittore
è pessimo oggettivamente. In ciò il Mioni si stacca dalla tradizione di
compostezza e anzi di falsa eleganza e lindura degli scrittori gesuitici come
il padre Bresciani. Pare che Ugo Mioni (attualmente Mons. U. M.) non sia piú
gesuita della Compagnia di Gesú.
La collezione «Tolle et lege» della Casa editrice
«Pia Società S. Paolo», Alba-Roma, su 111 numeri contenuti in una lista del
1928, aveva 65 romanzi di Ugo Mioni e non sono certo tutti quelli pubblicati
dal prolifico monsignore, che d'altronde non ha scritto solo romanzi d'avventura,
ma anche di apologetica, di sociologia e anche un grosso trattato di
«Missionologia». Case editrici cattoliche per pubblicazioni popolari: esiste
anche una pubblicazione periodica di romanzi. Male stampati e in traduzioni
scorrette.
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