Linguistica
Giulio Bertoni e la linguistica.
Bisognerebbe scrivere una stroncatura del Bertoni come linguista, per gli
atteggiamenti assunti ultimamente col suo scritto nel Manualetto di
linguistica e nel volumetto pubblicato dal Petrini (vedi brano pubblicato
dalla «Nuova Italia» dell'agosto 1930). Mi pare si possa dimostrare che il
Bertoni né è riuscito a dare una teoria generale delle innovazioni portate dal
Bartoli nella linguistica, né è riuscito a capire in che consistano queste
innovazioni e quale sia la loro importanza pratica e teorica.
Del resto nell'articolo pubblicato qualche anno fa
nel «Leonardo» sugli studi linguistici in Italia egli non distingue per nulla
il Bartoli dalla comune schiera e anzi per il gioco dei chiaroscuri lo mette in
seconda linea, a differenza del Casella che nel recente articolo sul «Marzocco»
a proposito della Miscellanea Ascoli, pone in rilievo l'originalità del
Bartoli: nell'articolo bertoniano del «Leonardo» è da rilevare come il Campus
appaia addirittura superiore al Bartoli, quando i suoi studi sulle velari
ario-europee non sono che piccoli saggi in cui si applica puramente e
semplicemente il metodo generale del Bartoli e furono dovuti ai suggerimenti
del Bartoli stesso; è il Bartoli che disinteressatamente ha messo in valore il
Campus e ha sempre cercato di metterlo in prima linea: il Bertoni, forse non
senza accademica malizia, in un articolo come quello del «Leonardo» in cui
occorreva quasi contare le parole dedicate a ogni studioso, per dare una giusta
prospettiva, ha combinato le cose in modo che il Bartoli è messo in un
cantuccio. Errore del Bartoli di aver collaborato col Bertoni nella
compilazione del Manualetto, e dico errore e responsabilità scientifica.
Il Bartoli è apprezzato per i suoi lavori concreti: lasciando scrivere al
Bertoni la parte teorica induce in errore gli studenti e li spinge su una falsa
strada: in questo caso la modestia e il disinteresse diventano una colpa.
D'altronde il Bertoni, se non ha capito il
Bartoli, non ha nemmeno capito l'estetica del Croce, nel senso che
dall'estetica crociana non ha saputo derivare dei canoni di ricerca e di
costruzione della scienza del linguaggio, ma non ha fatto che parafrasare, esaltare,
liricizzare delle impressioni: si tratta di un positivista sostanziale che si
sdilinquisce di fronte all'idealismo perché questo è piú di moda e permette di
fare della retorica. Fa meraviglia che il Croce abbia lodato il Manualetto,
senza vedere e far notare le incongruenze del Bertoni: mi pare che il Croce
abbia piú di tutto voluto prender atto benevolmente che in questo ramo degli
studi, dove il positivismo trionfa, si cerchi di iniziare una via nuova nel
senso idealistico. A me pare che tra il metodo del Bartoli e il crocismo non ci
sia nessun rapporto di dipendenza immediata: il rapporto è con lo storicismo in
generale, non con una particolare forma di storicismo. L'innovazione del
Bartoli è appunto questa, che della linguistica, concepita grettamente come
scienza naturale, ha fatto una scienza storica, le cui radici sono da cercare
«nello spazio e nel tempo» e non nell'apparato vocale fisiologicamente inteso.
Bisognerebbe stroncare il Bertoni non solo in
questo campo: la sua figura di studioso mi è sempre stata ripugnante
intellettualmente: c'è in essa qualcosa di falso, di non sincero nel senso
letterale della parola; oltre alla prolissità e alla mancanza di «prospettiva»
nei valori storici e letterari.
Nella «linguistica» è crociano il Vossler, ma che
rapporto esiste tra il Bartoli e il Vossler e tra il Vossler e quella che si
chiama comunemente «linguistica»? Ricordare a questo proposito l'articolo del
Croce Questa tavola rotonda è quadrata (nei Problemi di Estetica)
dalla cui critica bisogna prendere le mosse per stabilire i concetti esatti in
questa quistione.
È stupefacente la recensione benevola che Natalino
Sapegno ha pubblicato nel «Pègaso» del settembre 1930 di Linguaggio e Poesia
(«Bibliotheca» editrice, Rieti, 1930,
L. 5). Il Sapegno non s'accorge che la teoria del
Bertoni essere la nuova linguistica una «sottile analisi discriminativa delle
voci poetiche da quelle strumentali» è tutt'altro che una novità perché si
tratta del ritorno a una vecchissima concezione retorica e pedantesca, per cui
si dividono le parole in «brutte» e «belle», in poetiche e non poetiche o
antipoetiche ecc., cosí come si erano similmente divise le lingue in belle e
brutte, civili o barbariche, poetiche e prosastiche ecc. Il Bertoni non
aggiunge nulla alla linguistica, altro che vecchi pregiudizi, ed è meraviglioso
che queste stoltezze gli siano passate per buone dal Croce e dagli allievi del
Croce. Cosa sono le parole avulse e astratte dall'opera letteraria? Non piú
elemento estetico, ma elemento di storia della cultura e come tali il linguista
le studia. E cos'è la giustificazione che il Bertoni fa dell'«esame
naturalistico delle lingue, come fatto fisico e come fatto sociale»? Come fatto
fisico? Cosa significa? Che anche l'uomo, oltre che elemento della storia politica
deve essere studiato come fatto biologico? Che di una pittura si deve fare
anche l'analisi chimica? ecc. Che sarebbe utile esaminare quanto sforzo
meccanico sia costato a Michelangelo lo scolpire il Mosè?
Che questi crociani non si accorgano di tutto questo
è stupefacente e serve a indicare quale confusione il Bertoni abbia contribuito
a diffondere in questo campo. Addirittura scrive il Sapegno che per questa
indagine del Bertoni (sulla bellezza delle singole parole astratte: come se il
vocabolo piú «frusto e meccanicizzato» non riacquistasse nella concreta opera
d'arte tutta la sua freschezza e ingenuità primitiva) «è difficile e delicata,
ma non perciò meno necessaria: per essa la glottologia, meglio che scienza del
linguaggio, rivolta a scoprire leggi piú o meno fisse e sicure, si avvierà a
diventare storia della lingua, attenta ai fatti particolari e al loro
significato spirituale». E ancora: «Il nucleo di questo ragionamento (del
Bertoni) è, come ognuno può vedere, un concetto tuttora vivo e fecondo dell'estetica
crociana. Ma l'originalità del Bertoni consiste nell'averlo sviluppato ed
arricchito per una concreta via, dal Croce soltanto additata, o magari
iniziata, ma non mai seguita fino in fondo e di proposito», ecc. Se il Bertoni
«rivive il pensiero crociano» ma anzi lo arricchisce, e il Croce si riconosce
nel Bertoni, occorre dire che il Croce stesso deve essere riveduto e corretto:
ma a me pare che il Croce sia stato solo molto indulgente col Bertoni, per non
aver approfondito la quistione e per ragioni «didattiche».
Le ricerche del Bertoni sono in parte e sotto un
certo aspetto un ritorno a vecchi sistemi etimologici: «sol quia solus est»,
come è bello che il «sole» contenga in sé implicita l'immagine della
«solitudine» nell'immenso cielo e via via: «come è bello che in Puglia la
libellula con le sue alucce in forma di croce, sia detta la morte», e
cosí via. Ricordare in uno scritto di Carlo Dossi la storiella del professore
che spiega la formazione delle parole: «all'inizio cadde un frutto, facendo pum!
ed ecco il "pomo"», ecc. «E se fosse caduta una pera?»
domanda il giovanetto Dossi.
Antonio Pagliaro, Sommario di linguistica
arioeuropea. Fasc. I: Cenni storici e quistioni teoriche, Libreria
di Scienze e Lettere del dott. G. Bardi, Roma, 1930 (nelle «Pubblicazioni della
Scuola di Filologia Classica dell'Università di Roma, Serie seconda: Sussidi
e materiali, II, 1»). Sul libro del Pagliaro cfr. la recensione di Goffredo
Coppola nel «Pègaso» del novembre 1930.
Il libro è indispensabile per vedere i progressi
fatti dalla linguistica in questi ultimi tempi. Mi pare ci sia molto di
cambiato (a giudicare dalla recensione) ma che tuttavia non sia stata trovata
la base in cui collocare gli studi linguistici. L'identificazione di arte e
lingua, fatta dal Croce ha permesso un certo progresso e ha permesso di
risolvere alcuni problemi e di dichiararne altri inesistenti o arbitrari, ma i
linguisti, che sono essenzialmente storici, si trovano dinanzi l'altro
problema: è possibile la storia delle lingue all'infuori della storia dell'arte
e ancora è possibile la storia dell'arte?
Ma i linguisti precisamente studiano le lingue in
quanto non sono arte, ma «materiale» dell'arte, in quanto prodotto sociale, in
quanto espressione culturale di un dato popolo ecc. Queste quistioni non sono
risolte, o lo sono con un ritorno alla vecchia rettorica rimbellettata (cfr.
Bertoni).
Per il Perrotto (anche per il Pagliaro?),
l'identificazione tra arte e lingua ha condotto a riconoscere come insolubile
(o arbitrario?) il problema dell'origine del linguaggio, che significherebbe
domandarsi perché l'uomo è uomo (linguaggio = fantasia, pensiero): mi pare che
non sia molto preciso; il problema non può risolversi per mancanza di documenti
e quindi è arbitrario: si può fare, oltre un certo limite storico, della storia
ipotetica, congetturale e sociologica, ma non storia «storica». Questa
identificazione permetterebbe anche di determinare ciò che nella lingua è
errore, cioè non lingua. «Errore è la creazione artificiale, razionalistica, voluta,
che non s'afferma perché nulla rivela, che è particolare all'individuo fuori
della sua società». Mi pare che allora si dovrebbe dire che lingua = storia e
non lingua = arbitrio. Le lingue artificiali sono come i gerghi: non è vero che
siano assolutamente non lingue perché sono in qualche modo utili: hanno un
contenuto storico-sociale molto limitato. Ma ciò avviene anche tra dialetto e
lingua nazionale-letteraria. Eppure anche il dialetto è lingua-arte. Ma tra il
dialetto e la lingua nazionale-letteraria qualcosa è mutato: precisamente
l'ambiente culturale, politico-morale-sentimentale. La storia delle lingue è
storia delle innovazioni linguistiche, ma queste innovazioni non sono
individuali (come avviene nell'arte) ma sono di un'intera comunità sociale che
ha innovato la sua cultura, che ha «progredito» storicamente: naturalmente
anch'esse diventano individuali, ma non dell'individuo-artista,
dell'individuo-elemento storico-culturale completo determinato.
Anche nella lingua non c'è partenogenesi, cioè la
lingua [che] produce altra lingua, ma c'è innovazione per interferenze di
culture diverse ecc., ciò che avviene in modi molto diversi e ancora avviene
per intere masse di elementi linguistici, e avviene molecolarmente (per
esempio: il latino ha come «massa» innovato il celtico delle Gallie, e ha
invece influenzato il germanico «molecolarmente», cioè imprestandogli singole
parole o forme ecc.). L'interferenza e l'influenza «molecolare» può avvenire
nello stesso seno di una nazione, tra diversi strati ecc.; una nuova classe che
diventa dirigente innova come «massa»; il gergo dei mestieri ecc. cioè delle
società particolari, innovano molecolarmente. Il giudizio artistico in queste
innovazioni ha il carattere del «gusto culturale», non del gusto artistico, cioè
per la stessa ragione per cui piacciono le brune o le bionde e mutano gli
«ideali» estetici, legati a determinate culture.
[La lingua in Dante.] Importanza dello
scritto di Enrico Sicardi La lingua italiana in Dante, edito a Roma
dalla Casa Ed. «Optima» con prefazione di Francesco Orestano. Ne ho letto la
recensione di G. S. Gargàno (La lingua nei tempi di Dante e
l'interpretazione della poesia) nel «Marzocco» del 14 aprile 1929. Il
Sicardi insiste sulla necessità di studiare le «lingue» dei vari scrittori, se
si vuole interpretare esattamente il loro mondo poetico. Non so se tutto ciò
che il Sicardi scrive sia esatto e specialmente se sia possibile «storicamente»
lo studio delle «particolari» lingue dei singoli scrittori, dato che manca un
documento essenziale: una vasta testimonianza della lingua parlata nei tempi
dei singoli scrittori. Tuttavia il richiamo metodologico del Sicardi è giusto e
necessario (ricordare nel libro del Vossler, Idealismo e positivismo sullo
studio della lingua, l'analisi estetica della favola di La Fontaine sul corvo e la
volpe e l'erronea interpretazione di «son bec» dovuta all'ignoranza del valore
storico di «son»).
Del Bartoli, Quistioni linguistiche e diritti
nazionali, discorso tenuto all'inaugurazione dell'anno accademico torinese
1934, pubblicato nel 1935 (vedi nota in «Cultura» dell'aprile 1935). Pare dalla
nota che il discorso sia molto discutibile per alcune parti generali: per
esempio l'affermazione che «l'Italia dialettale è una e indivisibile».
Notizie sull'Atlante linguistico pubblicate in due
numeri di un Bollettino.
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