V. Lingua nazionale e grammatica
Note per una introduzione allo
studio della grammatica
Saggio del Croce: Questa tavola rotonda è
quadrata. Il saggio è sbagliato anche dal punto di vista crociano (della
filosofia crociana). Lo stesso impiego che il Croce fa della proposizione
mostra che essa è «espressiva» e quindi giustificata: si può dir lo stesso di
ogni «proposizione», anche non «tecnicamente» grammaticale, che può essere
espressiva e giustificata in quanto ha una funzione, sia pure negativa (per
mostrare l'«errore» di grammatica si può impiegare una sgrammaticatura). Il
problema va quindi posto in altro modo, nei termini di «disciplina alla
storicità del linguaggio» nel caso delle «sgrammaticature» (che sono assenza di
«disciplina mentale», neolalismo, particolarismo provinciale, gergo, ecc.) o in
altri termini (nel caso dato del saggio crociano l'errore è stabilito da ciò,
che una tale proposizione può apparire nella rappresentazione di un «pazzo», di
un anormale, ecc. ed acquistare valore espressivo assoluto; come rappresentare
uno che non sia «logico» se non facendogli dire «cose illogiche»? ecc.). In
realtà tutto ciò che [non] è «grammaticalmente esatto» può anche essere
giustificato dal punto di vista estetico, logico, ecc., se lo si vede non nella
particolare logica, ecc., dell'espressione immediatamente meccanica, ma come
elemento di una rappresentazione piú vasta e comprensiva.
La quistione che il Croce vuol porre: «Cosa è la
grammatica?» non può avere soluzione nel suo saggio. La grammatica è «storia»,
o «documento storico»: essa è la «fotografia» di una fase determinata di un
linguaggio nazionale (collettivo) formatosi storicamente e in continuo
sviluppo, o i tratti fondamentali di una fotografia. La quistione pratica può
essere: a che fine tale fotografia? Per fare la storia di un aspetto della
civiltà o per modificare un aspetto della civiltà?
La pretesa del Croce porterebbe a negare ogni
valore a un quadro rappresentante tra l'altro una... sirena, per esempio, cioè
si dovrebbe concludere che ogni proposizione deve corrispondere al vero o
al verosimile, ecc.
(La proposizione può essere non logica in sé,
contradditoria, ma nello stesso tempo «coerente» in un quadro piú vasto).
Quante forme di grammatica possono
esistere? Parecchie, certamente. C'è quella «immanente» nel linguaggio
stesso, per cui uno parla «secondo grammatica» senza saperlo, come il
personaggio di Molière faceva della prosa senza saperlo. Né sembri inutile
questo richiamo, perché il Panzini (Guida alla Grammatica italiana, 18°
migliaio) non pare distinguere tra questa «grammatica» e quella «normativa»,
scritta, di cui intende parlare e che per lui pare essere la sola grammatica
possibile esistente. La prefazione alla prima edizione è piena di amenità, che
d'altronde hanno il loro significato in uno scrittore (e ritenuto specialista)
di cose grammaticali, come l'affermazione che «noi possiamo scrivere e parlare
anche senza grammatica». In realtà oltre alla «grammatica immanente» in ogni
linguaggio, esiste anche, di fatto, cioè anche se non scritta, una (o piú)
grammatica «normativa», ed è costituita dal controllo reciproco,
dall'insegnamento reciproco, dalla «censura» reciproca, che si manifestano con
le domande: «Cosa hai inteso, o vuoi dire?», «Spiegati meglio», ecc., con la
caricatura e la presa in giro, ecc.; tutto questo complesso di azioni e
reazioni confluiscono a determinare un conformismo grammaticale, cioè a
stabilire «norme» o giudizi di correttezza o di scorrettezza, ecc. Ma questo
manifestarsi «spontaneo» di un conformismo grammaticale, è necessariamente
sconnesso, discontinuo, limitato a strati sociali locali o a centri locali,
ecc. (Un contadino che si inurba, per la pressione dell'ambiente cittadino,
finisce col conformarsi alla parlata della città; nella campagna si cerca di
imitare la parlata della città; le classi subalterne cercano di parlare come le
classi dominanti e gli intellettuali, ecc.).
Si potrebbe schizzare un quadro della «grammatica
normativa» che opera spontaneamente in ogni società data, in quanto questa
tende a unificarsi sia come territorio, sia come cultura, cioè in quanto vi
esiste un ceto dirigente la cui funzione sia riconosciuta e seguita.
Il numero delle «grammatiche spontanee o
immanenti» è incalcolabile e teoricamente si può dire che ognuno ha una sua
grammatica. Tuttavia, accanto a questa «disgregazione» di fatto sono da
rilevare i movimenti unificatori, di maggiore o minore ampiezza sia come area
territoriale, sia come «volume linguistico». Le «grammatiche normative» scritte
tendono ad abbracciare tutto un territorio nazionale e tutto il «volume
linguistico» per creare un conformismo linguistico nazionale unitario, che
d'altronde pone in un piano piú alto l'«individualismo» espressivo, perché crea
uno scheletro piú robusto e omogeneo all'organismo linguistico nazionale di cui
ogni individuo è il riflesso e l'interprete. (Sistema Taylor e autodidattismo).
Grammatiche storiche oltre che normative. – Ma è
evidente che uno scrittore di grammatica normativa non può ignorare la storia
della lingua di cui vuole proporre una «fase esemplare» come la «sola» degna di
diventare, «organicamente» e «totalitariamente», la lingua «comune» di una
nazione, in lotta e concorrenza con altre «fasi» e tipi o schemi che esistono
già (collegati a sviluppi tradizionali o a tentativi inorganici e incoerenti
delle forze che, come si è visto, operano continuamente sulle «grammatiche»
spontanee e immanenti nel linguaggio). La grammatica storica non può non essere
«comparativa»: espressione che, analizzata a fondo, indica la intima coscienza
che il fatto linguistico, come ogni altro fatto storico, non può avere confini
nazionali strettamente definiti, ma che la storia è sempre «storia mondiale» e
che le storie particolari vivono solo nel quadro della storia mondiale. La
grammatica normativa ha altri fini, anche se non [si] può immaginare la lingua
nazionale fuori del quadro delle altre lingue, che influiscono per vie
innumerevoli e spesso difficili da controllare su di essa (chi può controllare
l'apporto di innovazioni linguistiche dovute agli emigrati rimpatriati, ai
viaggiatori, ai lettori di giornali e lingue estere, ai traduttori, ecc.?)
La grammatica normativa scritta è quindi sempre
una «scelta», un indirizzo culturale, è cioè sempre un atto di politica
culturale-nazionale. Potrà discutersi sul modo migliore di presentare la
«scelta» e l'«indirizzo» per farli accettare volentieri, cioè potrà discutersi
dei mezzi piú opportuni per ottenere il fine; non può esserci dubbio che ci sia
un fine da raggiungere che ha bisogno di mezzi idonei e conformi, cioè che si
tratti di un atto politico.
Quistioni: di che natura è questo atto politico, e
se debba sollevare opposizioni di «principio», una collaborazione di fatto,
opposizioni nei particolari, ecc. Se si parte dal presupposto di centralizzare
ciò che esiste già allo stato diffuso, disseminato, ma inorganico e incoerente,
pare evidente che non è razionale una opposizione di principio, ma anzi una
collaborazione di fatto e un accoglimento volenteroso di tutto ciò che possa
servire a creare una lingua comune nazionale, la cui non esistenza determina
attriti specialmente nelle masse popolari, in cui sono piú tenaci di quanto non
si creda i particolarismi locali e i fenomeni di psicologia ristretta e
provinciale; si tratta insomma di un incremento della lotta contro
l'analfabetismo ecc. L'opposizione di «fatto» esiste già nella resistenza delle
masse a spogliarsi di abitudini e psicologie particolaristiche. Resistenza
stupida determinata dai fautori fanatici delle lingue internazionali. È chiaro
che in questo ordine di problemi non può essere discussa la quistione della
lotta nazionale di una cultura egemone contro altre nazionalità o residui di
nazionalità.
Il Panzini non si pone neanche lontanamente questo
problema e perciò le sue pubblicazioni grammaticali sono incerte,
contraddittorie, oscillanti. Non si pone per esempio il problema di quale oggi
sia, dal basso, il centro di irradiazione delle innovazioni linguistiche; che
pure non ha poca importanza pratica. Firenze, Roma, Milano. Ma d'altronde non
si pone neanche il problema se esista (e quale sia) un centro di irradiazione
spontanea dall'alto, cioè in forma relativamente organica, continua,
efficiente, e se essa possa essere regolata e intensificata.
Focolai di irradiazione di innovazioni
linguistiche nella tradizione e di un conformismo nazionale linguistico nelle
grandi masse nazionali. 1) La scuola; 2) i giornali; 3) gli scrittori
d'arte e quelli popolari; 4) il teatro e il cinematografo sonoro; 5) la radio;
6) le riunioni pubbliche di ogni genere, comprese quelle religiose; 7) i
rapporti di «conversazione» tra i vari strati della popolazione piú colti e
meno colti – (una quistione alla quale forse non si dà tutta l'importanza che
si merita è costituita da quella parte di «parole» versificate che viene
imparata a memoria sotto forma di canzonette, pezzi d'opera, ecc. È da notare
come il popolo non si curi di imparare bene a memoria queste parole, che spesso
sono strampalate, antiquate, barocche, ma le riduca a specie di filastrocche
utili solo per ricordare il motivo musicale); 8) i dialetti locali, intesi in
diversi sensi (dai dialetti piú localizzati a quelli che abbracciano complessi
regionali piú o meno vasti: cosí il napoletano per l'Italia meridionale, il
palermitano o il catanese per la
Sicilia, ecc.).
Poiché il processo di formazione, di diffusione e
di sviluppo di una lingua nazionale unitaria avviene attraverso tutto un
complesso di processi molecolari, è utile avere consapevolezza di tutto il
processo nel suo complesso, per essere in grado di intervenire attivamente in
esso col massimo di risultato. Questo intervento non bisogna considerarlo come
«decisivo» e immaginare che i fini proposti saranno tutti raggiunti nei loro
particolari, che cioè si otterrà una determinata lingua unitaria: si
otterrà una lingua unitaria, se essa è una necessità, e l'intervento
organizzato accelererà i tempi del processo già esistente; quale sia per essere
questa lingua non si può prevedere e stabilire: in ogni caso, se l'intervento è
«razionale», essa sarà organicamente legata alla tradizione, ciò che non è di
poca importanza nell'economia della cultura.
Manzoniani e «classicisti». Avevano un tipo di
lingua da far prevalere. Non è giusto dire che queste discussioni siano state
inutili e non abbiano lasciato tracce nella cultura moderna, anche se non molto
grandi. In realtà in questo ultimo secolo la cultura unitaria si è estesa e
quindi anche una lingua unitaria comune. Ma tutta la formazione storica della
nazione italiana era a ritmo troppo lento. Ogni volta che affiora, in un modo o
nell'altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie
di altri problemi: la formazione e l'allargamento della classe dirigente, la necessità
di stabilire rapporti piú intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa
popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l'egemonia culturale. Oggi si sono
verificati diversi fenomeni che indicano una rinascita di tali quistioni:
pubblicazioni del Panzini, Trabalza-Allodoli, Monelli, rubriche nei giornali,
intervento delle direzioni sindacali, ecc...
Diversi tipi di grammatica normativa. Per
le scuole. Per le cosí dette persone colte. In realtà la differenza è dovuta al
diverso grado di sviluppo intellettuale del lettore o studioso, e quindi alla
tecnica diversa che occorre impiegare per fare apprendere o intensificare la
conoscenza organica della lingua nazionale ai ragazzi, verso i quali non si può
prescindere didatticamente da una certa rigidità autoritaria perentoria
(«bisogna dire cosí») e gli «altri» che invece bisogna «persuadere» per far
loro accettare liberamente una determinata soluzione come la migliore
(dimostrata la migliore per il raggiungimento del fine proposto e condiviso,
quando è condiviso). Non bisogna inoltre dimenticare che nello studio
tradizionale della grammatica normativa sono stati innestati altri elementi del
programma didattico d'insegnamento generale, come quello di certi elementi
della logica formale: si potrà discutere se questo innesto è opportuno o no, se
lo studio della logica formale è giustificato o no (pare giustificato e pare
anche giustificato che sia accompagnato a quello della grammatica, piú che
dell'aritmetica, ecc., per la somiglianza di natura e perché insieme alla
grammatica la logica formale è relativamente vivificata e facilitata), ma non
bisogna prescindere dalla quistione.
Grammatica storica e grammatica normativa. Posto
che la grammatica normativa è un atto politico, e che solo partendo da questo
punto di vista si può giustificare «scientificamente» la sua esistenza, e
l'enorme lavoro di pazienza che il suo apprendimento richiede (quanto lavoro
occorre fare per ottenere che da centinaia di migliaia di reclute della piú
disparata origine e preparazione mentale risulti un esercito omogeneo e capace
di muoversi e operare disciplinatamente e simultaneamente: quante «lezioni
pratiche e teoriche» di regolamenti, ecc.) è da porre il suo rapporto con la
grammatica storica. Il non aver definito questo rapporto spiega molte
incongruenze delle grammatiche normative, fino a quella del Trabalza-Allodoli.
Si tratta di due cose distinte e in parte diverse, come la storia e la
politica, ma che non possono essere pensate indipendentemente: come la politica
dalla storia. D'altronde, poiché lo studio delle lingue come fenomeno culturale
è nato da bisogni politici (piú o meno consapevoli e consapevolmente espressi)
le necessità della grammatica normativa hanno influito sulla grammatica storica
e sulle «concezioni legislative» di essa (o almeno questo elemento tradizionale
ha rafforzato nel secolo scorso l'applicazione del metodo
naturalistico-positivistico allo studio della storia delle lingue concepito
come «scienza del linguaggio»). Dalla grammatica del Trabalza e anche dalla
recensione stroncatoria dello Schiaffini («Nuova Antologia», 16 settembre 1934)
appare come anche dai cosí detti «idealisti» non sia compreso il rinnovamento
che nella scienza del linguaggio hanno portato le dottrine del Bartoli. [La]
tendenza dell'«idealismo» ha trovato la sua espressione piú compiuta nel
Bertoni: si tratta di un ritorno a vecchie concezioni rettoriche, sulle parole
«belle» e «brutte» in sé e per sé, concezioni riverniciate con un nuovo
linguaggio pseudo-scientifico. In realtà si cerca di trovare una
giustificazione estrinseca della grammatica normativa, dopo averne altrettanto
estrinsecamente «mostrato» la «inutilità» teoretica e anche pratica.
Il saggio del Trabalza sulla Storia della
grammatica potrà fornire indicazioni utili sulle interferenze tra
grammatica storica (o meglio storia del linguaggio) e grammatica normativa,
sulla storia del problema, ecc.
Grammatica e tecnica. Per la grammatica può
porsi la quistione come per la «tecnica» in generale? La grammatica è solo la
tecnica della lingua? In ogni caso, è giustificata la tesi degli idealisti,
specialmente gentiliani, dell'inutilità della grammatica e della sua esclusione
dall'insegnamento scolastico? Se si parla (ci si esprime con le parole) in un
modo determinato storicamente per nazioni o per aree linguistiche, si può
prescindere dall'insegnare questo «modo storicamente determinato»? Ammesso che
la grammatica normativa tradizionale fosse insufficiente, è questa una buona
ragione per non insegnare nessuna «grammatica», cioè per non preoccuparsi in
nessun modo di accelerare l'apprendimento del modo determinato di parlare di
una certa area linguistica, ma di lasciare che la «lingua si impari nel vivente
linguaggio» o altra espressione del genere impiegata dal Gentile o dai gentiliani?
Si tratta, in fondo, di una forma di «liberalismo» delle piú bislacche e
strampalate. Differenze tra il Croce e il Gentile. Al solito il Gentile si
fonda sul Croce, esagerandone all'assurdo alcune posizioni teoretiche. Il Croce
sostiene che la grammatica non rientra in nessuna delle attività spirituali
teoretiche da lui elaborate, ma finisce col trovare nella «pratica» una
giustificazione di molte attività negate in sede teoretica: il Gentile esclude
anche dalla pratica, in un primo tempo, ciò che nega teoreticamente, salvo poi
a trovare una giustificazione teoretica delle manifestazioni pratiche piú
superate e tecnicamente ingiustificate.
Si deve apprendere «sistematicamente» la tecnica?
È successo che alla tecnica di Ford si contrapponga quella dell'artigiano di
villaggio. In quanti modi si apprende la «tecnica industriale»: artigiano,
durante lo stesso lavoro di fabbrica, osservando come lavorano gli altri (e
quindi con maggior perdita di tempo e di fatica e solo parzialmente); con le
scuole professionali (in cui si impara sistematicamente tutto il mestiere,
anche se alcune nozioni apprese dovranno servire poche volte in tutta la vita e
anche mai); con le combinazioni di vari modi, col sistema Taylor-Ford che crea
un nuovo tipo di qualifica e di mestiere ristretto a determinate fabbriche, e
anche macchine o momenti del processo produttivo.
La grammatica normativa, che solo per astrazione
può essere ritenuta scissa dal linguaggio vivente, tende a fare apprendere
tutto l'organismo della lingua determinata, e a creare un atteggiamento
spirituale che renda capaci di orientarsi sempre nell'ambiente linguistico
(vedi nota sullo studio del latino nelle scuole classiche). Se la grammatica è
esclusa dalla scuola e non viene «scritta», non perciò può essere esclusa dalla
«vita» reale, come è stato già detto in altra nota: si esclude solo
l'intervento organizzato unitariamente nell'apprendimento della lingua e, in
realtà, si esclude dall'apprendimento della lingua colta la massa popolare
nazionale, poiché il ceto dirigente piú alto, che tradizionalmente parla in
«lingua», trasmette di generazione in generazione, attraverso un processo lento
che incomincia coi primi balbettamenti del bambino sotto la guida dei genitori,
e continua nella conversazione (coi suoi «si dice cosí», «deve dirsi cosí»,
ecc.) per tutta la vita: in realtà la grammatica si studia «sempre», ecc. (con
l'imitazione dei modelli ammirati, ecc.). Nella posizione del Gentile c'è molta
piú politica di quanto si creda e molto reazionarismo inconscio, come del resto
è stato notato altre volte e in altre occasioni: c'è tutto il reazionarismo
della vecchia concezione liberale, c'è un «lasciar fare, lasciar passare» che
non è giustificato, come era nel Rousseau (e il Gentile è piú rousseauiano di
quanto creda) dall'opposizione alla paralisi della scuola gesuitica, ma è
diventato un'ideologia astratta, «astorica».
La cosí detta «quistione della lingua».
Pare chiaro che il De Vulgari Eloquio di Dante sia da considerare come essenzialmente
un atto di politica culturale-nazionale (nel senso che nazionale aveva in quel
tempo e in Dante), come un aspetto della lotta politica è stata sempre quella
che viene chiamata «la quistione della lingua» che da questo punto di vista
diventa interessante da studiare. Essa è stata una reazione degli intellettuali
allo sfacelo dell'unità politica che esistè in Italia sotto il nome di
«equilibrio degli Stati italiani», allo sfacelo e alla disintegrazione delle
classi economiche e politiche che si erano venute formando dopo il Mille coi
Comuni e rappresenta il tentativo, che in parte notevole può dirsi riuscito, di
conservare e anzi di rafforzare un ceto intellettuale unitario, la cui
esistenza doveva avere non piccolo significato nel Settecento e Ottocento (nel
Risorgimento). Il libretto di Dante ha anch'esso non piccolo significato per il
tempo in cui fu scritto; non solo di fatto, ma elevando il fatto a teoria, gli
intellettuali italiani del periodo piú rigoglioso dei Comuni, «rompono» col
latino e giustificano il volgare, esaltandolo contro il «mandarinismo»
latineggiante, nello stesso tempo in cui il volgare ha cosí grandi
manifestazioni artistiche. Che il tentativo di Dante abbia avuto enorme
importanza innovatrice, si vede piú tardi col ritorno del latino a lingua delle
persone colte (e qui può innestarsi la quistione del doppio aspetto
dell'Umanesimo e del Rinascimento, che furono essenzialmente reazionari dal
punto di vista nazionale-popolare e progressivi come espressione dello sviluppo
culturale dei gruppi intellettuali italiani e europei).
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