Appendice
Cronache teatrali dall'«Avanti!»,
1916-1920
«La falena» di
Bataille al Carignano. Freddissima accoglienza ha avuto la nuova commedia
del Bataille, La falena, portata dinanzi al pubblico torinese dalla
compagnia Gramatica-Carini-Piperno. E il pubblico non ha avuto torto. Tre atti
lunghi, pesanti, senza azione, costruiti completamente sul dialogo, che a forza
di voler essere sottile, raffinato, diventa monotono, stucchevole, senza
vivacità. La psicologia d'eccezione, se non è incarnata in una creatura viva,
che diventi il centro motore di una azione adeguata, può riuscire a far
costruire un romanzo passabile, ma nel teatro è fatalmente destinata a
partorire opere fiacche, senza nerbo, come questa del Bataille. Vedendo
svolgersi sulla scena i casi melodrammatici di una donna, che sapendo la sua
vita crudelmente limitata da una malattia vuol godere tutto il piacere e vivere
tutte le illusioni che un amore capriccioso le consente [censura].
Anche l'esecuzione fu da parte degli attori poco
convincente e un tantino monotona, ciò che del resto non meraviglia.
(13 gennaio 1916).
Dina Galli all'Alfieri. Magnifica la serata
d'onore di Dina Galli, che ormai è diventata a Torino la piú popolare e la piú
ammirata delle attrici. Ella ha saputo, pur nel tritume della produzione comica
francese, crearsi una personalità, rinnovandosi in ogni personaggio, riuscendo
a trovare per ogni figurino una nota nuova, che le desse almeno l'apparenza
della vita, rendendo signorile e ingenua anche la volgarità che in altri
sarebbe stata abietta. E il pubblico l'ha colmata di fiori e di applausi.
(20 gennaio 1916).
«Paolo e Virginia» di Ambrosini e
Michelotti all'Alfieri. Dobbiamo riconfermare la prima impressione. Ce ne
dispiace per l'Ambrosini, specialmente, del quale ricordiamo con sempre vivo
godimento i bozzetti storici di grandissimo valore, ma la nuova commedia Paolo
e Virginia non ci convince e non ci può piacere. E non per la ingenuità
tecnica, per le manchevolezze sceniche, che si possono perdonare in un primo
tentativo e che possono anzi essere prova di ingegno drammatico potente che si
dibatte sulle prime fra le pastoie delle necessità della pratica, ma perché la
commedia è una offesa al buon gusto e al senso comune. Tutto è artificioso,
voluto, riflesso. Nessun abbandono dell'autore verso le creature della sua
fantasia che le renda indipendenti, libere, vive di attività propria, ma invece
la sensazione implacabile della preoccupazione del successo, dello sforzo
cerebrale, e senza possibilità di uno sbocco nell'azione. Il primo atto è
appiccicato colla colla al resto: serve per lo spunto, per giustificare il
titolo, per poter riallacciare i personaggi col celebre romanzo del languido e
rugiadoso Saint-Pierre, e per poter adombrare, senza riuscire a completarlo, il
carattere di Virginia, condannata a vivere di una vita doppia, libresca per il
ricordo dei due sfortunati amanti del buon tempo antico, e piena di impulsi e
di curiosità di vivere della monelluccia moderna. Ma del resto tutti i
personaggi ragionano, ricordano e mai operano. La comicità è di parole, di
freddure, e non sempre di buon gusto, anzi per lo piú tolte dal vecchio
repertorio caricaturale, cosicché spesso gli attori ne rimangono oppressi; come
il povero Conforti (Paolo), al quale è fatta ripetere, per cercare di renderlo
piú scialbo e piú grottesco, la vecchia boutade del viaggiatore che non
può cambiare il posto incomodo con un altro, perché nello scompartimento egli è
solo.
E altre e altre, stillicidio noioso e schiacciante
con parentesi di grossolanità come quella dell'albergatrice da due anni vedova
che non ha potuto nell'intervallo coniugale procurarsi la piú piccola
soddisfazione. Gli interpreti fecero del loro meglio per dare tutto ciò che era
possibile: ammirevoli, come al solito, la Galli e il Guasti.
(23 gennaio 1916).
«Il pomo della discordia» di Testoni al
Carignano. Pomo della discordia tra il conte e la contessa Alberti pare sia
il fatto che il loro unigenito è femmina e non maschio. Quindi separazione
legale, carta bollata, ecc., e sentenza del tribunale che fa sí che Luciana, la
prole non desiderata dal padre, debba trascorrere la sua vita a pezzi e
bocconi, quattro mesi con l'uno e quattro mesi con l'altro dei suoi cosí
suscettibili genitori. E la fanciulla, educata dal padre, a quanto dice
l'autore, senza pregiudizi, o almeno, senza troppi pregiudizi femminili,
prepara un complotto per rifare la famiglia cosí poco tragicamente separata.
Salva la mamma da un cattivo passo, la conserva degna del papà, e poi
riconosciutasi innamorata di un amico d'infanzia, scappa dal papà, gli impone
un dilemma: o far la pace o perdere la figliuola che va a marito, e riesce dopo
un seguito di avvenimenti superlativamente banali, a non essere piú pomo della
discordia, ma a maritarsi e a riconciliare i suoi fieri genitori. Tutta la
commedia è imperniata sulla figura della fanciulla, che la Gramatica seppe rendere
con vivacità e con spontaneità veramente degne della sua fama di grande
artista, e su alcune parti del dialogo, d'un humour per lo piú
convenzionale, ma non senza qualche sprazzo di sano spirito piccolo borghese.
Questo ormai forma a un tempo la ragione dei mezzi successi delle commedie del
Testoni e della debolezza del suo teatro, fatto tutto di tali piccole cose che
non riescono mai a organizzarsi in una commedia, in tutta una commedia. Insieme
alla Gramatica, che seppe, senza contrasto troppo stridente, rendere e forse
migliorare ciò che il Testoni aveva fatto della figura di Luciana, fu notevole
il Carini. Non altrettanto bene gli altri.
(27 gennaio 1916).
Un commediografo dialettale. Certa stampa
cittadina ha menato grande scalpore sulla commedia dialettale di Mario Leoni: L'erbô
d'la libertà, che sarà data stasera al Rossini. Pare si tratti di una
rievocazione di quel periodo della storia piemontese in cui maggiormente si
risentivano i contraccolpi della Rivoluzione francese. Il nome dell'autore,
temperamento di letteratucolo provinciale, autore di plumbei romanzi di
appendice e di superficiali drammacci da stadera, nonché assessore della Giunta
clerico-moderata, non dà certo troppo affidamento per la rievocazione di un
periodo che ebbe momenti di vera epicità e di dolorosa delusione.
(28 gennaio 1916).
«L'erbô d'la libertà» di Leoni al
Rossini. Grande avvenimento cittadino l'altra sera al Rossini. C'erano il
sindaco e l'ing. Sincero, l'antipapa; gli assessori, i consiglieri comunali piú
intellettuali da Fino a Grassi, e il vecchio teatro accoglieva tutti con la
tranquilla bonomia di un vecchio, del quale il ritorno per una volta dei bei
giorni passati non turba lo scetticismo sereno, frutto di tante alterne vicende
di gloria e di decadenza. Serata familiare anche! Ché Torino è in fondo ancora
una grande città di provincia, dove tutti ci si conosce, e dove si corre a
sentire e applaudire l'opera del collega o del conoscente per dovere
d'amicizia, ben disposti a essergli grati di una serata trascorsa cosí senza
grande divertimento e senza molta noia, lasciando riposare cervello e nervi.
All'amico molti applausi e quattro chiamate ha concesso la platea del Rossini.
E non vorremmo noi contrastare. Ché anche per la critica, occorre un punto
d'appoggio. Ma L'erbô d'la libertà non è né bello né brutto: è nel
pensiero di un dolce accomodantismo. C'è tutto o niente: l'azione, se non fosse
posta nel 1798, avrebbe potuto svolgersi nel 1848, a Torino o a Milano o
a Berlino. C'è chi crede e sacrifica per gli ideali rivoluzionari; c'è la
fucilazione del mitissimo e ingenuo agitatore Tenivell, ma c'è la caricatura
leggera delle nuove idee e dei nuovi costumi; c'è il cittadino calzolaio
Barberis che è vestito di rosso e cambia nome alla moglie ed al figlio e
sacrifica ai piedi dell'albero un pacco di biglietti del vecchio governo...
fuori corso, con un po' di sentimentalismo e un paio di amoretti e infine la
trovata: «Meglio bastardo che figlio di tedesco!».
Non è l'opera che contribuisca a rialzare il
teatro dialettale piemontese; manca in essa calore e vita; non ha mai suscitato
il brivido dell'interesse e del consenso che percorre la folla e la attanaglia
e fa scattare lo spettatore nell'apostrofe che eccita il sorriso di noi, troppo
blasés, ma consacra il successo dell'autore popolare.
L'erbô avrà delle repliche e Mario Leoni,
alla fine della carriera di fortunato negoziante di stoffe, allieta la sua
vecchiaia con lo stringere le catene matrimoniali alle coppie amanti, col
firmare molti atti di stato civile e con lo scrivere commedie. E continui pure
per molti anni.
(30 gennaio 1916).
Emma Gramatica al Carignano. Dopo La
moglie di Claudio, che la
Gramatica interpretò rendendo un po' troppo manierata la
donna fatale di una moda ormai tramontata (ma non è manierata già in sé ogni
donna fatale?), abbiamo sentito un breve atto di J. M. Barrie, che potrebbe
definirsi una spiritosa conferenza dialogata ed elaborata scenicamente sull'Età
delle attrici. In esso, piú che nel dramma a forti tinte, la Gramatica poté meglio
mostrare tutte le doti che la distinguono di spontaneità e di una certa sottile
arguzia.
(31 gennaio 1916).
La compagnia Ruggeri al Carignano. Il nuovo
corso di recite iniziato dalla compagnia di Ruggero Ruggeri si è già dalle
prime sere affermato vittoriosamente. A dir il vero, non bisognerebbe parlare
di compagnia, ma del solo Ruggeri e di qualche altro meno peggio, poiché ormai
è invalso, nella organizzazione delle nostre migliori compagnie, l'uso di
circondare gli elementi ottimi con altri molto scadenti, se non addirittura
pessimi, che servono solo per il chiaroscuro, per dare maggiore risalto ai primi,
con quanto scapito dell'effetto generale di una recita, è facile a chiunque
capire.
L'anima della compagnia è Ruggeri, che nelle tre
commedie finora date: Il marchese di Priola, Il bosco sacro, L'avventuriero,
ha saputo mostrare quanto sia grande la duttilità del suo ingegno artistico, la
potenzialità di rinnovamento, la facilità (apparente, almeno, perché si sa
dovuta a lunghi studi e coscienziosa preparazione) di investirsi di parti
sempre nuove, di personaggi antipodici, che ne riescono migliorati, umanizzati
dalla calda simpatia dell'interprete.
(5 febbraio 1916).
«Scampolo» di Niccodemi all'Alfieri.
Continua a far affollare l'elegante teatro di Piazza Solferino Scampolo
di Dario Niccodemi, che ormai è arrivato alla nona replica. La figurina selvaggiamente
ingenua della protagonista, pur nel suo convenzionalismo sentimentale e nella
pretesa di voler rappresentare in un tipo universale la vita della strada,
fatta di semplicità e di sincerità in contrapposizione alla vita artefatta
della restante umanità, è riuscita a conquistare la simpatia del pubblico.
Molto contribuirono al successo gli attori, specialmente A. Guasti e D. Galli,
che hanno saputo dare, di personaggi questa volta italiani, una interpretazione
sicura ed efficace, abbandonando per un momento i soliti e abusati tipi delle
Gobette, e dei pittori in fregola di piacevoli avventure. Si annunzia intanto
che la compagnia sta lavorando alle prove di un'altra novità italiana: La
campana, tre atti di G. Forzano, noto finora solo come manipolatore di
intrugli melodrammatici e di riviste-pasticcio.
(6 febbraio 1916).
«Il piccolo santo» di Bracco al
Carignano. Il piccolo santo è veramente piú creatura di Ruggeri che
di Bracco; seguendo l'artista in tutto il sottile lavorio col quale egli riesce
a plasmare atto per atto, parola per parola il carattere di don Fiorenzo, anche
nelle sue piú evanescenti sfumature (che spesso sono le piú significative),
pare impossibile immaginare un altro interprete, e una vita dell'opera
all'infuori di questa cornice e di questi scenari. La suggestione è cosí
avvincente che non si bada a tutto il resto, né all'incertezza che può essere
stata cagionata dalla scomparsa di un attore misurato ed efficace come il
Bonafini, né all'insufficienza di qualche altro.
Nelle repliche che certo si succederanno con la
stessa fortuna, molti di questi inconvenienti spariranno, e l'insieme dello
spettacolo sarà ancor piú perfetto.
(13 febbraio 1916).
«Il poeta e la signorina» di Berrini
all'Alfieri. La compagnia della Galli ha ridato la commedia di Nino Berrini
Il poeta e la signorina, e pare voglia ancora replicarla, quantunque
l'accoglienza non sia stata molto calorosa. Se Ferdinando Martini si occupasse
ancora di queste bazzecole e si ponesse di nuovo la questione del perché non
esiste un teatro nazionale italiano, gli si potrebbe rispondere, prendendo le
mosse dall'ultima produzione, che il difetto d'origine è l'insincerità degli
autori, specialmente giovani. La mancanza di un genio può spiegare il non
sorgere di capolavori. Ma il teatro non si nutre solo di capolavori, e questi
d'altronde non paiono sfungare con molta frequenza neanche fuori d'Italia.
È proprio l'insincerità, la mania letteraria che
impedisce a molti di far qualcosa di buono, anche nei limiti piú modesti. Per
il razzo di una trovata, per il barbaglio di una situazione piccante o di un
personaggio che nessuno ha mai posto in scena, si sacrifica tutto quello che
può veramente dare ossa e carne a una commedia.
E cosí sia, se cosí meglio piace.
(13 febbraio 1916).
L'«Amleto» con Ruggeri al
Carignano. La compagnia di R. Ruggeri ha ripreso l'Amleto, e, se è
lodevole lo sforzo che l'attore ha fatto per dare di Amleto una raffigurazione
pienamente umana, non si può però dire che Shakespeare sia stato bene
interpretato. Sicuro: perché nelle opere del tragico inglese non c'è solo il
protagonista, e la tragedia non è solo la tragedia di questo. La caratteristica
del capolavoro (detto cosí all'ingrosso) consiste nella saturazione di poesia
di ogni parola, di ogni atto, di ogni persona del dramma; niente c'è di
inutile, niente da trascurare, ogni anche piccolo accenno concorre alla
catastrofe ed è indispensabile per giustificarla. Rendete solo tragico Amleto e
lasciate nella penombra gli altri, e la tragedia corre il rischio di diventare
un dramma da arena, una beccheria capricciosa e casuale. Tutti i personaggi
sono grandi nella concezione shakespeariana: fortemente messi in rilievo, e
presi nel turbine di fatalità che ha in Amleto la vittima principale; e se non
si riesce a dare di tutto ciò che la concezione del lavoro vuole, Amleto
continuerà a essere pietra di paragone per la virtú di plasticità dei nostri
migliori attori, ma non sarà l'Amleto di Shakespeare, e il pubblico, pur
persuaso di aver sentito un capolavoro (lo dicono tutti e da tanto tempo)
uscirà da teatro con qualche delusione e lievemente propenso a non credere del
tutto ai capolavori.
(20 febbraio 1916).
«Il signor di Courpières» di Hermant al
Carignano. Il signor di Courpières di Abel Hermant è una commedia
cadaverica, costrutta di pezzi anatomici da gabinetto sperimentale,
freddamente, come potrebbe fare un giocatore di scacchi che si pone le
difficoltà e laboriosamente se le risolve per passare il tempo. Il protagonista
è il tipo dell'aristocratico spiantato, cinico, amorale, che nella società
borghese cui non può adattarsi, risolve il suo problema sociale con le amanti
ricche o che si vendono ad altri per mantenerlo, senza sentire mai un brivido
di passione, un palpito di umanità se non forse verso i suoi simili dei
sobborghi, gli apaches e gli Alphonses della suburra. Ma nel
letamaio fiorisce una violetta (come sono sentimentali i cinici e gli scettici
convenzionalmente professionali!), una fanciulla della borghesia danarosa che
nell'ultimo atto, quando la catastrofe sembra imminente, e il signor di
Courpières sta per farsi suicidare (ammazzarsi tutto da sé sarebbe troppo
banale) avendo falsificato una cambiale, lo salva perché vuol redimerlo e
rigenerarlo.
La commedia fu zittita e cadde nell'indifferenza
generale.
(24 febbraio 1916).
Serata d'onore di Ruggero Ruggeri al Carignano.
Ruggero Ruggeri annunzia per venerdí la sua serata d'onore con L'amico delle
donne di A. Dumas. Il Ruggeri nella sua pur breve permanenza a Torino, e
nel limitato numero di rappresentazioni che ha potuto dare, ha dimostrato che
egli sta fuori di ogni ruolo convenzionale. La sua potente personalità supera
ogni professionismo. La tragicità di Amleto non fissa nessun abito
acquisito nel carattere dell'attore. Il «fascino slavo» del Bosco sacro
trova in lui l'immediatezza espressiva che non può dargli un brillante che per
la continuità della sua funzione si lascia soverchiare da abitudini fisiche e
vocali che conguagliano i caratteri comici piú disparati. Perciò il pubblico
giustamente ha reso sempre omaggio, e piú lo farà venerdí alle doti eccezionali
di Ruggero Ruggeri.
(2 marzo 1916).
La serata in onore di R. Ruggeri fece affollare in
modo eccezionale il Teatro Carignano.
La commedia di A. Dumas figlio L'amico delle
donne non è tale, di per se stessa, da incatenare un pubblico per cinque
atti non tutti leggeri. Ma il dialogo, fitto di leggeri ricami dialettici,
superficialmente piacevole e interessante per i confronti tra la moda teatrale
del passato e quella attuale, sembra fatto apposta per mettere in rilievo tutte
le qualità buone dell'attore insigne, che riempie di sé tutti i cinque atti,
rendendo passabile e simpatico quel tipo di perpetuo seccatore che nella vita
reale sarebbe l'amico delle donne come l'immaginava Dumas figlio.
(5 marzo 1916).
La compagnia Galli-Guasti-Bracci all'Alfieri.
Stasera Amerigo Guasti darà la sua serata d'onore con L'asino di Buridano
di de Flers e Caillavet. L'altra sera Dina Galli ha dato la sua con Amore
veglia degli stessi autori. Il pubblico ha affollato il teatro come nei
primi giorni della lunghissima stagione teatrale, prova la piú significativa
della simpatia che la compagnia ha saputo suscitare. Credo infatti che quella
Galli-Guasti-Bracci sia l'unica compagnia italiana che meriti veramente questo
nome, poiché presenta organicità di ruoli e graduazioni di capacità, che pur
lasciando agio ai principes di mettere in rilievo le loro doti speciali,
non nuoce all'insieme e dà risalto anche alle parti secondarie.
Il Guasti, la Galli e il Bracci hanno sempre trovato nella
Galli, nella Casilini, nel Conforti, nel Fuggetta e negli altri dei cooperatori
intelligenti, sempre alacri, che hanno contribuito indubbiamente al buon
successo costante delle rappresentazioni, senza far diminuire perciò la
personalità dei maggiori, anzi forse mettendole maggiormente in risalto.
(6 marzo 1916).
Ermete Novelli all'Alfieri. Un pubblico
speciale aspettava l'altra sera la rentrée di Ermete Novelli: di
ammiratori che avevano seguito con affetto nella sua lunga carriera il vecchio
attore, e di giovani che forse lo sentivano per la prima volta e volevano
fissarsi nella memoria l'immagine dell'interprete sommo di talune figure popolaresche,
come papà Martin, concepite ingenuamente, attuate e poste in azione in drammi
poco consistenti e artisticamente nulli, ma nei quali tuttavia il richiamo a
sentimenti umani elementari, radicati, innati quasi, e diffusi universalmente
lascia all'attore la piú grande libertà di creazione individuale, personale.
Che rimane di queste rappresentazioni nello spirito dell'ascoltatore? Non certo
un godimento artistico, una nuova esperienza estetica, derivante dalla
produzione drammatica. Il godimento, l'esperienza la dà l'attore con la sua
arte d'interprete. Il fatto stesso che il dramma è concepito su una trama
tenue, elementare, fa sí che esso venga assorbito immediatamente senza
contrasti e senza sforzi, e che tutta l'attenzione si rivolga al modo, alla vita
particolare che il Novelli riesce a infondere anche ai piú frusti e abusati
motivi sentimentali. L'attore è in realtà egli stesso l'autore, perché tutto
ciò che non solo rende sopportabile, ma anche piacevole e interessante il
vecchio dramma di Cormon e Grangé è opera sua, tutta sua. Molti applausi a ogni
fine d'atto, e molti anche a scena aperta.
(16 marzo 1916).
«Le memorie di don Rodrigo» dei fratelli
Quintero all'Alfieri. Una successione di quadretti appena abbozzati, di
figurine comiche, sentimentali e grottesche formano tutta la commedia dei
fratelli Quintero: Le memorie di don Rodrigo. Nessuna novità, né di
ambiente, né di caratteri. Don Rodrigo è un vecchio spagnuolo che, arricchitosi
attraverso una vita di stenti e di lavoro indefesso, s'è formata una filosofia
della vita discretamente banale e convenzionale, e scrive le sue memorie nelle
quali molte fame usurpate troveranno il loro implacabile giustiziere. Intorno a
lui e alla sua filosofia volteggia il mondo circostante: dei figli o idioti o incapaci,
che lo portano alla rovina, dei nipoti che s'adattano a trarre, da ciò che era
stato motivo di eleganza e di bon ton, i mezzi per vivere, e delle
conoscenze incasellate secondo i tipi che piú possono trarre l'epigramma e lo
scherno dalle labbra del solitario. E siccome don Rodrigo, ovverossia i
fratelli Quintero, non sono della vita troppo profondi osservatori o filosofi,
troppo acuti, cosí i fatti che dovrebbero essere postillati dal protagonista
sono spesso noiosamente monotoni, fatuamente superficiali, e la commedia, se
non fosse stata retta da Ermete Novelli e da una sua giovane cooperatrice,
Hesperia Sperani, sarebbe caduta senza infamia e senza lode.
(18 marzo 1916).
Teatro inglese. Domani la compagnia di
Luigi Carini porrà in iscena una novità di un autore inglese: L'onore di
John Glayde, di Alfredo Sutro. Come a chi ha lo stomaco guasto per il
soverchio uso di dolciumi nauseosi è utile consigliare un buon bicchiere di
gin, cosí il pubblico, abituato ad ascoltare le frivole e cerebralmente idiote
costruzioni del teatro francese, molto potrà giovarsi di un contatto un po'
vivo e simpatico con le produzioni del teatro inglese. Esse, oltre che per la
rivelazione di un mondo morale alquanto diverso dal nostro, hanno il pregio di
un humour non superficiale e di parole, un fondamento spirituale per cui
le contraddizioni e le incongruenze della vita sono viste da un angolo visuale
nuovo, originale per noi, pur senza sforzi e anfanamenti.
Naturalmente bisogna ascoltare già persuasi che
tutto ciò che di strano e di diverso dal solito può esserci presentato, non è
il risultato di uno sforzo scenico, ma il portato naturale di un mondo diverso
dal nostro per costumi, per tradizioni di idee e di cultura.
(20 marzo 1916).
«L'onore di John Glayde» di Sutro al
Carignano. L'onore di John Glayde di Alfredo Sutro non si distacca
quasi per niente dalla media comune delle commedie costruite su un caso di
adulterio. Un uomo di affari che si appassiona piú al giuoco titanico della
Borsa che alla felicità domestica, ritrova al suo improvviso ritorno che la
moglie gli è diventata un'estranea, che ella si è costruita una vita nuova,
delle possibilità nuove di esistenza, e non vuol piú saperne di lui.
Ma è il modo che maggiormente offende il suo senso
d'onore, non il fatto in sé. La commedia che gli viene rappresentata, la
finzione che lo circonda e lo soffoca pur nel roseo cerchio delle braccia
femminee, lo esaspera, ma lo riconduce al senso della realtà.
Il dominatore riconosce il suo torto: ha giocato
male, e ha perduto. Di fronte a lui l'avversario non ha altro torto che
l'insincerità, la frode sleale che ha sorpreso la buona fede di chi, per
conoscere gli uomini, ha trascurato l'altra metà del genere umano, ma
nient'altro. E perciò non si erge esecutore della giustizia offesa: la
punizione della moglie e del suo amante è in loro stessi, nella loro coscienza
turbata di mentitori, che germinerà disillusioni e nuovi tradimenti e nuove
vittime.
Questo scioglimento psicologico che per essere
perfettamente, kantianamente morale, può rappresentare nel teatro una semplice
ma grande novità, è preparato da quattro atti non altrettanto semplici e piani.
Il dialogo, e forse vi contribuisce la traduzione scolorita e qualche volta
spropositata, è monotono, e nello svolgimento non mancano incongruenze e colpi
di scena artificiosi.
Luigi Carini rese molto bene la parte di John
Glayde, e la Gentilli
in quella di Mary (la moglie) fu in qualche momento perfetta. Il Baghetti con
la sua comicità fluida e schietta salvò la situazione che pareva dovesse
diventare burrascosa, e contribuí cosí al successo finale, se non entusiastico,
certo assai notevole.
(23 marzo 1916).
«La prigioniera» di Poggio al Carignano.
La prigioniera di Oreste Poggio è di quelle commedie che si fanno
applaudire per l'onestà delle intenzioni piú che per la realizzazione artistica
di un momento drammatico dello spirito umano. Una fanciulla povera si vende a
un amatore vecchio e ricco, lo tradisce con un suo impiegato infedele, e ne
viene punita con l'impossibilità in cui viene messa di abbandonarsi anche dopo
la vedovanza, alla sua passione. L'amante è un briccone (ella naturalmente non
lo vede sotto questa luce) e i documenti delle sue azioni delittuose dovranno
servire a rendere prigioniera la donna, a preservarla dalla iattura che la
nuova unione rappresenterebbe per lei. Finalmente un fatto nuovo (la prova del
tradimento e della malafede del lontano) la rende libera e dalla prigionia
esteriore impostale dal vecchio marito morto per il dolore e dalla prigionia interiore
della passione per un indegno.
La commedia si perde spesso e volentieri in azioni
secondarie, in episodi graziosi in sé, ma perfettamente inutili per lo
svolgersi dell'azione principale; e le giustificazioni psicologiche dei momenti
sono disperse nel dialogo fiorito di massime moraleggianti e di spunti che,
cosí come sono presentati, rappresentano un di piú, un'imbottitura sgraziata e
superflua. Il successo fu buono, perché i particolari riuscirono a interessare
e a tenere sempre desti l'attenzione e l'interesse del pubblico che assisteva,
e il Carini, la Gentilli,
il Baghetti e il Dondini dettero un'interpretazione ottima nel complesso e
piena di vita.
(30 marzo 1916).
Olga Vittoria Gentilli. Un teatro
affollatissimo ha voluto dimostrare a Olga Vittoria Gentilli come ella nella
sua breve permanenza nella nostra città sia riuscita a far apprezzare
l'intelligenza sua d'artista e i nobili tentativi per formarsi una personalità
e imprimere alle interpretazioni di personaggi ormai entrati nella tradizione
una nota speciale. L'abbiamo sentita nel Matrimonio di Figaro di
Beaumarchais, una delle opere d'arte piú vive e piú efficaci del teatro
europeo, rendere con grazia e spigliatezza il malizioso spirito settecentesco,
e nelle produzioni moderne abbandonarsi al suo istinto femminile e dare senza
artificio e morbosità anche le piú contorte e irreali figure di donne
prodigalmente create dalla fantasia degli odierni scrittori. Nelle Marionette
di Pierre Wolf, tutte le buone qualità della Gentilli ebbero agio di
manifestarsi, e in qualche momento il pubblico le tributò un vero trionfo.
(1° aprile 1916).
«L'aria del continente» di Martoglio
all'Alfieri. L'aria del continente, di Nino Martoglio, è un seguito
di scene giocose, caricaturali, nelle quali il filo conduttore dell'azione non
è dato dal carattere dei personaggi, ma dall'ambiente. Don Cola Dusciu ha
dovuto recarsi a Roma per subire una operazione chirurgica che il medico del
suo paese non sarebbe stato capace di eseguire; e come ogni buon paesano che si
rispetti si è ubriacato dell'aria del continente, si è slanciato in quella che
a lui sembrava la bella vita, ha fatto delle pazzie e ha sprecato il suo denaro
per una donnina da caffè-concerto, e infine se l'è portata con sé in patria.
L'ambiente gli si rivolta contro: la sorella non ne vuol sapere di novità
continentali, i buoni villici si scandalizzano per le libertà che la donnina si
prende e che don Cola, volendo fare l'uomo superiore ai pregiudizi, le
consente. Ma il suo temperamento di siciliano non tarda a riprendere il
sopravvento; la corte che si fa alla sua amante da parte di alcuni damerini lo
incomincia a irritare, a mettere in sospetto. E quando viene a sapere, quasi
contemporaneamente, che Milla ha concesso i suoi favori a suo cognato e a suo
nipote, e che ella non è una romanesca, una continentale, ma una siciliana
qualunque, un'avventuriera che l'ha preso in giro e ha sfruttato la sua
ingenuità provinciale, perde la testa, ripudia la sua mania innovatrice di costumi
e scaccia l'intrusa.
Nei tre atti compaiono sulla scena, resi
grotteschi per un maggior successo d'ilarità, alcuni momenti della vita paesana
siciliana, e alcuni tipi caratteristici di essa: la mamma, gelosa custode di
pure tradizioni familiari, il viveur di provincia, i giocatori di
scopone dei circoli di lettura, ecc., in mezzo ai quali il soffio di vita
continentale porta lo scompiglio e la rivoluzione. La comicità delle situazioni
che ne nascono viene portata al parossismo con un piccolo sforzo dialogico, e
la esuberante personalità del Musco fa il resto. Pare, in certi momenti che
un'aria di follia frenetica sia arrivata dal continente, tanto l'azione è
convulsa.
Il pubblico ha applaudito a ogni fine di atto,
tutti gli attori, e specialmente il Musco e la Anselmi, e ha chiamato
insistentemente al proscenio l'autore.
(12 aprile 1916).
Il Grand-Guignol al Carignano. Il
Grand-Guignol ha portato sulle scene di questo teatro le sue figure di
incubo, il suo realismo truce e ingenuo nello stesso tempo, la rappresentazione
di una vita esasperata e sussultante di terrore e di spasimi. Nessuna
interiorità, nessun urto drammatico di coscienze e di caratteri.
Della tragicità non c'è che la maschera esteriore,
lo spasimo fisico che cerca comunicarsi allo spettatore inebetito con un
brivido irresistibile. Bisogna dire che Alfredo Sainati e Bella Starace sono
maestri nel raggiungere gli effetti che si propongono di conseguire. La materia
bruta, il tritume del fattaccio di cronaca si organizzano nella elasticità
della loro personalità artistica che sa atteggiarsi nei modi piú truci, piú
sanguinosamente suggestivi. E cosí lo spettatore, che va a teatro per
incanagliarsi, per sentire uno strappo di nervi che gli dia l'impressione della
vita fittizia della suburra, del bassofondo, è soddisfatto e applaude.
(25 aprile 1916).
«Quacquarà» di Capuana all'Alfieri. Quacquarà
di Luigi Capuana non è altro che una smilza novella d'ambiente diluita in tre
atti, inzeppata di dialoghi e controscene che non portano nessun contributo a
una perspicua e viva rappresentazione del protagonista. Don Mario Mamuca è un
povero deficiente, perseguitato dai monelli del suo paese che lo tormentano
rifacendogli dietro il richiamo delle quaglie: quacquarà, quacquarà. È un
nobile spiantato, mezzo analfabeta, che scrive dei versi che non tornano e vive
di ripieghi e di elemosine larvate. S'innamora di una ricca signorina che
sarebbe felicissima di farsene il paravento per un suo piú precoce errore,
perché ha già 35 anni. Il matrimonio però va anch'esso a monte e Quacquarà
registra nel libro dei suoi ricordi e dei pettegolezzi paesani un'altra
delusione. Tutta la commedia è un susseguirsi di episodi inorganici, appena
abbozzati, pieno di lungagnate verbose. È questo un lavoro che Luigi Capuana,
che pure era un forte ingegno e uomo di buon gusto, ha lasciato inedito ai suoi
eredi, che non hanno certo reso un omaggio alla sua memoria presentandolo al
pubblico.
(27 aprile 1916).
«La malquerida» di Benavente al
Carignano. La malquerida di Benavente ha fatto ricordare a
qualcheduno le produzioni del teatro classico. Naturalmente ogni richiamo è
possibile: un'anfora di Samo rassomiglia piú a un boccale di Montelupo che al
lupo mannaro, e cosí l'intreccio di Malquerida può far ricordare Eschilo e Shakespeare.
Anche in essa infatti una passione perversa attanaglia due creature umane, ed è
istintiva, elementare, dovuta al fato, ma la tragedia si estrinseca in forma
granguignolesca, e cioè senza profondità di vita interiore, senza tormenti e
slanci lirici, riducendosi a gesti brutali. La giovinetta Rosaria non ha mai
saputo e potuto amare come padre, il nuovo marito che sua madre ha preso; e
d'altronde questo odio ingiustificato fa sí che Renzo non possa in lei vedere
una figlia; e una passione morbosa si impadronisce di lui. Per non lasciarla
andar via di casa, ne fa uccidere il fidanzato, monta una macchina infernale
per rovinare un innocente, un povero Cristo innamorato di Rosaria, ma non
riesce a far sí che la verità non venga conosciuta da sua moglie. La quale per
salvare l'onore della famiglia e perché comprende che nella passione dell'uomo
c'è un elemento imponderabile di fatalità, è disposta a perdonare, ma quando un
bacio che dovrebbe essere di conciliazione, di oblio, rivela a Rosaria che ella
ama il suo padrigno, e i due si avvinghiano disperatamente comprendendosi
alfine, la madre urla la sua vendetta, la sua collera, e cade uccisa da Renzo.
Nel dramma non c'è nulla piú dell'intreccio, abilmente condotto in modo che gli
intrighi vadano creando malintesi, imbrogli psicologici che determinano un
crescendo e preparino gli animi alla scossa finale. Ma l'abilità piú o meno
grande di facitor di ficelle, non può sostituire ciò che solo può
rendere umane e logiche anche le piú bestiali vibrazioni dei sensi.
Particolarmente efficace fu l'interpretazione della Starace-Sainati.
(30 aprile 1916).
Angelo Musco all'Alfieri. Angelo Musco ha
dato la sua serata d'onore molto festeggiato e applaudito. La sua personalità
d'attore, se in un primo momento può anche non piacere e perfino irritare,
finisce alla fine per farsi comprendere e stimare. Angelo Musco è eminentemente
un attore della commedia dell'arte: egli non può mantenersi mai nei limiti che
l'autore ha fissato ai personaggi; vuole aggiungere qualcosa di suo personale,
e per l'ingegno che ha duttile, pieghevole, riesce quasi sempre a convincere.
Il teatro dialettale gli dà naturalmente largo campo agli sbizzarrimenti, e
siccome le produzioni del suo repertorio sono, come del resto il novantanove
per cento di tutti i repertori, nient'altro che commedie dell'arte che vivono
della vita effimera della ribalta, cosí la sua maniera potrebbe anche essere la
migliore.
(30 aprile 1916).
Alfredo Sainati al Carignano. Un teatro
affollatissimo per la serata di Alfredo Sainati. L'orribile esperimento
del De Lorde, Cravatta nera di L. Ruggi, Revenant del Satèrne,
truci e sanguinolenti produzioni granguignolesche, mostrano Sainati nel suo piú
noto carattere di attore drammatico di eccezione, procurandogli gli applausi
entusiastici degli spettatori, che potrebbero offrire lo spunto a una ricerca
psicologica simile a quella che Arturo Graf ha fatto per la tragedia. Perché il
pubblico si diverte al Grand-Guignol? Se la natura umana rifugge dal dolore,
dalla sofferenza, come mai nel teatro ciò può essere un motivo di attrazione?
Non potendosi parlare di godimenti artistici per ciò che riguarda la creazione
di fantasmi poetici espressi plasticamente dal dramma, è evidente che la
ragione della fortuna di questo teatro è dovuta tutta agli attori che sanno,
come il Sainati, dare vita anche a dei pupazzi incolori e incongruenti come
quelli che di solito popolano la loro scena.
(14 maggio 1916).
«Il titano» di Niccodemi al Carignano.
La guerra evidentemente ha imposto una moratoria anche all'arte. L'azione che
si svolge al fronte fa rivolgere tutte le energie degli uomini di buona volontà
alla pratica, alla speculazione dell'esaltamento passeggero, che opportunamente
solleticato, dà buon gettito di applausi e di cassetta. Santa retorica si dice
per le manifestazioni simili del passato, del Risorgimento; perché né Berchet,
né Silvio Pellico, né il Giusti, né il Dall'Ongaro, né Poerio ponevano un fine
economico all'arte patriottica. Volgare speculazione deve semplicemente
giudicarsi quella del Niccodemi, che ha allegramente imbastito, con quella
abilità che si è acquistata nel suo garzonato di autore rotto a tutte le
piccole astuzie della scena, una commedia di palpitantissima attualità.
Quattro convenzionalità sono i personaggi: il bene
assoluto (Marco Asciani), il male assoluto (Gilberto Guidi) suo cognato,
l'innocenza sciupata (sorella di Marco), l'innocenza ingenua ed elementare (una
bambina). Marco ha partecipato alla guerra con i suoi due figli; questi vi
hanno lasciato la vita, egli l'ha scampata per miracolo, e sua moglie è morta
di crepacuore. Uscendo dall'ospedale rinnovato di corpo e d'anima, mentre si
dispone a diventare l'apostolo di una vita nuova, di una nuova morale, è
travolto in uno scandalo di frodi in forniture militari. È Gilberto, l'uomo
della preistoria, il bruto pieno di vizi, che essendo stato da lui posto a capo
della propria banca, ha speculato sulla vita, sulla incolumità dei soldati per
arricchirsi, per alimentare le sue basse cupidigie di gaudente. Marco perde
nella crisi tutto il patrimonio, e mentre prima era chiamato titano per la
ferrea volontà che esprimeva negli affari, ora si chiama da sé titano perché
scopre che per fare il modesto impiegato è necessaria una forza morale ben
maggiore di quella richiesta per fare il capitalista. Gilberto sparisce
silenziosamente nella sorridente marina di Anzio, perché la coscienza gli è
diventata una carceriera implacabile, e decide di non ritornare piú a galla;
affinché la nuova Italia non veda piú la fisionomia del frodatore militare.
Questa è la nuda trama, impolpata con le piú svariate zeppe di repertorio: una
porta sfondata, un marito che sta per strangolare la moglie per farsi
consegnare dei valori, un fratello che crede per un momento la sorella adultera
col... marito, una requisitoria formidabile contro i fornitori militari, che
ricorda la filippica contro i preti della Morte civile del Giacometti,
una piccola Scampolo che come un pappagallino ammaestrato recita graziosamente
le ingenuità piú artificiali di questo mondo, e cosí via.
Il colpo era sicuro. La tirata contro i fornitori,
eloquente come una forbita orazione di avvocato fiscale, suscitò i frenetici
applausi dalla platea (ingresso) e dal loggione; le poltrone e i palchi
prudentemente si astennero. Gli attori non erano altro che fonografi, e non
poterono per mancanza di materia prima, creare nessun carattere. Il Ruggeri è
artista tale che si mantiene alto anche in simili spappolamenti teatrali; e il
Niccodemi, come Gilberto della sua commedia, troverà nella sua coscienza la
carceriera che lo punirà dall'aver speculato sul dramma nazionale, per
raggiungere in poco tempo solo ciò che un onesto e lungo lavoro gli avrebbe
dato allo stesso modo.
(18 maggio 1916).
Ruggero Ruggeri in «Macbeth» di
Shakespeare al Carignano. Dopo qualche replica del Titano di
Niccodemi, e del Piccolo santo di Bracco, martedí Ruggeri interpreterà
per la prima volta fra noi, la piú difficile e complessa, forse, di tutte le
tragedie di Shakespeare: Macbeth.
Dopo la sua personalissima interpretazione di Amleto,
e anche perché ormai da molto tempo nessun altro attore ebbe il coraggio di
misurarsi con un'opera di tanta difficoltà e responsabilità, questo Macbeth
di Ruggero Ruggeri è atteso con immenso interesse.
E poiché i giudizi del pubblico e della critica
milanese furono cosí vari e discordi, la seconda prova tentata a Torino potrà
aver valore di giudizio di appello e decisivo.
(22 maggio 1916).
In un saggio recentissimo su Shakespeare, Romain
Rolland ha incidentalmente espresso un giudizio che è il riconoscimento critico
migliore della tragicità dell'autore inglese: «Shakespeare nel creare i suoi
personaggi procede senza sforzi; si cala nel cuore di ciascuno e di esso
riveste il suo pensiero, la sua forma, il suo piccolo universo; mai egli muove
dal di fuori». Cadono cosí tutte le interpretazioni che del Macbeth la
critica giornalistica ha recentemente cucinato per il grande pubblico. Non
tragedia dell'orrore, né della paura, né dell'ambizione, come è stata volta a
volta chiamata; ma tragedia solo di Macbeth, di un uomo, di un carattere, ben
definito nello spazio e nel tempo. Egli solo riempie tutto il dramma, e ne è
l'eroe. È una volontà, cosí, senz'altro; volontà che riceve stimoli all'azione
dal mondo esterno, ma che questi fonde nella sua personalità e fa propri, senza
perdere un atomo della libertà spirituale che è caratteristica di tutti gli
uomini, e senza la quale non può esservi tragedia. Shakespeare lo ha posto in
un ambiente storico, in un tempo e in luogo nei quali anche il soprannaturale
era elemento della realtà, era parte viva delle coscienze, e appunto perciò
questo soprannaturale non è meccanico, non è astrazione fredda, non è ripiego
comodo per trarre dai fatti elementi di successo; è certo esistenza,
integrazione necessaria del dramma.
Vediamo svolgersi questo dramma con una logica
interiore inflessibile. La predizione delle streghe del primo atto è l'inizio
di esso. Macbeth è incerto in principio, titubante; la grandezza del destino
che lo attende lo scrolla fin nell'intimo della sua umanità, fa traballare, ma
non distrugge d'un tratto nella sua coscienza le leggi morali che ne sono la
base granitica:
Quando
mi
voglia re la sorte coronarmi,
essa
pure dovrà senza il mio sprone.
Ma la realtà lo attanaglia; sua moglie è lo sprone
della sua volontà incerta e vacillante. Lady Macbeth, creatura meno complessa,
piú elementare, che appunto perciò il destino stronca cosí, semplicemente,
senza trovare resistenza, è di quelle che tra il pensiero e l'azione non
pongono intermezzo. Solo nel quarto atto, dopo che la causa scagliata da lui
nel mondo ha prodotto effetti che egli non poteva prevedere, anche Macbeth si
riduce a questa semplicità di concezione:
D'ora
in avanti
i
primi impulsi del mio cuor saranno
gl'impulsi
di mia mano.
Macbeth ha a questo punto ritrovato se stesso: ma
attraverso quali sanguinose esperienze! L'assassinio del re e dei suoi custodi
ha fatto cadere il primo involucro della sua umanità. L'abisso ha chiamato
l'abisso, secondo la sua tragica necessità. La pazzia sembra afferrarlo per un
istante con la tortura dell'ombra di Banco. Ma egli, nella sua forte volontà,
vince questi richiami morbosi della coscienza. La moglie è ormai un'ombra,
preda di allucinazioni sanguinose; il guerriero scozzese non tenta piú, non
esita piú. Tutto gli diventa avverso, ma egli è sicuro della sua fortuna.
La seconda predizione delle streghe ha prodotto in
lui questa sicurezza: nessuna sanzione terrena potrà colpire i suoi delitti. E
Macbeth taglia tutti i fili che legano la vita di ogni uomo a quella degli
altri suoi simili. Nulla lo fa trasalire. La morte di Lady Macbeth, della tanto
amata, non trae un lamento dalle sue labbra; il suo cuore è impietrito; non
vive che la volontà atroce.
Lady Macbeth soccombe alla visione dei fantasmi
che ella stessa ha suscitato. È una debole, in fondo, che solo l'esasperazione
fa diventare furia perversa. Come nel suo romanzo grottesco Chamisso impersona
nell'ombra che è fuggita, la coscienza di Pietro Schlemil, Shakespeare
rappresenta plasticamente nella morte del sonno il rimorso della donna. E il
sonno uccide quel già vibrante fascio di nervi, nei quali la lampada della vita
non dà che qualche incerto guizzo.
Il sangue cola a ruscelli in questa tragedia: si
ha l'incubo del rosso nel riviverla integralmente. Re Duncano, le due sue
guardie del corpo, Banco, lady Macduff, e tutta la sua famiglia muoiono e tutte
queste morti sono necessarie nell'azione, fatali, date le premesse. Una
orribile gorgona ha abbacinato Macbeth; Banco lo aveva subito capito, fin dalla
prima previsione delle streghe:
Spesso
a render certo
il
nostro danno gli stromenti delle
tenebre
il vero dicono e con lievi
cose
ci attraggono per gettarci poi
nei
piú oscuri raggiri.
Ma bisogna che Macbeth veda tutto il baratro, nel
quale egli è precipitato per persuadersi di ciò. Bisogna che veda muoversi la
selva, e che un uomo nato pei ferri del chirurgo lo turbi dimostrandogli vana
la sua sicurezza. Solo allora il titano del male sente che tutto è crollato
intorno a sé e ritorna debole, pauroso, uomo insomma. E la giustizia lo
colpisce.
Ruggeri darà stasera il gigantesco lavoro di
Shakespeare. È un avvenimento artistico, al quale non possono essere estranei
anche i nostri lettori, i quali anzi perché meno intellettualmente corrotti,
sono i piú degni d'avvicinare e di risentire i brividi di passione del tragico
inglese. Potranno Ruggeri e i suoi collaboratori ridare integralmente questi
brividi, questa vita intensa, anelante alla distruzione, alla strage infeconda?
Vedremo.
(23 maggio 1916).
Vedere proiettata sulla scena, incarnata in
persone operanti e parlanti, rinchiusa in un determinato orizzonte, un'opera
che per noi è solo vissuta della vita delle parole, delle immagini che la
fantasia ricrea, dei segni materiali della carta stampata, produce sempre un
urto che non si riesce subito a superare. Qualche cosa si interpone tra voi e
l'opera, una personalità estranea che diventa invadente, ingombrante talvolta,
e alla quale bisogna abituarsi. Come tutte le opere di poesia, la tragedia di
Shakespeare vive autonoma nella cerchia delle parole. La suggestione di vita
non ha bisogno della concretizzazione scenica per trarci nel suo cerchio
fatale. Anzi. Ogni urto brutale con tutto ciò che è convenzione, mezzo,
costrizione violenta, adattamento alle esigenze dell'ora e delle possibilità
interpretative, produce squarci dolorosi, mortificazioni umilianti. L'arbitrio
direttoriale che toglie e riduce non può non essere sacrilego. L'opera deve
rimanere tal quale è sgorgata, vibrante e palpitante di vita, dalla fantasia
dell'autore. Ogni parola ha una ragione, ogni atteggiamento fisico e spirituale
deriva necessariamente da una personalità che è stata concepita in quel dato
modo e in nessun altro. Tutto il corpo diventa lingua che esprime un mondo
interiore ben definito e tagliato fra gli infiniti possibili che la libertà
crea. Bisogna abituarsi a pensare al Macbeth di Ruggeri e dimenticare
alquanto quello di Shakespeare. E l'uno è infinitamente inferiore all'altro e
l'adattamento non può avvenire con facilità, senza mortificazioni.
Ruggeri ha cercato per quanto gli è stato
possibile, di ridurre la tragedia alla sua persona. L'ha modernizzata, in un
certo senso, poiché le opere che egli è solito dare con piú successo, si
conchiudono in un solo eroe, che come il tenore dei melodrammi diventa centro
dell'universo. E Shakespeare invece è polifono: le azioni dell'eroe trovano
risonanze in tutto l'ambiente in cui egli opera, non rimangono affermazioni di
fatti, ma diventano atti, plasticamente rappresentati. Il taglio di molti
particolari nuoce, cosí, enormemente, alla rappresentazione dell'eroe stesso,
lo rende meno vivo. Vedere davanti a noi la prova di volontà di re Duncano vale
piú che il sentirla ricordare dall'assassino. Vedere come Banco sia
fraudolentemente sgozzato, accresce l'orrore della rievocazione dello spettro.
Vedere come fossero vivi lady Macduff, e i suoi figlioli, e come i sicari
tronchino nelle loro gole la parola ingenua, il rimbrotto femminile, è
necessario per l'effetto d'insieme sinfonico di questa ridda fantasmagorica di
sangue e d'orrore. Il tiranno è tale per i soprusi inumani che compie, non per
le parole che escono dalle sue labbra. L'opera cosí scarnificata diventa un
moncherino, grottesco talvolta. L'espressione di Macduff che rassomiglia la
moglie e i figli a una chioccia ghermita coi pulcini da un avvoltoio, non
avrebbe fatto ridere la platea se questa avesse avuto dinanzi agli occhi il
quadro della strage compiuta freddamente dalla volontà del re.
Piccole osservazioni che si potrebbero
moltiplicare se ciò non fosse inutile, e se noi non sentissimo per Ruggeri una
grande gratitudine anche per il poco che ci ha dato, e che serve da stimolo per
accostarci con piú amore all'opera. Come non servirà a nulla osservare che
Ruggeri è cosí infetto di lebbra dannunziana vacua e declamatoria, che troppo
spesso la sua riflessione critica ne viene sorpassata e annegata in una
sentimentalità melodrammatica che stona terribilmente colla creatura di
Shakespeare, né decadente, né ammalata di modernità floreale e liberty.
E il pubblico, anch'esso compenetrato dello sforzo
che il Ruggeri, la Vergani,
e gli altri hanno fatto, ha applaudito, e talvolta con vera convinzione.
(25 maggio 1916).
Sfogo necessario. Inizi di nuovi corsi di
recite in tutti i teatri di Torino. Produzioni per tutti i gusti, o per meglio
dire, per tutti i cattivi gusti. Mediocrità uggiosa, asfissiante. Torino è
diventata una buona piazza per il trust che regola il mercato artistico
italiano: vi si smerciano anche i prodotti piú indigesti. Eppure non dovrebbe
essere cosí: la fortuna dei concerti di Toscanini, delle esecuzioni di Cavalleria
dimostrano che la superiorità del prodotto, l'intenzione artistica non nocciono
alla cassetta; tutt'altro. Ma Toscanini, Mascagni hanno dovuto essere invitati
da una istituzione privata, in un teatro municipale, non ancora caduto in balia
della bassa speculazione. Il trust ha ammazzato la concorrenza, ha rotto
la molla che costringeva a dare il meglio se si voleva molto pubblico, e si è
formata la palude, la marcita che favorisce prosperità ai girini e alle
erbacce.
Scala decrescente di valori. Ma da che grado si
incomincia a contare?
Al Carignano la compagnia Bondi-Orlandini, di
nuova formazione. Demi-monde di A. Dumas, questo abile cesellatore di
brillanti chimici, ha dato inizio al nuovo corso, che si annunzia breve.
Disinvoltura meccanica, molte stonature nell'insieme artistico, qualche buono
spunto che dimostra della buona volontà. Ma nient'altro; e per il Carignano è
troppo poco.
Al Chiarella e all'Alfieri, operette. Cinema-star
e la Signorina
del cinematografo, pur dopo le grandi chiacchiere che hanno suscitato, e
il fluire di tanto inchiostro patriottico, non riescono a sollevarsi dal
pattume. La compagnia Caracciolo al Chiarella pone in linea qualche ottimo
elemento, ma l'insieme persuade poco.
All'Alfieri quella Gattini-Angelini dicono non
abbia avuto ancora occasione di mostrare tutte le sue qualità. Sarebbe tempo le
mostrasse una buona volta, per cancellare l'impressione si tratti di una troupe
di dilettanti che non conoscono neppure l'abbicci della scena.
Al Parco Michelotti, Casaleggio sciorina tutto un
ricchissimo programma di novità. Sembrerebbe che il teatro dialettale non sia
mai stato tanto in voga. Ma si tratta evidentemente di un falso allarme.
L'esperienza del passato (i nomi sono sempre gli stessi) deve ben servire a
qualcosa. Adesso Casaleggio ha trovato anche un'altra via dell'avvenire: il
concorso. Che i numi preservino da altri malanni.
Ma gli applausi scoppiano lo stesso fragorosi.
L'estate attutisce i sensi, il caldo fa ingurgitare anche i tamarindi fatti con
prugne secche. Ha poi torto il trust di far di Torino il rifugio degli
invalidi? Ognuno ha il governo che si merita; l'affermazione è vecchia, ma
forse purtroppo, sempre d'attualità.
(4 giugno 1916).
Tina Bondi al Carignano. Una commedia che
si fa sempre applaudire, La trilogia di Dorina del Rovetta, ha dato
occasione a Tina Bondi di porre in valore alcune sue buone qualità di attrice,
che il pubblico fu lieto di riconoscere e di applaudire. Niente di eccezionale,
pertanto, o di rivelativo. La
Bondi è essenzialmente una riflessiva e una volitiva, e ciò
spiega come spesso non riesca a superare una freddezza esteriore che nuoce
molto all'efficacia delle sue interpretazioni, e che si manifesta anche nelle
intonazioni della voce e nella plastica degli atteggiamenti fisici. Ma
d'altronde la rende interessante e le procura le simpatie che vanno sempre agli
uomini, e alle donne, di buona volontà.
(18 giugno 1916).
Melanconie... Un preconcetto ancora
solidamente radicato fa ritenere a moltissimi che il teatro sia uno dei tanti
luoghi di divertimento piú o meno onesto, a seconda dei casi, la cui mancanza
non deve ritenersi un danno, anzi per molti, i clericali, per esempio, deve
ritenersi una fortuna. Perciò nessuno ha fatto rilevare e ha deplorato che a
Torino da piú di un mese e mezzo non sia aperto nessun teatro degno di tal
nome, e non si è domandato quale sia la causa dello strano avvenimento.
Perché non è certamente la guerra coi suoi
contraccolpi che ha determinato la clausura. Al contrario, la mancanza di un
ritrovo non banale ha dato luogo a un pullulare malsano di varietà e di
canzonettisterie, nelle quali, per disperazione, vanno a finire tutti gli
annoiati, non solo, ma anche tutti quelli che dopo una giornata di lavoro
febbrile e pesante, sentono la necessità di una serata di svago, sentono il
bisogno di una occupazione cerebrale che completi la vita, che non riduca
l'esistenza a un puro esercizio di forze muscolari. Poiché questa è una delle
ragioni che dànno un valore sociale al teatro. Accanto all'attività economica,
pratica, e all'attività conoscitiva, che ci rende curiosi degli altri, del
mondo circostante, lo spirito ha bisogno di esercitare la sua attività
estetica. L'impastoiare questa è un limitare arbitrariamente la nostra
personalità; ed essa si vendica, a nostre spese. L'astinenza artificiosa porta
al vizio solitario: l'assenza di possibilità buone per la ricreazione
intellettuale fa sfungare i ritrovi piú o meno osceni, dove si logora una
apprezzabilissima parte di noi stessi e si pervertisce il gusto. A Torino una
completa mancanza di spettacoli teatrali non si era mai avuta. Il comune
stesso, quando era retto da uomini meno intellettualmente beceri, si
preoccupava del problema, e a ragione. Quando il Carignano era ancora esercíto
dal municipio, si facevano con le migliori compagnie dei contratti speciali che
permettevano ai torinesi di sapere dove poter recarsi spendendo utilmente i
propri quattrini. Il municipio si interessava di regolar lui la bilancia di
tutte le attività cittadine; faceva ciò che dovrebbe fare ogni ente comunale
che si rispetti, che prevede e provvede nella misura del possibile, a tutti i
bisogni degli amministrati.
In seguito Torino si è abbiosciata, ha perduto
completamente ogni fisionomia intellettuale. È diventata ormai, per quanto
riguarda i teatri, una sezione del gran feudo del trust, che fa e disfà,
ordina e scompone a seconda dei suoi interessi immediati, e quasi sempre, come
avviene, anche contro i suoi interessi, per incapacità industriale e ristretta
visione delle cose.
E cosí mentre città, non solo come Milano e Roma,
ma anche come Bologna, Genova, Firenze, hanno completa la loro vita cittadina,
da noi bisogna accontentarsi delle scemenze vernacole del parco Michelotti, o
delle recite da circo equestre del Vittorio Emanuele. Naturalmente poi i
benpensanti finiranno col domandare che un decreto luogotenenziale limiti e magari
espella l'esercito di canzonettiste che ha invaso tutti i locali disponibili
della città. Perché da noi si batte sulle dita dei bimbi che fan le bizze, e si
fa la casistica del permesso e del proibito, ma non si cerca mai di dare le
possibilità affinché i bisogni che trovano nella bizza o nel pervertimento
l'unico loro sfogo, possano invece incanalarsi nei diritti e naturali loro
alvei.
(21 agosto 1916).
Teatro e cinematografo. Si dice che il
cinematografo sta ammazzando il teatro. Si dice che a Torino le imprese
teatrali hanno tenuti chiusi i loro locali nel periodo estivo perché il
pubblico diserta il teatro, per addensarsi nei cinematografi. A Torino è sorta
e si è affermata la nuova industria delle films, a Torino sono stati aperti dei
cinematografi lussuosi, come non ce ne sono molti in Europa, e tutti i ritrovi
del genere sono sempre affollatissimi.
Parrebbe quindi che ci fosse almeno un fondo di
vero nella dolorosa constatazione che il gusto del pubblico ha degenerato, e
che per il teatro si avvicinano dei brutti giorni.
Noi siamo invece persuasissimi che queste
lamentele sono fondate su un estetismo bacato, e che si può facilmente
dimostrare che esse dipendono da un falso concetto. La ragione della fortuna
del cinematografo e dell'assorbimento che esso fa del pubblico, che prima
frequentava i teatri, è puramente economica. Il cinematografo offre le stesse,
stessissime sensazioni che il teatro volgare, a migliori condizioni, senza
apparati coreografici di falsa intellettualità, senza promettere troppo
mantenendo poco. Gli spettacoli teatrali soliti non sono che cinematografie; le
produzioni piú comunemente date non sono che tessuti di fatti esteriori, vuoti
di ogni contenuto umano, nei quali delle marionette parlanti si agitano
variamente, senza mai attingere una verità psicologica, senza mai riuscire a
imporre alla fantasia ricreatrice dell'ascoltatore un carattere, delle passioni
veramente sentite ed espresse adeguatamente. L'insincerità psicologica, la
bolsa espressione artistica hanno ridotto il teatro allo stesso livello della
pantomima. Si cerca, e nient'altro, di creare nel pubblico l'illusione di una
vita solo esteriormente diversa da quella solita di tutti, nella quale cambiano
solo l'orizzonte geografico, l'ambiente sociale, dei personaggi, tutto ciò che
nella vita è argomento di cartolina illustrata, di curiosità visiva, non di
curiosità artistica, fantastica. E nessuno può negare che la film abbia per
questo lato una superiorità schiacciante sul palcoscenico. È piú completa, piú
varia, è muta, cioè riduce il ruolo degli artisti a semplice movimento, a
semplice macchina senza anima, a quello che in realtà sono anche nel teatro.
Prendersela col cinematografo è semplicemente buffo. Parlare di volgarità, di
banalità, ecc., è retorica bolsa. Quelli che credono veramente a una funzione
artistica del teatro, dovrebbero invece essere lieti di questa concorrenza.
Perché essa serve a far precipitare le cose, a ricondurre il teatro al suo vero
carattere. Non vi è dubbio che una gran parte del pubblico ha bisogno di
divertirsi (cioè di riposarsi cambiando il termine della propria attenzione)
con una pura e semplice distrazione visiva: il teatro, industrializzandosi, ha
cercato in questi ultimi tempi di soddisfare solo questo bisogno. È diventato
un affare senz'altro, è diventato una bottega di paccottiglia a buon mercato.
Solo per caso si dànno ormai produzioni che abbiano un valore eterno,
universale. Il cinematografo, che quest'ufficio può compiere con piú agio e piú
a buon mercato, lo supera nel successo, e tende a sostituirlo. Le imprese e le
compagnie finiranno col persuadersi che è necessario cambiar strada, se
vogliono continuare a esistere. Non è vero che il pubblico diserti i teatri;
abbiamo visto dei teatri, vuoti per una lunga serie di rappresentazioni,
riempirsi, affollarsi all'improvviso per una serata straordinaria in cui si
esumava un capolavoro, o anche piú modestamente un'opera tipica di una moda
passata, ma che avesse un suo particolare cachet. Bisogna che ciò che
ora il teatro dà come straordinario diventi invece abituale. Shakespeare,
Goldoni, Beaumarchais, se vogliono lavoro e attività per esser degnamente
rappresentati, sono anche al di fuori di ogni banale concorrenza. D'Annunzio,
Bernstein, Bataille avranno sempre maggior successo al cinematografo; la
smorfia, il contorcimento fisico, trovano nella film materia piú adatta alla
loro espressione. E le inutili, noiose, insincere tirate retoriche ritorneranno
a essere letteratura, nient'altro che letteratura, morta e seppellita nei libri
e nelle biblioteche.
(26 agosto 1916).
«Les fiancés de Rosalie» di Monezy e
Dauwillans al Carignano. Come avvenne che un seminarista, mentre si trova
sul punto di pronunziare i voti sacerdotali e diventare un umile servo di Dio,
sia richiamato sotto le armi e mandato in trincea invece che in sanità, si
addimostri uomo di fegato, cada nelle tentazioni della carne e prenda moglie.
La trama di questa farsa in tre atti,
rappresentata dalla compagnia Sichel, non abbonda di finezze, né d'intreccio,
né di sentimento, come tutte le farse. Prenderla sul serio sarebbe troppo
ingenuo. Si propone di sollazzare piacevolmente, prospettando dei bozzetti cui
la grande guerra che incombe non dà neppure l'ombra di una tragicità qualsiasi.
Rosalia, la baionetta sanguinosa, diventa un eufemismo, senza traccia dell'acre
ironia che vi possono mettere i soldati che ne sono i fidanzati. Il soldato
ridiventa il solito tipo che Cuttica ha popolarizzato: cafone sempliciotto, che
parla e opera per far ridere anche se non è piú il cappellone dei tempi di
pace. La trama sentimentale del seminarista che si innamora e con l'aiuto delle
circostanze sempre propizie, come si conviene all'eroe, riesce a pronunziare i
voti terreni di marito esemplare, serve a collegare l'insieme ma non dà
un'unità essenziale all'azione. Sichel, Rossi, Lotti, la Zucchini con la loro
varia interpretazione, sempre piacevole e senza essere eccezionale, sono
tuttavia riusciti a tenere l'attenzione sveglia e suscitare dei sorrisi
benevoli e persino qualche risatella senza conseguenze. Perché non sarà
certamente la guerra che farà diventare piú seriamente raccolti gli scrittori e
tantomeno il pubblico.
(6 settembre 1916).
Sichel. È uno degli attori meglio quotati,
a Torino. Mi dicono sia molto popolare e che persino sotto i portici gli
ammiratori si fermino a osservarlo, e se lo additino sbirciando, e si ricordino
scambievolmente i momenti di ilarità. Certo è che in questa stagione il
Carignano è sempre stato affollatissimo, e gli spettatori hanno mostrato di divertirsi
e Sichel è stato festeggiatissimo e ha avuto l'onore (come si dice) di molti
applausi a solo, di molti segni di distinzione. Ma io mi spiego la curiosità
nelle vie e tutto il resto, molto facilmente. E credo di non sbagliare. Ho
domandato a piú d'uno: in che consiste l'arte comica di Sichel? Nessuno m'ha
saputo rispondere, nessuno m'ha saputo definire una cosa della cui esistenza
pure sembra si sia persuasi. Ho domandato: perché il repertorio della compagnia
Sichel è cosí monotono, cosí uguale, cosí scialbo? e le commedie da essa date
sono le peggiori del repertorio generale? E ho visto che la fama della bravura
di questo attore non aveva davvero alcuna base seria. Perché gli ammiratori
sorridono e si allietano anche nel vedere l'attore sotto i portici, cioè anche
quando non riveste i panni di un personaggio comico? Perché la comicità di
Sichel non esiste affatto come fatto artistico, non è qualcosa che possa essere
descritto e criticato come fatto artistico, ma è solo un'impressione fugace,
una suggestione esteriore, un superficialissimo fenomeno psicologico. Sichel ha
trovato il suo train speciale, e a esso adatta tutte le parti che deve
interpretare. È sempre lo stesso, conserva sempre la stessa espressione, la
stessa faccia per tutti i personaggi. È sempre serio, e le commedie che dà sono
sempre allegre. Sembra sempre una persona qualunque, una delle tante persone
cosiddette serie che si incontrano sotto i portici, e dice invece delle cose
che non sono serie; ha la faccia delle persone comuni, che perché comuni non
sono né troppo imbecilli né troppo intelligenti, e i tipi che rappresenta con
predilezione sono invece quelli di cretini nati, di idioti completi. Se la
commedia non li vuole proprio cosí, l'attore pensa lui a completarli: ha una
mezza dozzina di intercalari diversi, che ripetuti a sazietà... «basta
intendersi!», «io capisco tutto!» ecc., dànno l'apparenza del cretino anche
all'uomo piú furbo. Da questo contrasto, tra la serietà fisica e muscolare, e
le parole, le situazioni cretine, nasce per gli spettatori l'impressione della
forza comica dell'attore, il quale naturalmente, essendo sempre uguale, non può
svestirsene neanche quando ridiventa il cittadino cav. Giuseppe Sichel,
rispettabile come qualsiasi altro cittadino di questo mondo. E ciò basta per
gli spettatori, i quali sono di buona pasta. Perdonano tutto, non vedono
affatto tutto ciò che di meccanico c'è in questa apparente comicità. Si
divertono e non cercano di piú: passano piacevolmente qualche ora e al teatro
non domandano altro. Sichel è l'attore fatto apposta per i pubblici di mediocre
levatura. Appiattisce tutto, mediocrizza tutto, anche la banalità, la volgarità
della pochade. E si merita pertanto gli applausi a solo, i segni di
distinzione. Come dicono gli inglesi: è l'uomo piú adatto per il ruolo che piú
gli si adatta.
(23 settembre 1916).
Giulio Tempesti al Chiarella. La compagnia
di Giulio Tempesti aveva annunziato cinque recite straordinarie con cinque
produzioni diverse. Il successo della prima sera ha fatto replicare la Cena delle beffe.
La meteora benelliana non accenna ancora a
tramontare. La virtuosità personale del Tempesti riesce ancora a tener su un
castelletto di carta pesta e di stucco cinquecentesco, e a far inghiottire non
solo, ma anche a far applaudire le lunghe declamazioni del poema drammatico di
Sem, che fanno rimpiangere anche la noiosa novella del Grazzini saccheggiato
dall'autore. Il Tempesti, che è l'attore benelliano per eccellenza, e nel quale
la vuota declamazione è diventata abito artistico, continua stasera a prodursi
nel Napoleone del Pelaez d'Avoine e si completerà con la Morte civile
di Pietro Giacometti.
(28 settembre 1916).
«Le due sponde» di Poggio all'Alfieri.
Commedia piccolo-borghese a tesi. L'autore polemizza nientemeno che con Giorgio
Ohnet per ciò che ha voluto dimostrare nel Padrone delle ferriere. E
drammatizza un fatto diverso, in cui le persone rivestono caratteri
rappresentativi di classe. La tesi è banale tanto quanto quella del romanzatore
francese. Le due sponde sono l'aristocrazia e la borghesia, fra le quali
sarebbe impossibile gettare un qualsiasi ponticello sentimentale, senza crisi e
disastro a breve scadenza. Le persone sono naturalmente scelte bene: una
marchesina pettegola e capricciosa e un ingegnere lacrimoso, figlio di un non
meno lacrimoso repubblicano che riesce a far entrare in ogni cosa i santi
principî. Noiosi tutte e tre, e determinanti una vita comune cosí noiosa da non
trovare nell'adulterio che la piú aspettabile delle soluzioni. L'ultima scena,
in cui dalle labbra del vecchio scocca una parola a effetto sicuro,
«sgualdrina», rivolta a una donna che è per l'autore solo un'aristocratica, ha
salvato l'intiera commedia dalla caduta altrimenti immancabile.
(29 settembre 1916).
«Il dio della vendetta» di Shalom Asch
al Carignano. Quando Alfredo De Sanctis presentò per la prima volta questo
lavoro di un giovanissimo scrittore polacco, da qualcuno fu fatto il nome di
Shakespeare, come punto limite di riferimento critico. Ma si è ben lungi dalla
rivelazione clamorosa di un genio drammatico, e si è specialmente ben lungi
dalla giustificazione della levata di scudi tentata da qualche altro contro il
crudo realismo dell'autore. Il quale pone sulla scena un bordello, e gente da
bordello. Ma senza esagerare, con molte cautele, come sfondo scenico e morale
piú che come macchina drammatica intimamente necessaria.
Il dramma è nella coscienza del vecchio ebreo
Jankel Scepsiovitische; egli è riuscito a salvare nel naufragio della sua vita
di speculatore del piacere almeno un sentimento, elementarmente umano: l'amore
per la figlia, dalla quale il suo spirito intimamente religioso aspetta la
redenzione. E il dio della sua razza lo punisce in questo amore, in questo
residuo di umanità. La vergine è avvelenata dall'ambiente vizioso: l'esempio
della madre, il contatto con donne della casa hanno pervertito il suo spirito,
e senza rivolte, senza ribellioni, naturalmente, ella cade in peccato. I tre
atti non sono molto complessi, né molto densi di drammaticità. Un solo
carattere rigidamente scolpito e profondamente vissuto: il vecchio padre. In
lui si esaurisce l'azione. La materia putrescente della casa di tolleranza è
presentata rivestita di un blando romanticismo di maniera, senza troppe parole,
è vero, anzi di una scheletrica rappresentazione che in qualche momento
impressiona, ma anche senza una giustificazione intima. La lotta è tra l'ebreo
Jankel che crede, e il vecchio dio che travolge la sua credenza, ricacciandolo
nel fango. Alfredo De Sanctis ha posto bene in rilievo questo unico carattere
del dramma: l'ultima scena, della rivolta del vecchio contro l'implacabile
Jehova, è stata un vero trionfo per l'attore che nella sua misura e correttezza
è stato di una efficacia stupefacente. Un altro attore si è fatto notare: il
Bissi, nei panni di una figurina umoristica del mondo ebraico, sbozzata con
vivacità e completa di vita rappresentativa.
Il dramma ha conquistato lentamente: ma si è
imposto per ciò che in esso è di vitale. L'ultima scena, la scena culminante
dell'azione, ha procurato agli attori cinque o sei chiamate.
(21 ottobre 1916).
«Robespierre» di Sardou al Carignano.
Un dramma inedito di Sardou, e su Robespierre. Teatro affollatissimo; il
pubblico s'interessa vivamente alle produzioni teatrali che ricostruiscono un
periodo storico, che promettono la ricostruzione completa, con persone vive e
parlanti, di un periodo storico che impressiona vivamente anche nella
narrazione impersonale, in cui gli avvenimenti sono logicamente ordinati
secondo il principio di causalità, e i singoli perdono molta parte della loro
individualità attiva, e appaiono solo per ciò che di fattivo hanno creato e
lasciato. Ma il dramma di Sardou, a parte l'elemento artistico completamente
assente, non ha mantenuto nessuna promessa. Il Robespierre della storia dà solo
il nome al lavoro; di ciò che è la sua personalità di rivoluzionario non è dato
nulla, se non una melensa rappresentazione di terrore dei morti, delle ombre
dei decapitati. Sardou immagina attorno a Robespierre un dramma dei soliti: il
dramma della paternità violentata. E costringe la storia entro questa sua
trama: Massimiliano, nei giorni del terrore, ritrova un figlio natogli da una
aristocratica, e lotta per salvare dalla ghigliottina il giovane e sua madre.
Ma l'odio e la paura che egli ha seminato intorno a sé tendono continuamente
agguati al suo sentimento paterno, e come supremo oltraggio, armano la mano del
figlio contro il padre. Ma l'abile sceneggiatore francese non riesce a far
dimenticare il Robespierre ormai fissatosi nelle coscienze attraverso la
storia: il dramma che egli escogita per cercare effetti sensazionali, rimane
una superficiale successione di scene e di dialoghi, che dovrebbero apparire
drammatici per il protagonista quale storicamente è conosciuto, e il quale è
invece completamente svuotato della sua piú vera e concreta vita, quella di
rivoluzionario. Cosí i cinque atti e due quadri passano nella loro puerile e
convenzionale meccanicità teatrale, applauditi mediocremente e finiscono
nell'ultima scena, quella del parricidio, senza che quest'ultimo colpo riesca
piú a scuotere e commuovere. Sardou ha fatto violenza alla storia, ha posto in
iscena un Robespierre di sua invenzione, che avrebbe dovuto essere piú uomo e
meno personaggio; ma non ha saputo crearlo, quest'uomo, e ne è venuto fuori un
fantoccio ridicolo.
Alfredo De Sanctis ha molto contribuito con la sua
arte, a tener su il lavoro, ma molto spesso anch'egli, per la refrattarietà
della materia, è stato convenzionale.
(29 ottobre 1916).
«La nemica» di Niccodemi al Carignano.
Dario Niccodemi si è costruito un mito teatrale. Ed esso serve a spiegare in
gran parte il successo spettacoloso dei lavori del fortunato scrittore
italo-francese. Viene da ripensare alle idee di Riccardo Wagner sul dramma
musicale, e al suo rifugiarsi nella mitologia medioevale germanica, per poter
dare il massimo di realismo poetico alle creature della sua fantasia, per
rendere piú sostanzialmente suggestiva la sua musica, trasportando l'uditorio
in un mondo soprannaturale, nel quale il linguaggio musicale sia immaginato
possibile e naturalissimo. Ma ciò che nel Wagner è ricerca affannosa di
maggiore sincerità fantastica, nel Niccodemi è mezzo di successo. Il suo mondo
mitologico è l'aristocrazia; il pubblico che affolla i teatri e rende
redditizia la professione di scrittore drammatico è la piccola borghesia.
L'insincerità di Dario Niccodemi cerca la sua giustificazione, cerca di
rendersi naturale e possibile mitizzandosi. Una idea morale, elementarissima, o
che riesca a far presa subito sul pubblico sentimentale, pronto a commuoversi e
a diventare salice piangente, diventa sostanza di dramma non per forza propria,
per la sua profonda umanità, ma perché serve di cauterio e distacca due classi,
due concezioni quanto mai fittizie e artificiali: quella aristocratica e quella
piccolo-borghese. Gli urti che ne derivano, i discorsi che è possibile far
fare, le predichette, tutta la cattiva letteratura degli scrittori sociali del
basso romanticismo francese come Eugenio Sue, o Dumas figlio, si dànno accolta
e toccano il cuore, e strappano l'applauso. Cosí nell'Aigrette, cosi in
questa nuovissima Nemica. La ficelle è sempre la stessa. Nella Nemica
la macchina è anche piú complicata, e i precordi vengono piú violentemente
scossi. Roberto di Nièvres è odiato da sua madre; una fanciulla che lo ama, la
figlia di un notaio che vorrebbe diventare duchessa, respinta da lui, gli
rivela un mistero: Roberto è figlio di un amore colpevole di sua madre, è un
intruso, che ha usurpato al secondogenito la ricchezza, il titolo, tutte le
fortune e i sorrisi della vita. L'anima medioevale della madre odia in lui la
colpa, l'usurpazione. Grande colpo. Il Niccodemi aveva evidentemente su questa
deviazione feudale dell'animo di una madre impostato il suo lavoro. Altrimenti
non si capirebbe il personaggio del notaio Regnault, depositario di tutti gli
scandali aristocratici e che è introdotto a posta per preparare l'urto tra
madre e figlio. Ma nel secondo atto il dramma si complica e raggiunge il colmo del
successo esteriore.
Nella scena culminante Roberto viene a sapere che
Anna di Nièvres non è sua madre affatto, che egli è un figlio naturale del duca
morto. La rivelazione della figlia del notaio non era esatta, ma è servita
magnificamente per la progressione degli effetti. Nel terzo atto lo
scioglimento è coordinato con la guerra. Roberto e suo fratello Gastone vanno a
combattere: Gastone muore, e l'ultima sua parola «mamma» riallaccia i legami
tra Roberto e Anna di Nièvres; Roberto ritrova una madre. L'effetto era sicuro,
e il successo fu grande, anche per la buonissima interpretazione della
compagnia Di Lorenzo-Falconi. L'analisi fatta in principio è l'unica che si
possa fare: bisogna giustificare il successo, poiché non lo si può spiegare con
ragioni che interessino da vicino l'arte.
(9 novembre 1916).
«La madre» allo Scribe. Una famiglia
di provincia. Padre, madre e un figlio di trent'anni. Dissidio fra i coniugi:
il signore ha sedotto una domestica e ne ha avuto un figlio di ormai venti
anni, e la signora dopo questo tradimento coniugale si è chiusa nel suo
orgoglio di moglie ferita e nell'amore della legittima prole. Siamo in piena
guerra europea e all'inizio della guerra italiana; la terza categoria del 1885
non è stata ancora chiamata. Vittorio, il legittimo, che ha letto molti
articoli della «Gazzetta» e se ne serve con molto vigore nelle conversazioni e
nelle discussioni, non vuole attendere e si arruola. La fidanzata lo ammira, ed
è fiera di lui, il genitore e il futuro suocero anch'essi; la madre, Clara, no,
e ci vuole tutta una rievocazione di carta stampata per convincerla a fare la
madre spartana. Al secondo atto scoppia il dramma, Vittorio si incontra al
fronte con Pietro, il fratello naturale di cui ignora l'esistenza, e un
misterioso fluido li avvicina, li affratella: quando si dice la voce del
sangue!... Pietro è gravemente ferito; suo padre è disperato e non può
dimostrare il suo dolore per non colpire la suscettibilità di sua moglie. Ma
questa, nel dolore, si è purificata; ogni orgoglio umano è caduto. Si
riavvicina al marito, incomincia ad amare attraverso suo figlio, l'altro,
l'intruso, e perdona e piange e tutti piangono, e gli animi di tutti sono
diventati una dolcissima marmellata che fa piangere di consolazione tutti come
tanti vitellini. E Vittorio muore, gloriosamente, mentre Pietro ritorna,
anch'egli riabilitato del suo giovanile sovversivismo, e la domestica
traditora, sua madre, rientra nella casa dei suoi antichi padroni, e Pietro
descrive, proprio come un inviato speciale, la presa di Gorizia, e la morte del
suo amico, e un nuovo alito di bontà spira su tutti i cuori, e ci si sente
tutti rimminchioniti per tanta dolcezza, per tanto candore, e si ringrazia il
buon Dio che da tanto male, tanto bene ha saputo trarre, irrorandone i cuori,
facendo di questi altrettanti vasi d'elezione.
Il teatro non era molto affollato: il successo
esteriore fu notevole. La commedia è presentata con abilità. La declamazione
fatta in dialetto, perde una gran parte della sua retorica: e del resto nel
lavoro non tutto è retorica, e qualche piccola scena è realmente efficace. Tra
i personaggi di contorno c'è un alpino gianduiesco, volgarmente e
popolarescamente eroico, reso con tutta la volgarità possibile da Mario
Casaleggio, tutto da ridere. Cosí la mozione degli affetti è completata, e
l'anonimo autore che abilmente si è saputo servire del materiale emotivo
d'attualità, è stato ampiamente premiato delle sue fatiche: cinquecento lire,
una medaglia d'oro e il cumulo di pettegolezzi e di ipotesi sul suo anonimo.
Quanto basta per rendere felice un letterato anche se dialettale.
(12 novembre 1916).
Armando Falconi. Non so se Armando Falconi
sia, come si dice nel gergo dei cronisti teatrali, un figlio dell'arte. Non
sono uno schedaiolo della cronaca, un documentario, e mi manca la pezza
giustificatrice in proposito. Ma, del resto, ciò poco importa. L'atto di
nascita non spiega molto, in fondo, sulle qualità di un individuo. Conoscere
l'ambiente in cui un carattere si è formato, spesso non serve ad altro che a
trarre in errore. Ciò che importa è accertare se questo carattere esiste
veramente, e quale ne è il peso specifico, la individuazione specifica.
Trattandosi di un attore drammatico, ciò che importa è accertare se egli da
attore è diventato artista, se veramente la sua umanità si distingue da quella
degli infiniti altri mortali per la capacità di ricreare gli individui concreti
che la fantasia degli scrittori crea, per la capacità di dimenticare in questa
ricreazione se stesso come tal dei tali, per assorbire, assimilare ed esprimere
integralmente tutti quegli elementi di individuazione concreta coi quali lo
scrittore ha realizzato la sua intuizione drammatica. Ma come esistono pochi
uomini che siano dei caratteri dal punto di vista morale, cosí esistono pochi
attori che siano artisti, cioè caratteri dal punto di vista della vita
artistica. Il dolersene sarebbe perfettamente inutile: e il far credere il
contrario può esser solo compito dell'ipocrita cortigianeria giornalistica, che
di ogni villan che parteggiando viene, fa un Marcello (esempio recente Antonio
Salandra) come di ogni istrione che dirige una compagnia e sa condur bene i
suoi affari, fa un Salvini o una Ristori.
Con ciò non si dice che anche gli altri non siano
necessari, e in quanto esplicano un compito necessario, non siano rispettabili.
Bisogna però rimetterli al loro posto, ecco tutto, e avere una coscienza chiara
del loro valore, e della loro attività. Ciò per tutte le espressioni di vita,
quella morale come quella artistica. E questi altri si possono classificare,
dividere in categorie, perché la loro persona si confonde nel grigio di una
collettività, le loro caratteristiche non riescono a farli emergere dalla folla
di simili, il loro vario atteggiarsi costituisce una serie, precisamente come
avviene nella industria meccanica. Sono sempre la stessa ruota, la stessa
valvola, lo stesso bullone, che può applicarsi indifferentemente a un centinaio
o a un migliaio di macchine diverse. La serie per gli attori drammatici si
chiama ruolo: e il ruolo al tempo della commedia dell'arte, si chiamava
maschera. Ciò che nel gergo dei cronisti teatrali si chiama figlio dell'arte,
non è che la espressione moderna di un fatto di un antico passato: figlio
dell'arte vuol dire maschera. Ecco perché ho incominciato domandandomi se
Armando Falconi apparteneva anche per lo stato civile a questa rispettabile
categoria. Perché, anche se per avventura, il suo albero genealogico fosse
bianco per questo rispetto, egli non apparterrebbe meno alla categoria. Egli
che si è fatto una maschera della comicità; una maschera, cioè qualcosa di
inarticolabile e di immutabile: qualcosa che solo casualmente diventa
espressione, perché casualmente la smorfia continuata può anche essere
espressione di una vita, ma che altrimenti non è che smorfia, che trucco
esteriore. Il quale può anche piacere, può anche far ridere e procurare il
successo, ma non fa arte, non è un fatto estetico, è semplicemente un fatto
commerciale. Necessario, in quanto anche la produzione drammatica è in grandissima
parte un fatto commerciale, e perciò rispettabile. Ma il rispetto non può
cambiarsi in ammirazione, e tanto meno in ammirazione per un altro fatto che
non esiste. Pensateci bene e vedrete che ho ragione. Come ho avuto ragione a
fare delle digressioni, poiché dovendo parlare di un fatto che non esiste
(Falconi artista) ho dovuto fare delle premesse che togliessero alla
conclusione ogni apparenza di malignità e di ipercritica.
(8 dicembre 1916).
«... e chi vive si dà pace» di Novelli
al Carignano. Una rappresentazione vivace e colorita di un piccolo mondo di
campagna, che vive gagliardamente la sua piccola vita, senza sottilizzare
intorno a essa, senza smarrirsi nell'autoanalisi esasperata. Rappresentazione,
non inquieta morale e psicologia dialogata; perciò arte, anche se i momenti in
cui essa si afferma in valori definitivi, non siano troppo numerosi. O
piuttosto esperimento, tentativo artistico, nel quale si rivelano le
possibilità di una piú congrua solidificazione complessiva. Lo spunto è tenue e
semplice. È la storia di un uomo che dopo la morte di sua moglie, si rifà una
casa ritrovando nella donna di servizio la compagna che gli è necessaria per
riempire la solitudine. Si arriva alla conclusione attraverso una serie di
quadretti, sbozzati con abilità e sicurezza, cui dànno colore oltre che la
bonaria sete di vivere del protagonista, la malizia gaia della donna, o gli
intrighi di una madre che vorrebbe accasare la sua figliuola e l'intervento di
un amico di casa che postilla col suo sorriso paesano lo svolgersi degli
avvenimenti e l'adattamento graduale alle necessità della vita del vedovo, che
subito dopo la morte della moglie diceva di volersi persino ammazzare.
Il Novelli ha trovato nella compagnia Di Lorenzo
degli interpreti efficacissimi per il suo lavoro. La Di Lorenzo, il Falconi
e il Biliotti hanno dato il massimo risalto ai personaggi, coadiuvati
ottimamente dagli altri. Gli attori e l'autore furono molte volte chiamati alla
ribalta.
(15 dicembre 1916).
«Cavour» di G. B. Ferrero allo Scribe.
Non sono poche le disgrazie che hanno afflitto la memoria e il nome dello
statista piemontese. Da quelle procurategli dai suoi sedicenti continuatori in
politica, alle piú recenti che hanno tratto la figura di Cavour a calcare le
scene nelle truccature degli attori degni e indegni a seconda del caso. G. B.
Ferrero nei suoi cinque atti ha recato l'estremo oltraggio allo statista; l'ha
rimpicciolito a macchietta regionale, a macchietta dialettale, e Mario
Casaleggio ne ha assunto la parte, con quella serietà di intendimenti che
poteva aspettarsi da un istrione della sua fatta. Cinque atti, un autore
dialettale, Mario Casaleggio! E non esiste nessun nume che preservi le figure
storiche rispettabili da questi oltraggi degli ammiratori da strapazzo!
(20 dicembre 1916).
Tina Di Lorenzo. Esiste un pregiudizio,
ancora radicato in molti, sebbene battuto in breccia dalla categoria degli
uomini che pensano. Per esso si classificano gli uomini e li si giudica a
seconda dei caratteri comuni che essi mostrano di avere tra loro. Si segue
precisamente il criterio proprio delle scienze naturali, che devono
classificare le piante e gli animali e non possono farlo che a seconda delle
forme appariscenti alla superficie di questi esseri. Ma la classificazione non
è precisamente la forma di conoscenza che deve adottarsi con gli uomini, né il
riuscire a fissare dei tipi (serie di esseri simili rappresentate da esemplari
che ne sintetizzano le caratteristiche) è una forma di giudizio. Perché negli
uomini, che noi possiamo studiare e conoscere anche nelle loro qualità
individuali, ciò che piú interessa è precisamente l'individuo e il complesso di
doti che lo fanno inconfondibile nella specie: che lo rendono insostituibile da
qualsiasi altro esemplare della sua specie. Se ciò si può dire degli uomini in
genere (e ogni uomo, anche il piú comunemente detto comune, ha qualcosa che lo
rende in sé interessante) si deve dire specialmente di quel certo numero di
essi che estrinsecano la loro attività attraverso forme di vita in cui la fantasia
creatrice ha il predominio assoluto sulla logicità. Se la logicità può ancora
dare modo di stabilire delle categorie (scuole, costumi, ecc.) la fantasia non
è che prettamente individuale. E gli attori di teatro, quando sono artisti,
sono appunto di questo numero di individui. E Tina Di Lorenzo è di essi. Perciò
non può essere classificata neppure in quella categoria, lusinghiera
apparentemente, dei grandi. Perché dire grande vorrebbe dire stabilire una
scala di valori, ricorrere a dei confronti, classificare. E invece l'artista
non è grande o piccolo: è o non è tale, semplicemente. Lo studio può essere
rivolto solo alla osservazione del come lo sia, può essere rivolto a stabilire
il come si svolge questa sua particolare attività, che è tutta lui, che è ciò
che ci interessa. Cogliere l'attimo vivo, abbandonarsi al fluire di questa
vita, e risentirla in sé come qualcosa di solidamente compatto, che si impone
all'ammirazione, che ci domina in quel momento, come fosse tutto il mondo, il
solo mondo esistente. A noi basta affermare nella Di Lorenzo l'esistenza di
questa attività fantastica. Essa si afferma concretamente ogni qualvolta il
lavoro da interpretare le dà la possibilità di ricreare una donna che veramente
abbia vita. La Di Lorenzo
riesce a calarsi nel suo animo, a intenderne la necessità psicologica, e
diventar lei.
Ogni opera drammatica è una sintesi di vita, è un
frammento di vita. L'artista deve continuare il lavoro fantastico dell'autore.
Nella sintesi, nel frammento deve sentire la continuità, l'accessorio, l'alone
che circonda la luce, ciò che è vita diffusa, ma sentirlo in relazione
all'esistente creato dall'autore, sentirlo come lo sentiva la fantasia
dell'autore quando scriveva quelle tali parole. Perché dovendo dare vita
fisica, reale persona alla bocca che pronunzia quelle parole, deve creare un
accordo, un'armonia, solo dalla quale scaturisce la bellezza. E questa bellezza
scaturisce dalle interpretazioni della Di Lorenzo. E la suggestione è
accresciuta da altri fattori. Principalissimo un fascino speciale, diffuso in
tutti i momenti dell'attività dell'artista, che riesce a incatenare
l'attenzione anche quando la materia sorda, imposta dalle necessità pratiche
della professione e del mercato, non le permette un lavoro definitivo di creazione.
È un fascino difficile da definire, difficile perché il costume non libero dai
pregiudizi della morale volgare, dà apparenza di volgarità a ciò che non è
certamente tale che per gli sciocchi, e che perciò convenzionalmente si esprime
con la parola banale di femminilità.
Ma non è possibile nella cronaca fare piú che
delle affermazioni. E del resto noi non vogliamo che servire a stimolare
l'osservazione dei nostri lettori, e per quanto possiamo, snebbiare un po' la
loro retina da certi pregiudizi.
(22 dicembre 1916).
«L'amante lontano» di Bracco all'Alfieri.
Cerchiamo invano in questi nuovissimi tre atti dialogati di Roberto Bracco un
punto di appoggio, una giustificazione delle parole e dei gesti che sentiamo dire
e vediamo fare dai personaggi. Il dialogo si esaurisce in se stesso, è solo
vuota declamazione, i gesti sono solo irritazione di muscoli motori, non segni
fisici di un linguaggio interiore. I tre atti sono un susseguirsi disorganico e
disordinato di parole che non creano, di aggettivi magniloquenti, di vuoti
pneumatici. Il dramma rimane allo stato intenzionale, senza che la fantasia
dell'autore riesca ad attuare la sua intenzione rappresentandosela in una
azione concreta e avvincente. Sentiamo che questa intenzione è diffusa
blandamente in tutte le parole, le discussioni, le declamazioni retrospettive,
e passiamo di illusione in disillusione, sempre in attesa che la sfinge riveli
il suo enigma, e convincendoci infine che la sfinge è solo una larva di stucco
e non racchiude alcun enigma. L'esposizione dell'intreccio può perciò dare solo
un'idea di questa volontà che non ha trovato uno sbocco. Il dramma avrebbe
dovuto scaturire dall'urto di tre personaggi. Una giovinetta, Mirella, che nel
primo atto sembra debba promettere tutta una serie di impressioni vive e liete
di colori sgargianti, ma che in seguito si affloscia e diventa una figura
lattiginosa, dolciastra, senza anima. Due uomini: Luciano D'Alvezza, un
gaudente, un amorale, un conquistatore di donne, che affoga negli imbrogli e
per liberarsi dal fango che sta per sommergere il rudere del suo blasone
marchionale, va volontario alla guerra, ma non senza aver cercato all'ultima
ora di usare violenza a Mirella. E Michele, contraltare di Luciano, lavoratore
indefesso, volontà e costanza di ferro, il quale si innamora di Mirella, si
promette a lei, crede per un momento di aver costruito definitivamente la
magione austera della sua felicità. Il lavoro, che a mala pena era riuscito a
puntellarsi fino a questo punto, precipita definitivamente nell'incognito
indistinto. I rimasti, Mirella e Michele sono ormai solamente dei
bambocci-fonografi. Dalle parole che si scambiano dovrebbe apparire come
qualmente Mirella è preda di una fatale passione per il lontano eroe che muore
al fronte per una salva di aggettivi, e come qualmente Michele non vuole
usurpare nel cuore della donzella il posto che il lontano amante vi ha preso.
La fine cosí verbosamente impiastricciata ha suscitato qualche sibilo e molte
proteste. Gli ottimi artisti della compagnia di Luigi Carini, che avevano
preparato un'interpretazione degna di un bel lavoro, non potevano che far
apparire mortificate le loro qualità.
(29 dicembre 1916).
«Il matrimonio di Figaro» di
Beaumarchais all'Alfieri. Il cartellone della compagnia di Luigi Carini
annunzia la prossima ripresa del Matrimonio di Figaro, cinque atti del
Beaumarchais. La vecchia commedia è stata già applaudita l'anno scorso nella
efficace interpretazione che la stessa compagnia offrí al pubblico torinese in
un altro teatro. Ne facciamo cenno ai nostri lettori per due motivi. La
commedia del Beaumarchais è una autentica opera d'arte, e per chi vuole
affinare il proprio gusto niente vale di piú dell'accostarsi simpaticamente a
un capolavoro genuino, integrale, in cui ogni parola, ogni atto, ogni
personaggio ha intensa vita artistica, in cui non si bada all'effetto, al
successo, ma la sincerità e la spontaneità sono qualità precipue. E la commedia
del Beaumarchais è documento storico di primo ordine. Essa mostra in azione,
vivente di immortale bellezza, la società francese prerivoluzionaria. I
rapporti sociali, le condizioni di alcune categorie di individui, i costumi, le
idee dominanti appaiono nella loro realtà dinamica, materiate e concrete nella
vita vissuta, soffuse di una gioconda gaiezza, vivificate da una ironia
profonda e corrosiva. I cinque atti, per l'efficacia culturale, sia storica che
artistica, equivalgono a un intiero corso di conferenze e a qualsiasi
profondissima disquisizione sull'essenza dell'arte.
(4 gennaio 1917).
«L'ondina» di Praga e «Le Rozeno»
di Antona Traversi al Carignano. La compagnia Borelli-Piperno ha già
presentato due esumazioni del teatro italiano quasi contemporaneo. L'ondina
di Marco Praga e Le Rozeno di Camillo Antona Traversi. Due lavori
pleonastici, che hanno rivissuto e rivivranno per alcune sere di quella
effimera vita alla quale erano destinate. Che ci fossero o no, a nessuno era
importato finora e a nessuno importerà per l'avvenire. La necessità di variare
il solito menu, ora che la guerra impedisce la superproduzione di novità
francesi, le ha fatte rispolverare, e il ristabilirsi in equilibrio della
bilancia le farà riscomparire. La commedia del Traversi è la piú massiccia e
pesante delle due. È una macchinosa concezione che si fa tiepidamente
applaudire perché costruita su uno dei motivi sentimentali di piú facile presa:
la maternità che mantiene puri i suoi affetti anche attraverso la putredine
dell'ambiente sociale e familiare. Accoglienza glaciale ai primi due atti; e
stentati applausi agli ultimi due.
(4 gennaio 1917).
Luigi Carini. Il carattere si rivela
nell'individuo attraverso una serie di atti intimamente omogenei, quantunque
distinti l'uno dall'altro per la coloritura occasionale determinata dalla spontaneità.
Studiare un carattere vuol dire quindi rivivere questi atti singoli, trovare
per ciascuno di essi il particolare fremito di vita fisica che meglio risuoni
col loro significato spirituale, e nel distinto comprendere l'omogeneo, nel
tortuoso zig-zag dell'azione trovare la linea dorsale che unifichi l'azione
stessa in una personale vita. Nell'opera artistica di Luigi Carini
l'osservatore attento sorprende facilmente i mirabili risultati di un simile
lavoro di critica sottile. Ma carattere non vuol dire gesto eccezionale, o,
almeno, solo gesto eccezionale. Carattere è invece piuttosto continuità; e la
continuità la si ritrova nei piccoli atti piú che nei grandi, nei piccoli
episodi, piú che nelle grandi situazioni drammatiche. Le possibilità d'arte di
un attore si misurano in questa continuità, nella capacità che egli possiede di
dare impronta omogeneamente distinta a una continuità di piccole cose. Questa
capacità esuberante dà a Luigi Carini un posto ben distinto nella storia
dell'arte di teatro. Essa gli nuoce un po' nella conquista dei grandi successi.
Perché di solito si rimane estasiati di fronte alle congestioni muscolari e
sanguigne degli atleti da cinematografi, mentre la forza serena e tranquilla fa
rimanere un po' freddi. Ma il torto è di chi va in estasi o rimane freddo, non
dell'uomo forte. La grandiosità apparente di una grande mole riempie la pupilla
senza eccitare la fantasia. Il minuto lavoro del cesellatore, compiuto nei
particolari, eccita la fantasia dopo aver occupato la pupilla, ma deve essere
studiato con serietà, si rivela nella sua perfetta bellezza solo agli spiriti
che se ne sappiano rendere degni. Bisogna accostarsi con simpatia benevola, e
con l'arco dell'attenzione ben teso. Cosí come bisogna fare per le
interpretazioni del Carini. E non già che egli non sappia montare le situazioni
fortemente impressionanti e non sappia raggiungere gli acuti e spasmodici
culmini della drammaticità. Ma da artista che sente la dignità dell'arte sua,
non abusa di queste droghe piccanti. E si tiene nei limiti dell'umanità
normale, riuscendo lo stesso, e anzi piú efficacemente, a far risentire
l'angoscia piú profonda e la gioia piú spirituale. La congestionabilità non
rompe affatto la monotonia, né il volume è grandezza. Un bassorilievo di Donatello
è meno monotono della piazza di S. Pietro con tutte le sue enormi fughe di
enormi colonne e il mostruoso volume dello spazio occupato nella superficie del
mondo e nell'orizzonte del cielo. Il ritmo dell'uno è piú incalzante e piú
vario del ritmo della seconda, e contiene un numero maggiore di momenti di
intensità espressiva. Si pensa a tutto ciò ascoltando sulla scena il Carini,
seguendolo con attenzione raccolta nel suo sempre vario atteggiarsi, che è
volta a volta però un atteggiarsi unitario, e vedendo come il lavoro critico di
riflessione sulla parte assunta diventi spontaneità, ingenuità nel migliore
significato di questa parola. Sono mezzi espressivi molto semplici
nell'apparenza, ma che rivelano un lavoro delicato e sottile di scelta, una
padronanza sempre vigile anche quando l'abbandono è massimo.
Sono queste qualità che permettono al Carini di
assumere ed esprimere con intensità pari delle parti disparate per il contenuto
sentimentale. Figaro nella commedia del Beaumarchais o Claudio nella Moglie
del Dumas: il gaio amatore di novità che è lodato dagli uni e biasimato dagli
altri, che ride degli sciocchi e sfida i malvagi, che ride di tutto per paura
di essere obbligato a piangere, e lo scienziato umanitario, l'inventore di armi
sempre piú perfette che con la perfezione dei mezzi distruttivi tende
all'instaurazione della pace universale e uccide la moglie viperina non per i
suoi tradimenti coniugali, ma perché tradisce la patria. Due uomini, pertanto
nella loro antipodica costruzione, e che dànno all'attore la stoffa necessaria
per interpretazioni nutrite di elementi espressivi pieni di finezza e aderenti
perfettamente a degli individui di carne e ossa.
Il Carini è del numero di quei pochi attori che
fanno amare il teatro e che non abbassano la loro arte al livello del circo
equestre e dello schermo cinematografico. E a lui perciò abbiamo voluto, con
queste linee, fare omaggio.
(16 gennaio 1917).
«Facciamo un sogno!» di Guitry al
Carignano. Sacha Guitry, oltre che uno scrittore di teatro, è anche un uomo
di spirito. I suoi lavori, oltre che opere d'arte, piú o meno perfette, piú o
meno compiute in tutto il loro svolgimento, si distinguono per la genialità
inventiva dell'autore. Sono piccole cose dal punto di vista dell'intreccio
esteriore e della complicazione psicologica. L'autore fa dire ai suoi
personaggi che la vita non è complicata che per coloro i quali da lontano
vedono solo i momenti culminanti di essa, e questi accumulano in breve spazio
di tempo fingendo cosí una condensazione che nella realtà non esiste. Pertanto
nelle sue commedie, come in questa, rappresenta dei momenti di vita in cui
l'azione fisica è sostituita da una azione interiore che è segnata dai singoli
trapassi di stato d'animo, e siccome questi si concretano ordinariamente, per
l'individuo isolato, nella riflessione monologata, cosí due atti di Facciamo
un sogno! sono parlati da un personaggio, e i personaggi dei quattro atti
sono solamente tre, la moglie, il marito e l'amante. L'azione è solo trapasso
di stati d'animo, questi culminano in due o tre osservazioni spiritose e si
cullano in una atmosfera di parole, di frasi, di periodi sempre vari e scolpiti
solidamente in un poliorama interiore dello spirito individuale. Teatro
d'eccezione? Teatro che non si può sunteggiare, ma che è vivo lo stesso, e non
stanca, e sa farsi applaudire, ed è preferibile al solito guazzabuglio
macchinoso, sia la macchina una psiche, o sia una garçonnière a doppio
fondo.
(19 gennaio 1917).
L'ufficio di stato civile al Rossini («'L
môrôs d'mia fômna» di Leoni). Giacomo Albertini, assessore dello
stato civile, quando esercita le sue funzioni di cozzone di matrimoni in
teatro, si chiama Mario Leoni. E rimane sempre in carattere. Lo stato civile,
reparto matrimoni, gli dà l'ispirazione, gli suggerisce i motti di spirito
sulla felicità coniugale, sulle miserie della vita coniugale, sulle speranze
della vita coniugale. Scrive in dialetto, per la compagnia di Dante Testa, al
Rossini: e il dialetto è ricco di arguzie ridanciane, di osservazioni profonde
e melanconicamente pungenti sullo stato civile, reparto matrimoni. Mario Leoni
di esse ne ha a disposizione un sacco e una sporta; il suo tirocinio di
assessore gliene deve aver fatto sentire delle carine, dette con quella bonomia
che è propria dell'arguzia piemontese. Il successo di questa nuova commedia è
stato solo un successo di arguzia dialettale. 'L môrôs d'mia fômna sono
tre atti che non hanno nessuno dei pregi che di solito fanno applaudire le
produzioni di teatro. Imbastiti frettolosamente, sconnessi, tardi e stentati
nello sviluppo dei motivi, sono però ricchi di metafore dialettali, semplici,
non ghiribizzose, che hanno facile presa sull'anima dello spettatore e gli
strappano la risata franca e cordiale senza sottintesi e senza sforzi di
elaborazione.
'L môrôs d'mia fômna è il nomignolo
amichevole che Deodato Fragolini dà all'on. Ferlingotti, un affarista volgare
che vorrebbe sposarne la nipote Erminia. L'on. Ferlingotti ha moglie, anzi ha
due mogli, una sposata in chiesa, l'altra in municipio, e le ha abbandonate
ambedue. Finalmente rintraccia la seconda, che è dattilografa in casa
Fragolini, e con lei parte per l'Ungheria, e divorzia (l'assessore Albertini è
favorevole al divorzio, e questa sua commedia rientra nel numero delle opere di
teatro pro divorzio). Il viaggio clandestino della dattilografa e
dell'onorevole sconcerta tutta casa Fragolini. La signora, bisbetica e piena di
bizzarrie, infuria su tutti: il giovane figlio, che è innamorato
dell'impiegata, si dispera, ma con giudizio; il padre, che non ha altro ufficio
che di dire delle scemenze amenamente ridicole, non è mai stato tanto se
stesso. Al terzo atto tutti i nodi si sciolgono: la dattilografa rivela le sue
vere generalità e riacquista la stima universale; l'onorevole viene
squalificato; la giovane Erminia sposa un impiegato di suo zio e il giovane
Fragolini sposa la signora divorziata. Il sipario cala su un triplice idillio
che deve aver commosso teneramente i precordi dell'assessore.
I tre atti sono stati dalla compagnia di Dante
Testa, resi con una franchezza e una semplicità di interpretazione notevoli. Il
Testa e la Gemelli
si sono fatti spesso applaudire a scena aperta. L'autore è stato chiamato al
proscenio una dozzina di volte.
(21 gennaio 1917).
«Piccolo harem» di Costa al Carignano.
Ho sentito fare da un operaio la migliore critica di questo lavoro. Sentimento,
passioni, ambiente arabo. Può tutto ciò essere rappresentato in teatro, cioè
col dialogo, con parole che non raccontano e descrivono, analizzando, ma sono
esse stesse quei sentimenti, quelle passioni, quell'ambiente, in una lingua
diversa e tanto lontana da quella che può sola essere espressione sincera del
mondo che si vuol rappresentare? In questa domanda, che il compagno elevava a
criterio generale di giudizio, era contenuta la sua insoddisfazione per il
dramma del Costa. Del quale egli comprendeva perfettamente le motivazioni,
ammirava il lavoro accurato di esecuzione e la compenetrazione dei vari
elementi drammatici, ma senza che per ciò gli sfuggisse lo squilibrio tra
queste motivazioni, questi elementi che possono essere di tutti i luoghi e di
tutti i tempi e la espressione particolare che dovrebbero avere quando sono
posti in un determinato luogo che ha una determinata colorazione storica e
folcloristica. E non gli sfuggiva che questa espressione particolare risente
dello sforzo di una traduzione non ben riuscita, e risente di certe prolissità
e lungaggini e ridondanze figurative che forse si avvertono solo per lo sforzo
di contenere nella nostra lingua ciò che in questa altrimenti sarebbe espresso.
Piccolo harem non è un dramma complicato.
Oghzala è un'araba algerina che, avendo conosciuto, anche superficialmente, la
vita spirituale della famiglia europea, non riesce piú ad adattarsi all'idea
musulmana di un uomo che ama nello stesso tempo piú donne, senza pertanto che
alcuna di queste possa ritenersi diminuita nella stima di se stessa e esserne
offesa nel piú profondo della propria dignità individuale. Questa ribellione
all'harem però non diventa un superiore sentimento di piú spirituale umanità; è
solo un fatto elementare, istintivo, che l'autore rappresenta in alcuni momenti
piú salientemente rappresentativi, e che prepara una catastrofe violenta.
Oghzala, l'araba cittadina, si disfà di Mabruka, l'araba dell'oasi, tendendole
un tranello, facendola credere adultera con un trucco poco complicato: facendo
bussare alla porta di Mabruka il proprio drudo, l'uomo che è servito a lei per
avere il figlio che doveva servire a conservarle la predilezione del marito.
Il dramma si sviluppa solo nel quarto atto; i
primi tre sono preparatorii. L'autore si accorge della difficoltà di porre
subito a contatto gli ascoltatori europei con un mondo esotico, e per tre atti
si sforza di suggestionarli, di condurli a comprendere, a impadronirsi
dell'animo dei suoi personaggi. E in questo lavorío usa molte parole, molta
riflessione che tolgono efficacia al quadro e lo illanguidiscono, snaturando il
carattere delle persone che si sdoppiano, facendo opera di cultura nello stesso
tempo che devono agire.
Gastone Costa è al suo primo tentativo, e per
tutta quella parte in cui esso si è addimostrato vitale si è fatto applaudire.
(25 gennaio 1917).
«La marea» di Hastings al Carignano.
Felicita Schart è stata, da giovinetta, resa madre da uno sconosciuto che ha
abusato della sua ingenuità e dell'ignoranza intorno alle cose sessuali in cui
i parenti l'hanno lasciata: un delitto della cicogna l'avrebbe chiamato Franz
Wedekind. Ma per l'autore inglese non è questa ignoranza che diventa motivazione
drammatica e spunto a propaganda dialogata contro i pregiudizi dell'educazione
giovanile. Felicita Schart viene dai genitori, bigotti e per bene, separata dal
suo nato, e per sedici anni ne ignora il destino, ne ignora persino il sesso.
Questa violenza brutale rovina la giovine donna, che precipita gradatamente in
un abbrutimento morale e fisico, dal quale solo un caso la risolleva. In una
camera d'albergo dove si era rinchiusa per uccidersi alla fine, sommersa dalla
amarezza della dissoluzione e del suo interiore rodimento materno, incontra un
medico che con la robustezza del suo senno la convince a curarsi, promette di
ritrovarle il figlio. Felicita Schart si ritempra in piú d'un anno di vita
selvaggia sulla spiaggia del mare; la sua bellezza rifiorisce, rinasce l'amore
della vita e del piacere. Il dottor Stratton le fa incontrare sua figlia, senza
che nessuna voce istintiva le riveli la verità; anzi l'istinto le gioca un
atroce giuoco. Ella sostituisce sua figlia nell'amore del fidanzato di questa,
e la giovinetta Maisie apprende chi veramente sia sua madre subito dopo che un
odio atroce la ha allontanata da lei. La messa in accusa dei pregiudizi sociali
diventa cosí completa. Essi sostituiscono nel dramma il feroce destino delle
antiche concezioni tragiche della vita. La natura, la elementare natura che ha
salvato già dal precipizio la dissolventesi bellezza di Felicita Schart,
interviene anche ora. È la voce fragorosa della marea, è la semplice voce di un
umile J.-J. Rousseau, Jerry, un bastardo anche egli, che dalla lettura dei
libri e dalla solitaria contemplazione delle forze irresistibili della terra
trae una forza di convinzione che appaga lo spirito di Maisie, la riconforta, e
inizia la sua nuova vita e le suggerisce le prime parole che dovranno
riconciliarla con sua madre. Su questi elementi è tessuto il dramma dello
Hastings. Ma la loro traduzione in arte non avviene senza convenzionalità e
senza sforzi. Il lavoro è troppo spesso stentato, prolisso e risente di un
lavorio riflesso che ne vuol fare una dimostrazione logica esteriore alle
persone, piuttosto che un'intuizione di vita drammatica. Tutto è prestabilito
dalla volontà, gli elementi emotivi e passionali sono sorpassati e sommersi da
una necessità di propaganda, che si fonde solo raramente con le necessità delle
coscienze individuali. E ne risultano ingenuità, cavillosità urtanti, prediche
noiose, colpi di scena di cattivo gusto. È un puritano della natura e della
semplicità, che combatte i puritani della convenienza sociale, della moralità
borghese e pretesca, conservandone il tono e i metodi. Un convenzionalismo si
sostituisce a un altro convenzionalismo.
I primi tre atti furono applauditi, quantunque
blandamente; il quarto passò in silenzio. L'interpretazione si distinse per
merito del Piperno specialmente, e dell'Almirante, che sostenevano le parti del
dottor Stratton e di Jerry il bastardo, le due persone piú vive di tutto il
lavoro.
(1° febbraio 1917).
«L'uomo del sogno» di Adami all'Alfieri.
Giuseppe Adami costruisce i suoi tre atti su questo motivo: quali reazioni
sentimentali provoca l'avvicinamento di un grande uomo a un piccolo mondo
provinciale, materiato di piccoli fatti, di piccole anime pettegole, di
fanciulle che sognano il cavaliere della leggenda? E l'Adami ha avuto il buon
gusto di non fare del grande uomo la solita creatura fatale, d'eccezione, che
travolge nel suo cammino tutto e tutti. Ha invece posto in iscena un uomo
apparentemente uguale agli altri, che se ne differenzia solo, come avviene di
solito nella vita, per l'alone fantastico che la sua fama ha creato intorno
alla sua persona, e per la maggiore tolleranza di fronte alla vita vissuta che
la piú rapida comprensione e intuizione degli avvenimenti rende naturale in
lui. Un essere normale, insomma, e non la abusata caricatura del superuomo, che
la comune degli scrittori, non essendo essi stessi dei geni, non riescono a
ricreare che come caricatura. Paolo Varchi è l'uomo del sogno. Egli, piombando
all'improvviso in un ambiente provinciale, diventa nella fantasia dei suoi
ospiti e degli amici degli ospiti, il modello di umanità cui tutti
inconsciamente tendono, per l'ingegno, per lo spirito pronto, per la tranquilla
e serena placidità con cui giudica tutto e tutti, e anche nelle piccole miserie
della vita trova un ritmo superiore, una bellezza che negli altri non appare
perché di quelle miserie sono le vittime e gli attori. Questo suo
differenziarsi dagli altri suscita il piccolo dramma dei tre atti. Nella casa
in cui è l'ospite occasionale, si svolge un idillio. È naturale che la
giovinetta, Carmine, paragoni i due uomini che piú la interessano
spiritualmente e per un istante dia la preferenza all'uomo del sogno. Come è
naturale che Roberto, il fidanzato di Carmine, diffidi di questo fascino
intellettuale e diventi ingiusto, duro, grottesco, persino, almeno
apparentemente, nel suo rancore inconsiderato. Paolo Varchi è però un grande
uomo morale, e non abusa delle illusioni fantastiche di Carmine. Dopo un attimo
di abbandono, riprende la padronanza di sé e rinsalda volontariamente l'iato
prodotto senza volerlo. Roberto si pente dei suoi grotteschi stati d'animo e
ritorna alla fidanzata, che all'immagine di cartone del sogno preferisce di
nuovo la realtà viva dei suoi piú profondi sentimenti. Intreccio semplice e dimesso,
che in verità non trova un'espressione che non superi sempre la mediocrità, ma
che ha il pregio della semplicità e della sincerità intellettuale, e della
modestia. Ciò che non è cosa che si incontri ogni giorno nel mercato
letterario.
I tre atti furono bene accolti, e molti applausi
andarono specialmente agli attori: il Ruggeri e la Vergani tra gli altri.
(7 febbraio 1917).
«Le tre pene di Pierrot» di Berta al
Carignano. Edmond Rostand ha tirato fuori dal cassetto solo in questi
ultimi tempi una sua commedia: I due Pierrot, scritta negli anni
giovanili. La commedia doveva essere rappresentata appena composta, in un
teatro d'arte parigino, ma quando essa stava per andare in iscena, morí Teodoro
de Banville, il poeta poco noto ai piú, che di Pierrot e delle sue avventure
sentimentali aveva scritto delicatissime filigrane, bozzetti scenici in cui il
lirismo si fondeva mirabilmente con l'azione, creando piccoli capolavori di
espressione linguistica perfetta. Edmond Rostand ebbe rispetto del grande morto,
e forse ebbe paura del paragone che non poteva mancare. La sua rinunzia fu
pertanto anche un atto di probità. E Augusto Berta che della probità ha fatto
in tempi non lontani la divisa melensa della sua attività letteraria, non ha
esitato a presentarsi nella veste di umbra (i latini con spirito
chiamavano ombre i parassiti) di un grande. La sua fregola di letterato mancato
e deficiente si è sfogata oscenamente su una creazione poetica collettiva che
aveva ormai trovato anche un'espressione individuale definitiva. E ha cucinato
sul disgraziato Pierrot un guazzetto disgustoso, che solletica i cattivi
istinti del pubblico ora con la piú volgare galanteria da gabinetto riservato
ora con un pruriginoso sentimentalismo in versi martelliani in cui di poesia
non c'è che l'affermazione sazievolmente ripetuta di essere poesia. È questa
bassa volgarità versaiola che maggiormente offende il gusto di chi ha letto il
de Banville, questa piatta gelatinosità in cui l'amore, la vita, la gelosia, i
rapporti sessuali, sono visti, concepiti ed espressi come si suole leggere
nelle pubblicazioni da caserma: «L'amore Illustrato», il «Capriccio», o la
«Sigaretta». È seguíto il solito sistema della tricotimia simmetrica, dei tre
puntelli legnosi: le tre cene, come ieri erano le tre età della pietra, del
ferro e dell'oro. L'azione è nulla: Pierrot prende moglie; Pierrot sta per
essere tradito da sua moglie, Viviana la fioraia, col marchese di Priola (altra
dolciastra caricatura che al brio e allo spirito di don Giovanni della commedia
francese sostituisce i palpeggiamenti postribolari sotto il tavolo); Pierrot
che uccide il rivale e poi muore avvelenato dai profumi di un fiore orientale,
per elezione spontanea. E su questi tre puntelli di legno, quanta broda di
lasagne, quale disgustoso innaffiamento di loia raccolta con lo strofinaccio da
tutti gli spurghi poetici della letteratura a un soldo. Un vero bazar del
cattivo gusto: una amena giostra di sproloqui rimati, di scemenze triviali sul
vecchio repertorio dei motivi poetici. Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, armati
di colascione e travestiti da marchese di Priola, da Pierrot e da Viviana, non
potrebbero dire piú abusati luoghi comuni. Ascoltando, il cervello continuava,
per sollevarsi dal martirio, il lavoro del poeta. Ad affermazioni come queste:
– Chi è nato all'aria aperta, non regge all'aria chiusa; – a rime come queste:
– paese e maionese, – gatto e cioccolatto – il mio cervello contrapponeva
fulgide immagini, che regalo al Berta per la sua prossima tricotimia; – la vita
è uno spiraglio – or sente di mughetto, or puzza d'aglio – o – la vita è una
sanguetta – chi vuol cavarsi sangue, se la metta, – disposto a mandargli per
posta le altre che per brevità ometto.
I tre atti del Berta sono stati applauditi. Ha
contribuito molto al successo una papera di Lyda Borelli (Pierrot), che, a un
certo punto, sbagliandosi di sesso, ha detto: «sono pronta» per «sono pronto».
L'intelligenza del pubblico ha colto a volo la grazia indefinibile di una
papera simile, prova della intensa femminilità di una artista come la Borelli, ed è scoppiato in
una vera ovazione. Sono cose che capitano: un'altra commedia ha avuto successo
perché a «timonata» l'attore aveva sostituito «limonata». Il grande attore
Tolentino è grande specialmente per la fama creatasi dicendo, con inesprimibile
convinzione: «figlio, io sono tuo padre», invece di «padre, io sono tuo
figlio», dinanzi a Ermete Zacconi truccato da vegliardo. Sono cose che
capitano.
Aspettando che venga il giorno di poter
precipitare dalla Mole Antonelliana simili truffatori di applausi, rileggiamo
le fantasticherie poetiche su Pierrot, di Teodoro de Banville.
(8 febbraio 1917).
In principio era il sesso.. In principio
era il verbo... No, in principio era il sesso.
Di fronte a determinate manifestazioni dello
spirito pubblico, voi che avete dei bisogni logici, rimanete in principio
sbalorditi. Dato come presupposto un certo fatto, ve ne aspettereste un altro
che ne fosse la conseguenza logica. Vedete che invece questo non si verifica e
se ne verificano altri non logici al suo posto; vedete che entrano in giuoco
nuove forze, forze elementari, istintive, imponderabili nel calcolo delle
probabilità.
Andate ad assistere alle recite della Borelli.
Avete ancora le orecchie intronate dalle lodi per la Borelli, dalle critiche
per le audacie di eleganza della Borelli, per la grande efficacia drammatica
della Borelli. Andate ad osservare la proiezione di una film della Borelli. Per
una strana fortuna non cadete nel laccio che inconsciamente vi è teso. Rimanete
padroni di voi stessi. Potete stabilire in voi stesso un osservatorio.
Osservate. Rimanete stupito. Vi pare incredibile. Poi scrollate le spalle e vi
ricordate che qualcuno all'affermazione: in principio era il verbo, ha
sostituito l'altra: in principio era il sesso.
Intendiamoci bene. Il sesso come forza spirituale,
come purezza, non come bassa manifestazione di animalità. Ebbene: bisogna
studiare il caso Borelli, come un caso di sessualità. Non c'è altra via per
comprenderlo, per spiegarlo, e anche per liberarsene. Non voglio dire che il
caso Borelli sia talmente pericoloso da domandare l'intervento del famoso ferro
chirurgico. Tuttavia esso è poco piacevole, e lo smagare un certo numero di
persone può anche essere utile ai fini di una piú perfetta umanità.
Dante ha posto il problema sessuale in termini
elevatissimi. Nell'episodio di Francesca da Rimini egli dice che la forma piú
alta della sessualità è data dal fatto che l'amore tra due è necessario, è
indeprecabile. Esistono due metà di un tutto: esse si cercano e quando si sono
trovate si fondono in una cosa sola. Ora però succede questo fatto. Esistono
metà che invece di un'altra sola metà ne hanno due, tre. Alcune potrebbero
essere la metà di tutti gli uomini. L'elemento «sesso» ha talmente soverchiato
in essi tutti gli altri attributi, tutte le altre possibilità che diventa una
specie di magia affascinante.
Tutti gli uomini vi trovano qualcuna delle
complementari di se stessi, e ne sono suggestionati. È una specie di mistero
orfico che si viene costruendo inconsciamente.
Orfeo col suono della lira si tirava dietro anche
le piante e gli animali. Il mito simboleggia il raggiungimento completo della
suggestione musicale totale, come forza che attrae tutto ciò che può essere
musicabile. Il fenomeno ha dato luogo a qualche creazione letteraria. Guy de
Maupassant ha scritto un poemetto in cui una donna, «il sesso», attrae a sé
tutte le creature viventi, che la seguono inconsciamente, cosí come
seguirebbero un santo o un apostolo che avesse saputo trovare la parola piú
semplice che ne scuotesse l'animo fin dalla radice.
Con le dovute limitazioni, ciò succede per
l'attrice Lyda Borelli. Questa donna è un pezzo di umanità preistorica,
primordiale. Si dice di ammirarla per la sua arte. Non è vero. Nessuno sa
spiegare cosa sia l'arte della Borelli, perché essa non esiste. La Borelli non sa
interpretare nessuna creatura diversa da se stessa. Ella scande semplicemente i
periodi, non recita. Perciò preferisce le opere in versi, e predilige Sem
Benelli, il quale scrive per la musica delle parole piú che per il loro
significato rappresentativo. Perciò anche la Borelli è l'artista per eccellenza della film, in
cui lingua è solo il corpo umano nella sua plasticità sempre rinnovantesi.
L'elemento «sesso» ha trovato nel palcoscenico la
sua moderna possibilità di contatto col pubblico. E ha rapinato le
intelligenze. Il caso Borelli, se può essere bello per chi lo suscita, non è
certo confortante per chi vi si lascia prendere. L'uomo ha lavorato enormemente
per ridurre l'elemento «sesso» ai suoi veri limiti. Lasciare che esso di nuovo
si dilati a scapito dell'intelligenza è prova di imbestiamento, non certo di
elevazione spirituale.
(16 febbraio 1917).
«La canzone della cuna» di Martinez
Sierra all'Alfieri. La compagnia Sainati, specialista per il repertorio del
Grand-Guignol, ha messo in iscena, l'altra sera, due novità spagnuole
che nulla hanno di comune colle solite terrifiche produzioni che – con successo
del resto – solitamente i Sainati eseguiscono. Le due novità ebbero
un'accoglienza piuttosto fredda dal pubblico poco numeroso che s'era dato
convegno all'Alfieri.
La canzone della cuna, commedia
sentimentale, secondo la definizione stessa dell'autore, in due atti, tenta la
riproduzione scenica di un convento di monache spagnuole nel quale una decina
di suore, che si sono rifugiate in quel monastero pei soliti motivi
inconsolabili, sospirano nostalgicamente sul divino volere che le condanna a
perenne sterilità. A chetare un tantino l'insistente ricordo dei fratellini
dalle angiolesche manine di latte, pensa un giorno il caso, sotto forma di una
prostituta, la quale depone nella «ruota» del convento, una piccina appena
nata. Ne segue, naturalmente, grande confusione, ma la figlia del convento
viene adottata e affidata alle cure particolari di suor Giovanna. Il primo atto
termina mentre la vergine suora, esaltata di essere... madre, dimenticando di
pregare colle compagne, guarda e bacia la piccola trovatella. Dal primo al
secondo atto passano diciotto anni. La figlia del convento ha appunto diciotto
anni e sta per sposarsi con un giovane, pien di vita, che subito dopo le nozze
se la porterà lontano, oltre l'oceano, nel mondo nuovo. Le suore sono tristi,
sconfortate. Suor Giovanna tace, ma ha il cuore oppresso da una grande pena. La
madre adottiva e l'allegra trovatella si trovano un istante sole, in un ultimo
colloquio, al quale assiste pure il fidanzato. La suora raccomanda allo
sconosciuto che è al di là della grata, la figlia. La voce della povera donna
trema, è angosciata.
– Siete triste, – chiede l'uomo che scoppia di
felicità.
– Sí, molto, – risponde in un singhiozzo la suora.
– Volete venire con noi suor Giovanna? – chiede lo
sposo.
– No, no, non posso. È troppo tardi...
Il distacco è doloroso e dopo l'ultimo fervido
abbraccio di separazione suor Giovanna sviene... mentre le preghiere
ricominciano al rintocco delle campane del convento.
La trama contiene certo uno spunto poetico e
delicato, ma la sua concretizzazione scenica non convince e riesce miserevole
cosa. Essa è stata recitata assai lodevolmente, come avviene per tutto quello
che rappresenta la compagnia Sainati. Efficace suor Giovanna fu la signora
Bella Starace Sainati; buone pure nell'interpretazione dei singoli personaggi
minori: la Lenci
e la M. Sainati.
Ad Alfredo Sainati è affidata una parte di mediocre importanza.
L'altra novità, dei fratelli Quintero: L'ultimo
capitolo, non ebbe successo. Lo spunto è vecchio e scarsamente
interessante.
(8 marzo 1917).
«All'ombra delle statue» di Duhamel al
Carignano. All'ombra delle statue è il risultato abortivo della
contaminazione di due motivi drammatici abusati fino al disgusto: «il bastardo»
e il «genio che schiaccia gli eredi sotto il peso della sua gloria». La novità
avrebbe dovuto consistere precisamente in questo avvicinamento. Perché il
figlio del genio, quando viene ad apprendere che è un intruso adulterino, non
si dispera e non esala ai numi tutta la piena dei suoi affetti, ma se ne
rallegra quasi perché trova finalmente nel fatto rivelatogli la via della
liberazione, la via per liberarsi dalla tutela postuma del suo grande padre
putativo, e per uscire dall'ombra della statua alla luce della sua personalità
vera che col morto non ha niente a che fare. Ma questi spunti non hanno trovato
nei tre atti alcuna espressione drammatica adeguata. Hanno dato la stura a una
enorme superfluità di parole, di pettegolezzi, di scene disorganiche e senza
interesse specifico, che hanno fatto zittire l'intiero lavoro. Un applauso a
scena aperta è stato strappato dalla Gramatica, che è riuscita a dare della
vivacità e del contenuto drammatico alla persona della protagonista.
(9 marzo 1917).
«L'amazzone» di Bataille al Carignano.
Parentesi francese. In Francia hanno creduto necessario far conoscere agli
italiani la nuova commedia di Henri Bataille, L'amazzone. Evidentemente
si dà molta importanza a questi tre atti. Eppure è del Bataille solito, del
Bataille che annega la vita nell'oceano del tenerume sentimentale, che esaspera
e diluisce due o tre spunti drammatici in un oceano di tenerume poetico. È
cambiato il contenuto: la guerra è diventata il cardine degli affetti e dei
sentimenti, la guerra con le sue nuove creature poetiche, che rinnovano la vita
spirituale francese, come ieri per Henri Bataille era la provincia che dava gli
esempi delle mogli che per non tradire si uccidono, a perpetuo scorno delle
parigine corrotte fino alle midolla. È una nuova donna ideale che nell'Amazzone
continua il modo antico del commediografo francese. La donna che sacrifica la
sua felicità presente per non tradire un fantasma d'amore passato precisamente
come nella Marcia nuziale. Con questo di peggio: che nella nuova
commedia c'è l'elemento esteriore della guerra, che costringe il patriota a dei
convenzionalismi piú crudi e banali che per il passato.
Un grande successo ha ottenuto la Réjane, con le virtú sue
della semplicità e della spontaneità.
(12 marzo 1917).
Il tramonto di Guignol. Il Guignol italiano
sta per morire. Il suo nome è strettamente legato a quello della compagnia di
Alfredo Sainati. La compagnia è diventata, qualche giorno fa, di proprietà del
milionario esteta Luca Cortese, l'ultimo dei dannunziani, e il milionario esteta
diventando il proprietario di questa e di numerose altre compagnie drammatiche
italiane, si propone di rinnovare la tradizione teatrale italiana,
sostanziandola di quattrini e di intendimenti e propositi piú strettamente
artistici. La morte del Guignol italiano non può tardare a venire, se questi
propositi del Cortese non cadranno nel baratro dell'indifferenza, come altre
volte è successo per propositi simili.
La storia della fortuna di Guignol è presto
raccontata. È la storia di quel ragazzo della fiaba che partí per il mondo,
perché voleva sapere quale fosse il significato preciso della banale
espressione: «Mi sento venire la pelle d'oca». E viaggiò, viaggiò, traversò
paesi strani, incantati, paesi di briganti, di streghe, di mostri favolosi;
ebbe avventure, di quelle che si sogliono dire raccapriccianti; ma inutilmente:
la sua pelle rimase pelle d'uomo, e non ne volle sapere di diventare pelle
d'oca. E aveva già disperato di raggiungere il suo intento e di ritornarsene a
casa, convinto che la pelle d'oca fosse una spiritosa invenzione per far star
buoni i bimbi bizzosi, quando un avvenimento di polizia urbana pose fine alla
sua aspettativa: mentre pensieroso, preoccupato dal dubbio di essere un mostro,
differente dagli altri uomini, inferiore agli altri uomini, perché meno
sensibile di loro, fu bagnato dalla testa ai piedi da un catino di acqua
freddissima. Il miracolo fiorí: la sua pelle si corrugò rabbrividendo, e dalle
sue labbra, spontanea, irresistibile sgorgò la frase: «Mi sento venir la pelle
d'oca». Guignol sulla scena cerca di ricreare lo strano, miracoloso paese delle
oche; il paese dell'orribile, del raccapricciante, che dovrebbe far sentire ai
pellegrini che vi viaggiano dei fremiti, dei tuffi al cuore, degli
scombussolamenti capillari ed epidermici come al tempo in cui i serpenti a
sonagli al braccio dei megateri passeggiavano ingordi sotto gli alberi
trasformati in grappoli umani dai primitivi aborigeni delle palafitte? Guignol
ha fatto del teatro un gabinetto spiritico per imbestiare gli spiriti. Il
terrore è un istinto animalesco, non è un atto dello spirito. Non fa lavorare
il cervello, Guignol; cerca di scombussolare il sistema nervoso. Ma quale
persona intelligente si lascia manipolare i nervi a questo modo? Guignol vuol
far paura; ma le persone intelligenti non hanno paura degli occhiacci
spiritati. La paura è certamente un fatto umano, con tutte le sfumature del
terrore, dell'allucinazione folle, del delirio. Ma perché essa diventi elemento
artistico, deve trovare una espressione linguistica che la trasformi in atto
umano, in elemento drammatico graduato secondo l'importanza relativa che essa
ha nella vita dell'uomo. Guignol invece ha fatto del terrore fisico tutto il
dramma della vita dell'uomo; e pertanto ha ridotto l'uomo a pura fisica, a pura
macchina materiale. L'origine marionettistica di Guignol ha avuto questo
effetto: ha reso marionette anche gli uomini del teatro propriamente detto.
Guignol italiano ha avuto però un merito. È
servito a creare una compagnia di primo ordine Ha servito a formare degli
attori eccellenti. La riproduzione plastica del terrore domanda intelligenza e
studio. Se Guignol non ha valore estetico linguistico, ha valore estetico
plastico. I suoi interpreti devono acquistare, attraverso uno sforzo cosciente
e un lavorio interiore indefesso, una grande capacità fisica di espressione,
una capacità di rinnovamento che renda possibile la varietà e la novità degli
atteggiamenti. Alfredo Sainati è riuscito a costituire cosí una compagnia non
comune per affiatamento e per omogeneità. Egli stesso, e la signora Starace
Sainati, sono degli attori non comuni, che hanno dimostrato di sapere uscire
dal repertorio loro speciale, conservando tuttavia quelle possibilità
drammatiche che hanno loro permesso di fare la fortuna di Guignol, anche se gli
uomini non vogliono diventare delle oche rabbrividenti. E queste possibilità
drammatiche, affermatesi specialmente in alcune rappresentazioni della Fiaccola
sotto il moggio, devono appunto aver persuaso il milionario esteta Luca
Cortese che valeva la pena di fare uno sforzo per riconquistare all'arte degli
artisti che se hanno voluto trovar successo, si sono dovuti adattare a
solleticare la parte animalesca dell'animale uomo.
Cosí il Guignol italiano sta per morire di morte
violenta, quantunque lenta e angosciosa, poiché non gli sarà possibile di
trovare altri interpreti del valore del Sainati. L'ultimo dramma del Grand-Guignol
sarà pertanto la morte stessa di Guignol, già decisa, ma che, per non essere
dammeno al carattere del personaggio, sarà lentissima come una tortura cinese.
(13 marzo 1917).
La serata di Emma Gramatica al Carignano.
Questa sera al teatro Carignano la compagnia di Emma Gramatica rappresenterà
per la serata della sua prima attrice uno dei capolavori di Enrico Ibsen: Casa
di bambola. Bisogna essere grati alla Gramatica la quale è una delle poche
attrici che nella profluvie di lavori scadentissimi si ricorda almeno qualche
volta di rappresentare qualcheduna di quelle opere in cui è realizzato
perfettamente il dramma moderno, contenuto, vivificato da una profondissima
vita morale; azione drammatica sincera e spontaneamente omogenea.
(20 marzo 1917).
«U' riffanti» di Martoglio all'Alfieri.
I tre atti nuovi di Nino Martoglio non sono che un seguito di bozzetti scenici
senza intreccio drammatico, senza alcun approfondimento di carattere, senza
altra pretesa che non sia quella di dare ad Angelo Musco il modo di creare una
macchietta esilarante, perché esteriori e solamente fisiche sono le possibilità
rappresentative della commedia. U'riffanti è un traforello di piccola
levatura, un tenitore del lotto clandestino, che riesce a salvarsi dalle
grinfie della polizia, dando modo a un delegato di PS di rintracciare gli
autori e la vittima di un sequestro di persona: la chiave del delitto è data
dal numero della cabala, numero che i superstiziosi banditi hanno costretto la
vittima a dare, non pensando che potevano diventare termini di corrispondenza
segreta. La commedia è stata applaudita, e ha fatto molto ridere per opera
dell'arte di Angelo Musco e delle sue sempre nuove capriole e smorfie,
esilaranti solo fino a un certo punto.
(21 marzo 1917).
La morale e il costume («Casa di bambola»
di Ibsen al Carignano). Emma Gramatica, per la sua serata d'onore, ha
fatto rivivere, dinanzi a un pubblico affollatissimo di cavalieri e di dame,
Nora della Casa di bambola, di Enrico Ibsen. Il dramma evidentemente era
nuovo per la maggioranza degli spettatori. E la maggioranza degli spettatori se
ha applaudito con convinzione simpatica i primi due atti, è rimasta invece
sbalordita e sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito: una sola
chiamata, piú per l'interprete insigne che per la creatura superiore che la
fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché il pubblico è rimasto sordo, perché
non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all'atto profondamente
morale di Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare
solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del
proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri
che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri?
Il dramma, perché sia veramente tale, e non
inutile iridescenza di parole, deve avere un contenuto morale, deve essere la
rappresentazione di un urto necessario tra due mondi interiori, tra due
concezioni, tra due vite morali. In quanto l'urto è necessario il dramma ha
immediata presa sugli animi degli spettatori, e questi lo rivivono in tutta la
sua integrità, in tutte le motivazioni da quelle piú elementari a quelle piú
squisitamente storiche. E rivivendo il mondo interiore del dramma, ne rivivono
anche l'arte, la forma artistica che a quel mondo ha dato vita concreta, che
quel mondo ha concretato in una rappresentazione viva e sicura di individualità
umane che soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse,
per migliorare continuamente la tempra morale della propria personalità
storica, attuale, immersa nella vita del mondo. Perché allora gli spettatori, i
cavalieri e le dame che l'altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro,
necessario, umanamente necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non
hanno a un certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti
sbalorditi e quasi disgustati della conclusione? Sono immorali questi cavalieri
e queste dame, o è immorale l'umanità di Enrico Ibsen?
Né l'una cosa né l'altra. È avvenuta semplicemente
una rivolta del nostro costume alla morale piú spiritualmente umana. È avvenuta
semplicemente una rivolta del nostro costume (e voglio dire del costume che è
la vita del pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della nostra
borghesia grossa e piccina, fatto in gran parte di schiavitú, di sottomissione
all'ambiente, di ipocrita mascheratura dell'animale uomo, fascio di nervi e di
muscoli inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro
costume, a un'altra tradizione, superiore, piú spirituale, meno animalesca. Un
altro costume, per il quale la donna e l'uomo non sono piú soltanto muscoli,
nervi ed epidermide, ma sono essenzialmente spirito; per il quale la famiglia
non è piú solo un istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in
atto, che si completa per l'intima fusione di due anime che ritrovano l'una
nell'altra ciò che manca a ciascuna individualmente: per il quale la donna non
è piú solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente per essi un
amore che è fatto di spasimi della carne e di tuffi di sangue, ma è una
creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori
suoi, che ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere
indipendente.
Il costume della borghesia latina grossa e piccola
si rivolta, non comprende un mondo cosí fatto. L'unica forma di liberazione
femminile che è consentito comprendere al nostro costume, è quella della donna
che diventa cocotte. La pochade è davvero l'unica azione
drammatica femminile che il nostro costume comprenda; il raggiungimento della
libertà fisiologica e sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi,
dei muscoli e dell'epidermide sensibile.
Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi
tempi sulla nuova anima che la guerra ha suscitato nella borghesia femminile
italiana. Retorica. Si è esaltata l'abolizione dell'istituto
dell'autorizzazione maritale come una prova del riconoscimento di questa nuova
anima. Ma l'istituto riguarda la donna come persona di un contratto economico,
non come umanità universale. È una riforma che riguarda la donna borghese come
detentrice di una proprietà, e non muta i rapporti di sesso e non intacca
neppure superficialmente il costume. Questo non è stato mutato, e non poteva
esserlo, neppure dalla guerra. La donna dei nostri paesi, la donna che ha una
storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava, senza
profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando
sembra ribelle, piú schiava ancora quando ritrova l'unica libertà che le è
consentita, la libertà della galanteria. Rimane la femmina che nutre di sé i
piccoli nati, la bambola piú cara quanto è piú stupida, piú diletta ed esaltata
quanto piú rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa,
per dedicarsi agli altri, siano questi altri i suoi familiari, siano gli
infermi, i detriti d'umanità che la beneficenza raccoglie e soccorre
maternamente. L'ipocrisia del sacrifizio benefico è un'altra delle apparenze di
questa inferiorità interiore del nostro costume.
Nostro costume. Cioè costume che ha importanza
nella storia attuale, perché è il costume della classe che è della storia
stessa protagonista. Ma accanto a esso è un altro costume in formazione, quello
che è piú nostro, perché è della classe cui apparteniamo noi. Costume nuovo?
Semplicemente costume che si identifica meglio con la morale universale, che
aderisce tutto alla morale universale, tale perché profondamente umana, perché
fatta di spiritualità piú che di animalità, di anima piú che di economia o di
nervi e muscoli. Le cocottes potenziali non possono comprendere il
dramma di Nora Helmar. Lo possono comprendere, perché lo vivono
quotidianamente, le donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che
producono qualcosa di piú che non siano i pezzi d'umanità nuova e i brividi
voluttuosi del piacere sessuale. Lo comprendono, per esempio, due donne proletarie
che io conosco, due donne che non hanno avuto bisogno né del divorzio né della
legge per ritrovare se stesse, per crearsi il mondo dove fossero meglio capite
e piú umanamente se stesse. Due donne proletarie le quali, col consentimento
pieno dei loro mariti, che non sono cavalieri ma lavoratori semplici e senza
ipocrisie, hanno abbandonato la famiglia, e sono andate con l'uomo che meglio
rappresentava l'altra loro metà, e hanno continuato nella antica dimestichezza,
senza che perciò si creassero le situazioni boccaccesche che sono un retaggio
piú proprio della borghesia grossa e piccola dei paesi latini. Esse non
avrebbero grossolanamente riso della creatura che la fantasia di Ibsen ha messo
al mondo, perché avrebbero riconosciuto in lei una sorella spirituale, la
testimonianza artistica che il loro atto è compreso altrove, perché
essenzialmente morale, perché aspirazione di anime nobili a una umanità
superiore, il cui costume sia pienezza di vita interiore, escavazione profonda
della propria personalità e non vile ipocrisia, solletico di nervi ammalati,
animalità grassa di schiavi diventati padroni.
(22 marzo 1917).
«Pensaci Giacomino» di Pirandello
all'Alfieri. Questa commedia di Luigi Pirandello è tutta uno sfogo di
virtuosismo, di abilità letteraria, di luccichii discorsivi. I tre atti corrono
su un solo binario. I personaggi sono oggetto di fotografia piuttosto che di
approfondimento psicologico: sono ritratti nella loro esteriorità piú che in
una intima ricreazione del loro essere morale. È questa del resto la
caratteristica dell'arte di Luigi Pirandello, che coglie della vita la smorfia
piú che il sorriso, il ridicolo piú che il comico: che osserva la vita con
l'occhio fisico del letterato, piú che con l'occhio simpatico dell'uomo artista
e la deforma per un'abitudine ironica che è l'abitudine professionale piú che
visione sincera e spontanea.
I personaggi sono di una povertà interiore
spaventosa in questa commedia, come del resto nelle novelle, nei romanzi e
nelle altre commedie dello stesso autore. Hanno solo delle qualità pittoriche,
o meglio pittoresche: un pittoresco caricaturale, con qualche velatura di
melanconia, che è anch'essa smorfia fisica piú che passione. Il protagonista
della commedia è un vecchio professore di storia naturale, incartapecoritosi in
34 anni d'insegnamento: un rudere d'umanità, un detrito, senza piú alcuna
caratteristica d'uomo all'infuori del profilo fisico. Il movente dell'azione,
l'unico che si può sorprendere, è questo: il prof. Toti, che per tanti anni ha
servito lo Stato, essendone ricompensato cosí miseramente che non ha potuto
crearsi una famiglia, vuole ora vendicarsi del governo. Prima di morire vuole
prendere moglie, una moglie giovanissima, per lasciarle in eredità il diritto
alla pensione, per far pagare al governo in tanti anni di pensione alla giovane
vedova tutti quei quattrini che egli non ha potuto avere, tutti quei quattrini
che a lui sono mancati sempre per poter vivere veramente, per essere uomo e non
macchina d'insegnamento. Giocare al governo questo tiro birbone diventa per il
prof. Toti l'unica ragione dei pochi anni di esistenza che gli rimangono. Ma
siccome non è un malvagio, non vuole che la moglie soffra, e perciò le consente
le piú ampie libertà; aiuta il suo sostituto nel compito maritale, lo ama come
un figlio, e incurante di tutto, delle chiacchiere del paese, dei rimbrotti del
direttore del ginnasio, del ridicolo di cui egli stesso è oggetto, va innanzi
verso la meta. Giacomino, l'amante di sua moglie, vorrebbe sciogliersi dalla
situazione in cui è impigliato; il prof. Toti si reca a casa sua, gli conduce a
casa sua il figlioletto, si sbarazza di ogni intralcio, di parenti sbigottiti,
di sacerdoti moralisti, e perora la causa di sua moglie e finalmente riesce a
condurre Giacomino nella via del dovere, a continuare il suo compito di marito
della giovane moglie dell'impiegato che vuol vendicarsi del governo senza
perciò creare altre vittime.
La commedia ha avuto molto successo, Angelo Musco
ha fatto della figura del prof. Toti una creazione scenica ammirevole per
sincerità, per misura, per efficacia rappresentativa.
(24 marzo 1917).
«Liolà» di Pirandello all'Alfieri. I
tre atti nuovi di Luigi Pirandello non hanno avuto successo all'Alfieri. Non
hanno avuto almeno quel successo che è necessario perché una commedia diventi
redditizia. Ma Liolà ciò nonostante rimane una bella commedia, forse la
migliore delle commedie che il teatro dialettale siciliano sia riuscito a
creare. L'insuccesso del terzo atto, che ha determinato il ritiro momentaneo
del lavoro dalle scene, è dovuto a ragioni estrinseche: Liolà non
finisce secondo gli schemi tradizionali, con una buona coltellata, o con un
matrimonio, e perciò non è stata accolta con entusiasmo; ma non poteva finire
che cosí come è, e pertanto finirà con l'imporsi.
Liolà è il prodotto migliore dell'energia
letteraria di Luigi Pirandello. In esso il Pirandello è riuscito a spogliarsi
delle sue abitudini retoriche. Il Pirandello è un umorista per partito preso,
ciò che vuol dire che troppo spesso la prima intuizione dei suoi lavori viene a
sommergersi in una palude retorica di moralità inconsciamente predicatoria, e
di molta verbosità inutile. Anche Liolà è passato per questo stadio, e
allora esso si chiamava Mattia Pascal, ed era il protagonista di un lungo
romanzo ironico intitolato appunto: Il fu Mattia Pascal, pubblicato
verso il 1906 dalla «Nuova Antologia» e poi ristampato dal Treves. In seguito
il Pirandello ha ripensato alla sua creazione, e ne è venuto fuori Liolà;
l'intreccio rimane lo stesso, ma il fantasma artistico è stato completamente
rinnovato: esso è diventato omogeneo, è diventato pura rappresentazione, libero
completamente di tutto quel bagaglio moraleggiante e artatamente umoristico che
lo aduggiava. Liolà è una farsa, ma nel senso migliore della parola, una
farsa che si riattacca ai drammi satireschi della Grecia antica, e che ha il
suo corrispondente pittorico nell'arte figurativa vascolare del mondo
ellenistico. C'è da pensare che l'arte dialettale cosí come è espressa in
questi tre atti del Pirandello, si riallacci con l'antica tradizione artistica
popolare della Magna Grecia, coi suoi fliaci, coi suoi idilli pastorali, con la
sua vita dei campi piena di furore dionisiaco, di cui tanta parte è pure rimasta
nella tradizione paesana della Sicilia odierna, là dove questa tradizione si è
conservata piú viva e piú sincera. È una vita ingenua, rudemente sincera, in
cui pare palpitino ancora i cortici delle querce e le acque delle fontane: è
una efflorescenza di paganesimo naturalistico, per il quale la vita, tutta la
vita è bella, il lavoro è un'opera lieta, e la fecondità irresistibile prorompe
da tutta la materia organica.
Mattia Pascal, il melanconico essere moderno,
dall'occhio strabico, l'osservatore della vita volta a volta cinico, amaro,
melanconico, sentimentale, vi diventa Liolà, l'uomo della vita pagana, pieno di
robustezza morale e fisica, perché uomo, perché se stesso, semplice umanità
vigorosa. E la trama si rinnova, diventa vita, diventa verità; diventa anche
semplice, mentre nella prima parte del romanzo primitivo era contorta e
inefficace. Zio Simone smania perché vuole avere un erede, che giustifichi il
tenace lavoro suo che ha accumulato una ricchezza: è vecchio, e incolpa la
sterilità della moglie, che non ha capito che Simone vuole un erede purchessia,
vuole un bambino a tutti i costi, ed è disposto a fingere di essere egli il
padre. Una sua nipote, che ha capito gli umori del vecchio, ed è stata resa
madre da Liolà, propone a Simone di diventare egli il padre del nascituro, gli
propone di farsi credere egli il padre, e il vecchio accetta. La moglie
legittima viene percossa, viene umiliata, perché non ha fatto altrettanto. Per
diventare la padrona, fa altrettanto. Zio Simone ha un figlio legale. Ma è
Liolà che dà vita a queste nuove vite, e dà vita alla commedia; Liolà che ha
sempre la gola piena di canti, che entra sempre nella scena accompagnato da un
coro bacchico di donne, accompagnato dai suoi tre altri figlioletti naturali
che sono come dei satiretti che ubbidiscono all'impulso della danza e del
canto, che sono impastati di suono e di danza come le creature primitive dei
drammi satireschi. Liolà voleva sposare Tuzza, la nipote di Simone, prima che
fosse imbastito il trucco dell'erede, ora che l'erede legale c'è Tuzza vorrebbe
essere sposata, ma Liolà non vuole, non vuole rinunziare ai suoi canti, alla
danza dei suoi figlioli, alla vita dionisiaca del lavoro lieto: e il pugnale di
Tuzza è stroncato dalle sue mani che però non sanno l'odio e la vendetta. Ma
per il pubblico ci voleva il sangue o il matrimonio, e perciò il pubblico non
ha applaudito.
(4 aprile 1917).
«Non amarmi cosí!» di Fraccaroli al
Carignano. Gli uomini spiritosi sono una parte molto importante della vita
sociale moderna: e sono molto popolari. Essi sostituiscono alla verità un motto
che fa ridere, alla serietà un motto che fa ridere, alla profondità un motto
che fa ridere. L'ideale della loro vita spirituale è il salotto elegante, la
conversazione fatua e brillante del salotto, l'applauso discreto e il sorriso
velato dei frequentatori di salotti. Riducono tutta la vita al livello di
mediocrità spiritosa della vita di salotto: molte parole, amabile scetticismo,
con qualche leggero spruzzo di sentimentalismo malinconico. L'uomo spiritoso è
diventato ancor piú importante attraverso l'ultima incarnazione che hanno
subíto i salotti, e cioè nelle redazioni dei giornali borghesi. L'uomo
spiritoso ha cosí allargato la cerchia dei suoi ascoltatori, e ha reso
spiritoso tutto: la politica, la guerra, il dolore, la vita e la morte,
ottenendo molti plausi e guadagnando molti quattrini. Arnaldo Fraccaroli, che è
uno degli uomini spiritosi italiani meglio quotati, ha, nell'ultima sua
commedia Non amarmi cosí!, offerto un brillantissimo esempio del come
l'uomo spiritoso riduce per il lieto sollazzo dei suoi clienti le cose serie.
Il tema generico è questo: una moglie, alla
rivelazione che suo marito non la comprende, scatta in una ribellione, si
ripiega su se stessa, approfondisce il proprio io interiore. Un genio
drammatico, Ibsen, avrebbe dato a questo dramma il suggello definitivo della
sua fantasia poetica. Ma Ibsen non era un uomo spiritoso, era un artista, che
viveva profondamente la vita delle sue creature; perciò egli non ha avuto
fortuna nei salotti e nei teatri che ne sono l'ingrandimento peggiorato.
Arnaldo Fraccaroli ha corretto Ibsen, lo ha reso piacevole e amabile, lo ha
latinizzato. Margherita di Fraccaroli è ben piú facile a comprendersi di Nora;
le motivazioni dell'urto fra marito e moglie sono in Fraccaroli alla portata di
tutte le anime incipriate: Margherita ama male suo marito, è la bambola
seccante, perché ama troppo, perché sbaciucchia troppo, perché non lascia mai
solo Luciano, perché, e questo è il colmo del paradosso profondissimo, rende
troppo facile la vita di Luciano, pulendogli le penne, facendogli trovare
sempre a posto, e nel momento piú opportuno, l'ombrello, il soprabito, e le galoches.
Luciano dice che Margherita è noiosa, e il dramma precipita. Margherita non
lascia la casa maritale. L'uomo di spirito trova che questa soluzione sarebbe
una esagerazione, e i salotti aborrono le esagerazioni. Margherita è una
complicata anima moderna (con svolgimento a lieto fine). Si fa fare la corte da
un imbecille, ma non per ingelosire il marito: non per nulla essa è un'anima
complicata. La corte dell'imbecille serve a mascherare un altro finto amante,
la cui personalità, attraverso queste amabili complicazioni, rimane immersa nel
buio fondo, nel mistero. Ed è questo buio, questo mistero, che porta al lieto
fine, al ravvicinamento delle due anime: tra esse rimane lo sfondo del mistero,
la minaccia immanente di un nuovo dramma, a rinsaldarle, a farle diventar
savie. «Mariti, non scherzate, con le armi caricate», è la profonda verità che
il Fraccaroli instilla nell'anima e nella coscienza dei suoi ascoltatori, e la
via è facilitata da un lubrificante infallibile: la divina melanconia, coi
cirri sull'orizzonte e il pallido raggio di sole che balugina e imbianca i
sembianti degli eroi.
L'uomo spiritoso ha raggiunto il suo scopo. Ha
trovato nel teatro Carignano il salotto di imbecilli meglio disposti a
comprenderlo e ad applaudirlo. L'uomo di spirito è sempre un uomo fortunato.
Anche se il suo spirito è passato attraverso tutti i filtri di carta del
magazzino internazionale, e ne ha conservato tutti i tanfi e le muffe: dai
filtri di Ibsen a quelli di Pierre Wolf e delle sue Marionette.
(5 aprile 1917).
«Scuru» di Martoglio all'Alfieri. È
la quarta o la quinta produzione teatrale italiana sul tema della cecità. La
prima arrivata a Torino. Ha avuto successo. Ha avuto un grande successo. Ma in
esso l'opera personale artistica di Nino Martoglio non entra affatto. La
tragicità è nell'ambiente, è nella vita, è nella minaccia che sentiamo immanente
per migliaia e migliaia di vite. Basta immaginare il fatto perché si senta un
brivido, basta vedere sulla scena delle persone eroiche che presentino in
concreto la minaccia, per sentire plasticamente, in tutta la sua violenza
brutale, la tragedia incombente. Nino Martoglio non ha elaborato artisticamente
il fatto oggettivo. I ciechi di Maurizio Maeterlink sono troppo vivi
nella memoria per non sentire che Nino Martoglio ha lasciato inerte la materia,
e che essa vive solo per il travaglio inconsapevole degli spettatori, e per la
virtú di realizzazione scenica di Angelo Musco e dei suoi collaboratori. Lo
strappo che il nostro animo risente è dovuto tutto all'arte semplice del Musco
e del Pandolfini. Essi soli dànno al fatto una soggettività: l'unica che in
questo caso può avere: il brivido corporale, la maschera della tragicità.
(7 aprile 1917).
«La maschera e il volto» di Chiarelli al
Carignano. La maschera: il complesso di atteggiamenti esteriori che gli
uomini assumono sotto lo stimolo della realtà sociale che li circonda. La
maschera è la patina superficiale del costume, della moda, dello snob,
il precipitato di tutte le reazioni tra la vita individuale e la vita
collettiva, tra la vita di un individuo e la vita di quella determinata
categoria sociale in mezzo alla quale l'individuo ha le radici della sua
particolare esistenza. Chi riesce a strappare dal proprio volto questa
maschera, chi riesce a vivere non secondo le inconsapute violenze della
convenzione sociale, ma solo secondo i dettami del proprio io piú profondo,
della sincerità che pure esiste in fondo alla coscienza di ogni individuo? I
tre atti di Luigi Chiarelli rappresentano appunto la storia di uno di questi
individui, le avventure tragicomiche, le esperienze interiori ed esteriori di uno
di questi individui. Le rappresentano in un modo curioso, deformandole,
esasperandole, esteriorizzandole, con molte parole, con molti particolari, con
molta convenzione, ma riuscendo tuttavia a raggiungere degli effetti di
rappresentazione, riuscendo a fondere in un complesso piacevole e spiritoso
molte banalità, molti luoghi comuni, molte affermazioni del senso comune piú
comune.
L'autore ha volontariamente costruito la macchina
convenzionale che regge i tre atti: egli non nasconde la volontà del convenzionale,
non tende delle trappole al pubblico; il lavoro suo è come una campana di
cristallo, e lascia trasparire il suo volto che sogghigna senza la maschera
della falsa serietà drammatica e artistica. Il suo lavoro è pertanto opera di
sincerità, e ha un grande valore per l'educazione estetica del pubblico, per
correggere il gusto del pubblico, attutito e fatto lapposo dalla falsa
grandezza e dall'artificio abilmente nascosto nel teatro solito. La storia è
questa. Il conte Paolo Grazia scopre che sua moglie lo inganna, sorprende il
flagrante adulterio di sua moglie mentre la sua casa è piena di ospiti, e tutti
gli occhi della società sono fissati su di lui. Il conte Paolo è posto come il
tipo riassuntivo della maschera sociale del marito; tutti conoscono ciò che
egli pensa sul modo con cui un marito deve comportarsi con la moglie adultera:
uccidere; l'autore gli ha fatto ripetere a sazietà le idee in proposito. Eppure
il marito non uccide: il volto incomincia ad apparire, ma la maschera è ancora
troppo tenacemente appiccicata alla pelle. La moglie parte, scompare, e il
conte fa credere d'averla uccisa, d'averla precipitata nel lago. Si
costituisce, lo assolvono: l'avvocato che lo difende è l'amante di sua moglie.
Ritornato a casa riceve l'omaggio di tutte le donne, diventa il ridicolo idolo
della mondanità. La maschera si lacera del tutto: avrebbe dovuto servire ad
evitare il ridicolo, diventa la calamita di un altro ridicolo, peggiore per chi
piú sente, per chi è piú raffinatamente se stesso. Ma il giuoco deve continuare:
un cadavere di donna viene trovato nel lago: egli deve riconoscervi sua moglie,
deve allestire il funerale. La moglie viva ritorna a lui, in quell'istante, e
mentre il funerale si svolge, un nuovo idillio incomincia, questa volta tra due
senza maschera, tra due che hanno subíto, attraverso le esperienze del proprio
dolore, il lavacro salutare della patina convenzionale che la società spalma
sulle coscienze. E il conte deve scappare all'estero, per non essere condannato
dalle leggi che hanno assolto l'assassino ma punirebbero il simulatore del
reato. Nei tre atti agiscono altre maschere caratteristiche, mariti filosofi,
donne adultere, i soliti personaggi da commedia, tutti adattati al grottesco
centrale, alla rappresentazione deformata della vita solita del teatro di
maniera, resi vivaci dalla volontà costruttrice dell'autore, che con molta
abilità e molta elasticità d'ingegno li compone in modo piacevole.
La commedia ha avuto un successo discreto. Essa si
replica. La compagnia Talli ne ha dato una interpretazione molto accurata ed
efficacissima: attori principali il Betrone, la Melato, il Gandusio e il
Paoli.
(11 aprile 1917).
L'industria teatrale. Politeama Chiarella:
spettacoli di varietà, Cuttica, Spadaro e compagni. Teatro Carignano: il miracolo
vivente ovverossia il prof. Gabrielli che mette in sacco tutti i luminari della
scienza. Alfieri: 60a rappresentazione della compagnia d'operette di
Luigi Maresca. Operette, varietà, vaudevilles di Carosio e di Cuneo,
fenomeni viventi Fregoli, Petrolini, Cuttica, Spadaro e Titina. Torino è
diventata una fiera, Barnum è diventato il dio tutelare dell'attività estetica
e del gusto dei torinesi.
Barnum o il consorzio teatrale: Barnum o il trust
dei fratelli Chiarella. Lo spirito animatore è lo stesso: è lo spirito
dell'accumulatore di quattrini, cieco, sordo, insensibile a tutto ciò che non
sia cespite di guadagno. Se domani sarà provato che è piú conveniente adibire i
teatri alla rivendita delle noccioline americane e dei rinfreschi ghiacciati,
l'industria teatrale non esiterà un istante a farsi rivenditrice di noccioline
e di ghiacciate, pur mantenendo nella ditta l'aggettivo «teatrale».
Fa maraviglia una cosa soltanto: che l'autorità
militare, cosí fiscale quando si tratta di requisire le scuole o il Teatro del
popolo di Corso Siccardi, o il teatro Regio, dove non vanno e non possono
andare che compagnie che veramente vogliono offrire al pubblico spettacoli di
teatro, utili per l'educazione estetica e che rappresentano il soddisfacimento
di una necessità buona, risparmino invece i teatri gestiti dalla ditta
Chiarella, che ormai hanno perduto la loro genuina caratteristica d'arte e
servono allo sfruttamento delle velleità di divertimento volgare.
Il trust teatrale a Torino è andato un po'
troppo oltre nella sua abilità industriale, Torino è completamente tagliata
fuori dalla vita teatrale italiana. A lontani intervalli vi capitano due o tre
delle maggiori compagnie drammatiche per una stagione straordinaria. Torino dà
molto pubblico agli spettacoli di varietà, non è mai satura di ritrovi
equivoci. L'industria teatrale è entrata in concorrenza con il varietà, cerca
di accaparrarsi la categoria piú redditizia di questo pubblico. Persegue cosí
il suo fine monopolistico. Le compagnie maggiori sono riservate alla provincia,
ai piccoli centri, dove è naturale gli attori siano pagati meno, perché i
teatri sono piú piccoli e gli incassi sono minori. Il monopolio trionfa. I
teatri delle grandi città, anche se adibiti a spettacoli di ordine inferiore,
rimangono redditizi, perché c'è tra i 500 mila cittadini quel certo numero di
individui che li frequenta lo stesso. Gli artisti di varietà sono pagati meno,
e il capitale si impingua. Nei piccoli centri, è necessario il grande nome per
attirare la folla; gli artisti sono pagati meno perché la piazza è secondaria,
e il capitale si impingua allo stesso modo. Le grandi compagnie si dissolvono,
gli attori sono costretti per vivere a dedicarsi al cinematografo; l'industria
teatrale, monopolizzata, non se ne preoccupa; i suoi affari prosperano
ugualmente per l'impossibilità della concorrenza, per l'abbassamento del
livello estetico che fa ricercare lo spettacolo di Petrolini o di Cuttica, e
non fa rimpiangere le interpretazioni artistiche di Ermete Zacconi e di Emma
Gramatica.
A Torino però il trust ha esagerato nella
sua abilità industriale. Non sarebbe male che alla autocrazia del capitale
monopolizzato si contrapponesse un'altra autocrazia. Quale ragione superiore
può ormai piú oltre far considerare intangibili i teatri della ditta Chiarella,
mentre i locali scolastici sono ritenuti tangibilissimi, e tangibilissimo è
stato il Teatro Regio?
Petrolini, Cuttica, Spadaro e soci avevano i loro
ambienti naturali. Quale superiore ragione artistica deve piú oltre permettere
che la città di Torino diventi un feudo del varietà? È doloroso dover ammettere
che in una grande città debba essere ristabilito il buon costume da un
provvedimento autoritario. Ma è purtroppo cosí. Le esagerazioni del monopolio
non possono che essere frenate dai calmieri di Stato.
(28 aprile 1917).
L'industria teatrale. Riceviamo dal sig.
Giovanni Chiarella: «Mi rivolgo alla lealtà di V. S. per rettificare le varie
inesattezze contenute nell'articolo Industria teatrale apparso nel suo
giornale il 28 corrente. Il male informato articolista vorrebbe asserire che la
nostra ditta ha danneggiato lo sviluppo artistico teatrale di Torino escludendo
o limitando la presentazione delle buone compagnie.
«Orbene: dall'ottobre 1916 a oggi ecco i nomi
delle compagnie che agirono nei nostri teatri: compagnie di prosa: Tina
di Lorenzo e Armando Falconi – Lyda Borelli e Ugo Piperno – Emma Gramatica –
Ermete Novelli – Talli, Melato, Betrone, Gandusio – Ruggero Ruggeri – Alfredo
De Sanctis – Dina Galli e Amerigo Guasti – Carini, Gentilli, Baghetti, Dondini
– Sichel e soci – Sainati – Tempesti – Musco. Tina Bondi. Compagnie di
operetta: Lombardo n. 1 – Città di Milano Lombardo n. 2 – Maresca –
Vannutelli.
«Sono dunque 14 compagnie di prosa e 5 di
operetta. Totale 19 primarie compagnie. Quasi tutte quelle che la guerra lasciò
in piedi si sono avvicendate nei nostri teatri nello spazio di nove mesi. Si
chiama questo tagliar fuori una città dal movimento teatrale?
«Agli spettacoli dati da compagnie costituite
devonsi aggiungere le stagioni liriche e dal settembre scorso nei nostri teatri
si rappresentarono piú che decorosamente 21 opere.
«Non parlo delle varie conferenze, concerti e
compagnie francesi. Di fronte a questo importante svolgersi di spettacoli
primari, che può essere sempre documentato, l'articolista male informato si
scaglia contro di noi perché ci siamo permessi in giugno di far agire al
Politeama Chiarella, Fregoli e Cuttica, e al Carignano Gabrielli e non sapendo
o non ricordando vorrebbe accusarci di aver ridotto Torino a città tagliata
fuori dal movimento teatrale, ridotta, dice, a ospitare soltanto due o tre
buone compagnie. Coi dati di fatto, facile è stata la nostra smentita, e alla
taccia di affaristi risponderemo affermando senza tema di smentita, che in
nessuna città di primo ordine come a Torino i prezzi rimasero modesti. Ed è
notorio che i nostri teatri sono aperti costantemente e del tutto gratuitamente
a tutte le opere di beneficenza.
«E per rispondere ancora a un'inesattezza, diremo
che in nessuna città come a Torino la requisizione ha infierito sui teatri,
poiché senza il municipale teatro Regio tre teatri di imprese private furono
occupati dall'autorità militare e cioè il Balbo, il Vittorio Emanuele e il
Torinese.
«Confidando nell'imparzialità della S. V. per la
pubblicazione della presente, ossequi».
Il signor Chiarella fa sfilare i nomi delle
compagnie primarie che sono passate nei suoi teatri dall'ottobre 1916 al giugno
1917, e la coroncina dei nomi sembrerebbe dargli ragione. Se egli avesse
incluso per i suoi calcoli gli ultimi due anni, avrebbe ancor di piú avuto
ragione. Ma noi non volevamo fare il processo della attività industriale della
ditta Chiarella sua vita natural durante. Volevamo constatare una tendenza che
si è manifestata in questa attività nel 1917, si è acutizzata nel trimestre
aprile-giugno, e temiamo voglia diventare definitiva sistemazione d'affari. La
preoccupazione ha una legittima ragione d'essere. A Torino c'è molta gente che
frequenta i pubblici spettacoli. Constatiamo il fatto, senza tentare di darne
una qualsiasi spiegazione. Questa sempre maggior affluenza di pubblico agli
spettacoli ha fatto fiorire in modo indecoroso i ritrovi di infimo ordine. La
ditta Chiarella, che ha il monopolio dei teatri torinesi, contribuisce a questo
abbassamento di livello del gusto generale. Si nota la tendenza, nel criterio
degli affari della ditta, di sfruttare questa mania del varietà, invece di
indirizzarla a forme superiori di spettacoli. Dall'aprile al giugno, i teatri
dei Chiarella hanno ospitato una sola compagnia di prosa per una stagione
ordinaria, ed è, neppure a farlo apposta, la compagnia di Sichel, che dà
spettacoli dello stesso livello degli spettacoli di varietà. Nel mese di aprile
ci sono state anche altre compagnie, ma per recite straordinarie: Musco, 5
giorni, Talli-Melato, 15 giorni, Novelli, 5 giorni. In questo trimestre i
teatri torinesi hanno accolto in prevalenza varietà e operette: due mesi della
compagnia Maresca, recite della compagnia Lombardo, Città di Milano e Parigi,
poi Petrolini all'Alfieri, cinematografo all'Alfieri, Zambi allo Scribe,
Gabrielli al Carignano, Fregoli e Cuttica al Chiarella. Nei due mesi di maggio
e giugno, solo 10 recite di una compagnia di prosa rispettabile, se non
primaria, la compagnia di Tina Bondi.
Il signor Chiarella dice che lo abbiamo tacciato
di affarista. Egli è semplicemente un uomo d'affari, che trova nel monopolio il
metodo piú sicuro di raggiungere i suoi fini. Gli affari in regime di monopolio,
si deformano fatalmente, cosí come si sono deformati quelli della sua industria
teatrale. Il monopolio è portato persino a distruggere dei valori economici, e
fa sviluppare delle forme contorte e dannose di speculazione: dannose,
s'intende, per la collettività, non per il capitalista, e per questo non
dannose solo immediatamente. Il trust del consorzio teatrale ha già
escluso dai teatri di Torino Ermete Zacconi; ora anche Emma Gramatica è caduta
in ostracismo. Per esso le compagnie di prosa si vanno lentamente disgregando,
perché, se vogliono vivere e lavorare, devono passare sotto le forche caudine
dei patti, delle ingerenze, dei repertori, che il consorzio impone. Il teatro
ha una grande importanza sociale: noi ci preoccupiamo della degenerazione di cui
è minacciato per opera degli industriali, e vorremmo reagire, per quanto ci è
possibile, a essa. C'è un gran pubblico che vuole andare a teatro: l'industria
lo sta lentamente abituando a preferire lo spettacolo inferiore, indecoroso, a
quello che rappresenta una necessità buona dello spirito.
Dato questo nostro atteggiamento, preghiamo il
signor Chiarella di credere che non vogliamo affatto contribuire a spingere
alla requisizione dei suoi locali. Ci pare che sia la sua ditta stessa a
offrire l'occasione di una misura del genere. Il Balbo, il Torino, il Vittorio
furono requisiti appunto perché da un pezzo non si aprivano piú a spettacoli
teatrali degni del nome. Il teatro Vittorio, gestito dai Chiarella, si chiuse
il 23 ottobre dopo una stagione teatrale del circo equestre Bisini e fino al
giorno della requisizione si aprí solo a lunghissimi intervalli per qualche
spettacolo lirico secondario. È questo il pericolo dell'industria
monopolizzata: essa fa affari, anche svalorizzandosi in un certo mercato, anche
distruggendo i suoi valori: se ne rifà in altri mercati, senza preoccuparsi del
disordine che crea, delle tendenze morbose che determina. E non c'è modo di
farlo con mezzi economici. Saremmo lieti se a qualcosa servisse la protesta dei
giornali. Che se poi il trust Chiarella desidera che si parli delle
concessioni fatte per gli spettacoli di beneficenza noi non avremmo alcuna
difficoltà: solo che il discorso sarebbe lungo e... pericoloso!
(4 luglio 1917).
Ancora i fratelli Chiarella. Il signor
Giovanni Chiarella ci invia una seconda lettera di recriminazioni che non
riescono a far mutare le nostre convinzioni. Egli vuole che si faccia notare ai
nostri lettori che le compagnie Musco e Novelli continuavano nel mese di aprile
corsi di recite iniziati nel mese di marzo, cosí che non appaia che essi siano
venuti a Torino per soli cinque giorni. Desidera pure che sia ricordato che la
compagnia Talli nello stesso aprile tenne 28 serate. Ciò non toglie
naturalmente che nei due mesi di maggio e giugno i teatri dei Chiarella abbiano
accolto in prevalenza spettacoli di infimo ordine, mentre a Milano, a Roma, a
Bologna, a Firenze, contemporaneamente, la vita teatrale aveva ben altro
svolgimento. Non fummo i soli a osservare il fenomeno: altri giornali di Torino
ripeterono le cose da noi scritte.
Quanto all'opera deleteria del trust, il
Chiarella si appella ai capocomici italiani. Perché appaia però che le nostre
osservazioni non erano campate in aria, riportiamo un brano della lettera
aperta con cui Marco Praga, presidente della Società italiana degli autori, ha
indetto un convegno di capocomici per il 9 luglio:
«Piú voci sono giunte a noi, e voci degne d'essere
ascoltate, sia che venissero dai piú eletti e dai piú umili.
«Dicono alcuni capocomici: s'è formato uno stato di
cose pel quale l'esercizio della nostra industria è reso troppo difficile,
troppo rischioso, se non addirittura impossibile. Ci sono imposti contratti
stranamente onerosi. C'è chi s'immischia nella formazione delle compagnie,
senza diritto. Il giro delle compagnie è forzoso, ed è subordinato non
all'interesse dell'arte e dell'industria teatrale, ma a quello soltanto di chi
tiene in suo potere l'agibilità e la disponibilità dei principali teatri nelle
città principali. E aspre polemiche e dibattiti dolorosi si sono svolti, su
questo argomento, né ebbero ancor fine.
«Dicono i comici: lunghi anni di lotta ci avevano
fatto ottenere equi patti di scritture, con l'abolizione di certe clausole
viete e sommamente pericolose per noi, e la concessione di tali garanzie che ci
assicuravano un pane modesto dandoci quella tranquillità di vita che è
indispensabile al miglior esercizio dell'arte nostra. Ed ora d'un tratto, tutto
ci fu ritolto; e ci fu ritolto in un momento grave della vita nazionale, in un
periodo di crisi quale mai fu attraversato dal teatro italiano. O vivere di
ansie e di stenti, o disertare, per rifugiarsi su quella scena muta che non può
dare soddisfazioni al nostro amor proprio, ma che ci offre un pane meno incerto
e meno duro.
«Dicono alcuni proprietari o conduttori di teatro:
Non è manía di monopolio che ci guida, non è manía di accentramento in nostre
mani della industria teatrale, e non è un'egemonia a nostro solo profitto che
noi vogliamo creare. Ma è il desiderio e il bisogno di disciplinare l'esercizio
di questa industria teatrale, disciplina dalla quale non possono derivar danni,
ma, anzi, debbono scaturire maggiori fortune per l'arte.
«E dicono, infine, altri proprietari o conduttori
di teatro: Noi potremmo e vorremmo offrire condizioni contrattuali piú
favorevoli ai capocomici, e non temeremmo la leale concorrenza fra teatro e
teatro di una stessa città. Ma per ragioni troppo evidenti dobbiamo seguir la
corrente, dobbiamo uniformarci alle disposizioni o ai consigli di chi ha in
mano la maggior somma degli interessi teatrali, né possiamo agire se non con il
consenso e per il tramite delle agenzie».
Del resto basterebbe ricordare le lettere che
Ermete Zacconi (cui pure il Chiarella si rivolge nella sua lettera) ha inviato
ai giornali in varie occasioni, e la recente campagna degli organi
giornalistici del trust contro Emma Gramatica.
È questo che a noi importa piú di tutte le
statistiche, di tutti i calendari che il Chiarella volge a suo favore, non
potendo smentire i fatti che a Torino si chiamano Petrolini, Bambi, Cuttica,
Spadaro, Gabrielli, nello stesso tempo in cui nelle altre città si chiamano coi
nomi delle compagnie drammatiche. Che i Chiarella cerchino di armonizzare il
desiderio di non essere in deficit, con l'esplicazione di un alto ideale
artistico, è cosa che vogliamo vedere nella realtà e non solo nell'affermazione
generica scritta per i giornali. La realtà di questi ultimi due mesi è stata
tale da rendere giustificato l'appunto da noi mosso. Il resto è minutaglia
inconcludente.
Infine il signor Chiarella propone di sottoporre
l'opera da lui prestata per la beneficenza all'esame e al giudizio dei
probiviri della stampa. Non vediamo l'importanza dell'esame e del giudizio.
Perché il signor Chiarella si tranquillizzi e per evitare un cumulo di beghe e
di fastidi perfettamente pleonastici, siamo disposti a riconoscere che il
signor Chiarella ha fatto tutto ciò che ha potuto fare, come uomo d'affari, per
la beneficenza!!
(8 luglio 1917).
L'industria teatrale. A Milano si sono radunati
a convegno, nei giorni scorsi, i rappresentanti delle tre categorie interessate
all'industria dei teatri: i proprietari, i capocomici di prosa e d'operetta, e
gli scritturati. Il convegno era patrocinato dal presidente della Società degli
autori, per cercare di appianare pacificamente le questioni sorte fra il trust
dei proprietari di teatro e quelli che per il teatro lavorano. Tempo sprecato.
Le questioni non furono appianate, i proprietari non cedettero di una linea: ma
il signor Giovanni Chiarella continuerà tuttavia ad appellarsi alla
testimonianza dei capocomici italiani perché documentino il suo illuminato
mecenatismo.
I capocomici domandavano il ritorno puro e
semplice alle condizioni contrattuali anteriori alla costituzione del trust:
1) abolizione della propina tre per cento sull'introito di ogni spettacolo,
imposta dal trust a favore dell'agenzia Paradossi; 2) abolizione delle
prelevazioni, nel senso che tutti i posti vendibili nei teatri abbiano a
figurare nei bordereaux a comune profitto dei capocomici e dei
proprietari di teatro, eliminandosi l'inconveniente che una parte dell'introito
rimanga a profitto dei soli proprietari; 3) ripartizione proporzionale su ogni
spettacolo dell'ammontare degli affitti annui per palchi e barcacce, affitti che
ora vanno a totale ed esclusivo beneficio dei proprietari; 4) riscaldamento a
carico dei proprietari di teatro; 5) tassa serale a carico dei proprietari di
teatro; 6) per le compagnie d'operetta le spese di orchestra a carico dei
proprietari di teatro.
I proprietari non accettarono nessuna di queste
proposte, sebbene fossero accompagnate da questi due compensi: 1) estensione a
tutti i teatri dell'aumento del 10 per cento sul prezzo dei biglietti dei
palchi e posti distinti già praticato in molti teatri e devoluzione
dell'aumento a esclusivo vantaggio dei proprietari per compensarli
dell'aumentato prezzo del carbone e dell'aumentata tassa teatrale; 2) riduzione
del 5 per cento della percentuale sugli introiti serali devoluta finora ai
capocomici. I proprietari invece fecero delle controproposte che miravano a far
sorgere degli attriti fra capocomici e scritturati. Non vi riuscirono. Se il
convegno è servito a qualcosa, è perché ha determinato un avvicinamento tra le
tre categorie che sono direttamente danneggiate dal trust: gli autori, i
capocomici e gli scritturati. I capocomici hanno concesso agli scritturati un
nuovo contratto di locazione d'opera, contratto unico, paga annuale senza
stagioni morte.
Certo non basterà questo principio d'accordo per
scompaginare il trust e ovviare alla sua azione, deleteria per l'arte, e
strozzinesca in confronto di quelli che lavorano. Il trust ha
possibilità di rivalsa, contro le quali solo lo Stato potrebbe intervenire.
Esso può boicottare subdolamente gli artisti drammatici, e aprire i suoi locali
solo al cinematografo, a Petrolini, a Cuttica, a Gabrielli. Il signor Giovanni
Chiarella si è fieramente adirato quando noi abbiamo constatato i primi effetti
dell'industrialismo monopolistico a Torino. Le stesse cose scrivono ora, dopo
l'esperienza del convegno di Milano, anche altri giornali. E usano precisamente
quel linguaggio, per il quale il Chiarella ha creduto che lo si tacciasse di
volgare affarismo. Riportiamo un brano di uno di questi articoli, scritto in un
giornale, che, caso bellissimo, mentre è protezionista per l'industria
propriamente detta, è liberista e avversario dei monopoli per l'industria
teatrale, l'unica che studi e svisceri con criteri non amministrativi:
I proprietari di teatro sono riuniti in consorzio
su basi commerciali e industriali: essi tutelano i propri interessi
esclusivamente: dell'arte se ne infischiano. Pensar che a un tratto questa
gente si trasformi in un'accolta di mecenati o di persone che si accorgano di
non speculare su delle scarpe, sarebbe ingenuità.
Il consorzio oltre aver determinato anche nei
teatri di provincia non consorziati aumento di prelevazioni, e aver fatto
salire il prezzo dei teatri, finisce col tutelare male anche i propri interessi
spinto da necessità insite nella sua natura.
Esso infatti, smanioso di accaparrarsi quanti piú
teatri gli è possibile, è diventato e diventa proprietario di teatri di secondo
e terz'ordine, che non rendono niente, e che rimangono chiusi gran parte
dell'anno. E allora escogita quei mezzi balordi del cinematografo, dei
visionisti, degli spettacoli sportivi, dei vari Petrolini, in modo da
diminuirne anche la secondaria importanza, di sviarne il pubblico, di ridurli a
dei locali buoni a tutto, come le sale superiori dei caffè: per nozze,
banchetti, feste da ballo e altro. Anzi, è precisamente un criterio da
caffettiere che ispira il consorzio, il quale è sempre in caccia del genere o
dell'individuo che piace al pubblico e domani – logicamente – farebbe qualsiasi
qualità di spettacolo se non ci fossero i vincoli delle leggi sulla moralità,
sul giuoco e su altre miserie. È facile intuire in quali condizioni si trova
l'arte drammatica alla mercé di costoro.
Tolte due o tre compagnie favorite, perché
attirano gente, le altre che pure l'attirerebbero se potessero recitare durante
le stagioni migliori, sono forzatamente escluse da ogni possibilità di far
bene; e siccome raramente il valore commerciale coincide col valore artistico,
il consorzio favorisce il primo a tutto danno del secondo? Senza contare poi che
esso grava sui capocomici in modo da rendere loro difficile la gestione della
compagnia e da determinarli a rappresentazioni solleticanti i piú volgari gusti
del pubblico, anche nei teatri frequentati da persone colte, intellettuali e
pronte a qualsiasi visione di bellezza.
(17 luglio 1917).
Continuazione della vita. Entrare e uscire.
Bisogna abolire le due parole. Non si entra, né si esce: si continua.
Incomincio ad ammirare il genio industriale dei fratelli Chiarella. Incomincio
a credere che i loro criteri siano gli unici criteri possibili a Torino. Torino
ha il teatro che si merita: esso è lo specchio della sua anima, della sua vita.
Sichel, che si maschera da cretino, e ripete
sempre lo stesso gesto, e ripete sempre la stessa frase idiota, e tuttavia fa
sganasciare di giocondità, è la persona seria, è il pater conscriptus,
è il commendatore Usseglio della vita torinese. Non basta il consiglio
comunale: al Carignano hanno aperto la succursale. La finzione conquista la
vita: non c'è piú finzione e vita, c'è solamente la gelatinosa realtà torinese,
e tutto diventa bigio, tutto diventa piatto e volgare.
Cirano diventa il cav. Serafino Renzi. Hanno
riaperto il teatro Balbo perché Cirano si ripresentasse in questa sua ultima
truccatura. Il giocoliere si è vestito da Cirano, e sbava poesia e agita il
pennacchio. È il Cirano da Porta Palazzo, è il Cirano che scrive sui giornali,
che ogni giorno si arrovella il piccolo cervello da pulce castrata, e inventa
nuove trame e scopre, smente, riconferma nuovi colloqui, e nomina nuovi
generali ai 55 barabba, e gira su se stesso, orgoglioso e ammirato del suo
roteare. Cirano dello Scribe, Cirano del cav. Renzi, sotto il pennacchio, sotto
la volgarità del tuo ultimo trucco, tu continui le gesta di Francesco Rèpaci,
continui le gesta di Mario Gioda. Hai anche tu aperto una succursale a Porta
Palazzo, ti vedremo passeggiare al chiaro di luna in compagnia del cav.
Bonvito, la tua Rossana, e sbavare lunghi racconti di intrighi romanzeschi, e
dare prove di complotti e poi soffregarti le mani soddisfatto: provino che non
è vero, provino che è inventato. Povero Cirano quanto schifo per la tua
finzione, e per la tua vita sdrucciolata nelle lubricità delle latrine
follaiole. I fratelli Chiarella hanno veramente del genio. Ti hanno preso per
il naso e ti espongono nella loro vetrina: sanno fare i loro affari: Torino,
hai il teatro che ti meriti.
Sichel, Renzi, il Trovatore, i Pagliacci,
l'operetta tutta da ridere: realtà gelatinosa: lo sberleffo e il gemito
sentimentale, la finzione della falsità inzuccherata e la vita dei tuoi
angiporti: Cirano che dà il braccio al questurino, il libertario che scrive
l'apologia del deputato commissario di polizia. Il teatro non è che la
continuazione della tua vita, e la tua vita è tutta nel libro nero della
polizia.
(11 settembre 1917).
Contrasti. Una cavallerizza, una moglie
adultera, una fanciulla ingenua, un marito sordo e grottesco, due giovanotti
eleganti e stupidi, un imbroglione foderato di tutte le grossolanità. I sette
personaggi giocano a rincorrersi, a infinocchiarsi reciprocamente: dicono una
infinità di scempiaggini, la loro vita è tutta una scempiaggine. Sichel e soci
ripetono molto bene le scempiaggini: le ripetono con tanta sicura medesimezza,
che si comprende benissimo non sarebbero capaci di ripetere altrettanto bene le
cose intelligenti. Si annega nella sciocchezza. Un'atmosfera palpabile di
bestialità si forma nella sala dell'Alfieri: promana dai visi ridenti, dagli
occhi lucidi, dalle brevi e nervose risate degli spettatori: si diffonde grossa
e pesante dagli attori, dal palcoscenico. Neppure un brivido di umanità, di
spiritualità. Eppure questi spettatori non sono dei grezzi ammassi di carne e
ossa fasciati di epidermide. Si commuovono, hanno la possibilità di
commuoversi. Negli intervalli, aggruppati nella breve saletta dei fumatori,
ammutoliscono, impietriscono, si schiacciano contro le pareti per lasciar che
un giovane passeggi, con gli occhiali neri, in divisa, barcollante al braccio
di un amico, incerto delle relazioni di spazio, come lo è ancora chi è
sprofondato nel buio da poco, con le pupille abbruciate da uno scoppio di gas
esplodenti, da un soffio di gas velenosi. Un velo di malinconia impallidisce
questi spettatori, essi possono sentire l'umanità, possono comprendere il
dolore, possono atteggiare il volto alla serietà, possono sentirsi velare gli
occhi di cupa tristezza. Eppure, quando il velario si apre, e le ridicole
caricature di uomini e di donne del palcoscenico riprendono a mettere in azione
la loro macchina, i volti si distendono alla gaiezza ebete, e l'atmosfera di
bestialità si aggrava e appesantisce. Le scempiaggini si rincorrono, si
ammucchiano in immondezzai colossali, traboccanti goffamente. La gagliofferia
ha il sopravvento assoluto sulla intelligenza, dilaga negli applausi, si
approfondisce in risatine di compiacimento: continua a perseguitarci nei vapori
putridi della sera, nelle nebbiosità dell'autunno che si avvicina.
(3 ottobre 1917).
«Cosí è (se vi pare)» di
Pirandello. La verità in sé non esiste, la verità non è altro che
l'impressione personalissima che ciascun uomo ritrae da un certo fatto. Questa
affermazione può essere (anzi è certamente) una sciocchezza, un pseudogiudizio
emesso da un facilone spiritoso, per ottenere con gli incompetenti un successo
di superficiale ilarità. Ma ciò non importa. L'affermazione può dare luogo a un
dramma lo stesso: non è detto che i drammi succedano per ragioni logicissime.
Ma Luigi Pirandello non ha saputo trarre dramma da questa affermazione filosofica.
Essa rimane esteriorità, essa rimane giudizio superficiale. Dei fatti si
svolgono, delle scene si susseguono. Non hanno altra ragion d'essere che
questa: la curiosità pettegola di un piccolo mondo provinciale. Ma neppure essa
è una vera ragione, una ragione necessaria e sufficiente di dramma; e non è
neppure motivo a rappresentazione viva e artistica di caratteri, di persone
vive che abbiano un significato fantastico, se non logico. I tre atti di L.
Pirandello sono un semplice fatto di letteratura, privo di ogni connessione
drammatica, privo di ogni connessione filosofica: sono un puro e semplice
aggregato meccanico di parole che non creano né una verità, né una immagine.
L'autore li ha chiamati parabola: l'espressione è esatta. La parabola è un
qualcosa di misto tra la dimostrazione e la rappresentazione drammatica, tra la
logica e la fantasia. Può essere mezzo efficace di persuasione nella vita
pratica, è un mostro nel teatro, perché nel teatro non bastano gli accenni,
perché nel teatro la dimostrazione è impersonata in uomini vivi, e gli accenni
non bastano piú, e le sospensioni metaforiche devono scendere al concreto della
vita, perché nel teatro non bastano le virtú dello stile per creare bellezza,
ma è necessaria la complessa rievocazione di intuizioni interiori profonde di
sentimento che conducano a uno scontro, a una lotta, che si snodino in una
azione.
La dimostrazione è fallita nella parabola di
Pirandello. La verità in sé non esiste, esiste l'interpretazione che di essa
dànno gli uomini. L'interpretazione è vera, quando di un fatto rimangono tali
documenti da permettere agli uomini di buona volontà la vera interpretazione.
Del fatto che dà luogo alla parabola esistono solo due testimoni-documenti: e i
due sono interessati al fatto, e non appaiono che esteriormente, nell'apparenza
sensibile che si sviluppa da motivi che rimangono inesplorati. In un paese di
provincia arrivano tre personaggi superstiti del terremoto della Marsica:
marito, moglie e una vecchia. La loro vita è circondata di mistero. Il mistero
solletica tutte le curiosità pettegole del paese: si ricerca, si indaga, si fa
intervenire l'autorità. Nessun risultato. Il marito sostiene una cosa, la
vecchia un'altra, uno lascia credere che l'altra sia pazza: chi ha ragione? Il
signor Ponza sostiene d'essere vedovo di una figlia della signora Frola,
d'essersi riammogliato, e di tenere con sé (nello stesso paese, ma in diversa
casa) la Frola
solo per un sentimento di pietà, perché la poveretta, impazzita alla morte
della figliola, crede che la seconda signora Ponza sia sua figlia, sempre viva.
La signora Frola sostiene che il Ponza abbia avuto in un certo momento della
sua vita un oscuramento della ragione: che in quel periodo gli sia stata
sottratta la moglie e che egli l'abbia creduta morta, e non si sia voluto
ricongiungere con lei che in seguito a un nuovo matrimonio simulato, dandole un
altro nome, credendola un'altra persona. I due separatamente sembrano
saggissimi, messi a confronto, devono risultare in contraddizione, sebbene
reciprocamente operino come se veramente uno faccia la commedia per pietà
dell'altro. Quale è la verità? Chi dei due è il pazzo? Mancano i documenti: il
paese loro d'origine è distrutto dal terremoto, chi potrebbe informare è morto.
La moglie del Ponza fa una breve apparizione, ma l'autore preso nell'incanto
della sua dimostrazione, ne fa un simbolo: la verità che appare velata, e dice:
io sono l'una e l'altra cosa, io sono ciò che si crede io sia. Uno sgambetto
logico semplicemente. Il vero dramma l'autore l'ha solo adombrato, l'ha
accennato: è nei due pseudopazzi che non rappresentano però la loro vera vita,
l'intima necessità dei loro atteggiamenti esteriori, ma sono presentati come
pedine della dimostrazione logica. Un mostro pertanto, non una dimostrazione,
non un dramma, e come residuo, del facile spirito e molta abilità scenografica.
Hanno interpretato i tre atti la Melato, il Betrone, il
Paoli, il Lamberti con molta vivacità e abilità dialogica. Pochi applausi a
ogni chiusura di velario.
(5 ottobre 1917).
Annibale Betrone («La Satira e Parini»
di Ferrari al Carignano). Annibale Betrone ha scelto, per la sua serata,
la commedia di Paolo Ferrari: La satira e Parini. Scelta poco felice. Se
un significato possono avere queste serate speciali, esse lo hanno per il fatto
che l'attore beneficiato può scegliere nel repertorio – spesso imposto da
necessità industriali, e dal particolare cattivo gusto imperante – quel lavoro
che meglio si confà con la sua preparazione, con la sua indole, con le sue
qualità piú intime, può scegliersi egli stesso la interpretazione piú aderente
alla sua personalità e questa esprimere nel modo piú adeguato, come non è dato
sempre di poter fare. Nella commedia del Ferrari un solo personaggio ha vita
artistica propria, peculiare, il marchese Colombi. Parini è un incidente, è un
personaggio esteriore, sebbene il suo nome appaia nel titolo e la sua persona
ritorni spesso sulla scena. Parini è un pretesto, un meccanismo scenico, che
serve a determinare un intreccio, ma non ha vita propria, drammatica. Parla e
opera secondo uno schema, come un po' fanno tutti gli altri personaggi,
eccettuato uno solo, il marchese Colombi, che diventa cosí il vero centro
artistico della commedia, l'unica giustificazione artistica della commedia.
La beneficiata del Betrone è diventata cosí invece
la beneficiata di Giulio Paoli, per la logica stessa delle cose. Perché un
attore sia artista in atto è necessario che le sue possibilità interpretative
si sostanzino di vita reale artistica. Il Betrone non poteva trovare questa
vita nel personaggio di Giuseppe Parini. Le sue possibilità non potevano che
rimanere esteriori, forma senza sostanza, cioè pura ipotesi, sforzo di
immaginazione, non plasticità. Un po' di declamazione, nessuna interiorità. Un
vero peccato. Perché la serata di Annibale Betrone potrebbe sempre essere una
vera manifestazione d'arte, perché il Betrone è attore tale da realizzare, in
una opera d'arte, una interpretazione perfetta. Le rappresentazioni solite, di
ogni giorno, non dànno mai occasione a una espressione di sé completa. Sono
frammentarie, incerte, provvisorie: le abitudini del teatro italiano obbligano
gli attori a una varietà di interpretazioni che non può non essere a danno
della profondità, della compiutezza. C'è sempre un po' di dilettantismo, di
nomadismo, di improvvisato nei nostri attori. Le elaborazioni minuziose,
capillari, sono ignorate. L'intuizione può supplire in parte, ma non riesce mai
a dare quella pastosità intensa di luci che dà la preparazione, il lavorio
critico.
Nel Betrone c'è l'intuizione vigile, pronta, e
anche il senso critico, ma non sempre le due possibilità si incontrano in una
stessa interpretazione. Accade che il senso critico debba applicarsi a
personaggi vuoti di sostanza artistica, e l'interpretazione non sia che virtuosismo
esteriore. E accade che un carattere sia interpretato a grandi linee, nel suo
complesso, ma manchi all'interpretazione lo studio dei particolari che fa
gioire di ogni parola, di ogni cenno, perché in ogni parola, in ogni cenno si
vede un momento di vita, perché sempre si coglie l'anima dell'attore che brilla
e dà valore. Cosí in questa edizione della commedia di Paolo Ferrari non può
apparire dell'arte di A. Betrone che qualche sprazzo inconsapevole, manca la
sostanza che si lasci foggiare, che diventi plastica espressione di vita
drammatica, o completa estrinsecazione di qualità che pure esistono, ma non
riescono a emergere che per incidenza.
(21 ottobre 1917).
«Mimí» di Fraccaroli al Carignano. Mimí,
commedia in tre atti di Arnaldo Fraccaroli, è la sintesi drammatica di un
romanzo di Carolina Invernizio o di H. Malot e di una raccolta di frizzi e
piacevolezze estratta da «Numero» dal «Guerin Meschino». Mimí è una sorella
maggiore di Scampolo, come Scampolo balza fuori, tutta sfumata e senza contorni
precisi, da una infinità di libri popolareschi nei quali al tipo della cocotte,
o a quello della donna fatale viene preferito il tipo della donna di natura,
non ancora guastata dalla società, dal contatto con la vita degli altri. Tipo,
cioè non creatura viva, individuata: cliché letterario, incipriato e
infiocchettato di frasi e di parole che fanno quasi sempre presa facile sul
pubblico grosso, che si bea dell'ingenuità artificiosa, come un vecchio
infrollito si bea delle smorfie e dei capricci ammaestrati di una minorenne che
conosce già alla perfezione l'arte sua. Mimí è un'artista, una pittrice: è una bohême,
amica e compagna di ventura di altri bohêmes. Ha la fortuna di trovare
tutti galantuomini: affamati, ma galantuomini, milionari, ma galantuomini. E
sale, diventa gloriosa, e sempre i galantuomini le allietano l'esistenza. La
guerra ha proprio, nella commedia di Fraccaroli, rinnovato il mondo: il mondo è
un idillio arcadico, soffuso di foglioline di rosa, in ognuna delle quali è
scritto un frizzo per far sempre migliorare il sangue. Mimí anch'ella si
mantiene pura e onesta: sta per cedere, sta per insozzare la natura sua
candidissima in un'avventura, tiratavi piú che altro dal buon cuore, e dal
nobilissimo sentimento della gratitudine, ma non ne fa niente. L'amore vero,
quello che si trova cosí spesso citato nell'«Amore illustrato» e nei melodrammi
del Piave, la distoglie dai mali passi, e la conduce a un ospedale militare
dove il suo bene, arrivatovi proprio caldo caldo, la sospira.
Applausi a ogni atto, sempre piú tiepidi. Il
successo relativo (troppo a ogni modo, e apportatore di nuove sciagure) fu
dovuto all'interpretazione: suggestiva in Maria Melato, misurata, efficacissima
nel Paoli.
(26 ottobre 1917).
«Silvestro Bonnard» di Anatole France al
Carignano. Silvestro Bonnard messo in iscena non è piú il Silvestro
Bonnard di Anatole France. La concretezza della sua personalità non resiste
alla traduzione del romanzo in commedia. La sua vita è nella parola, è
celebrazione di tutta la realtà, e si dissolve nella scena o si colora di
elementi estranei, che cozzano con quelli originari dando luogo a una azione
scenica talvolta trivialissima, priva come è completamente di ogni
spiritualità, pura macchina teatrale che si trascina terra terra. Bonnard, come
Bergeret, come altre creazioni del France, sono concepite liricamente piú che
drammaticamente. Sono momenti polemici dello spirito dell'autore, piú che
disinteressate fantasticherie artistiche. Hanno un qualcosa del Socrate nei
dialoghi platonici, e artisticamente sono definiti, non possono essere
trasportati in una temperie che sia diversa da quella che l'autore, sia pure
arbitrariamente, ha fissato; in quell'arbitrio è l'unica ragione loro d'essere,
quell'arbitrio è la loro giustificazione.
Nella commedia, Silvestro Bonnard diventa un
personaggio da romanzo popolare, un protettore svenevole delle orfane e dei
pupilli. L'ironia corrosiva diffusa nel romanzo, dilegua nella scena: Bonnard
si avvicina ai papà Martin del repertorio di Ermete Novelli e perde quasi del
tutto l'Anatole France. Tuttavia la commedia si è sorretta, pur tra qualche
incidente, grazie specialmente all'interpretazione che del protagonista ha
composto Ruggero Ruggeri.
(8 novembre 1917).
Ruggero Ruggeri. Nel ripensare, prima di
scrivere queste note, le impressioni provate, volta a volta nell'assistere alle
interpretazioni di Ruggero Ruggeri; nel vagliare criticamente gli elementi che
dovrebbero comporre la personalità artistica dell'attore e nell'accostare
questi elementi di giudizio, si arriva a un punto morto. Ogni sintesi è
impossibile. Le impressioni provate volta a volta non contengono in sé un
elemento connettivo che possa servire a saldarle insieme in un giudizio
unitario.
Ruggero Ruggeri è l'attore che recita sempre bene.
Che in ogni interpretazione – anche di cose mediocri o nulle – sa far risaltare
la sua parte, sa farsi notare, sa strappare, a un certo punto, l'applauso.
Ripensandoci, si trova che in ciò consiste il suo talento, e la sua deficienza
di artista.
Gli autori potranno essergliene grati, il pubblico
non deve essergliene grato. E neppure tutti gli autori: gli autori mediocri,
che non sanno dire una parola che valga in sé e per sé, che viva di vita
propria. Ruggeri è l'attore dell'indistinto: conguaglia tutto: il bello e il
brutto diventano uguali attraverso la sua persona, e il bello ne soffre, ne
viene diminuito, non è piú lui. Chi si reca a teatro per divertirsi, per
passare l'ora, può essere lieto di ciò: difficilmente prova una impressione
sgradevole, difficilmente dice d'aver perduto la serata, di non essersi
spassato. Ma lo spasso e il passatempo non sono sensazioni estetiche. Il gusto
gode nel rivivere con l'attore una creazione di bellezza; prova anzi una doppia
sensazione: rivive il fantasma drammatico con l'autore e con l'attore. L'attore
esprime plasticamente il fantasma che l'autore ha espresso verbalmente. È una
doppia creazione, che, quando è perfetta, deve dare una impressione solida,
compiuta, senza residui.
Ruggeri non sa abbandonarsi all'autore, all'espressione
verbale; egli vi si sovrappone. E lo fa sempre allo stesso modo. La duttilità
dell'ingegno gli serve magnificamente. È adusato a tutti i lenocini dell'arte:
possiede la tecnica a perfezione. Ma la pura tecnica è esteriorità: se non si
fonde con gli altri elementi che contribuiscono alla creazione, se non diventa
spontaneità, essa è un impaccio, è una deficienza piú che una qualità buona.
Crea, come appunto in Ruggeri, il conguagliamento, l'indistinto, mentre l'arte
è sempre diversità, distinzione, individuazione.
Per limitare e comprendere la fortuna e il
successo del Ruggeri bisogna porsi questa domanda: è possibile recitar bene
un'opera mancata? e rispondere. La risposta non può essere che negativa, se si
ragiona con criteri artistici. Recitar bene un'opera mancata significa solo che
l'attore è riuscito a costruire un'apparenza di bellezza, che si è servito di
elementi extraartistici, di suggestioni che non hanno affatto a che vedere con
l'interpretazione. Ha isolato qualche elemento a successo, e lo ha dilatato
fino a dar l'impressione di una compattezza espressiva. È il lavoro solito del
Ruggeri. Le commedie e i drammi del suo repertorio sono imperniati su un
personaggio: Lo sparviero, L'avventuriero, L'amico
delle donne, ecc.; gli altri personaggi sono sfumatura, penombra. L'unico
è anch'esso composto di molta sfumatura e penombra, e di pochi sprazzi di luce:
ma questa poca luce finisce con l'irradiarsi in tutto il lavoro, col dargli una
vita fittizia, che dura tra la prima e l'ultima scena, e lascia in fondo la
bocca allappata, e la fantasia inerte.
Ruggeri non sa spogliarsi di questo abito di
virtuosismo neanche quando l'espressione verbale ha tale vita intima da poter
dar luogo alla vera interpretazione, alla traduzione integrale in valori
scenici. Il lavorio di isolamento è trasportato anche alle opere d'arte; anche
esse vengono raffazzonate, snaturate, e il successo che le accompagna è in gran
parte successo fittizio, perché ottenuto con mezzi esteriori alla loro intima grandezza.
Ruggero Ruggeri non è piccola causa del
pervertimento estetico del pubblico di teatro. Egli riesce a dare impressioni
di bellezza e di grandezza anche quando la bellezza e la grandezza lasciano il
posto al lenocinio e alla tecnica, e il pubblico finisce col confondere, col
perdere ogni esatto criterio di giudizio, col ritenere che valgano ugualmente
Bernstein e Shakespeare.
(25 novembre 1917).
«L'elevazione» di Bernstein all'Alfieri.
Le sofferenze e le angosce quotidiane dovute alla guerra hanno fatto diventare
generosi, hanno elevato gli uomini. È il motivo dominante. Le sofferenze e le
angosce non hanno però fatto diventare sinceri gli uomini che non erano
sinceri, e specialmente gli scrittori di teatro. Gli scrittori di teatro,
francesi specialmente, ma anche italiani, avevano creato, per uso industriale,
un mondo fittizio di avventurieri, di donnine allegre, di vecchie intriganti e
di vecchi satiri. Era una riduzione meccanica del mondo, era una visione
artificiosa del mondo, utilissima ai fini del successo, perché offriva una
inesauribile miniera di spunti, di intrighi, di intrecci, non domandava sforzi
di fantasia, non domandava elaborazioni faticose. Il pubblico di scioperati che
affollava i teatri si divertiva e si diverte tuttora a quegli intrighi e a
quelle gaglioffaggini. Si è parlato però troppo di virtú, di sacrificio, di
doveri. Si è dovuto riconoscere, per fini pragmatistici, che la virtú, lo
spirito di sacrificio, il sentimento del dovere, sono ancora radicati negli
animi. Chi si era troppo compromesso con lo scetticismo, chi aveva lasciato
troppi documenti della sua superficialità spirituale, con rappresentazioni
gaglioffe di una vita d'eccezione presentata come tutta la vita, ha cercato una
via d'uscita, ha gridato al miracolo. La guerra ha fatto il miracolo, le
sofferenze e le angosce quotidiane dovute alla guerra hanno fatto il miracolo.
Rimane l'insincerità interiore, rimane la meccanizzazione interiore della vita.
La guerra, moralmente, non fa diventare né generosi, né ribaldi, perché può far
diventare l'uno e l'altro, e non è ancor detto quali siano in maggioranza
questi prodotti, non della guerra, ma delle riflessioni, dei giudizi, delle
esasperazioni, degli entusiasmi che la guerra ha servito a rinsaldare o a
liquefare a seconda degli uomini, della loro preparazione morale, della loro
preparazione umana. La guerra può aver elevato molti o pochi uomini, non ha
elevato E. Bernstein: nel caso nostro non lo ha fatto diventare artista, non
gli ha suscitato una fantasia creatrice. Egli è rimasto ciò che era ieri: un
abile scrittore di teatro, un abile alchimista di parole. La guerra non può far
diventare poeta un mercante di parole: può dare semplicemente uno spunto nuovo,
può suggerire diversi accostamenti di parole: la macchina generale rimane la
stessa. C'è un marito vecchio, che è uno scienziato, ed è un religioso della
volontà, che opererebbe cosí come opera anche senza il fattore guerra: sarebbe
in qualche istante meno retorico, e forse neppure, perché tutto può diventare
retorica.
È il personaggio piú completo, questo vecchio
scienziato, che non uccide la moglie adultera, che riesce a dominarsi anche in
momenti che si è abituati a vedere tragici in sé e per sé. Gli altri due
personaggi sono sbiaditi: le troppe parole che dicono non bastano a
circoscriverli: anzi quanto piú parole sublimi pronunziano, tanto piú essi
disperdono la loro personalità, che si generalizza e dilegua nell'indistinto.
Il soldato ferito, moribondo, «elevato» dalle sofferenze e dalle angosce,
morirà: è una grande fortuna per l'autore, perché presentare dei grandi
moribondi, è piú facile che rappresentare dei piccoli vivi che dimostrino
quotidianamente, nelle piccole cose specialmente, la loro elevazione.
L'artificio è troppo visibile per chi non abbandona l'abito critico sul
limitare del tempio grandioso della retorica neanche nei momenti di piú
infuocata esasperazione sentimentale.
Il dramma di Bernstein è il solito dramma del
terzetto classico: l'anima vecchia, non «elevata» dell'autore, ha bisogno della
catapulta di guerra per credere davvero che ci siano uomini e donne capaci di
compiere il loro dovere. Questo gaglioffismo morale gli imbottitori di crani lo
chiamano «l'anima nuova della giovine generazione».
(28 novembre 1917).
«Il piacere dell'onestà» di Pirandello
al Carignano. Luigi Pirandello è un «ardito» del teatro. Le sue commedie
sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono
crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero. Luigi Pirandello ha il
merito grande di far, per lo meno, balenare delle immagini di vita che escono
fuori dagli schemi soliti della tradizione, e che però non possono iniziare una
nuova tradizione, non possono essere imitate, non possono determinare il cliché
di moda. C'è nelle sue commedie uno sforzo di pensiero astratto che tende a
concretarsi sempre in rappresentazione, e quando riesce, dà frutti insoliti nel
teatro italiano, d'una plasticità e d'una evidenza fantastica mirabile. Cosí
avviene nei tre atti del Piacere dell'onestà. Il Pirandello vi
rappresenta un uomo che vive la vita pensata, la vita come programma, la vita
come «pura forma». Non è un uomo comune questo Angelo Baldovino. È stato un
briccone, è un relitto, secondo le apparenze. Non è, in verità, che un uomo
verso il quale la società ha avuto il torto di essere tale per cui la «pura
forma» è in realtà adeguata al resto della realtà. Il Baldovino si innesta
nella commedia in un ambiente favorevole e vive la sua vita. Diventa il marito
legale di una nobile signorina che è stata resa madre da un uomo ammogliato.
Accetta la parte, ponendosi degli obblighi di onestà, e ponendone agli altri, e
sviluppa il suo pensiero. Diventa subito ingombrante: il suo pensiero si
realizza per sé, ma scombussola tutto l'ambiente e arriva a questo punto morto
preveduto dal Baldovino, ma paradossale per gli altri; è necessario che il
marchese Fabio, il seduttore, diventi ladro, perché la «pura forma» si sviluppi
in tutta la sua logica, e Baldovino appaia essere il ladro, pur rimanendo
accertato per tutti gli interessati che il vero ladro è il marchese, e che non
impunemente si accettano dei contratti in cui la logica e la volontà di uno
deciso a rispettarla, sono elementi essenziali. Arrivati a questo punto di
scomposizione e di dissoluzione psicologica, la commedia ha uno svolto
pericoloso, e un po' confuso. Le reazioni sentimentali hanno il sopravvento: la
bricconeria effettiva del marchese Fabio prende un risalto di una evidenza
umoristica catastrofica, e la moglie putativa diventa moglie effettiva e
appassionata del Baldovino, che non è un briccone o un galantuomo, ma solo un
uomo che vuole essere l'uno e l'altro, e sa essere effettivamente galantuomo,
lavoratore, perché queste parole non sono che attributi contingenti di un
assoluto che solo il pensiero e la volontà creano e alimentano.
La commedia di Pirandello ha avuto un crescendo di
applausi, dovuto alla virtú di persuasione insita nel processo fantastico
dell'intreccio. Ruggero Ruggeri sosteneva la parte del Baldovino, la Vergani quella della
signorina, poi signora Agata Baldovino, il Martelli quella del marchese Fabio.
Col Pettinello e la Mosso
presentarono un insieme interpretativo ottimo, ciò che contribuí a far rilevare
meglio il dialogo serrato e pieno di scorci della commedia.
(29 novembre 1917).
«Il braccialetto al piede» di Veneziani
al Carignano. Carlo Veneziani è un professionista dello spirito. Ogni suo
lavoro è immancabilmente esuberante di spiritosaggini: tanto esuberante che si
finisce per rimanerne stuccati. Il braccialetto al piede, commedia in
tre atti di Carlo Veneziani, è naturalmente tutta una spiritosaggine: dalla
prima all'ultima parola. Ed è anche tutta una goffaggine: succede spesso che i
professionisti dello spirito siano i piú goffi uomini del mondo. Perché essi
sono d'una superficialità esasperante, perché la loro particolare attività
manca di ogni spontanea vivezza. L'espressione è frusta, i personaggi sono
presi dalla cronaca piú banale. Come in questa commedia. Un candidato politico,
avvocato, grande avvocato che si fa preparare da un segretario tutto il
materiale della sua fama. Che vive d'intrigo, che si prepara nelle alcove il
titolo maggiore del successo politico, mentre sua moglie lo aiuta, concedendo
le sue grazie a un vecchio, padrone di un giornale.
E come contrasto a questo vecchio cliché,
un altro cliché piú vecchio ancora: una donna galante, che si è
arricchita oltre oceano, e si addimostra nel vecchio mondo la migliore, fra
tutte le fame usurpate che la circondano.
Una farsaccia legata insieme alla meglio, senza
vita, senza un attimo di comicità, e che è caduta tra la noia e l'indifferenza.
(5 gennaio 1918).
Idea del tempo di guerra («L'amazzone»
di Bataille al Carignano). L'amazzone di Henri Bataille è ritornata
al Carignano nella traduzione italiana. Si è accostata cosí al pubblico nostro,
ha suscitato discussioni e riflessioni: ha avuto e avrà, per quel poco che è
consentito alle opere di teatro, efficacia costruttiva di moralità, di attività
giudicatrice. Il Bataille continua nell'Amazzone il teatro suo anteriore
alla guerra. Rimane uno scrittore moralisteggiante. Non ha, come Bernstein e
altri, cambiato di moda. L'atmosfera della drammaticità è sempre la stessa, se
pure sono cambiate per la guerra le contingenze, i motivi occasionali
dell'azione drammatica. Il Bataille sublima le creature della sua fantasia,
assegna loro un compito e un apostolato: dovrebbero esse superare l'ambiente
morale in cui vivono, essere gli esempi di una umanità migliore, piú spirituale,
in cui gli imperativi categorici del dovere si affermano senza residui. Ma
l'espressione artistica viene contaminata da queste giustapposizioni
volontarie: i personaggi si sbiadiscono, perdono gran parte della umanità loro,
sono bocche da discorsi, simboli in cui si accumulano le esperienze dello
scrittore, ponticelli tra l'autore – che non è filosofo, e non sa dare forma
filosoficamente adeguata alle sue impressioni – e il pubblico, che l'autore
vuole compartecipe dei suoi sentimenti, del suo mondo interiore, che però non
riesce a esprimere intrinsecamente e si adagia piú male che bene, nelle forme
tradizionali della letteratura.
L'amazzone ha un corpo femminile e un nome: Gina
Bardel, ma non è solo una donna. È tutto il complesso delle forze spirituali
che spingono gli uomini alla guerra.
È la materializzazione sensibile dello spirito di
guerra: è la Francia,
è l'idea del dovere, è l'idea del sacrifizio del singolo per la collettività, è
l'energia necessaria per questo sacrifizio [alcune righe censurate].
Cosí come Cecima Bellanger, che nei primi due atti è appunto solo questa
semplice creatura umana, individuo vivo e dolorante, nel terzo atto si compone
in simbolo: è tutto il sacrifizio dell'umanità per la guerra, è la somma di
tutti i dolori, di tutte le lacerazioni, di tutte le lacrime che la guerra ha
prodotto e fatto versare. Questi dissidi tra individui e simboli, tra la realtà
sensibile e l'astrazione ideale contaminano tutto il dramma, lo rendono
artisticamente una raffazzonatura, se pure sapientemente costruita. Ma il
problema spirituale raggiunge il suo completo sviluppo, il fine morale che
l'autore si proponeva di fissare, acquista una concretezza quasi
rappresentativa.
La guerra ha domandato ai popoli ogni sacrifizio,
e specialmente il sacrifizio massimo, quello della vita. Ma la guerra per
ottener ciò ha dovuto incarnarsi in uomini e donne vivi, che la necessità della
guerra hanno predicato, che con la parola, con la dimostrazione hanno
contribuito a suscitare entusiasmo, a inebriare le coscienze, a mettere a
contatto la coscienza individuale con la coscienza universale, a far
dimenticare i doveri individuali per un superiore dovere che si è rivelato
attraverso le loro parole. Milioni d'uomini sono cosí morti, centinaia di
migliaia di famiglie si sono disciolte, centinaia di migliaia di cuori sono
stati inguaribilmente feriti. La guerra finisce: il dovere è stato compiuto, il
sacrifizio è stato consumato. Qual è il destino oramai dei rimasti, ma di
quelli specialmente che hanno incarnato lo spirito della guerra, che hanno
rappresentato la necessità, il dovere, lo spirito di sacrifizio? È il problema
del dopoguerra spirituale che il Bataille cosí si pone e cerca di risolvere. La
vita, la felicità cercano di riattirare a sé questi uomini e queste donne. E
pare che i sopravvissuti debbano avere il compito di rifare il mondo, di sanare
le ferite profonde inferte dalla guerra alla compagine sociale. Ma cosí non può
essere. Predicando la morte, il sacrifizio, quelle creature si sono
indissolubilmente votate alla morte, al sacrifizio. Esse devono rappresentare
un olocausto al carnaio che hanno contribuito – sia pure per necessità, per
alta missione ideale – a determinare.
La vita non deve piú avere un raggio di luce per
loro. Questo destino non è segnato nelle leggi, non può comportare sanzioni per
quelli che tentino eluderlo. È intrinseco, è una necessità interiore. Quando
qualcuno di questi segnati starà per dimenticare, per rientrare nella vita, un
fantasma si drizzerà loro di contro: il fantasma del passato sanguinoso, che
reca l'impronta anche delle loro piccole mani. Sarà una generazione di puri
apostoli del dovere, che si chiuderanno nel chiostro della loro coscienza, che
saranno come un ordine laico di sacerdoti addetto al culto dei morti, le vestali
che dovranno sempre mantenere accesa la lampada dell'ideale, alimentandola del
loro sacrifizio, della loro rinunzia alla gioia e alla felicità.
Questa l'atmosfera morale del dramma. Questo il
fine che il Bataille propone come dovere imprescindibile alle «vergini
guerriere», alle «seminatrici di coraggio», a tutta quella parte di umanità che
si è assunta liberamente e spontaneamente il compito, gravido di
responsabilità, di richiamare gli individui al sacrifizio, al senso del dovere.
Non è un dopoguerra di riposo, di tranquillo riassestamento delle esigenze
della vita. La vita non ricomincia domani per loro, come per i combattenti.
Anzi la vita dei combattenti deve essere per loro la fine della vita,
dell'attività, del fervore per il velo monacale, per il cilicio che strazia le
carni.
Il dramma vale come presentazione della tesi, come
esemplificazione del dovere che dovrebbe germinare spontaneamente nelle
coscienze. Gina Dardel, la vergine guerriera, quando sta per spogliarsi del
cumulo di astrazioni che ha impersonato, e diventare vita sensibile, rinunzia
alla vita. Ha contribuito a fare andare un uomo, molti uomini verso la morte,
ha inebriato di follia, è stata l'immagine necessaria ai cervelli per veder
meglio, per la saldatura tra il reale e l'ideale: il ricordo la riprende, la
incatena, ed essa se ne va verso il suo destino.
La compagnia Tina Di Lorenzo ha dato una
efficacissima interpretazione del dramma che pure non può, per la sua
impostazione, dar luogo a un grande successo.
(10 gennaio 1918).
«Fum e fiame» di Leoni al Rossini.
Lo spirochete pallido del pregiudizio di guerra, nel processo di infezione
letteraria, è arrivato anche al teatro dialettale: Mario Leoni è stato il
veicolo epidemico: i quattro atti di Fum e fiame sono le quattro vittime
piú illustri del morbo. La guerra, come abbiamo piú volte visto, è diventata la
macchina moralizzatrice, la panacea universale, il motivo comodo e redditizio
per una nuova tradizione di «lieti fini».
Prefatto della nuova commedia: Michele, pecora
matta, nella famiglia rusticana di pare Lorens, e stato scacciato di casa, dopo
aver reso infelice sua moglie Nina, ha vagabondato per molti anni all'estero,
ha avuto una figliolina da un suo amore randagio.
Intreccio: Guido, altro figlio di pare Lorens,
giovane esonerato, si innamora della cognata, e le offre un prezioso ventaglio
(il ricordo goldoniano non giova davvero al lavoro di Mario Leoni); Nina, che è
donna di eletta morale, non accetta il regalo galeotto, e il ventaglio passa
nei capaci cassettoni di mare Vittoria. Michele ritorna a casa con la sua
figliolina. Mare Vittoria lo accoglie come tutte le madri immancabilmente
accolgono i figli prodighi: il perdono sarebbe generale, se tra Michele e Nina
non si frapponesse la bimba straniera. Un tentativo di conciliazione avviene
per mezzo dell'infausto ventaglio, che Michele, per suggerimento di sua madre,
offre alla selvatica moglie nel giorno onomastico. Scoppia l'uragano: Nina
suppone intenzioni oltraggiose nel dono: Michele viene a conoscenza del peccato
di pensiero di suo fratello. Un dramma sanguinoso sta per nascere.
Scioglimento: nell'istante in cui i due fratelli
stanno per trovarsi di fronte, l'un contro l'altro armati, suona la belligera
squilla. La classe di Michele viene richiamata alle armi. I cuori feroci si
compongono in serenità. Guido andrà anch'egli in guerra, volontario. Michele ha
la promessa tacita di un coniugale perdono al suo ritorno: Nina si ammansa fino
ad accogliere in sua custodia l'innocente bambinetta. L'orizzonte si colora in
lontananza del roseo matrimoniale: perché anche Guido ha scoperto la vera sua
anima gemella.
Consolazione dei poveri ma onesti genitori che
soddisfatti assistono a queste metamorfosi della loro amata prole.
E la commedia finisce coi soliti applausi a Mario
Leoni che anche quest'anno ha sfornato l'ennesimo suo capolavoro.
(23 gennaio 1918).
«La canzone di Rolando» di Falconi e
Zambaldi al Carignano. Il nucleo drammatico di questi tre atti dovrebbe
consistere in un fatto sessuale. Dovrebbe, ma gli autori non si sono troppo
preoccupati dell'unità, della consistenza del loro lavoro: volta a volta, essi
si sono lasciati sopraffare dagli episodi, dal particolare scenico, e cosí il
dramma si è venuto svolgendo senza nessuna armonia, senza che la molteplicità
dei suoi momenti abbia una profonda ragione di esistenza.
L'intreccio si fonda su un abusato giuoco di
prospettiva: mentre un motivo drammatico si inizia per un personaggio, lo
stesso motivo si conclude e determina la crisi interiore di un altro.
Il conte Rolando D'Astico ha, nella sua
giovinezza, in un istante di ebrietà sconsiderata, violentato una cameriera di
sua madre. L'episodio non ha lasciato alcuna traccia nella sua vita successiva:
egli ha ignorato la donna, il suo destino, le conseguenze di quel momento di
pura animalità irresponsabile. Nei vent'anni che sono trascorsi d'allora ha
avuto tempo di rovinarsi per un'altra donna, di diventare una «macchietta»:
povero, trascurato nell'apparenza esteriore della sua vita di nottambulo
filosofeggiante, vivacchia scrivendo articoli per i giornali, conferenze,
libri. Gli autori lasciano comprendere come egli sia un genio incompreso, un
uomo di grande intelligenza, sebbene ciò non appaia troppo dalla scena, e da
qualche battuta piuttosto povera di umorismo e dalla quale appare solo la mania
da gazzettiere dello Zambaldi di occuparsi di cose che non intende. Ma lasciamo
andare: anche questa non è che una delle tante prove della poca consistenza del
dramma. Il conte D'Astico è un uomo oltre che una caricatura di filosofo, come
non poteva non essere nelle mani di questi autori. Come tale, conosce un
giovanotto, un pittore di belle speranze anch'egli, che è travolto da una
passione ossessionante per una donnetta da poco, una ballerina, una che è
stata, e continua a essere, merce sessuale. Il pittore, Stefano Landi, ha però
avuto una signorina di buona famiglia e l'ha resa madre.
Rolando lo avvia al dovere, alla riparazione
necessaria, e ne ottiene la promessa. Ma ecco che egli stesso viene a sapere di
essere padre, di non avere compiuto il suo dovere, e per di piú viene a sapere
che sua figlia è proprio quella donnetta da poco, quella ballerina che
ossessiona Stefano. Che fare? Quale è ora il dovere? Come deve operare un uomo
che diventa padre per sbaglio, inconsapevolmente, senza che egli sia stato
unito, alla madre del nato, da vincoli spirituali, oltre che dall'accostamento
fisico? Il conte D'Astico non sa rispondere a queste domande. Nessuno dei
personaggi regolari sa rispondere. Stefano Landi, che non ha mantenuto
la promessa, e non ha alcuna voglia di mantenerla, declama una sua interessata
teoria sulla spiritualità dell'accoppiamento. Rolando pare accettarla, ma sua
figlia, non conoscendolo come padre, lo atterra con le istintive parole della
sua femminilità: ella vuole che Stefano sposi la madre del bambino nato da un
istante di stordimento primaverile, e inveisce contro gli uomini che non sanno
quale destino creino a tante vite, inveisce contro suo padre, l'ignoto egoista
che l'ha ridotta la donna di tutti. Cosí avviene che il conte D'Astico,
ammalato di cuore, muoia tragicamente dopo questa crudele scena, senza aver
risolto nulla, e senza aver potuto, nella sua persona, accogliere ed esprimere
il dramma che gli autori, indecisi tra la «macchietta» e la serietà, tra l'episodio
e l'unità, non hanno saputo concretare.
Commossero il pubblico alcune scene di spolvero, e
ciò procurò molti applausi agli autori, ad Armando Falconi come attore, e agli
altri.
(7 febbraio 1918).
«A' berritta ccu li ciancianeddi» di
Pirandello all'Alfieri. È una parentesi nel teatro di Luigi Pirandello, un
episodio, un abbozzo. Rientra nel suo genere, è prodotto autentico del
temperamento personalissimo dell'autore, ma non è stata elaborata, e rifinita
come le altre commedie. Lo spunto stesso ridiventa comune. Nelle altre commedie
il motivo non esce certo dalle esperienze del passato, siano esse
intellettuali, siano sentimentali, ma l'autore svecchia il motivo antico, lo
presenta rivestito di peculiarità caratteristiche, i personaggi sono suoi, della
sua fantasia, le parole che dicono hanno una vita nuova, di stile e di
passione. In questi due atti c'è poca intensità: la dimostrazione soverchia
l'azione, la diluisce, la svanisce. A' berritta ccu li ciancianeddi
continua la serie delle altre commedie, è un residuo delle altre commedie:
continua la rappresentazione esemplificata delle contraddizioni tra l'essere e
il voler essere, tra l'apparenza e la realtà, tra l'immagine e il vero, che
hanno avuto due momenti drammatici nel Cosí è (se vi pare) e nel Piacere
dell'onestà. Ma in questi due atti il sofisma, il paradosso non acquista
pregio nel dialogo, non suscita dramma originale: qualche battuta, qualche
piccola scena, la vita è solo nell'interprete, in Angelo Musco, che riesce a
far superare il tedio delle lunghe parlate non piú interessanti spesso di
quelle del piú melenso scrittore di teatro.
C'è qui il marito tradito, marito vecchio, brutto
e innamorato, che non vuole diventare lo zimbello del paese, che non vuole sul
suo capo la berretta coi sonagli della beffa, dello scherno. Egli sopporta il
tradimento per conservare la donna, poiché è sicuro del segreto. Teorizza lo
sdoppiamento dell'uomo in quanto intimità e in quanto termine di relazione
sociale: vuole il rispetto umano, vuole la tranquillità. Il segreto viene
propalato con uno scandalo clamoroso. La moglie viene colta in flagrante
adulterio. Un tranello è stato teso dalla moglie gelosa dell'adultero, e
l'arresto dei due colpevoli rovinerà l'esistenza di don Nuccio, se egli non
riesce a far credere che si tratta di una pazzia, che l'accusatrice è stata una
pazza. Cosí si chiudono i due atti: il marito becco pone un dilemma: o la
strage dei due colpevoli, sua moglie e l'amante, o la finzione della pazzia
nell'accusatrice, nella donna gelosa che non ha pensato che a se stessa e ha
rovinato un quarto innocente. E don Nuccio ottiene questa finzione
indirettamente, facendo esasperare la donna, traendola a urlare, a inveire
incompostamente e goffamente contro di lui, facendosi chiamare becco dalla signora
che diventa una furia, che perde la sua apparenza civile e lascia senza freni
la vena di follia che esiste in ogni umano.
La commedia si impernia tutta su Angelo Musco, che
riesce colla sua comicità misurata, fluida nel lungo discorso, ossessionata,
irresistibilmente trascinatrice nel momento culminante, a destare l'interesse
degli spettatori, che si raccoglie nei due atti per dilatarsi ed espandersi
nella risata finale.
(27 febbraio 1918).
«La maestrina» di Niccodemi al Chiarella.
Un ramo di pesco entra un giorno nella stanzetta di una maestrina, e la
maestrina ne coglie un frutto mentre il padrone dell'albero, sindaco del
villaggio, conte, e uomo di cuore invano verniciato di scetticismo parigino,
passa sotto la finestra.
Il conte Filippo si presenta alla maestrina in
atteggiamento sguaiatamente spavaldo, si abbonisce dopo cinque minuti di
dialogo, si intenerisce dopo un quarto d'ora, se ne va, dopo mezz'ora, mutato,
galantuomo, buono, ricolmo di tutte le migliori intenzioni, con un principio di
innamoramento. La signorina Maria Bini ha raccontato la storia della sua vita
al conte Filippo, e si è rivelata in tutta la sua dolorante umanità di
sedicenne sedotta da un rustico don Giovanni, madre separata dal frutto delle
sue viscere, imbarcata subdolamente per l'America, ritornata dopo nove anni e
ridottasi a fare la maestra per poter ogni giorno recarsi a un cimitero vicino,
nel quale devono giacere la polvere e le ossa della sua bambina.
Il conte Filippo, abbandonata definitivamente la
scorza esteriore dello scetticismo e del pariginismo conquistatore, si pone
all'opera. Rintraccia il seduttore, un porcospino immorale, dalla cotenna piú
spessa di quella di un cinghiale, che ha mandato in America un mezza dozzina di
minorenni, che, da perfetto farabutto non può non essere immerso in un brago di
maialerie: sua moglie infatti è l'amante del curato, e il curato protegge le
capestrerie del marito della sua amante e allontana dal suo capo i fulmini
della giustizia.
La figliolina di Maria Bini non è morta, sebbene
non sia viva nello stato civile, avendola il padre snaturato privata della sua
identità sociale registrata e autenticata. Vive dunque, veste panni, e
frequenta la classe proprio dove sua madre è maestra. Ma quale bimbetta sarà dessa?
Il mistero dà luogo a una scena impeccabilmente commoventissima, nella quale si
contempla la signorina Maria Bini che abbraccia freneticamente un mucchio di
testine bionde e brune, tra le quali non può non esserci la testina di una
figlia del mistero, del peccato, e della delinquenza piú snaturata e cocciuta.
Il seduttore Giacomo Macchia sta ritto,
cinicamente indifferente e muto, innanzi al conte Filippo. Nega tutto, lo
sciagurato impudente. Un articolo di codice, un mandato di cattura per
manomissione di stato civile, un delegato di P. S. che pronunzia le
sacramentali parole: in nome della legge, vi dichiaro in arresto. Giacomo
Macchia la molla. La bambina viene identificata. Ella si presenta alla mamma
sua e pronunzia alcune di quelle frasi innocenti che fanno cosí bene al cuore
dopo aver visto sbavare un rettile del volume e della lunghezza di Giacomo
Macchia. Maria Bini rimarrà con la sua creatura, e il conte Filippo sarà il
loro angelo tutelare, non avendo potuto essere il rispettivo consorte e padre
adottivo.
Tre atti: autore, Dario Niccodemi: titolo La
maestrina, interpreti: Tina Di Lorenzo e Armando Falconi, nelle due parti
principali, il Migliara e la
Donadoni in due parti secondarie. Metodo per la mozione degli
affetti: il vecchio metodo bernsteiniano di far culminare l'atto in una scena
patetica che ammollisce il cuore. Molta maestria teatrale: nessuna traccia
d'arte, e quindi moltissimi applausi.
(28 febbraio 1918).
«Il nuovo falco» di Teglio al Carignano.
Il signor Paolo Teglio voleva scrivere una commedia, e voleva che essa fosse
originale. Il signor Paolo Teglio, pensa e ripensa, scoprí che fra i tanti
ingredienti che la vita e la società pone a disposizione degli scrittori,
l'aeroplano non era ancora stato convenientemente sfruttato. Il signor Paolo
Teglio decise allora di scrivere una commedia in cui entrasse l'aeroplano. Ma
l'aeroplano è un meccanismo che non parla e non si muove senza che uno o piú
uomini lo mettano in movimento e lo facciano diventare oggetto di drammaticità
(almeno nell'apparenza) di azione, di passioni, di contrasti. L'aeroplano,
insomma, si rivela come una pura esteriorità, che in un lavoro drammatico ha la
stessa importanza delle sedie, degli alberi, delle pareti di una stanza, delle
scarpe che i personaggi riempiono con i loro arti inferiori. Ma il signor Paolo
Teglio aveva appreso molte parole che si riferiscono all'aeroplano e alle sue
funzioni, aveva persino imparato il grido di guerra degli aviatori: Eja, eja,
alalà. Probabilmente il signor Paolo Teglio è un aviatore, o almeno ha provato
le emozioni del volo, e perciò crede che di per sé l'aeroplano possa destare
negli spettatori di una commedia quell'empito fuso e vago, fatto di brividi
carnali e di fantasticheria astratta, che deve provare chi si solleva dalla
terra affidandosi a un fragile strumento meccanico. Certo è che nella commedia
manca ogni altra drammaticità, ogni azione, ogni movente di azione. C'è un
intreccio, ma esso rimane pura successione di scene e dialoghi, senza anima,
senza interiorità. Un ingegnere che è stato rovinato da un giovinastro
scioperato, e inventa un nuovo aeroplano: un giovinastro scioperato che, dopo
commessa una grave colpa, viene toccato dallo spirito del bene e diventa
pilota, e si redime. Una signorina che all'insaputa del papà, accompagna il suo
amico nei voli e, coi capricci, riesce a farsi condurre a bordo anche per il
volo di prova della nuova macchina inventata dal papà e guidata dall'amico
convertito al lavoro e all'attività buona. Il nucleo di ogni scena, di ogni dialogo
è sempre e solo: l'aeroplano, il volo, che sostituisce la continuità
drammatica, che determina un'unità fittizia e puramente esteriore. La commedia
è condotta sul canovaccio di una pochade: l'elemento sensuale è
sostituito dalla declamazione eroica o letteraria, ma l'impostazione è la
stessa: una macchina, non l'interiorità passionale, un susseguirsi di scene,
non l'azione, declamazione letteraria piú o meno, non espressione spirituale.
Il pubblico ha fatto giustizia dei tre atti del signor Paolo Teglio senza molti
sforzi e con molto tedio.
(8 marzo 1918).
«Don Cecè Sferlazza» di Barbiera
all'Alfieri. È la storia di una beffa, che culmina anch'essa in una
mangiata, come tutte le beffe classiche. Ma il Barbiera non è un poeta come Sem
Benelli: e don Cecè non è Giannetto. Don Cecè è uno scrocco, una macchietta da
villaggio siciliano, che i «galantuomini» del paese nutrono, e fanno diventare
assessore, perché se ne divertono, perché egli li sollazza con le sue
millanterie e i suoi pettegolezzi. La burla è fiera: don Cecè si crede
cavaliere, crede di aver conquistato una primadonna di Guittelemme, e si
vendica, fieramente anch'egli: una fischiata alla primadonna, un pignoramento
per mano d'usciere al rivale in amore, una sommossa delle legittime consorti per
gli altri beffatori. Don Cecè è Angelo Musco: i tre atti sono farseschi, senza
pretese di successi letterari.
(13 marzo 1918).
«Dèi e cicisbei» di Guglielminetti al
Carignano. Due statue settecentesche acquistano vita e movimento per
partecipare a una festa mascherata del secolo delle crinoline. Scendono dai
loro piedistalli, si confondono tra gli invitati. Si confondono? Ohibò, esse
non possono affatto confondersi. I due esemplari del secolo dei lumi, nel
trasformarsi da frigido marmo in carne e ossa, sono passati per la fantasia di
una poetessa moderna ed hanno subito qualche leggera truccatura: essi diventano
gozzaniani. Nella fantasia di un artista probabilmente i due sarebbero saltati
vivi, agili, pieni di nervi e di vitalità carnale, da una pagina di Giacomo
Casanova. Nella fantasia di Amalia Guglielminetti essi diventano due teneri
calamaretti intrisi di bianca farina, che a gara vogliono ognuno saltare per il
primo nella bastardella di una moderna friggitoria. Essi appartengono a quel
fantasioso settecento di maniera col quale scherzò argutamente Guido Gozzano.
Ma il Gozzano metteva nei suoi leggeri fantasmi un sorriso arguto, una
tenerezza ironica di superiorità spirituale: egli era quel settecento, erano i
suoi sogni, la sua sensibilità, che fioriva diafana e anemica in versi di
rimpianto scherzoso, in tenere figurine ritagliate con pazienza su vecchia
carta da tappezzeria. La
Guglielminetti prende sul serio la sua finzione, e il secolo
dei lumi rivive in versi inzuccherati che sono davvero vecchia ammuffita
tappezzeria, in cui sono state tagliate delle marionette che hanno la pretesa
di vivere da sé, senza sorrisi ironici, povere figurine che nessun giuoco
spiritoso fa muovere, che nessuna melanconia profonda sono riuscite a far
intenerire.
Vogliono impartire una lezione di galanteria le
due statue redivive: fanno sul serio, e i loro discepoli moderni sono anche
essi di una furibonda serietà: immaginatevi che anche essi facciano i moderni
per partito preso, pur senza giungere alle esagerazioni americane, e poi
pensate al contrasto. Quale contrasto, mio Dio, e come sono infelici i moderni!
A che serve poter volare, disporre del telefono e dell'automobile? Manca la
grazia e il saper fare, manca la parola che fiorisce nel madrigale e nel
ghiribizzo. E hanno terribilmente ragione le due statue parlanti: esse stesse
sarebbero state diverse se Amalia Guglielminetti non fosse una moderna
letterata, che prende troppo sul serio i modelli letterari: sarebbero
vivificati dalla spiritualità, la divina Ironia avrebbe con pochi tratti finito
la loro mascheratura: e in quei pochi tratti avrebbero avuto la loro ragion
d'essere, la loro poetica necessità, poveri calamaretti intrisi di bianca
farina, condannati a ballare in una bastardella di moderna friggitoria.
(14 marzo 1918).
«Il contravveleno» di Martoglio
all'Alfieri. Ricordate il ragionamento col quale don Ferrante dimostra nei
Promessi Sposi che il contagio non può essere causa della peste? Don Ferrante è
un logico serrato, e il suo ragionamento non fa una grinza. Dal contrasto tra
la realtà e il ragionamento scoppia irresistibile la comicità del personaggio
manzoniano, che muore di peste, persuaso però sempre che in essa non entri il
contagio. Un personaggio della stessa comicità sembrava che il Martoglio avesse
introdotto nella sua commedia il Contravveleno. Nel primo atto don
Procopio ha davvero un qualcosa di manzoniano: egli ragiona del colera, dei
microbi, del contagio, con la stessa serietà scientifica di don Ferrante. Ma,
in complesso, ha una nozione del fenomeno epidemico che si avvicina alla
realtà. Gli manca però la precisione e l'esattezza nella descrizione, che è
sostituita dalla fede nel sapere e nella cultura moderna. Il pubblico cui si
rivolge, per illuminare e scacciare la superstizione, è refrattario, non
comprende neppure gli elementari concetti, e don Procopio si avvolge in una
matassa di parole strambe, che vengono sfigurate ancora e contorte. Il primo
atto è prolisso, esagerato farsescamente nei particolari, eseguito in fretta e
senza alcuna cura, ma pure riesce a porre in rilievo questo personaggio, a
fargli iniziare un'azione che pare debba continuare. Resisterà la scienza di
don Procopio alla suggestione del mondo che lo circonda, soccomberà o trionferà
egli, nella sua coscienza, della superstizione dell'ambiente? Estenuato da un
digiuno troppo lungo, egli divora avidamente un cibo indigesto e pesante, beve
un po' di vino: l'inedia soddisfatta brutalmente lo fa vacillare, lo
intorpidisce: si grida al sortilegio, al colera trasmesso per magia. Ma nei due
altri atti, non è questo don Procopio che riappare: l'autore non perseguiva un
fine artistico, non voleva suscitare comicità di caratteri umani. La commedia
si sviluppa (!) e si conclude come una farsa, e in don Procopio è uno dei tanti
miserabili affamati, azzeccagarbugli, ottimo cuore, bocca di spropositi banali,
che appare. La commedia è via vai di scene, di dialoghi scuciti, che possono o
non valere per sé, ma non concretano una unità poetica; trionfa la prolissità,
la sconnessione del primo atto senza che abbia sviluppo il motivo organizzatore
che in esso era contenuto.
I tre atti sono stati applauditi, specialmente per
l'interpretazione vivace e colorita di A. Musco e della sua compagnia.
(20 marzo 1918).
«Jean La Fontaine» di Guitry al Carignano. A
breve distanza di tempo sono state rappresentate a Torino due nuove commedie di
Sacha Guitry L'illusionista e Jean La Fontaine: un
insuccesso e un mezzo successo. Non è giustificata la diversa accoglienza fatta
ai due lavori; non è giustificata almeno da un punto di vista critico. È sempre
lo stesso Guitry, che si mantiene allo stesso livello, in queste due ultime
commedie come nelle precedenti: La presa di Bergop-Zoom, o Facciamo
un sogno. L'Illusionista anzi è piú completa delle altre, rivela
meglio l'autore, perché nel titolo stesso è contenuto il programma artistico
del Guitry.
Non teatro dei soliti, sebbene l'originalità sia
puramente esteriore; non gli intrecci soliti; ma dialogo; puro dialogo, che
deve suscitare ondate di simpatia negli spettatori, cosí come deve prima
suscitarle in uno degli interlocutori. L'azione non è urto di grandi passioni,
elaborazione di forti personalità fantastiche che operano, suscitando contrasti
drammatici o comici: è lieve, vellutata creazione di stati d'animo provvisori,
che si esauriscono in breve tratto di tempo, finché dura l'illusione che la
parola melliflua, che il discorso capzioso sono riusciti a destare. È sempre un
illusionista che Sacha Guitry introduce nelle sue commedie, illusionista che incanta
le femmine per una breve ora d'amore, che cerca spiritualizzare l'atto sessuale
quando esso è piú meccanico e animalesco, nelle avventure da pochades,
cosí come esso dovrebbe essere nelle manifestazioni normali della sessualità,
nel matrimonio, nella convivenza che ha un fine superiore al piacere. Nell'Illusionista
il giuoco scenico è piú raffinato e sottile: la commedia è caduta (almeno nella
sua clamorosità) perché l'interpretazione buffonesca ha impedito fin dalla
prima battuta che si iniziasse l'incantamento, la suggestione. Gli interpreti
non hanno preso sul serio l'autore, e la tenuità comica è diventata grottesca
buffoneria, cosí lontana dalle possibilità del dialogo, che questo si è
appesantito immediatamente in un immenso tedio, in una sguaiatissima
caricatura.
Jean la Fontaine ha avuto miglior fortuna. Esso è la
descrizione del ciclo che deve subire il matrimonio perché diventi moralità. Il
Guitry, nonostante le apparenze, è autore essenzialmente morale, perché lo
sforzo massimo dei suoi lavori consiste nel far arrivare i protagonisti a un
piano superiore di spiritualità in cui si giustifichino e si moralizzino gli
istinti e i capricci. La giustificazione morale del matrimonio è l'amore; Jean La Fontaine si separa dalla
moglie infedele, vive la pienezza della sua intellettualità, raccoglie fama e
popolarità, e ritorna alla moglie, non come marito autenticato e legalizzato
dal contratto nuziale, ma come uomo, come amante. Nel terzo e nel quarto atto
il Guitry applica il suo metodo, crea l'illusione verbale del nuovo contratto,
del nuovo ambiente morale in cui dovrà svolgersi l'attività amorosa, la
convivenza nuova dei due soci. La
Fontaine come storia, come uomo già vissuto, è un pretesto
che serve ad aumentare l'illusione, che accresce forza alla dimostrazione
implicita di una tesi, col fascino che il grande scrittore esercita in Francia.
Il mezzo successo che la commedia ha ottenuto in Italia è dovuto in parte anche
alla mancanza di questa suggestione, esteriore quanto si vuole, ma sulla quale
lo scaltro autore deve aver calcolato come su un ingrediente di primordine per
il grande successo [nel suo paese]. Cosí pure è andata perduta l'intima potenza
suggestiva di una gran parte del dialogo, che non risvegliava nel pubblico
nostro nessuna eco, nessun richiamo a una tradizione letteraria e di costume
vivissima in Francia. Ma la commedia è emersa, malgrado tutto, e ha
interessato, come dovrebbe interessare sempre il Guitry, che è superiore
indubbiamente alla paccottiglia solita del teatro francese, e stimola il gusto,
e raffina, sia pure per antitesi, la sensibilità, tanto nel pubblico, come
negli attori, che devono continuamente padroneggiarsi, evitare le esagerazioni,
non cadere nel volgare e nel banale. Luigi Carini era Jean La Fontaine, e seppe trarre
dal dialogo gli effetti migliori coadiuvato con zelo e misura dagli altri
attori della sua compagnia.
(28 marzo 1918).
Angelo Musco. E. A Berta ha fatto tradurre
per Angelo Musco, dalla lingua letteraria in dialetto siciliano, una commedia
inedita. L'omaggio non è dei piú significativi, data la smania teatrale dello
scrittore che lavora (!) perfino per le marionette, ma ha pure il suo valore.
Angelo Musco è ormai qualcuno nella storia del teatro italiano, ed è riuscito a
imporre il teatro dialettale della sua regione.
Cinquant'anni di vita unitaria sono stati in gran
parte dedicati dai nostri uomini politici a creare l'apparenza di una
uniformità italiana: le regioni avrebbero dovuto sparire nella nazione,
i dialetti nella lingua letteraria. La Sicilia è la regione che ha piú attivamente
resistito a questa manomissione della storia e della libertà. La Sicilia ha dimostrato in
numerose occasioni di vivere una vita a carattere nazionale proprio, piú che
regionale: quando la storia del Risorgimento e di questi ultimi sessant'anni
sarà scritta per la verità e l'esattezza, piú che per il desiderio di suscitare
artificialmente stati d'animo arbitrari, per la volontà di far credere che
esiste ciò che solo si vorrebbe esistesse, molti episodi della storia interna
appariranno sotto altra luce, e la causa della unità effettiva italiana (in
quanto è necessità economica reale) se ne avvantaggerà. La verità è che la Sicilia conserva una sua
indipendenza spirituale, e questa si rivela piú spontanea e forte che mai nel
teatro. Esso è diventato gran parte del teatro nazionale, ha acquistato una
popolarità nel settentrione come nel centro, che ne denotano la vitalità e
l'aderenza a un costume diffuso e fortemente radicato. È vita, è realtà, è
linguaggio che coglie tutti gli aspetti dell'attività sociale, che mette in
rilievo un carattere in tutto il suo multiforme atteggiarsi, lo scolpisce
drammaticamente o comicamente. Avrà un influsso notevole nel teatro letterario;
servirà a sveltirlo, contribuirà, con la virtú efficace dell'esempio, a far
decadere questa produzione provvisoria del non ingegno italiano, produzione di
uomini togati, falsa, pretenziosa, priva di ogni brivido di ricerca, di ogni
possibilità di miglioramento.
Luigi Pirandello, Nino Martoglio specialmente,
hanno dato al teatro siciliano commedie che hanno un carattere di vitalità. Ma
certo la fortuna è dovuta per molta parte ad Angelo Musco. Attore d'istinto, il
Musco si presenta con tutte le disuguaglianze e le impulsività di un uomo ricco
di vita interiore, che in ogni interpretazione erompe selvaggiamente in
manifestazioni di una plasticità sorprendente. È vita ingenua, sincera, che
trova nel movimento plastico l'espressione piú adeguata. Il teatro ritorna alle
sue originarie scaturigini: l'attore è veramente interprete ricreatore
dell'opera d'arte; questa si confonde col suo spirito, si scompone nei suoi
elementi primordiali e si ricompone in una sintesi di movimenti, di danza,
elementare, di atteggiamento plastico; perde della sua letteratura verbale e
ritorna vita fisica, vita di espressione integrale: tutto il corpo diventa
lingua, tutto il corpo parla. Certo l'essere dialettale, l'adagiarsi nelle
manifestazioni umane piú vicine all'originarietà umana, dànno questo carattere
specifico al teatro siciliano, dànno tutte queste possibilità espressive ad
Angelo Musco. Ma è la quistione solita dell'uovo e della gallina: Musco ha il
teatro che si merita solo perché se lo merita, perché lo comprende, lo rivive.
E il suo merito non è sempre uguale infatti: egli ha qualche volta il torto di
sforzare interpretazioni impossibili, perché il lavoro è vuoto di ogni
espressività. Ma diventa grande quando l'autore dà almeno uno spunto artistico,
che dia possibilità di continuazione, di integrazioni. Basta ricordare Angelo
Musco in Liolà di Luigi Pirandello, una delle piú belle commedie moderne
che la sguaiata critica pseudo-moraleggiante ha fatto quasi del tutto ritirare
dal repertorio.
(29 marzo 1918).
Giosuè Borsi. Giosuè Borsi è egli stesso un
rinnovellato della guerra (nella memoria degli amici, almeno, perché morto al
fronte). La compagnia Zago ha presentato un suo lavoruccio, di quando il Borsi
era ancora volterriano, anticlericale, alla Carducci. Commediola informe,
leggera, che potrebbe vivere in un epigramma. A una festa di nozze
settecentesca, partecipa il cardinale patriarca di Venezia; egli ricorda la
prima confessione ricevuta da sacerdote, e la profonda impressione provatane,
perché il penitente era un parricida. Il padre dello sposo, che non ha sentito,
ricorda anch'egli qualcosa, e precisamente d'essere stato il primo penitente
del patriarca. Disperazione del figlio, subbuglio, e intervento del patriarca
che rimette la pace negli animi, turbati dalla sua leggerezza. Il Borsi è tutto
in questo lavoretto: egli è stato esaltato dai cattolici per la conversione
rivelata dalle carte rimaste, ma la conversione non ha mutato in profondità la
superficiale retorica che era caratteristica dei suoi scritti; letterato di
spolvero, ammiratore e imitatore del Carducci in ciò che del Carducci era meno
vitale, non è stato imposto neppure dalla réclame che i cattolici hanno
fatto ai suoi scritti postumi. Il suo misticismo è della stessa lega del suo
volterrianismo.
(17 aprile 1918).
«Occhi consacrati» di Bracco al
Carignano. Anche questo atto, scritto qualche anno fa, appartiene al teatro
delle «riabilitazioni di guerra». Ma il Bracco vi ha messo qualcosa di piú: ha
cercato, attraverso alcune scene vigorose, di creare un carattere, il quale è
superiore alle contingenze, all'occasionalità, cerca di vivere indipendente,
sebbene di scorcio, per accenni, piú che per ricostruzione diffusa e completa.
Una ragazza napoletana è stata sedotta e
abbandonata dall'amante. Diventa donna Filomena, fredda e perversa creatura di
piacere, ambientata in una osteriola, nella quale è signora e padrona degli
uomini che frequentano. In pochi tratti appare il suo animo, irrigidito,
astratto da ogni umanità: ha legato a sé un uomo ammogliato, che lascia nella
fame e nella sofferenza la moglie e tre figli, senza amarlo, perché ella rimane
unita da un odio amoroso col seduttore, con l'uomo che fanciulla ingenua,
religiosa, senza alcuna tutela, l'ha tradita e affondata nel fango. E costui
ritorna, dopo una sapiente preparazione, fatta da un vecchio mendicante, che
rievoca il passato, che risveglia l'umanità di donna Filomena, sia pure
facendola urlare di dolore e d'odio: ritorna cieco, umile, pentito, rinnovato,
e donna Filomena, colpita nell'intimità piú profonda, perdona, si spoglia dei
ricordi del passato, allontana da sé l'amante, e rientra nella normalità
morale. Il piccolo dramma, interpretato con vigore dalla Melato, dal Betrone,
dal Ninchi, e dal Berti, pur con qualche sforzo per la tinta dialettale voluta
conservare al dialogo, ha ottenuto sei chiamate dal pubblico.
(17 aprile 1918).
«Marionette che passione!» di Rosso di
San Secondo al Carignano. Avventure di sfaccendati, sceneggiate da un
dilettante d'ingegno. L'ingegno permette a Rosso di San Secondo di portare sul
teatro la formula famosa: per fare un cannone si prende un buco e lo si avvolge
di bronzo: egli prende il vuoto, lo avvolge di parole, messe in ordine
dialogico, divise in sezioni (scene e atti). Il vuoto è nei personaggi,
nell'intrinseca sostanza dell'anima loro. Sono creature umane? Vivono? Ohibò,
sono marionette, solo marionette, ma non in senso ironico: il burattinaio che
li fa muovere non è la passione, è la vuotezza spirituale: non vivono; parlano,
o meglio, l'autore parla, non i personaggi: essi sono terribilmente uguali,
essi sono una tesi, la piú comune e volgare delle tesi: che gli uomini non
siano altro che burattini.
Tre sfaccendati si incontrano in un ufficio
telegrafico: non hanno nome perché non sono individui, ma tipi. I tre sono
agitati da uno stesso demone: la passione. Una cantante tradita e bastonata
dall'amico, che pur continua ad amare. Un ingegnere tradito dalla moglie, un
signore in grigio tradito dall'amica. La signora è una figura scialba,
evanescente; la sua passione potrebbe essere benissimo puro fenomeno nervoso,
puro dispetto: non ha certo il carattere della tragicità, non si esprime,
perché il nulla non ha espressione. L'ingegnere è personaggio da pochade:
la sua passione è tremolio gelatinoso di pover'uomo che ne ha visto una grossa:
non poteva non essere tradito, questa l'unica, piccola, ridicola tragicità
della sua avventura coniugale. L'uomo in grigio è la base del dramma, il
mistagogo, la bocca della verità rivelata. È lo sfaccendato per eccellenza, che
da un anno sgomitola dal suo cervello barzellette che l'autore prende sul serio
fino a crederle profonda filosofia della vita. I tre si scontrano: la dama sta
per entrare in congiunzione con l'ingegnere, ma se questo piccolo fatto, banale
e umanissimo, accadesse, due atti non avrebbero ragione d'esistere. Il fatto
ameno non accade: il mistagogo s'interpone, parla di apocalissi. Poi si reca
egli stesso in casa della dama. Prolissità di scene pseudooriginali, di una
meccanicità ingegnosa che invano cerca nascondere il vuoto sostanziale: ridda
di larve senza ossa né carne. I tre riuniscono i loro destini intorno a una
tavola di ristorante: romanticismo macabro, rugiadoso come una ballata del
1830. La dama viene raggiunta dal suo amatore e sparisce, pregustando nuove
botte; l'uomo in grigio si uccide. L'ingegnere si appiccica a una artista,
dalla quale sarà fatalmente tradito alla prima occasione. Il pubblico fischia
ridendo.
Ha scritto J-H Rosny: «Molti giovani i quali oggi
s'accaniscono a scrivere mediocri romanzi (o commedie, aggiungiamo) sedicenti
letterari, riuscirebbero a scrivere, se incoraggiati, romanzi d'avventure
interessanti, e potrebbero alimentare le appendici dei giornali, con lavori
certo piú intelligenti dei romanzi che i giornali invece pubblicano».
Nessuno vorrà incoraggiare Rosso di San Secondo?
(21 aprile 1918).
«Mister Wu» di Vernon e Owen al
Carignano. Mister Wu è un personaggio da romanzo d'avventure per
persone colte: come quelli di Guido Boothby, costruiti con l'ingrediente comune
del meraviglioso concatenarsi degli avvenimenti per l'arbitrio del
protagonista, ma in cui però l'autore si sforza di evadere dal dominio del puro
avvenimento per rilevare un carattere forte, che ubbidisce alle grandi passioni
elementari dell'anima umana, e acquista quindi a tratti un colorito di umanità
che impressiona il lettore e lo spettatore. Mister Wu ritrova i suoi antenati
nel Veglio della Montagna di Marco Polo e nel dottor Nikola dell'australiano
Boothby; nel terzo atto del dramma egli domanda ispirazione a Scarpia, per la
sua vendetta. Motivi elementari, semplicissimi, che fanno presa immediatamente
nella coscienza degli spettatori e determinano commozioni profonde, all'infuori
di ogni forma artistica, di ogni armonia. È questo il segreto del successo dei
drammoni popolari, come anche delle grandi tragedie classiche. Gli uni e le
altre rappresentano le originarie e fondamentali passioni: l'amore paterno o
filiale, la vendetta, la gelosia, l'odio, il fanatismo; esse sono comprese
subito anche dal piú ottuso degli spettatori, fanno vibrare all'unisono gli
animi, che si compenetrano dell'azione, la comprendono tutta senza residui, se
ne esaltano intimamente e applaudono con frenesia. La tragedia classica vive
immortale per tutti; ma anche il drammone è immortale e chi non ha educato la
sensibilità e la fantasia, si estasia ancora dinanzi alla rozza e artefatta
umanità dei romanzi d'appendice, dei drammi di Sardou o di Bernstein.
Mister Wu ha beneficiato di questa predisposizione
del gusto, e, in verità, noi non vogliamo sostenere che i suoi casi non
meritino piú attenzione dei casi di una bellissima donna da dramma letterario,
angosciata dal quadruplice spasimo di un raffinato amore fatalmente accesosi a
una gara ippica.
Mister Wu vuole vendicare sua figlia, sedotta da
un giovane europeo. È un'anima complicata il signor Wu; cinese educato
all'europea, vuole vendicarsi, da uomo al di sotto di ogni civiltà, ma la
vendetta prepara disposando la crudeltà orientale con il progredito senso di
reciprocità degli europei. Il Veglio della Montagna veste gli abiti del
sardoniano Scarpia. Mister Wu incomincia col sequestrare il seduttore di sua
figlia, quindi scatena sull'infelice signor Gregory, padre del giovane, tutte
le malefiche forze di cui egli dispone nella sua misteriosa potenza: il signor
Gregory ha notizia che le navi della sua flotta commerciale affondano o
s'incendiano in alto mare: gli affari sono insidiati e non fruttano, i suoi
uomini di fatica gli si ribellano e domandano aumenti di mercede ogni tre ore.
Fin qui Mister Wu rimane cinese e lo spettatore può credere davvero che nel
Cataio le disgrazie possano essere mosse da un uomo come il bimbetto fa muovere
le pallottoline del pallottoliere. Ma Wu si ricorda d'essere anche europeo e
tende un laccio alla signora Gregory, la madre. La attira in casa sua e la
ricatta. Tragica situazione di una madre europea in Cina! Lo scioglimento non
tarda. Una mano benefica porge alla signora una potente dose di stricnina; il
veleno, per mirabile concatenarsi d'eventi, invece di dare alla storia una
Lucrezia in Cina, va a finire nello stomaco di Wu, che muore caprioleggiando.
Il destino ha punito un infame, ma salvato una madre dal disonore, ha
restituito un figlio ai suoi genitori. Il finale corona il dramma e riscuote
gli applausi piú calorosi.
In fondo questi applausi significano come i
sentimenti immarcescibili dell'animo umano siano veramente tali, e lo
scetticismo non abbia ancora addentato e corroso le ingenue carni dei cuori
moderni, antichi invero quanto antico è l'uomo stesso, con le sue ipocrisie e i
suoi omaggi alla virtú.
(5 maggio 1918).
«Racanaca» di Villauri all'Alfieri.
Racanaca è un buon uomo di Melito, in Sicilia, e nella commedia si segnano i
momenti tipici della sua carriera politica. Racanaca non ha un temperamento
politico; è corto d'intelletto, è ingenuo, non saprebbe cavarsela negli
intrighi e nelle attività un tantino complicate. Un giovane solitario studioso
di Melito se ne serve per la realizzazione delle sue teorie politico-economiche,
e per soffiargli la moglie. Cosí Racanaca si fa iniziatore a Melito di un
sistema di cooperative agricole che dia ai contadini l'illusione di essere
diventati i padroni della terra, viene eletto deputato e si stabilisce a Roma.
Due azioni si svolgono parallelamente: una in cui
risalta la figura di Racanaca nei suoi rapporti artificiali col mondo esterno,
azione ricca di spunti comici, e che ha procurato alla commedia un buon numero
di applausi. La seconda dovrebbe sviluppare i motivi passionali per cui Nino
Laurenzi, giovane d'ingegno, di dottrina, buon oratore, mette al servizio di
Racanaca tutte queste qualità e rimane ignorato, incompreso. Ama la moglie
della sua creatura intellettuale. Ma appunto questa parte è appena accennata,
molto vagamente adombrata: non c'è saldatura tra le due azioni, che
artisticamente dovrebbero ridursi a una sola, non potendosi il fenomeno
Racanaca spiegare senza queste motivazioni extrapolitiche. La commedia è di
accenni, perciò, piú che una elaborazione compiuta e definitiva. Gli scorci, le
impostazioni di luci e di rilievi sono ottenuti meccanicamente, ma esistono
tuttavia, e pur senza avere tutta l'efficacia rappresentativa, dànno dei buoni
risultati scenici. L'autore non ha ancora spogliato la sua concezione di ciò
che di grezzo e immaturo essa trascina con sé; ma questa stessa ingenuità
artistica è, in un primo lavoro, promessa di ulteriore elaborazione e di
superamento progressivo.
A Roma la fortuna di Racanaca si afferma subito in
Parlamento. La sua teoria dell'abolizione della lotta di classe, ottenuta
mediante l'illusione proletaria di un condominio dello strumento di lavoro,
ottiene successo tra i capitalisti e anche presso alcuni maneggioni della
Camera del lavoro. Racanaca è maturo per un portafoglio ministeriale. Un punto
d'arresto: il suo segretario, il suo cervello vuole abbandonarlo, perché
disilluso nella speranza di un facile adulterio. La speranza viene fatta
rinascere dalla signora, che desidera che suo marito continui nella carriera
degli onori.
L'adulterio matura nel terzo atto. Uno sciopero
generale è scoppiato nell'Agro romano; i contadini hanno invaso le terre, ne
pretendono la requisizione da parte dello Stato. Laurenzi prepara un successo
popolare al ministro, viatico necessario per una probabile presidenza; la
requisizione sarà decretata e finirà con l'essere utile specialmente ai
proprietari, ai quali assicurerà un reddito sicuro da ogni alea. E, mentre
Racanaca discuterà in seduta la disposizione di legge, Laurenzi coglierà il
frutto di tanto lavoro, continuato per anni e anni.
La commedia è piaciuta, indubbiamente; la
presentazione obiettiva, senza intenti partigiani, dell'ambiente politico, con
le sue ipocrisie, con la sua imbecillità costituzionale, ha strappato spesso
risate cordiali. Situazioni farsesche? Ma la vita politica è purtroppo farsa il
piú delle volte, e tutta Roma non è, da cinquant'anni, che il teatro di una
farsa sinistra ai danni della nazione italiana. Una commedia, per rappresentare
una vita politica, dovrebbe ambientarsi in Cina o in Persia, secondo la
tradizione letteraria delle Lettere di Montesquieu. La vita politica
italiana è composta di cuoiai e salsicciai gabbamondo come nel mondo comico
d'Aristofane, e rappresentarla porta necessariamente alla farsa.
Al buon successo della commedia contribuí
l'interpretazione ottima di Giulio Paoli, A. Betrone e della signora Frigerio.
(12 maggio 1918).
Virgilio Talli. Virgilio Talli è forse il
piú acuto critico letterario che oggi esista in Italia. Non credo che le librerie
vendano suoi volumi di saggi, il suo nome probabilmente non apparirà mai nelle
storie dell'estetica o della letteratura, ma ciò poco importa. Probabilmente
ancora, se il Talli dovesse stendere in iscritto il suo giudizio su un lavoro
teatrale, questo giudizio sarebbe banale, generico, privo di vita e zeppo di
frasi fatte.
L'energia critica del Talli si rivela e si
esaurisce nell'àmbito della compagnia drammatica di cui è direttore: i suoi
saggi sono le interpretazioni che la compagnia crea dei drammi e delle
commedie, la sua specifica opera è diventata spontaneità, naturalezza negli
attori, adesione del gesto, della musica vocale con l'intimo spirito dei
personaggi rappresentati. La personalità del Talli viene cosí a sparire
nell'insieme, è difficilmente rintracciabile. L'attività sua di rivelatore, di
maestro, diventa vita degli altri, dei discepoli. Talli ha fatto rivivere, con
mirabile precisione, le famiglie artistiche del quattrocento, in cui c'erano il
maestro e i discenti, e il maestro svolgeva l'opera sua pedagogica, educativa
in un fitto lavoro di collaborazione umanistica, dalla quale scaturí l'infinito
mondo di bellezza del Rinascimento. Questi maestri sono spesso nulla fuori
della loro scuola, della tradizione che creano e sviluppano: la loro natura non
è tanto di creatori individuali quanto di educatori e rivelatori. La loro
grandezza e perfezione è nei discenti, i quali rapidamente assurgono alla
completezza, perché il maestro ha loro risparmiato ogni dispersione di energia
in tentativi arbitrari, in esperienze inutili. La scuola è per lo spirito ciò
che il metodo Taylor è per i gesti meccanici del corpo: economia di esperienza
e di fatiche, acceleramento dell'evoluzione spontanea, organizzazione
dell'intelletto.
Talli svolge la sua attività nelle prove: lavoro
di miniatura, raffinato e sottile sforzo di elaborazione paziente. Il dramma si
frantuma nei suoi elementi primordiali: le parole, i movimenti. Ma in ognuno di
questi elementi continua a vivere l'intiero dramma. E l'analisi minuziosa incomincia.
Il dramma viene esaminato, pesato, studiato, in ogni piú sottile nervatura, in
ogni fibrilla di tessuto. Talli è l'orafo che trae dal metallo il suo timbro
riposto, ne intuisce il valore effettivo, e lo sgrana in collane e monili di
infinito pregio.
La sua fantasia, dall'intuizione rapida
dominatrice, padroneggia tutta l'azione, e la rivive per i suoi discepoli. Ogni
personaggio acquista una individualità distinta, ogni parola diventa sintesi di
uno stato d'animo distinto. Talli ripete la parola, la amplifica, la pone in
relazione col discorso interiore sottaciuto di cui è conseguenza: essa perde
cosí ogni valore meccanico, di pura sonorità, diventa interiorità, vita
spirituale, si colora di tutta una personalità, di tutta un'anima, scocca dalla
gola, dalle labbra come una necessità fatale, si comprende come debba essere
quella e non un'altra, accompagnata da quel gesto e non da un altro, modulata
con quei toni e non con altri. E l'unità spirituale dell'individuo diventa
unità spirituale della scena. Tutto vive: l'ambiente dev'essere cosí e non
altrimenti, perché anche la esteriore parvenza delle cose si riflette sugli
uomini e ne determina sfumature di atteggiamento che non bisogna trascurare.
La parola del Talli è suggestiva in modo
irresistibile. In un romanzo di Rudyard Kipling c'è quest'episodio: un mago
della volontà vuol provare l'intimo metallo dell'anima di un giovanetto e lo
sottopone a un esperimento di illusione. Il giovanetto deve scagliare una
brocca piena di acqua: la brocca va in frantumi innumerevoli, l'acqua si versa.
Eppure, sotto l'influsso della volontà dominatrice, il giovanetto vede
lentamente questi frantumi ritornare al loro posto, saldarsi fra loro: l'acqua
versata sparisce e nella fantasia l'immagine della brocca rifiorisce dal nulla,
nella sua interezza primitiva.
Cosí Talli sminuzza e ricrea i drammi per i suoi
attori, li analizza e sembra distruggerli; ma nella sapiente analisi la sintesi
è potenziale e si afferma nelle prime rappresentazioni, dinanzi al pubblico che
applaude e non pensa neppure all'artefice maggiore, al maestro che ha raccolto
in un fascio le singole energie e le ha rivelate a loro stesse.
(14 maggio 1918).
«S. E. di Falcomarzano» di Martoglio
all'Alfieri. Tre atti ridanciani, onesti e lieti. Lisci come il pavimento
cerato di un buon salotto borghese, in cui si lasciano le finestre sempre
chiuse con gli scuri, perché la luce non rovini le cromolitografie delle
pareti. Si raccontano i casi piuttosto rocamboleschi del principe di
Falcomarzano, deputato al parlamento, padre di due rampolli, dei quali la
femmina non piú fanciullina, spiantato come uno zingaro errabondo, che aspira a
diventare plenipotenziario in Cina, per potere, come Verre in Sicilia,
riassestare i suoi negozi.
Il principe vive alla giornata elegantemente
truffando i conoscenti, sempre superiore alle miserie della vita, al denaro, al
vile borghese che il denaro sborsa. Prende quattromila lire da un imbecille che
desidera una onorificenza, a titolo di oblazione per un istituto che ancora non
è sorto. Appiccica per ventimila lire un ritratto a un altro imbecille che se
ne servirà per provare i suoi diritti al titolo di conte, e cosí via: sempre
però mantenendosi nella linea del suo titolo principesco, dell'avvenire
politico che vuole conquistare.
Gli riesce di far sposare sua figlia da un ricco
giovane borghese, salvando anche in questo caso le apparenze, poiché sua figlia
viene rapita. E dopo difficile lotta riesce anche a diventare plenipotenziario
a Pechino, sebbene suo figlio abbia sposato una borghesuccia, mettendo in
pericolo il maturato disegno, per il quale l'ambasciata doveva essere il premio
politico di un matrimonio tra il duchino e una marchesina alquanto calante per
la cattiva fama dei genitori.
La trama è svolta piacevolmente, in un dialogo
snello e fluido, senza ricercatezze e abuso di spirito verbale. Ruggero Ruggeri
era il protagonista. La commedia fu applaudita calorosamente.
(23 maggio 1918).
«La dame de chambre» di Gandera al
Carignano. Una commedia dell'intossicamento sessuale, come tante altre che
furono e che saranno. Il sesso rimane, e rimarrà ancora per un pezzo, la
preoccupazione maggiore della nostra società (della società costituita, della
società che non lavora o può non lavorare), l'enigma insolubile: i lettori e i
commediografi girano intorno alla Sfinge, claudicanti Edipi, e non potendo
penetrare descrivono, ripetono, condiscono con qualche nuova droga piccante.
Il Gandera è dei meno noiosi scrittori di pochades:
non esce dal puro meccanismo, dall'esteriorità descrittiva del brivido carnale,
ma non cade nella sguaiataggine, o almeno non vi cade troppo spesso: lavora con
coscienza, porta a ripulitura i suoi prodotti. Il genere si perfeziona: il
mercato è piú esigente: la vita, ahimè, diventa ogni giorno piú difficile e
seminata di triboli.
Il Gandera ha complicato sessualmente il vecchio
spunto novellistico della moglie che si sostituisce all'amante del marito: un
orario delle ferrovie gli è servito da trampolino. Un marito non impartisce piú
alla moglie la razione legittima di felicità coniugale. Di chi la colpa? Del
marito o della moglie? La moglie vorrebbe uscire dal dilemma dilacerante: il
Gandera le viene in aiuto. Il marito si incapriccia della cameriera (un
manichino che dal titolo dovrebbe sembrare essere la protagonista del dramma),
ne ottiene pietosamente una notte d'amore, e ottiene dall'amico di famiglia
l'uso dell'appartamentino. La moglie scopre la tresca, e si reca lei a tentare
l'esperienza (di chi la colpa?). Complicazione. Il marito parte durante la
notte e viene sostituito nella bisogna dall'amico, che anch'egli vuole tentare
la sua gherminella. Giornata delle rivelazioni. Il marito scopre di essere
diventato ciò che mai avrebbe voluto. La moglie ha scoperto un amante fatale e
l'amico altrettanto. La vita familiare si compone in un raffinatissimo
adulterio. Il pubblico ha scoperto un nuovo autore di commedie allegre, che con
maggior delicatezza di altri sa fare il solletico alla pianta dei piedi e
integrare le delizie di un «virginia».
(4 settembre 1918).
«Lift» di Armont e Gerbidon al Carignano.
In Lift, commedia sessuale-sentimentale di Armont e Gerbidon, troviamo
un personaggio quasi originale: l'etairogogo, il professore di belle maniere
per le cortigiane geniali, che si propongono la conquista di una brillante
posizione sociale. Il professore non ha nulla di socratico, cosí come le sue
discenti non hanno nulla da spartire con Aspasia; la galanteria, nei tre atti
moderni, è posta bensí come funzione sociale, ma il motivo non supera
l'espressione plateale delle comuni pochades, ed è anzi sviluppato con
poca disinvoltura e molta prolissità. Rimane irriducibile una forza comica che
gli autori non hanno saputo elaborare artisticamente, soggettivandola: essi
hanno intravisto un mondo di comicità, ma esso è rimasto inerte, puramente
intenzionale.
La cocotte che percorre il curricolo della
gloria sociale è, in fondo, una povera figliuola nata in una novella romantica,
con aspirazioni piccolo-borghesi per il matrimonio, il talamo familiare e la
bianca culla in cui strilla e sgambetta un roseo pargoletto. Il suo ascendere
verso la gloria è dovuto a volontà estranee, alle suggestioni del professore;
se queste volontà, se queste suggestioni fossero state, dagli autori, viste come
dinamismo autonomo di una donna moderna, che solo nella galanteria può trovare
la libertà negatale dal costume per l'estrinsecazione delle sue energie sociali
buone, avremmo avuto una commedia del costume ricca di contenuto morale, cioè
una opera d'arte e non una sceneggiatura commerciale. Gli autori non hanno
saputo o non hanno osato: è piú facile e piú gradito al pubblico il lieve colpo
di spillo, la burletta superficiale, la caricatura bonaria che non urta troppo
di petto la convenzionale moralità e anzi solletica lo scetticismo pelle pelle.
Lift sale dal quartierino povero fino al
pranzo ministeriale, all'amicizia di una Eccellenza, al salotto politico in cui
si decidono le sorti di uno Stato e magari di un regime, ma è ascensione
«alpinistica», non episodio umano di «volere è potere», determinato socialmente
dal confluire necessario di tutte le forze agenti della vita contemporanea.
(11 settembre 1918).
«Tardi al treno» di Zambaldi al
Carignano. Lo scrittore di teatro Silvio Zambaldi è come un giocoliere
giapponese che estragga scatola da scatola, e il pubblico aspetta finalmente si
giunga alla sospirata scatola che deve contenere lo enigma giustificante
l'attesa e la spesa. Il giuoco delle scatole si è iniziato con la prima
commedia dello Zambaldi, e si inizia colla prima scena di ogni commedia. Lo
Zambaldi è ancora e sempre «uno scrittore che promette» e non si decide mai a
mantenere; è una scatola chiusa che ne contiene delle altre e si aspetta che
finalmente in una si trovi il brillante da incastonare nel diadema del teatro
nazionale.
Tardi in treno, i tre nuovi atti di Silvio
Zambaldi, presentati dalla compagnia Gandusio, non sono certo il brillante
aspettato. Una, due, tre scatole: vuoto finale.
Inizio: interessante come tutti gli inizi perché inizi.
Due sposini perdono il treno del viaggio di nozze: la festa di imene sarà
celebrata fra le pareti domestiche. Egli è molto stupido, ella è molto ingenua:
i parenti sono ingombranti, le persone di servizio sono noiose: lo Zambaldi è
infatti uno scrittore realista. Nel primo atto ci presenta: una cameriera
pruriginosa che si lascia pizzicare dal collega e da un vecchio signore e
quindi va a letto col collega; una vedovella che fa la schizzinosa con un
avvocato ma poi consente di essere accompagnata a casa in vettura chiusa; una
coppia di suoceri di buaggine infinita; uno zio che è stato tradito dalla
moglie. Questa è la natura degli uomini e lo Zambaldi cosí rappresentandola è
scrittore realista. Gli sposini si ubriacano (o natura, natura!); ella ingenua
confessa un amoretto di bambina, egli si offende e dorme sul sofà. Nei due atti
seguenti si assiste allo svolgersi di tutte le stupidaggini, le lungaggini, le
chiacchierate, le rivelazioni che devono condurre alla pace generale e alla
ricomposizione della famigliola scomposta al suo nascimento: si vede una
suocera che imperversa, un suocero che è vittima di sua moglie, una cameriera
che piange e si dispera per il fallo commesso, uno zio seduttore di cameriere
che ammansa la suocera poiché le ricorda un episodio extramatrimoniale e altre
simili originalissime novità servite in un dialogo insipido e lungo e pastaceo
come il brodo di lasagne. Il giuoco delle scatole è finito, il pubblico ha
rumoreggiato disilluso, ma aspettiamo: il capolavoro sarà per la prossima
commedia.
(19 settembre 1918).
«L'uomo che incontrò se stesso» di L.
Antonelli al Carignano. La compagnia Gandusio ha egregiamente recitato per
la prima volta a Torino questa commedia dell'Antonelli. Un lavoro che si stacca
nettamente da tutta la serie di novità della stagione, per arditezza di
concezione e signorilità di svolgimento.
Questo strano sogno che l'autore ha portato sulla
scena, superando difficoltà di tecnica teatrale che sembravano insormontabili,
questa fine satira della vita ha stupito il pubblico a cui da tempo non si
ammanniscono lavori atti a sviluppare un pensiero. Molte cose buone si possono
e si debbono attendere da questo giovane autore che sembra fornito di tutte le
doti che occorrono per forgiare opere che lascino traccia nella vita del teatro
e a cui arrise al Carignano il piú completo successo colla sua fantastica
avventura.
A ogni fine d'atto vi furono applausi e chiamate
all'autore. Il Gandusio recitò come sempre, bene, e la Pini impersonò in modo
perfetto la donnina frivola che non riesce a concepire il male, ma che lo fa,
spinta fatalmente a esso da una forza che la domina. Anche l'Almirante, che
impersonava l'altro io, seppe dar risalto alla figura del giovane che non
conosce il mondo e le sue sozzurre, che non crede al male, né vi vuol credere e
che non vede che rose sul suo cammino in questa bella primavera della vita dei
suoi venti anni.
(2 ottobre 1918).
«Il marito ideale» di Wilde al Carignano.
La compagnia di Irma Gramatica ha presentato una commedia di Oscar Wilde Il
marito ideale, nuova per Torino; la commedia non ha avuto successo. Essa è
un'opera piú letteraria che teatrale, da leggersi piú che da udirsi. Il
contenuto drammatico è lievissimo e si sviluppa in situazioni comuni; l'autore
si è dedicato esclusivamente al dialogo, alla parola; i caratteri si rivelano
per ciò che le bocche dicono, attraverso il paradosso brillante, l'ingenua
affermazione di fede puritana, il racconto di intrighi politici e finanziari.
Un romanzo dialogato, che la compagnia della Gramatica ha presentato in modo
degno dell'intimo valore letterario dell'opera.
(14 novembre 1918).
«Una sentimentale» di E. A. Berta al
Carignano. La compagnia di Irma Gramatica ha rappresentato l'annuale
contributo di E. A. Berta al teatro in lingua: Una sentimentale, tre
atti in prosa con molte parentesi musicali. La commedia deve essere stata
scritta almeno venti anni fa: gli accenni cronologici al passato prossimo vanno
dal 1866 al 1880; ma l'autore non ha rimodernato il suo lavoro, sebbene vi
abbia introdotte allusioni e avvenimenti recentissimi, senza accorgersi che un
ascoltatore appena appena attento dovrebbe immaginare l'eroina della commedia
come una donna di almeno cinquantadue anni (suo padre viene fatto morire nel
1866). E. A. Berta non ha voluto interrompere il rito annuale, e non avendo
merce fresca, ha spolverato un vecchio prodotto della sua infinita quanto
futile mania scrittoria. Nei tre atti si svolge un dramma «interiore» di
femminilità offesa e incompresa, con alcune situazioni simili a quelle della
«Nora» di Ibsen; simili esteriormente, ma inerti drammaticamente. Il Berta pone
il dramma, non lo sviluppa. La sua fantasia non è capace di creare caratteri
che abbiano consistenza e solidità umana: il pubblico dovrebbe commuoversi per
l'astratta genericità di un dolore ineluttabile in certe situazioni, anche se
questo dolore si esprime solo come uggioso belato pecorile e non come umanità
individuale straziata che si compone artisticamente in poesia. Una moglie
abbandona il tetto coniugale affermando di non essere compresa, e certo pare
che cosi sia. Ma il processo drammatico è snervato e superficiale. La
protagonista è una povera fanciulla sedotta che si redime nell'amore
disinteressato e nel sacrifizio della quotidiana, misera vita familiare. Il
seduttore le lascia una eredità di mezzo milione, e questo oro diventa la
macchina infernale che distrugge l'amore e la felicità. L'autore abbozza una
metafisica dell'oro: nell'oro è la personalità dell'uomo, nell'oro si continua
la personalità dell'uomo. L'istinto conduce la donna a voler rinunziare
all'eredità: accetta, perché suo marito crede con la ricchezza di poter
diventare un grande compositore (egli è violoncellista). Secondo un postulato
della metafisica bertiana il bello nasce dal bello, la ricchezza farà bella la
casa, dalla bellezza della casa nascerà la bella musica, e il violoncellista
che annoterà la bella musica sarà un grande compositore. Nella donna la
metafisica si esprime in altre emozioni: il morto seduttore si continua nel suo
oro, l'oro compra i mobili e il lusso della casa, il morto seduttore rivive nei
mobili e nel lusso. Marito e moglie si allontanano l'uno dall'altra; la vita
dell'uno (la bellezza che genera bellezza) è la morte dell'altra
(l'oro-bellezza che è la colpa, il tradimento, ecc., ecc.). Cosí riassunta la
commedia può parere interessante; l'autore potrebbe apparire capace di
connettere idee. Non è cosí. La commedia non è neppure a tesi; essa è un
informe accozzo di parole biascicate, senza espressione spirituale poetica,
infarcito di spunti banalmente comici che si rincorrono a tira e molla. Il
Berta non si accorge della mancanza di unità cronologica della commedia; non
riesce cioè neppure a creare una unità esteriore; egli si aggira tra i
personaggi, che vuole far vivere e parlare, come uno scarafaggio nella stoppa.
Una dozzina di spettatori, con mirabile sangue freddo, sono riusciti a creare
agli attori la suggestione necessaria per mezza dozzina di chiamate.
(20 novembre 1918).
«Appassionatamente» di Varaldo all'Alfieri.
Desolazione di uno spettacolo «interventista». Imbottitura di cervelli che
nessuna suggestione frenetica riesce piú a inverniciare di idealità
cromolitografica. Anfanare faticoso di uno scrittore mediocre che per la prima
volta si cimenta col romanticismo dei romanzi d'appendice e vuol trarne un
dramma sensazionale che solletichi il cattivo gusto della platea, dia un buon
gettito di applausi e di quattrini e procuri una nicchia nel camposanto dei
benemeriti della quarta guerra del Risorgimento. Alessandro Varaldo dovrebbe
per questi suoi tre atti, Appassionatamente, domandare un indennizzo
allo Stato; industria di guerra rovinata dallo scoppio improvviso della pace.
Tre atti senza un bagliore d'intelligenza. Trionfa il «talento» e cioè
l'attitudine a utilizzare gli elementi piú disparati e contraddittori per un
piccolo fine immediato: il sentimentalismo rugiadoso della moralina democratica
che si esprime affermativamente o per contrasto in personaggi ritagliati nei
vecchi clichés del romanzo popolare: l'aristocratica proterva e
irriducibile, la dolce fanciulla vero angelo senz'ali, il sacerdote
misericordioso e pio, la madre infelice, il bastardo sciagurato che nella
carriera del vizio precipita fino all'assassinio. Gli ingredienti vengono
agglutinati con la rozza goffaggine dello scettico che finge entusiasmo; i
trucchi si succedono sgarbati e superficiali; il dialogo si diluisce senza
alcuna suggestione letteraria; le scene si accavallano insensatamente
culminando in «cartoline illustrate» pro-mutilati e pro-prestito di guerra;
l'azione si scioglie al rombo del cannone che reintegra ognuno nei propri
meriti. Ma perché non avere almeno quel tantino di buon gusto che è sufficiente
per non condurre piú a spasso, dopo la pace, i cadaveri dell'interventismo
blaterone?
(22 novembre 1918).
«Sole d'ottobre» di Lopez al Carignano.
Sabatino Lopez è maestro nel far le bolle di sapone; sa opportunamente
impiegare il corto respiro e sgranare dalla cannuccia, con ritmo uguale, quel
tanto di bollicine tenui e fatue che accontenti il facile pubblico dei nostri
teatri. Bonarietà, semplicità superficiale, dialogo facile, leggero, una
pizzicatina alle corde del sentimento, un cartoccino di sale casalingo: nasce
la commedia borghese, la commedia «per bene», che sa quel che si dice e quel
che si fa, educata, lisciata, profumata allo spigo e al cotogno.
I tre atti Sole d'ottobre, sono del
Sabatino Lopez autentico; non ci manca neppure uno zinzino di volterrianesimo,
coccarda dell'indipendenza intellettuale dei borghesi capi di famiglia che
ricordano i tempi eroici del liberalismo da caffè. Un marito e una moglie, un
suocero e una suocera, e un nipotino che fa diventar nonni i due vecchi: il
marito ha tradito la moglie e i due nonni lavorano a risolvere il groppo: nel risolverlo
bonariamente decidono di sposarsi e dare il buon esempio della convivenza
coniugale. Un nulla, adorno di parole drogate per palati casalinghi, che è
diventato qualcosa nella recitazione di Irma Gramatica, di Ernesto Sabbatini e
degli altri bravi collaboratori della compagnia.
(28 novembre 1918).
«Le galere» di Tumiati all'Alfieri.
È un capitolo della storia del Risorgimento italiano che Domenico Tumiati sta
scrivendo per il pubblico che frequenta i teatri. Storia per uso del popolo che
ha letto I misteri dell'inquisizione di Spagna e nel succedersi degli
avvenimenti umani non sa vedere e crede non ci sia altro che il gesto
spettacoloso, sia pure gesto di individui altissimi per carattere e energia
morale. Cosí è che Domenico Tumiati diffama il Risorgimento italiano e, per
quanto è dato a un lavoro di teatro, contribuisce a tener basso il livello
medio della intellettualità italiana. Il dramma è concepito come un romanzo
d'appendice: è una combinazione di elementi sociali e di lirica (!) individuale.
La vita singola si intreccia con la vita sociale per diventarne un simbolo:
l'eroe diventa la «vera» anima di un popolo, che si svolge secondo un processo
di sviluppo coincidente con avventure amorose, idealizzate da un sublime
spirito femminile che si confonde con un fine politico e umano. Il Tumiati
molto rozzamente calca la mano su i motivi piú clamorosi: in un atto solo delle
Galere si contempla un carcere cupo racchiudente il barone Carlo Poerio
e un suo compagno di sventura ridotto agli estremi dalle torture poliziesche:
si assiste a un tentativo di fiaccare il carattere del Poerio con l'acquavite
fatturata, a un colloquio clandestino del Poerio con lord Gladstone che piange,
si sente l'ultimo canto di un usignolo, barbaramente trucidato da uno spietato
aguzzino; e finalmente, come finale, i galeotti che intonano in coro una
terzina della Divina Commedia. Il pubblico, che si lascia ancora
prendere da questi espedienti di teatro commerciale, ha applaudito.
(5 dicembre 1918).
«La signora innamorata» di Berrini al
Carignano. La signora innamorata, tre atti di Nino Berrini, è stata
scritta prima della guerra. Poiché dal 4 agosto 1914 si è iniziata un'èra
nuova, l'autore ha aggiunto l'aggettivo «storica» al sostantivo «commedia», e
poiché è oramai opinione diffusa e debitamente autenticata dai competenti in
psicologia e sociologia, che il mondo in questi quattro anni si è foggiato su
un'anima nuova, Nino Berrini, che ci tiene a essere reputato persona seria e
competente di psicologia, ha fatto precedere ai tre atti un prologo in versi
martelliani, nel quale spiega la faccenda della storia, dell'anima nuova, della
nuova psicologia e del rombo del cannone.
I tre atti appartengono al genere «rivista con
pretese letterarie»: una successione di scene in cui si attua l'anima femminile
studiata alla stregua del famoso aforisma «la donna è mobile»; in cui si
interroga la Sfinge
per sapere quale mistero racchiuda la complicata, labirintica, oceanica anima
della «donna che si spoglia». Poiché le donne non si spogliano piú, poiché
nessuno piú si diverte, e nei salotti non si spettegola piú in grammatica, i
tre atti del Berrini sono una commedia storica, cioè preistorica: la storia è
solo attuale, è storia dell'anima nuova, del costume rinnovato del mondo.
(5 dicembre 1918).
«La finestra sul mondo» di Veneziani al
Carignano. Carlo Veneziani appartiene a un gruppo di scrittori che si è
proposto di rinnovare il teatro italiano. Le commedie e i drammi che si
scrivono in Italia sono una casistica della vita sessuale che si svolge
nell'àmbito della legge umana e che è perennemente insidiata dalle leggi della
natura, cioè dai capricci, dalle emozioni, dalla mancanza di controllo su se
stessi. Poiché il costume italiano è essenzialmente sessuale, poiché la
sessualità è l'argomento che piú interessa lo spirito degli italiani, è
naturale che gli scrittori di teatro non concepiscano altra vita che la
sessuale. Ciò significa che gli scrittori italiani di teatro non hanno
fantasia, non riescono a superare fantasticamente la mediocrissima umanità
della quale fanno parte, mediocrissima umanità che inspira la sua vita
spirituale al popolarissimo proverbio: «Chi non ha altro bene, va a letto con
la moglie»; e non avendo fantasia, non riuscendo a concepire bene piú grande di
quello che i sensi godono nell'alcova, gli scrittori italiani di teatro non
sono artisti e il teatro italiano non è un fatto estetico, ma un fatto
meramente pratico, d'ordine commerciale.
Ma il teatro italiano aveva finora visto la vita
sessuale in due sole forme: quella piú crassamente sguaiata che si propone di
solleticare e di provocare la frenesia erotica, e quella romantico-sentimentale
che dipende dall'aforisma: «Dopo la voluttà, ogni animale è triste». Perché il
teatro italiano si perfezionasse, era necessario che il fenomeno sessuale
assumesse una terza forma (il tre è numero perfetto nella mitologia cristiana e
nel simbolo massonico, che tanta importanza hanno avuto nell'informare il
costume italiano) e questa fu escogitata dal gruppo degli innovatori: Pirandello,
Chiarelli, Antonelli. Nei loro lavori i personaggi assumono in confronto della
vita sessuale una posizione critica, assolutamente intellettuale, di
introspezione.
In certo senso c'è un superamento, sebbene esso
possa solo paragonarsi al gesto che fa il cane dopo aver rosicchiato un osso: è
un inizio di risanamento del costume, di evasione dalla fogna miasmatica dei
sensi.
Carlo Veneziani «dovrebbe» appartenere al gruppo
innovatore, la sua commedia in quattro atti La finestra sul mondo che la
compagnia Tina di Lorenzo ha presentato al pubblico torinese, «dovrebbe»
appartenere alla serie delle nuove commedie. Ma è impossibile farla rientrare
in essa: il Veneziani non ha altra visione della vita, altra attitudine
all'introspezione, che quella espressa nei motti per ridere pubblicati dai
settimanali illustrati. Tra Pirandello e Veneziani c'è l'abisso che separa un
uomo intelligente da un collaboratore del «Numero» o del «420». La finestra
sul mondo rientra nella serie delle commedie nuove allo stesso modo che un
abito smesso rientra nella personalità dell'uomo che l'ha indossato: anche
nella mediocrità intellettuale è necessario stabilire delle gerarchie di
valori. La commedia è stata tuttavia applaudita: il pubblico non è uscito dal
marasma spirituale del sesso, e le commedie di questo genere, la cui statura
non supera la sua statura media, lo soddisfano doppiamente: perché il sesso ci
predomina e perché banalmente si sorride della vita sessuale: nella banalità
pubblico e autore si compenetrano, identificandosi.
(15 dicembre 1918).
«Marito suo malgrado» di De Lorde e
Marcèle all'Alfieri. I tre atti di A. De Lorde e Jean Marcèle, Marito
suo malgrado sono stati tradotti da Amerigo Guasti, capocomico della
compagnia Galli-Guasti-Bracci. È il Guasti che ha scelto, secondo le
convenienze della sua compagnia, e ha tradotto secondo il suo cattivo gusto.
Non si può giudicare chi sia l'«inventore» della filza di cose brutte che i due
autori francesi hanno intitolato Marito suo malgrado. Amerigo Guasti è
traduttore troppo «personale», perché sia lecito imputare gli autori francesi,
senza visione diretta del documento originale. Si può affermare solo questo:
poiché il Guasti, come «letterato», non brilla per troppa sensibilità al bello,
la sua scelta non può essere che caduta su una cosa brutta: egli ha poi
largamente abbondato nel trasformare in brutto italiano il brutto francese,
insaccando nei tre atti tutto il repertorio delle «aggiunte» a braccio che
normalmente inserisce nelle altre commedie che non ha tradotto.
L'intrigo dei tre atti è dei piú banali: un
imbroglione, munito di carte false, giustificanti un titolo nobiliare,
s'introduce in una onesta casa di ricchi borghesi per rubare una grossa dote.
Scoperto dopo la cerimonia legale, ma prima della cerimonia sentimentale, viene
arrestato, ma l'atto matrimoniale vive per il legittimo proprietario delle
carte e del titolo. Questi naturalmente odia le donne, ma poi, come suol
succedere, mantiene il matrimonio perché la sposina è... Dina Galli. I tre atti
sono infarciti dei soliti giochetti, contrattempi e doppi sensi che dovrebbero
far sbellicare dalle risa e infatti ci riescono: chi ha fatto la spesa per
andare a ridere, finisce sempre col ridere e divertirsi; si tratta, in fondo,
d'un punto d'onore.
(3 gennaio 1919).
«Pace in tempo di guerra» di Testoni al
Carignano. Nessuno aveva pensato ancora a consolare una delle tante
categorie di vittime della guerra: i padri di numerosa prole femminile da
marito. Alfredo Testoni ha colmato la lacuna, sfuggita all'attività sociale di
beneficienza, che pure sembrava non poter conoscere campi inesplorati.
La guerra ha ucciso, la guerra stimola a
ricostruire le generazioni; la guerra ha dissolto le famiglie, la guerra
moltiplica le famiglie: la natura è di un'astuzia diabolica. Alfredo Testoni,
come scrittore di commedie, deve essere rimasto molto seccato per le
vociferazioni che si diffondevano sulle conseguenze corrosive, della vita al
fronte dei mariti, per la fedeltà coniugale e non coniugale. La marea di
pessimismo diveniva in verità preoccupante: come poter piú scrivere una
commedia o una farsa se l'ambiente sociale si fosse definitivamente convertito
allo scetticismo? Era necessario un colpo di timone: Pace in tempo di guerra
è un colpo di timone, piú che una commedia; timone di gondola (se le gondole
hanno timone), per portare una pietruzza alla soluzione del problema dell'amore
in tempo di guerra e di dopoguerra. Pertanto Alfredo Testoni ha dimostrato che
è possibile ancora scrivere commedie o farse concludentisi con un matrimonio;
la sua si conclude con cinque matrimoni e scorre come dolce ruscelletto.
C'è un signor Bellotti con quattro figlie da
marito; graziose, veh! graziosissime, sebbene il padre sia imbecille e ridicolo
quel tanto che serve per un padre da commedia. Il signor Bellotti si preoccupa
per questi benedetti mariti, e tre delle quattro figliuole si preoccupano
secolui: tanto si preoccupano che sarebbero disposte, le tre, a sposare un
fornitore militare anzianotto, brutto e idiota. L'astuzia della natura soccorre
i naufraghi e si presenta sotto le spoglie pregiate di un tenente. Il tenente
Serra, come si chiama, espone una sua teoria sulle guerre e il matrimonio: la
vita di trincea ha infuocato nell'animo dei cittadini maschi l'aspirazione alla
pace domestica, con contorno di idillio e di figliolanza. Il tenente Serra è
una forza della natura e opera. Il fornitore militare viene liquidato in breve
tempo come si addice a un fornitore militare: con lo scorno e le beffe. Tre
figliuole scoprono di botto l'anima gemella e per loro la è fatta. Il caso
della quarta figliuola, che poi è la primogenita, essendo complicato e
romantico, serve all'intrigo centrale della farsa, che appunto per esso aspira
al genere commedia. Questa figliuola Alda è stata vilmente tradita da uno
scavezzacollo: la guerra tempra la coscienza dello scavezzacollo, egli si pente
e vuole riparare al malfatto. Resistenza da parte di Alda, trionfo finale della
forza della natura che legge una lettera-testamento, commuove i presenti fino
alle lacrime e raggiunge il suo fine: la commedia si conclude con cinque
fidanzamenti, poiché anche l'attendente del Serra sposa la cameriera delle
quattro signorine. Il popolo partecipa alla vendemmia d'amore.
I tre atti hanno avuto il successo di tutti gli
atti di Alfredo Testoni. Il buon umore fa buon sangue e, tra la guerra e la
febbre spagnuola, il buon umore e il buon sangue sono articoli che nei bazar
trovano compratori in abbondanza.
(10 gennaio 1919).
«Una donna qualunque» di Wilde al Carignano.
Una donna qualunque è una «moralità» scritta da un poeta che faceva
professione di immoralità, e che non era uno scrittore di teatro. È una
rappresentazione di vita semplice e complicata, ottimista e scettica, ingenua e
perversa, proprio com'è la vita «qualunque». E la commedia stessa è ingenua e
complicata: tessuta con un dialogo elegante e raffinato, quando chi parla è un
elegante e raffinato signore inglese, al quale la fortuna ha dato tutte le
condizioni per poter essere scettico ed egoista; «melodrammatica» quando
l'azione si svolge per opera di un ingenuo e istintivo giovane «morale»;
profondamente drammatica quando chi parla è una donna che ha sofferto. E la
posizione esteriore di ognuno è «qualunque» per un altro, è ridicola per un
altro, perché lo Wilde osserva il costume con occhio acuto piú di quanto non si
reputi utile osservare dalla comune degli scrittori drammatici che non sono
poeti: vede gli uomini distinti per classi e per gradi e per concezioni della
vita, e trova che la bellezza o il bene (bello e buono sono identici per lui) è
creata solo dagli «indipendenti», da coloro che operano per un fine di
meccanicità quattrinaria o tradizionale. Le compagnie drammatiche stanno
riabilitando in Italia la fama infame di Oscar Wilde, col presentare queste
vecchie commedie, nelle quali l'originalità spontanea dello Wilde si manifesta
genuinamente piú che nelle stravaganze e nelle avventure giudiziarie; è un
merito che si aggiunge alla esecuzione accurata che di Una donna qualunque
ha offerto la compagnia Carini.
(16 gennaio 1919).
«Il fanciullo che cadde» di Martini al
Carignano. Misteri abissali, sortilegi, inesplorate cavernosità di anime
dedaliche, tormenti senza confine e senza possibilità di espressione verbale e
che perciò domandano all'autore discorsi zeppi di parole (moltissimi aggettivi
e scarsi sostantivi), di metafore, di ampi gesti abbracciatutto, e agli attori
un'orchestica sostenuta e grave come di personaggi da tragedia greca.
Fausto Maria Martini appare, in questi tre atti di
Il fanciullo che cadde, come uno spirito pesante, goffo, di una
pedanteria filistea spessa come il fumo ammorbante di una lucerna da vecchio
letterato aristotelico. Non un guizzo vivo di fantasia, una costruzione lenta,
volontaria, meramente esteriore di parole e di frasi e di giri e di intrighi e
di spettacolosi duelli oratori, senza che dietro la nebbia verbale sia dato
scorgere un'anima viva, una concreta figura umana che si attui in una passione,
in una gioia, sia pure in una parola, ma che sia atto espressivo e non vuota
sonorità vocale.
Il fanciullo che cadde svolge una
successione meccanica di scene, nelle quali si contempla lo sgomitolarsi di due
stami vitali che la piú brutta delle Parche filò con soverchia velenosa saliva.
Gabriella è lo stame femmineo, Luciano quello virile. Tra i due esiste
sortilegio. Gabriella sposa il fratello di Luciano e Luciano per allontanare
dalle sue frementi nari l'afrore dell'incesto, salpa per l'Oriente profumato e
crudele. Ritorna alla morte del fratello, tutto fasciato di misteri, e che
trova? Gabriella ha un figliolino, nel quale il morto fratello rivive, e si
erge per separare; la madre non può essere l'amante, cosí come non poteva la
sposa. Ed ecco che Luciano, dopo una tonitruante spiegazione, parte «per
sempre» una seconda volta per l'ignoto, ed ecco che prima della sua partenza,
l'«innocente» cade nelle acque burrascose e miseramente affoga. Ed ecco che un
nuovo infrangibile misterioso schermo si frappone tra le due anime e un
viperino duello si inizia. Una dolce fanciulla, figlia della disperazione e di
Luciano, inventa un giuoco grazioso: richiama il misterioso padre presso la
misteriosa Gabriella e si fa galeotto tra i due. Il sortilegio crudele non
risparmia, ahimè, neanche la dolce fanciulla! Gabriella si dichiara pazza
d'amore, delirante di passione carnale per Luciano, sembra avvolgerlo in una
magia folle di desideri; lo trascina verso la voluttà, nella stessa camera
d'albergo dove il fanciullo cadde, lo invischia, bellissima e proterva, in una
squisita rete di parole capziose e gli fa confessare il delitto; egli, per
avere la donna, ha ucciso il frutto delle materne viscere. Quindi leva un
vindice pugnale. Ed ecco il sortilegio: Luciano disarma Gabriella e le rivela
che è innocente e aveva compreso il viperino agguato e aveva secondato il
giuoco per meglio conoscerne l'anima nera. Quindi riparte «per sempre», seco
portandosi il pugnale, mentre Gabriella pazza di vero amore, si contorce nel
letto illibato.
Cosí il sortilegio si chiude, a meno che Fausto
Maria Martini non lo riprenda per rifondere tutto il dramma in un romanzo di
pirati e corsari dell'arcipelago o in una «film» a lungo metraggio per Febo
Mari e Pina Menichelli.
(23 gennaio 1919).
«L'arch an cel» di Leoni al Rossini.
Il signor Mario Leoni, al secolo commendatore Giacomo Albertini, ex deputato al
Parlamento nazionale, sezione elettiva, ha ieri presentato al pubblico del
teatro Rossini l'ultima novità del suo bazar spirituale da rivendugliolo di
Porta Palazzo. La novità è intitolata L'arch an cel e si compone di
quattro atti, coi personaggi che parlano in dialetto piemontese. Altra volta,
scrivendo di una commedia di Mario Leoni, abbiamo affermato che cattive azioni
di questo genere non dovrebbero rimanere impunite, e ci siamo augurati che per
il signor Mario Leoni si restaurasse la pena corporale che nel Medio evo puniva
le donne adultere: una passeggiata per le strade cittadine a schiena d'asino,
col corpo nudo impegolato e variegato di penne di pollo.
Il signor Mario Leoni non è uno scrittore, anche
se per scrittore s'intenda chi compila l'Almanacco di Chiaravalle o il Libro
dei cuochi. Mario Leoni è un rozzo uomo, che ha per cuore una bistecca e
per cervello una spugna da massaggio. Con la sua praticoneria da esercente
furbo, infarcisce zibaldoni verbali, speculando sul candore e l'ingenuità del
pubblico popolare, come una astuta mercantessa di carne femminile può speculare
sui primi brividi della pubertà degli adolescenti allevati a bacioni materni e
a caramelle sororali. Non è possibile che neanche un'ombra di rispetto si possa
sentire per le fatiche di questo dozzinale acciabattone, che non rispetta nulla
e nessuno, che mercanteggia la commozione istintiva per il dolore materno,
imbrattandolo subito dopo con la piú goffa buffoneria, che impiastriccia le
commedie con la stessa disinvoltura che serve allo straccivendolo per ficcare
in un sacco sudicio tutti i rifiuti della vita. Col signor Mario Leoni non è
possibile, e sarebbe indecoroso, anche accennare a uno spunto critico: non si
può dialettizzare il tanfo.
La reazione adeguata e omogenea alle fatiche del
signor Mario Leoni può solo essere di natura fisica: una pena corporale come la
suddescritta, integrata con qualche beffa del genere novelle cinquecentesche
con protagonista il secco e triste pedagogo.
(28 gennaio 1919).
«Madonna Oretta» di Forzano all'Alfieri.
Una burla, come in tutte le commedie cinquecentesche che siano «veramente»
cinquecentesche, compone e scioglie l'intrigo dei tre atti cinquecenteschi
della Madonna Oretta di Gioacchino Forzano. Madonna Oretta è una
fiorentina, spirito bizzarro, scaltra e procace, che ricerca in diversi amatori
quella razione di felicità, cui ha diritto la sua beltade e il suo vivace
temperamento, e che suo marito, l'anzianotto e grossolano Luca, mercante
dell'arte della seta, non può ministrarle. Ma Oretta non è poi cosí scaltra e
spiritosa e cinquecentesca come il Forzano vorrebbe farci credere di averla
fantasticata; la poverina credeva anch'essa di essere scappata fuori, come un
fiore di vita, da una novella del Cinquecento, ma poi illanguidí, la meschina,
e si fece romantica e sentimentale come una violetta del pensiero e della vita
moderna rappresentata in una pochade parigina. Ed ecco come Oretta vive,
spensierata e raccolta, nella bottega di Luca, tra gli affari e l'amore: ma un
giorno si incontra con un bel cavaliere, il conte Gherardo di San Gimignano,
che le appare come san Michele nell'atto di liberare un mercante fallito dai
suoi rozzi persecutori. Per un «abile» colpo di pollice del caso, Oretta
duella, nella maritale bottega, con Genoveffa, amante del conte, e le infligge
un solenne scorno. Quindi si incontra col cavaliere, un uomo fatuo, un
presuntuoso, e nella sua scaltrezza, vuole staccarlo dall'amante, scoprendogli
come lei, proprio lei, Oretta, che il cavaliere presuntuosamente ha giudicato
donna fedele, abbia due amanti e simultaneamente meni per il naso tre uomini. E
per convincere meglio il cavaliere della sua ignoranza, rimasta vergine pur
attraverso una infinita serie di esperienze amatorie, Oretta pensa la burla: si
traveste da giovine poeta e seduce Genoveffa e si fa sorprendere. Ma su quale
mai rozzo e maldestro cavaliere aveva Oretta posato il suo amore: Oretta è
innamorata e Gherardo è persuaso sia una commediante, Oretta si strugge e
lacrima e Gherardo si infurbisce ancora e non può credere. Il dio d'amore è
veramente bisbetica ed enigmatica creatura del destino. E cosí Oretta, la
spensierata Oretta, la scaltra mercantessa di sete, ridiventa saggia
provvisoriamente e si abbandona sul petto maritale di Luca. Ma Oretta è
piaciuta lo stesso, anche se poco cinquecentesca, anche se operante in un mondo
fittizio, artefatto, fuori di ogni spazio e di ogni tempo, anche se un po'
stupidella, essa stessa, per la curiosa pretesa di essere persona viva
nell'arte letteraria, pur fuori della individualità della Galli, e di muoversi
e agire, e reagire, tra i cartoni dipinti, a uomini cinquecenteschi, vivi solo
nel movimento degli attori. È piaciuta, ha divertito, ha fatto ridere
fisicamente; il solo fine che l'autore stesso forse si riprometteva di
raggiungere.
(5 febbraio 1919).
«Il giuoco delle parti» di Pirandello al
Carignano. Nel primo atto del Giuoco delle parti, Luigi Pirandello
inizia la presentazione della «moglie» come personificante la visione che della
fisica della vita hanno gli scultori e i pittori del futurismo post-cubistico:
l'inferiorità spirituale è una scomposizione di volumi e di piani che si
continuano nello spazio, non una limitazione rigidamente definita in linee e
superfici. Il «marito» invece è fortemente accentrato in un io ragionante, ben
levigato e ravviato come un concetto puro, che gira intorno a un pernio,
trottola silenziosa che la volontà, resa libera da ogni contingenza
condizionatrice, fa roteare sopra un piano di vetro. Evidentemente le due
creature non possono sistemare un ordine di rapporti di convivenza affettuosa:
il marito è impenetrabile ai piani e volumi vibratili della moglie, e questa,
non riuscendo a continuarsi nel marito, se ne sente limitata, ella che per
natura deve continuarsi in tutte le vite spirituali e in tutti i territori del
mondo, e soffre e smania e aspira alla liberazione del suo io, inevitabilmente
aspirando alla distruzione del suo incoercibile contraddittorio. Il concetto
puro trionfa del protoplasma vibratile: la filosofia classica trionfa di
Bergson; le contingenze si sottomettono alla volontà della trottola socratica.
C'è un «amante», perché la commedia rientra nella serie dei terzetti teatrali,
ma l'amante non impersona alcuna idea; è sorda materia, è oggettività opaca, è
il «fesso» della vita, che logicamente è condotto a rimetterci la pelle, perché
la dialettica dei contrari giunga a uno svolgimento che potrebbe essere la
lacrima del concetto puro e l'urlo belluino del protoplasma in movimento: la
umanità, insomma, che sbalordisce ritrovare ancora in tanta orgia di girandole
filosofiche da insegnante in un liceo di provincia. Banalmente esprimendosi: la
moglie vuol disfarsi del marito; insultata come moglie, vuole che il marito si
batta in duello. Il marito non la intende cosí e costruisce, sulle contingenze
che la natura esteriore al suo io gli getta tra i piedi, il trionfo della
ragione logica: accetta il duello all'ultimo sangue e poi non si batte,
costringendo a battersi e a farsi uccidere, l'amante che è il vero marito. La
vita è per lui, concetto puro, un giuoco meccanico, di cui prevede e dispone a
priori le parti, facendo sempre scacco matto.
La commedia del Pirandello non è delle migliori
del genere Pirandello: il giuoco vi è diventato meccanismo esteriore di
dialogo, puro sforzo letterario di verbalismo pseudofilosofico.
L'incomprensione reciproca delle marionette sceniche si è proiettata nel
teatro: pieno dominio di monadi senza porte e senza finestre, incomunicabili e
incoercibili, l'autore, i personaggi e il pubblico.
(6 febbraio 1919).
La serata della Vergani al Carignano. Per
valutare anche approssimativamente le capacità creatrici di una attrice come
Vera Vergani non si può prescindere dalla necessità di un giudizio riassuntivo
e sintetico su tutta l'opera sua di artista.
Vera Vergani nulla ha da temere nell'affrontare un
simile giudizio che non può non tenere conto di tutti gli elementi che possono
giustificare le poche e lievi manchevolezze che si rintracciano nelle sue
interpretazioni.
Ma sono queste piccole incertezze che dànno
maggiore rilievo alle non comuni virtú della Vergani. Essa è talora imprecisa
perché non calca le scene come una marionetta, ma vive, ama e soffre la fugace
esistenza di cui le è affidata la creazione. Sono doti che non potevano
sfuggire al gran pubblico, anche se degli sforzi solitari e tenaci di qualche
artista coscienziosa non si cura. Il valore persuasivo delle interpretazioni
della Vergani ha finito per vincere.
Accanto a Ruggero Ruggeri essa non è affatto
sacrificata, appunto perché ha raggiunto una maturità che le può permettere di
trasfondere la sua personalità indipendentemente da qualsiasi contributo
estraneo.
Ieri sera, per la sua serata d'onore, essa ottenne
un vero trionfo. Dopo il terzo atto fu chiamata sei volte al proscenio. Il
teatro Carignano era affollatissimo.
(22 febbraio 1919).
«U baruni di Carnalivari» di Campanozzi
all'Alfieri. È un'efficace rappresentazione della «scemenza» meridionale
(siciliana). La scemenza meridionale è una particolare scemenza, per due
rispetti: genericamente e specificamente, è meridionale ed è di casta. Lo scemo
meridionale è diverso dallo scemo toscano (Stenterello), è diverso dallo scemo
lombardo (Marchese Colombi, per es.). Ma nella scemenza che è generica si
distingue una scemenza specifica: quella del barone, del signorotto feudale che
si maschera di decoro, che ha delle pretensioni; nel semplice «uomo», rozza
umanità senza intelligenza che si colora per atteggiamenti particolari, essa è
spettacolo pietoso; nel barone essa è possibilità infinita di comico. Il barone
scemo vuole essere qualcosa, crede di essere un valore umano; egli è il suo
titolo, è una tradizione di boria, altezzosa coi deboli e strisciante coi
forti, è un rapporto tra un essere e un presumersi; tra l'essere abietti,
incapaci, ottusi, analfabeti, pietosi, e il presumersi superiori a tutti gli
uomini perché si è nobili e gli altri sono scarpari, falegnami, zappatori, «gente
che deve lavorare per vivere». Lo «scemo» barone non è neppure piú un uomo: è
una scimmia. Non basta: ha dimenticato di essere uomo, non riesce a concepire
l'uomo. Il lavoratore meridionale (il lavoratore della terra) è quadrato,
robusto, dalla voce profonda, musicale e vigorosa; il barone è degenerato
fisicamente, è una decomposizione fisiologica oltre che una decomposizione
sociale, è diverso dall'umanità laboriosa che lo circonda nel tipo fisico,
nella voce, nel gestire, oltre che per la casta e la moralità.
Francesco Campanozzi ha vigorosamente
rappresentato uno di questi scemi nei tre atti che umilmente chiama di farsa. E
certo non può esserci tragedia o dramma in uno di questi baroni, e i tre atti
sono «storici»; non può esserci commozione profonda, conflitto interiore, urto
di grandi passioni nobili o infami. Non può esserci alcuna cosa grande, nel
bene o nel male, che sia inerente a umanità: è un balzellare fisico e un
crepuscolo tremolante dello spirito e dell'intelligenza, un'inettitudine assoluta,
all'azione e al pensiero che solo talvolta si scuote per un istinto confuso
della famiglia. Il Campanozzi ha dato espressione plastica a questo mondo che
tramonta; ne ha saputo fissare con esatta evidenza alcuni momenti essenziali,
anche se il carattere (in senso artistico) centrale non gli è apparso che in
uno sviluppo di insieme spesso forzato e scolorito, con antitesi crudamente
meccaniche. U baruni di Carnalivari vive tuttavia, e non è spesso che
nel teatro si vedano creazioni vive.
(12 marzo 1919).
«L'uccello del paradiso» di Cavacchioli
al Carignano. Il teatro modernissimo italiano (Pirandello, Antonelli, di
San Secondo, Veneziani... e Cavacchioli) risulta in gran parte da un piccolo
errore: questi autori, nello studio della belletristica inglese, volendo
arrivare a Bernard Shaw, si sono smarriti nel dedalo delle avventure di
Sherlock Holmes. Lo stampo della loro fantasia è da ricercarsi nella vasta
fronte di mister Conan Doyle, divenuto baronetto per meriti letterari; in ogni
loro commedia l'intrigo è ordito per lumeggiare le sublimi facoltà di
intuizione critica di un poliziotto dilettante dello spirito ovverosia della
psiche umana: le avventure ideali si connettono per ragione filata, si
sviluppano con ritmo sicuro, si intrecciano, si accavallano, si mescolano,
unite sempre da una sottile bava di ragno, sulla quale un folletto danza
gioiosamente, caprioleggiando, rischiando triplici e quadruplici salti mortali,
per ricadere sempre in piedi, gentile, fresco, ilare, smorfieggiante a destra e
a mancina per esporsi e proporsi all'ammirazione universale.
È una fantasia legnosamente arida, che scoppietta
e frigge per una goccetta d'olio rovesciata dalla lucerna, alla quale si
compulsarono gli articoli sulla filosofia delle dame. Una fantasia matematica,
una fantasia di ingegneri che sanno il fatto loro, una fantasia da curiosi di
sapere come la fantasia era fatta, i quali pertanto l'hanno recisa per
notomizzarla e veder com'era fatta.
Divertono, pur annoiando un po' per la pedanteria,
della quale sono figli non degeneri. Divertono e interessano, perché, insomma
questi giovani adempiono pure a un compito: rendere intollerante la vecchia
moda del teatro romantico da appendice, sfrenare una irrequietudine interiore e
corrodere i sedimenti di sugna inacidita che facevano grossi i cuoricini piú
microscopici. Ma non sono che uccelli di paradiso impagliati o che saranno
impagliati tra breve dagli archivisti delle biblioteche teatrali; non godono
della libertà, sono legati a un cordino come i rospi che divertono i monelli;
sbalzellano, goffi alquanto per la finzione della libertà, e ricadono molli. È
difficile analizzare le loro commedie, senza dilungarsi sazievolmente; non si
può essere severi, perché esse sono una istituzione del gusto, che non ha
ancora esaurito il suo ufficio storico. Sono quasi sempre ben eseguite, perché
domandano studio e lavoro e spoltriscono i facili schemi irrigiditi degli
attori. L'uccello del paradiso, confessione (!) in tre atti di Enrico
Cavacchioli, ha dato modo al Betrone, alla Melato e agli altri bravi artisti
della compagnia Talli di determinare una esecuzione che vale in se stessa.
(20 marzo 1919).
«Ridi pagliaccio!» di Martini
all'Alfieri. Giovanni Schiffi, in arte Flick, è un uomo che soffre. Ma
questo dolore, questa sofferenza atroce del pagliaccio Flick, dipende da una
mera condizione del suo essere fisico; può suscitare la pietà, come la
susciterebbe l'esposizione in palcoscenico di un lebbroso, di un cieco, di un qualsiasi
infelice accasciato sulla sua sventura che gema e ululi e si contorca. Il
dramma (!) di Fausto Maria Martini è costruito coi procedimenti del Grand-Guignol;
l'umanità, come poesia, come spirito, come intelligenza che supera e comprende
l'essere fisico, vi è assente. Ci troviamo dinanzi a un referto da
neuropatologo, un tale che non può ridere, che non può godere, che non può
vivere, a una fontanella di lacrime ambulante. È un pagliaccio; è un
professionista del riso; ci sarà un contrasto, il dramma nascerà appunto da
questo contrasto mostruoso. No, l'autore non pone il dramma in ciò; è un
incidente questo contrasto, non è essenziale motivo, e forse non potrebbe
esserlo perché la professione di pagliaccio a quanto si sappia non è inerente
alla natura umana, non attributo necessario di una passione o di un essere.
Flick si domanderà perché, a lui, innocente, sia toccata una tale sciagura,
interrogherà la natura, interrogherà gli uomini, si rivolgerà alle stelle e
alla luna, magari, per sapere la ragione, maledirà, imprecherà, diverrà
patetico rimprovero dell'inconoscibile, del destino, di Dio, del caso perverso
che lo ha cosí foggiato, che lo ha condannato a essere l'ombra della vita,
senza amore, senza sorriso, senza contrasto tra la gioconda risata e la amara
lacrima. Niente di tutto ciò, assolutamente nulla; Flick è un mero referto da
gabinetto medico, Flick ha per anima una cipolla lacrimogena, non una sorgente
di poesia e di dolore umano.
I contrasti sono ottenuti con mezzi esterni;
l'uomo che piange si incontra con l'uomo che ride, che ride senza motivo come
egli piange senza motivo: due maschere s'incontrano presso uno specialista e si
prendono sotto il braccio, iniziano una vita comune; si completano? nasce da
questo contatto un principio di vita? Neppur questo. Una donna è coi due; essa
è la consolatrice di Flick, a quanto Flick afferma; ma non è amata da Flick,
non determina nel suo cuore un senso, un moto che possa svolgersi in una
dialettica e condurre a una evasione dal cerchio chiuso della mera sensibilità
animalesca del soffrire. L'uomo che ride guarisce, lui, nell'amore, si porta
via la donna nella gioia che non è piú secco scoppiettio d'ilarità effimera;
Flick non soffre per ciò, il suo dolore non si modifica, il dramma rimane puro Grand-Guignol,
esposizione del meccanico decomporsi di un essere umano per reazioni
fisiologiche, a grande effetto, rozzo verismo senza soffio di poesia. L'intrigo
è preparato per lo scioglimento; lo scioglimento è a grande effetto, e
l'effetto è riposto nella virtuosità dell'attore.
Il prof. Gambetta, neuropatologo, aveva
consigliato a Giovanni Schiffi di recarsi ad ammirare il pagliaccio Flick e di
abbandonarsi alla giocondità che il pagliaccio dispensava nella sala. Ed ecco
che Giovanni Schiffi ricerca in se stesso il riso, in se stesso (ohibò, non
pensate che il Martini abbia ricavato da questo motivo una ricerca
dell'interiorità) riflesso negli specchi, e danza e folleggia, e ride e si
uccide, pugnalandosi, sempre nient'altro che maschera senza anima, senza
poesia, senza un briciolo di umanità spirituale.
(21 marzo 1919).
«La ca' veuida» di Nicola al Rossini.
Esistono ancora uomini che credono nelle forze buone che pure conducono e dànno
una configurazione alla vita: la bontà, la lealtà, la generosità e gli altri
astratti che abbondano nei libri delle educande.
Il Nicola è uno di questi e La ca' veuida è
un'affermazione di fede. Una onesta e illibata figlia di magistrato pecca col
suo fidanzato che deve partire per il fronte e muore. È dessa indegna del
genitore e della società? La lealtà la rigenera, la generosità di chi la
circonda le ridà un compito e una missione nella vita: la casa che si era
vuotata sotto i colpi del destino, si riempirà nuovamente di sorrisi e di
speranza. Il dramma è condotto molto ingenuamente e perciò talvolta assume toni
accademici e predicatori, ma forse perciò appunto si cattiva le simpatie: sente
di buon odore casalingo, e alla fin fine si è nauseati dei tanti che speculano
sullo scetticismo e il cinismo, che rinnegano i valori tradizionali della vita
e si mettono, il piú delle volte, fuori di ogni vita. Si rimane colpiti dello
strano fatto che qualcuno prenda ancora sul serio gli ammonimenti del buon
Giannetto: e forse è vero, come avverte Benedetto Croce, che il Buon Giannetto
dovrebbe essere riletto e meditato da molti.
(27 marzo 1919).
«L'innesto» di Pirandello al Carignano.
Esiste nell'arte del giardinaggio una forma di innesto che si pratica nel mese
d'agosto e si chiama innesto a occhi chiusi. La pianta accoglie «amorosamente»
il tallo, col quale la mano rude ma esperta del villano la violenta, lo
assimila al suo amore, al suo desiderio di frutto, lo accoglie a «occhi
chiusi», nutrendolo della sua follia, di tutta la sua vita che aspira alla
maternità, alla creazione di nuove vite. Chi domanderà alla innocente pianta
l'origine legittima della sua fecondità? Anche la signora Laura Banti è una
sterile pianta, violentemente aggredita da uno sconosciuto villano, la quale ha
ricevuto a «occhi chiusi» il germe vitale che la renderà madre, e lo ha
assimilato alla sua vita, al suo amore, e lo ha nutrito di tutto il suo
spirito, del quale è essenziale parte lo spirito, l'amore e il corpo fisico del
consorte legittimo. Solo che questo legittimo e ben individuato consorte ha i suoi
scrupoli e la sua suscettibilità e la sua volontà che sono due con quelli della
moglie e non solo uno come nello stesso fiore sterile il pistillo e il gineceo
che compiono il rito fecondatore senza nulla generare. Come venga superato lo
stato d'animo di Giorgio Banti, come Giorgio Banti finisca col dividere la
follia amorosa di sua moglie e accettare per suo (credere suo) il figlio
nascituro, dovrebbe essere argomento di questi tre atti del Pirandello.
Il quale non ha voluto e non ha osato affrontare apertamente
la concezione elementare della commedia: un figlio è solo fisica generazione,
mero prodotto di un accoppiamento casuale, oppure è amore essenzialmente, nuova
vita che scocca dalla fusione intima permanente di due vite? E ha irrigidito
un'azione, ricca di umanità e di liricità, intorno a una fredda metafora da
giardinaggio, e ha finito col credere, un po' anch'egli, all'accostamento
artificiale tra gli uomini e le piante e ha presentato questo problema
sessuale, che è poi fondamentale nella vita degli uomini, avvolgendolo in una
artificiosa bambagia di dialogo a mezzi termini, ad accenni, a furtività
sentimentali, accatastando tre gradi di vita in cui il problema si presenta (la
pianta, una rozza villanella e la spirituale signora Banti), quasi non sapesse
come esprimere al pubblico e come organare in atto la concezione che pure era
chiara nella sua fantasia.
Sono stentati i tre atti, prolissi nella loro
secchezza e congestione. L'argomento è posto, ma non vivificato, la passione e
la follia sono presupposte, ma non rappresentate. Il Pirandello non ha neppure
realizzato una di quelle sue «conversazioni» drammatiche, che se non conteranno
molto nella storia dell'arte, avranno invece molta parte nella storia della
cultura italiana.
(29 marzo 1919).
«Fedeltà» di Calzini al Carignano.
Abitava a Siviglia, nel tempo stesso quando Michele Cervantes scriveva il Don
Chisciotte e il Geloso d'Estremadura, un artiere del marmo che aveva
una moglie bellissima ma fantasiosa e bizzarra assai. Questo marito accoppiava
al genio artistico una crudelissima volontà amatoria verso la moglie sua
Soledad; il capriccio giunse in lui fino al punto che preparato avea una
tagliola, nella cui morsa le trecce della donna assicurava, e solo cosí di lei
era sicuro e poteva attendere ai perigliosi lavori di architetto e di
capomastro. Ma la donna lo tradí ugualmente, pur dolorando nelle braccia
dell'amante, per la tagliola che le irrigidiva la nuca e le spalle; lo tradí
per smania di libertà, per provare a se stessa di essere creatura umana vivente
e non vile schiava, non proprietà di un padrone; lo tradí col primo uomo che fu
tanto ardito da tentare la sorte, in quella misteriosa casa di un sí crudele
padrone, posta accanto alle carceri risonanti delle urla dei pazienti torturati,
avvolta di sanguigni riflessi patibolari attraversati dalle piacevoli figure
dei carnefici, dei manigoldi, dei confessori, delle confraternite e dei
becchini. Ma il brutto giuoco dura poco: la fatalità si compie. Il marito
precipita nel vuoto, poiché solo l'amore di Soledad lo teneva aggrappato alla
vita e lo preservava dal capogiro, e muore. Soledad è libera, diventa fedele al
morto; il tradire per lei era lotta per la libertà, per il possesso di se
stessa; era un duello, e il duello si fa in due. L'amante viene discacciato, ma
anch'egli è spagnuolo, è andaluso, è geloso, è crudele, per di piú si avvale
dei servizi di un parassita, il quale naturalmente è un italiano, un italiano
disperato, affamato, ma il cuore gonfio di poesia, di dolce malinconia che si
traveste in giocondità e brio, il quale a sua volta si innamora di Soledad. Il
primo amante rivuole a ogni costo Soledad e la ricatta: va a un convegno e
viene pugnalato dalla fantastica donna che circuisce quindi l'italiano con le
sue reti e lo convince a trasportare il cadavere fino al prossimo fiume.
Nel dramma del Calzini appaiono molte orme (orme
sulla sabbia): v'è un pizzico di Villiers de l'Isle-Adam delle Novelle
crudeli, un pizzico di Beaumarchais creatore di Figaro, qualche
granellino shakespeariano, e persino un briciolo di Sem Benelli. Manca un
autore unico, un poeta unico che unifichi e vivifichi nella sua fantasia tanti
figurini; del Calzini c'è solo un'abbondante frasca di parole, che
impressionano spesso con abbaglianti luccichii e roboanti sonorità.
Una bellissima messa in scena e una accurata e
diligentissima interpretazione della Melato, del Betrone, dell'Olivieri, del
Marcacci.
(6 aprile 1919).
«Acidalia» di Niccodemi all'Alfieri.
Il filosofo Filippo Carmi ha girato il mondo piú che Guido da Verona per
studiare l'infedeltà femminile in tutti i suoi rapporti con la vita degli
uomini, individui e associati. Ha tuttavia scritto già una cinquantina di
volumi sull'argomento, e non riesce a concludere la sua laboriosa fatica,
poiché gli manca l'esperienza personale dell'infedeltà e della gelosia: egli è
una calamita che polarizza verso l'amore, l'onestà e tutte le virtú cardinali e
teologali ogni donna in cui s'imbatte: non conosce Acidalia, cioè Venere
inquieta, e affannosamente la ricerca, per dovere di filosofo e di uomo morale
che si è proposto la nobile missione di guarire radicalmente l'umanità dalla
schiavitú sessuale. Nei primi due atti di questa commedia del Niccodemi si
assiste ai vani tentativi che il filosofo Pippo fa per essere tradito da una
giovine donna che vuole essere onesta finalmente, dopo essere stata l'amante di
mezzo mondo; nel terzo atto il filosofo Pippo scopre, nello spazio di qualche
ora, di essere stato lo zimbello di tutti, di essere stato tradito da tutto e
da tutti e di non essere un filosofo, ma un poveruomo qualsiasi: si consola con
una sua segretaria.
Tutto ciò è presentato con molta disinvoltura,
senza altra preoccupazione che non sia quella di far ridere fisiologicamente a molto
buon mercato: ai tre atti manca ogni intenzione d'arte e ogni elaborazione,
anche superficiale; sono un vero scoppiettio di parole infilzate con molta
praticaccia del mestiere.
(8 aprile 1919).
«La fiaba dei tre maghi» di Antonelli al
Carignano. Per Luigi Antonelli la sostanza di questi suoi tre atti è una
«avventura fantastica». La definizione è molto pretenziosa, e implica un
giudizio di perfezione: come si dovrebbe definire il Sogno di una notte di
mezza estate dello Shakespeare?
Nei tre atti c'è poca avventura e pochissima
fantasia; abbonda invece la scaltrezza letteraria, abbonda lo spirito pratico
che freddamente applica un metodo e riesce a sistemare un certo equilibrio che
dà l'illusione dell'armonia.
L'avventura è il dominio dell'imprevisto, della
vita che fiorisce spontaneamente nuova e attuale dal suo morto passato; se la
fantasia dell'artista vive questa attualità, sboccia la poesia, si realizza il
capolavoro nell'armonia dei caratteri umani, delle azioni che da questi
caratteri sono determinate e delle immagini che la espressione suscita. Nessuna
avventura nella fiaba dell'Antonelli: essa è una moralità, è una dimostrazione
logica, è una tesi, una vecchia tesi diventata accademica e pedantesca per
essere troppo ripetuta, una tesi che l'Antonelli nega in atto nel tentativo di
fermarla. La giustizia e la verità uccidono, la poesia vivifica. I tre maghi
della verità, della giustizia e della poesia si mischiano alla vita degli
uomini. La Verità
mette a nudo l'essenza di ognuno: ciarlataneria, tradimento, ipocrisia,
violenza cozzano e minacciano di condurre al mutuo sterminio. La Giustizia
conseguentemente fa giocare le cause e gli effetti: un disastro, uno squallore,
la disperazione, il suicidio. La
Poesia ricompone, tira a lucido, folleggia, dà impulso alla
continuità. La favola centrale è poverissima: una comitiva di amici casuali
sbarca in Europa con un bambino: il bambino viene assassinato. Da chi? Giuoco
della Verità. È responsabile un figlio, è giusto che un figlio subisca una
qualsiasi sanzione, ché un padre epilettico ha ucciso senza sapere che si
facesse? Giuoco della Giustizia. Come può risanare un principio vitale dalle
rovine accumulatesi per l'affermarsi delle due prime forze? Giuoco della
Poesia. La secchezza del processo di sviluppo è invano rivestita di brillantina
verbale; nel terzo atto il giuoco non basta piú, le parole si stemperano. La
commedia rinnega se stessa; la poesia non vivifica. Fin dove essa si mantiene
nel dominio delle premesse la scaltrezza letteraria riesce a suscitare
l'interesse, la curiosità si tende ansiosa se non commossa. Ma l'albero della
vita non emerge, non incanta con l'atteso lusso di fiori, di colori, di frutti:
una banale sequela di bozzetti e una coreografia snervata e tediosa concludono
la commedia.
(13 aprile 1919).
«L'intesa» di Rocca e «La
trappola sentimentale» di Vecchietti all'Alfieri. La commedia di
Gino Rocca è una lievissima costruzione scenica, culminante in un epigramma che
può essere diversamente gustato e che va oltre l'intenzione stessa dell'autore,
fervente interventista. Una cocotte italiana divide la sua grazia con
tre soldati: un inglese, un francese e un italiano (l'italiano è imboscato); in
essa ognuno dei tre trova un fascino come nell'intesa politica ognuna delle tre
nazioni (l'italiano è l'amico del cuore, metafora che il dilettantismo morale e
politico dell'autore getta lí, con una disinvoltura che in altri tempi e in
altri sarebbe giudicata cinico e malvagio disfattismo). Un bozzetto senza
importanza e senza altra conseguenza che non sia una risatina nervosa a fior di
pelle.
I tre atti di Pilade Vecchietti sono invece una
complessa costruzione: essi seguono il modello classico della commedia
d'intreccio. Bisogna, in fondo, congratularsi con l'autore, che ha avuto
l'audacia di tornare all'antico, in questi tempi di frenetica modernità, di
spasmodica ricerca del nuovo e dello strano. La trappola sentimentale
espone i casi di una moglie trentacinquenne che sfiora l'adulterio e viene
salvata dall'accorto e intelligente marito. Tutti i pezzi dello svolgimento
sono preparati con cura e diligenza: la moglie può innamorarsi del primo uomo
che le fa la corte (Paolo Anselmi), il marito, che possiede un intiero, un
copioso epistolario amoroso di un ignoto anonimo, fa pervenire alla moglie
queste lettere, le crea l'illusione di un innamorato misterioso, la culla in un
incanto sentimentale che rende ripugnante la realtà. Ma l'autore delle lettere
è proprio l'Anselmi, il quale tenta di rivolgere a suo giovamento l'astuzia
dell'accorto marito, rimanendo finalmente sconfitto. Una commedia bonaria,
senza pretese, che si sgomitola pacatamente e si ascolta senza alcuna scossa e
nessuna reazione: un bicchiere di acqua con pochi sali.
(15 aprile 1919).
«La volata» di Niccodemi al Chiarella.
L'officina irrompe nel palazzo. Il vecchio palazzo aristocratico, dove i
sentimenti, gli affetti, le abitudini, i rapporti familiari sono diventati una
muffa variopinta alla superficie ma germinata da una putredine fondamentale, è
assediato dalla fervida attività del lavoro moderno, che lo sgretola e provoca
numerosi crolli. Il lavoro vince il palazzo, il compartimento stagno della
casta si sfascia sotto i colpi di maglio del proletario: la contessina Dora si
ribella alla tirannia delle convenzioni ancestrali e sposa Mario Gaddi, un
modesto operaio che si è aperta la strada nel mondo con la tenace volontà e
l'intelligenza natia.
Il motivo ritorna spesso nel teatro di Dario
Niccodemi. Il Niccodemi, come preparazione intellettuale, come esperienza
sociale e storica, dipende direttamente dai romantici francesi del '48; è un
epigono spirituale degli scrittori borghesi che nel romanzo, nel dramma, nella
poesia continuarono la battaglia ideale per i diritti dell'uomo, per
l'uguaglianza di fronte al cuore e al sentimento, vinta dai loro antenati
dell'89 per i diritti dell'uomo, per l'uguaglianza di fronte alla legge.
Il Niccodemi è un Giorgio Ohnet in ritardo, e
Giorgio Ohnet era già in ritardo a Eugenio Sue, a Victor Hugo e alla infinita
schiera degli scrittori di appendici. Ma il motivo ha conservato una virtú di
suggestione: riesce sempre ad avvincere e a commuovere, segno che il costume
non si è modificato ed arricchito sentimentalmente e razionalmente con lo
stesso ritmo della legge scritta e del progresso meccanico. La lotta di classe
è vista dall'angolo visuale della tenerezza e del buon cuore: non è neppure una
distinzione di classi che si fissa, ma una convenzionale caricatura degli
uomini, secondo le categorie morali del bene e del male, secondo le categorie
letterarie dell'angelo e del piededicapra, secondo le categorie oleografiche di
lavoro e del sangue putrido. Sdolcinature piccolo-borghesi, che avrebbero
provocato il vomito a Ottavio Mirbeau, e susciterebbero un sorriso ironico sul
labbro di Massimo Gorki; prodotto di una invidiuzza inerente alla mentalità del
borghesuccio francese che non sa perdonare alla propria mediocrità di sentire
una grande ammirazione per il nobile, col quale spera di imparentarsi. Il
Niccodemi non si innalza di un dito sulla statura intellettuale e artistica di
Carolina Invernizio. La volata è costruita coi procedimenti teatrali
abituali al «mago» della scena italiana: grandi urti, situazioni piccanti,
conflitti esasperati, che fanno scoccare il desiato applauso promettitore di un
buon numero di repliche.
(24 aprile 1919).
Gli spettacoli al Teatro del Popolo. Con L'onore
di Sudermann s'è iniziato sabato sera il corso delle rappresentazioni al Teatro
del Popolo. La interpretazione della interessante commedia, a fondo psicologico
e filosofico, è stata condotta con vero senso artistico dalla compagnia
Sangiorgi-Carini, i cui attori sono stati ripetutamente, insistentemente
applauditi a ogni fine di atto e anche durante lo svolgimento dell'azione. La
commedia ha interessato moltissimo il nostro pubblico che ha potuto vedere e
sentire condito in tutte le salse il concetto borghese e bottegaio
dell'«onore», che nella società capitalista si compra e si vende come una merce
qualunque. E ha applaudito fragorosamente alla invettiva che Roberto, il
giovane laborioso emerso dalla nullità del suo ambiente, ha lanciato contro i
ricchi, padroni dei corpi e delle anime della povera gente.
Interessantissima anche la brillante commedia
rappresentata nella giornata di domenica: Il deputato di Bombignac. L'allegra
satira dei costumi parlamentari e delle leggerezze dell'alta aristocrazia non
poteva non divertire il pubblico che frequenta i nostri ambienti dato il
periodo di dissolvimento che stanno attraversando le classi dirigenti d'Italia
e di altri siti.
Non cosí vivo interesse ha destato domenica sera
il dramma di Bernstein: La raffica, dove l'azione si svolge
esclusivamente nel mondo borghese della nobiltà infrollita dall'ozio e
incartapecorita negli affari. I lavori capaci di emozionare il nostro pubblico
sono quelli che mettono a contatto il presente con l'avvenire, i dominatori
cogli oppressi, il sistema sociale dell'oggi colle ardite speranze del domani.
E questo crediamo sia il concetto ispiratore della benemerita commissione del
teatro.
Il locale ampio e arieggiato di Corso Siccardi è
stato sempre affollatissimo e dobbiamo lodare gli organizzatori per
l'allestimento elegante e popolare del caratteristico teatro in cui si
svolgeranno le sane rappresentazioni educative del nostro popolo.
(30 aprile 1919).
«I giocatori» di Poggio al Carignano.
Al signor Cesare Biliotti capita ogni dieci anni un'avventura bisbetica. Sui
ventotto, il signor Cesare s'innamorò della signorina Maria; ma aveva avuto il
torto di presentare alla fanciulla un amico, Mario Bini, che destramente gliela
soffiò, aggiungiamo, per il prestigio del candore femminile e dell'amicizia,
che né Maria né Mario conoscevano l'amore di Cesare. Sui trentotto, il signor
Cesare si innamora della signorina Emma, e anche a lei presenta l'amico Mario
Bini, il quale si prova a soffiargliela. Ma... in questo ma consiste la
commedia.
Mario Bini non ha mutato il pelo, né ha perduto il
vizio, ma Cesare Biliotti e le condizioni generali dell'avventura sono mutate.
Intanto Mario Bini ha moglie e due figli; è separato dalla moglie ma
intimamente ne è innamorato e adora i figlioletti. Cesare, poi, in dieci anni
l'ha imparata lunga: ha indossato una palandrana filosofica, si è catafratto
contro le avversità e i giuochi del caso; resiste, combatte e vince. La
signorina Emma ignora anch'essa l'amore del signor Cesare; è una donnina dal
caratterino bizzarro, questa signorina Emma. Ha ventisei anni (l'autore nota
scrupolosamente l'età dei personaggi), e da nove anni abita in una bicocca
rurale col vecchio e cadente padre e la non piú giovane sorella; è stanca di
questa muffa, vuol vivere, vuole espandersi, vuole audacemente conquistarsi la
felicità e la luce. Si ribella clamorosamente al genitore, non si commuove per
le sue tremule ginocchia e la sua canizie (questo padre è stato un poco di
buono, nove anni prima, e l'inesorabile figlia glielo ricorda fremente): se ne
andrà col Bini, pur di evadere dalla cella domestica, pur di sentirsi libera,
indipendente, se stessa. Cesare Biliotti veglia e opera: ingelosisce Mario
Bini, facendogli credere che sua moglie vuol divorziare per sposare il suo
primo pretendente e convince la signora Bini a intervenire nell'avventura.
Terzo atto. Torino. Una sala di casa Bini. La signorina Emma invece di Mario,
trova la signora Maria. Serrato duello tra le due donne. Entrano in scena i due
pargoletti. Emma è disfatta. Il marito e la moglie si riconciliano. Il signor
Cesare si porta via Emma verso il municipio e la felicità. Gli spettatori, che
hanno con molto compiacimento seguito lo sviluppo dell'intrigo e hanno gustato
con pacata soddisfazione le centinaia di massime, di paragoni, allegorie e
apologhi con cui l'autore lo ha snellito e illeggiadrito, dopo aver applaudito
i primi due atti, applaudono anche il terzo godendo di tanta felicità e tanta
armonia di cuori e di sentimenti.
(13 maggio 1919).
«La vena d'oro» di Zorzi al Chiarella.
L'amore del titolo ha tradito l'autore; lo ha condotto ad aggiungere alla
azione del suo dramma due lunghe scene finali che ne guastano l'armonia, e non
hanno alcun fine artistico. Troppo piccola cosa, l'immagine della vena d'oro,
per tanto sacrifizio. L'autore era riuscito, in limiti soddisfacenti, a
contenere la letteratura: non è riuscito a vincersi sempre, ed è un peccato.
L'azione del dramma culmina nel sacrifizio che un
figlio fa di tutta la sua piú intima coscienza per sua madre. I greci non
amavano descrivere lo stato d'animo inerente ai dolori che toccano i cardini
stessi dell'essere uomini; e neppure Dante. In un quadro di Pompei, Medea
assiste all'uccisione dei figli, ma il suo volto è ricoperto da un drappo: il
pittore non osò effigiarne la maschera atroce. Cavalcante ricade nell'arca
appena gli pare di aver compreso che suo figlio è morto, senza parole, senza
gesti, per Dante. Il lettore, l'osservatore possono immaginare, o forse solo
sentire un tonfo, un brivido, che li immedesima col dramma: non di piú, forse.
Lo Zorzi non è certo riuscito a ottenere di piú, non è riuscito neppure a
determinare quel tonfo, quel brivido. È voluto uscire dai limiti, non ha creato
nulla: disillusione.
Una donna (una madre), abbandonata dal marito dopo
pochi mesi di convivenza fredda ed esteriore, per vent'anni si salva
nell'affetto del figlio. È la matrona, la Giulia romana, che fila e alleva la prole in
castità. La passione, Afrodite, dorme in lei, non la scuote, non la tormenta.
Conosce il poeta Manfredi (il pericolo del poeta in iscena è stato superato
dallo Zorzi con misura e garbo), si innamora, con innocenza, con candore. Il
figlio interviene brutalmente, selvaticamente, in una scena che è la piú bella
e la piú efficace del dramma. Il poeta parte. La contessa Usberti langue, si
consuma. Un uomo di scienza, il dottor Albani, trova la parola «umana»; il
figlio deve permettere alla madre di amare, contro tutte le leggi, contro tutte
le morali, contro tutte le vergogne. È un uomo di scienza che parla: la tesi ne
diventa «umana», perde ogni sapore di facile e dilettantesca audacia verbale. E
il figlio acconsente e richiama il Manfredi. L'autore non ha saputo fermarsi.
(14 maggio 1919).
«L'ultimo nemico» di Mazzolotti al
Carignano. L'ultimo nemico è un ingegnere tedesco che ritorna in Italia
dopo la pace e viene strozzato da un reduce. Commedia del cannibalismo
nazionalista. Con tutta l'enfasi e la rozza crudeltà retorica del cannibalismo
nazionalista. Greve, tediosa, «prussiana», come ogni cattiva azione
nazionalista. Antinazionale, come ogni prodotto della barbarica concezione
nazionalista. È come un avviso ai tedeschi: non ritornate in Italia, o gli
italiani vi strozzeranno. Gli italiani avrebbero bisogno di voi, perché voi
siete laboriosi e tenaci, siete pazienti e mantenete gli impegni. Gli italiani
avrebbero bisogno di voi, perché devono moltiplicare i loro impianti
industriali e mancano di personale tecnico; i capitalisti italiani vi
riaccetterebbero, perché gli affari sono gli affari e non sentimentalismo: ma
badate, v'è in Italia chi vi strozzerebbe, perché pensa che l'Italia «debba»
far da sé, anche se non può, anche se la sua classe dirigente è costituita di
individui che pensano a riacquistare il tempo perduto per la gioia e il
sollazzo invece di lavorare, che pensano a dare incremento alla galanteria
invece che alla industria e agli studi. Molti spettatori dei palchi e delle
poltrone devono essere stati seccati di questa commedia, che denota il
sussistere d'uno stato d'animo che turba i traffici. Per noi essa è una cattiva
azione nell'ordine artistico, e una evasione dalla sfera dell'umanità nell'ordine
morale.
(20 maggio 1919).
«Un baro d'amore» di A. Guglielminetti
al Chiarella. In un pomeriggio romano afoso di temporale, la signora Elena
Demei, consorte del signor Giorgio Demei, rivela alla baronessa Lanfranchi di
aver conservato, sulle sue bianche spalle, il sigillo di un bacio impressovi
due anni avanti, a San Sebastiano, dalle ardenti labbra di un tenebroso e
fatidico andaluso.
Ella è presa, è schiava: avrà un convegno col bel
cavaliere che deve rivelarle l'amore. E la moglie inganna astutamente il
consorte, e la madre non si intenerisce alle lacrime inconsapevoli
dell'innocente figliolina, che ha dieci anni e legge Peter Pan e sta per
imparare la regola del tre e svolge componimenti su presaghe e galeotte frasi
di Napoleone (che scuole! assegnare alle innocenti bambine temi che corrompono
le genitrici), e va in una camera d'albergo. Ahimè, quale delusione. Il bel
tenebroso è uno zingaro, un avventuriero, un truffatore, un baro d'amore. La
signora fugge, lasciando il suo mantello d'ermellino, come Giuseppe la sua
tunica, e il giorno dopo tradisce il marito col medico di casa. La commedia di
Amalia Guglielminetti: Un baro d'amore, essenzialmente si regge su due
mantelli d'ermellino, una sera di burrasca e una lunga telefonata dietro le quinte:
le spagnolerie, le andaluserie, le siviglierie, le lunghe
psico-pato-senso-femminilerie sono il bianco mangiare in cui affoga il
moscerino stremenzito e volato dalla non fantasia drammatica della
Guglielminetti. Il pubblico ha pazientemente ascoltato i primi due atti; al
terzo si è scosso dal torpore e ha protestato indelicatamente.
(28 maggio 1919).
«Nino er boja» di Monaldi allo Scribe.
Ladri, assassini, prostitute, ruffiani, scatti di coltelli a molla, lividi
lampeggiamenti di acciari, urla, sfide, streghe, fatture, donne sfregiate da
una parte, tenerezze, senso morboso dell'onore, spirito cavalleresco, coraggio
dall'altra. In questo quadro si rileva un personaggio che sintetizza tutto il
bene e tutto il male dell'ambiente: il capo della onorata società che entrando
in scena fa scattare il ferro e zic, sfregia l'amante traditora. L'azione si
complica: nell'ordine delle bassezze c'è una vecchia che se la intende col
marito della figliuola, il quale marito è il Giuda pallido e repugnante di
questa caverna da mille e una notte; nell'ordine degli eroismi c'è la
magnanimità del capo che non uccide il Giuda per le supplicazioni di una sua
amante (la quale è la moglie del Giuda, ma ha avuto un figliuolo dal capo, anzi
il Giuda l'ha sposata per coprire il fallo e il figliuolo). L'azione culmina
nella esecuzione che il capo fa del traditore. E qui è capitato un fatto che
rende interessante questo pasticcetto romantico e trucolento (Nino er boja)
e le recite del Monaldi. Quando Nino, il capo della paranza, afferra per i
capelli, con gesto ampio e magnifico di grandezza, Pietro il traditore e gli
taglia la gola, dal pubblico del teatro si sprigiona un sospiro di
soddisfazione e da una cinquantina di bocche strette sibila l'approvazione: ben
fatto. Sí, il pubblico (un teatrone e scelto, come dicono i cronisti) è rimasto
incatenato allo svolgersi dei momenti drammatici della rappresentazione, ha
palpitato, ha rabbrividito, si è commosso, e non solo per la virtú degli
attori, ma per i fatti in sé, che lo interessavano come lo interessano tuttora
i librucciacci sui banditi celebri, sugli sventratori di donne, su Guerin
Meschino e i reali di Francia. Con questa differenza: che i lettori di questi
libri sono lettori clandestini e in pubblico fanno il chi la sa lunga in
letteratura e in buon gusto; in teatro, collettivamente, non nascondono la loro
predilezione. È un problema di costume di non trascurabile importanza: a
Torino, c'è la possibilità che un teatro zeppo langua e rabbrividisca vedendo e
udendo sulla scena ladri, assassini, ruffiani, prostitute, coltelli, sangue, e
tutto l'armamento romantico e trucolento del cliché della mala vita.
(2 giugno 1919).
«La nostra immagine» di Bataille al
Carignano. Nel recente poema del Bataille, La divine tragédie, è
riprodotta l'immagine di un uomo le cui carni in disfacimento cadono, scoprendo
la nuda aridezza dello scheletro; ma il braccio ha strappato il cuore dal
petto, e lo tende verso l'alto, per salvarlo dalla putredine con un gesto
disperatamente eroico.
Il mondo interiore del Bataille è simbolizzato in
quella immagine, e anche l'espressione nella quale il Bataille concreta il suo
mondo interiore. Una tensione esasperata, uno sforzo spasmodico di raggiungere
le cime, che spesso, troppo spesso, si concreta in forme manierate e
dolciastre, illanguidisce in compromessi banali e accomodanti. Nei due atti di La
nostra immagine, il dissidio si presenta piú vistoso e urtante perché cozza
nei due atti, tra un dramma e una farsa. Vediamo prima contrapporsi una madre e
una figlia che furiosamente difendono ognuna la propria vita, la propria
libertà. Enrichetta, con fredda crudeltà, domanda a sua madre, ancor giovane,
ancora ammirata, di sposare un vecchio idiota per espiare il passato di
avventure, per mettere in regola le sue carte di stato civile, per darle un
nome e permetterle di entrare nel mondo «ufficiale», per permetterle di
realizzare la felicità. Tra questa giovinetta, che ragiona freddamente e si
dispera, che è crudele e tenera, spietata e commossa, e la donna che è posta
dinanzi al compimento di un dovere che deve attuarsi in una cerimonia ridicola
ferocemente, l'urto fa sprizzare scintille luminosamente vive di drammaticità.
Ma il componimento avviene per un processo in cui tutta l'energia creatrice si
è oscurata e ammorbidita: l'esperienza per cui Onorina si umilia e accetta di
compiere l'espiazione è un tessuto di mere parole flosce e povere, di scene
vuote ed esteriori, disperatamente uggiose e sconfortanti: e il pubblico ha
sanzionato giustamente.
Questa sera la commedia si replica.
(13 giugno 1919).
«Cesare e Cleopatra» di Shaw al
Chiarella. Questo lavoro di Bernard Shaw è stato giudicato in Italia dagli
echi diluiti della polemica che esso ha suscitato in Inghilterra. È un lavoro
semplice e piano, condotto su motivi di umanità semplice e piana (umanità che
si incarna in Giulio Cesare e in Cleopatra, semplice e piana, quindi, come può
essere nella rappresentazione che dei due può esprimere uno che vuole
rispettare i valori fissati dalla storia: e lo Shaw ha voluto rispettare questi
valori); si è cercato e si cercherà in esso il paradosso, l'acrobatismo,
l'«originalità». Gli italiani non hanno la percezione dello spirito: Shaw è
originale perché ha rispettato la buona e normale umanità. Il suo lavoro è una
ribellione, una stranezza, un paradosso per gli inglesi. Shaw ha scritto di
Giulio Cesare dopo Shakespeare, ha cercato di imporre, con insolente
prepotenza, alla fantasia degli inglesi, una immagine di Cesare che non è quella
creata da Shakespeare. Lo scandalo può essere paragonato a quello sorto in
Italia, in qualche gruppo di esteti fiorentini, quando il Cesareo pubblicò la
sua Francesca da Rimini: esiste una sola Francesca, fu scritto, ed è
quella di Dante; ogni altra rappresentazione di Francesca è una insolente
caricatura. Per gli inglesi, Shakespeare è piú di quanto Dante sia per gli
italiani; gli inglesi hanno tutti «riletto» Shakespeare, pochi italiani hanno
studiato a scuola i commenti della Divina commedia. Cosí è che da noi il lavoro
dello Shaw non sarà presentato al pubblico nella sua vera luce: la
rappresentazione efficacissima e drammaticissima di un grande uomo, di un
grande uomo di Stato, di un grande generale, Giulio Cesare, visto proprio
umanamente, senza sublimazioni tragiche, ma ugualmente grande in ogni sua
attività, come fu veramente, come è stato presentato dagli storici antichi,
come si rivela dai suoi candidi libri di ricordi che sono tra i capolavori
della letteratura romana per il candore e la schiettezza semplice.
Domandare altro allo Shaw, far credere che altro
lo Shaw abbia voluto dare, pretendere che sia necessario star lí ad ascoltare
con tutto l'arco dell'intelligenza teso per colpire al volo paradossi e
originalità se si vuole non apparire cretini, sarebbe stolto e inintelligente.
Cesare e Cleopatra è un bellissimo lavoro
anche senza che gli si imprestino arzigogoli ermetici per le persone comuni: un
bellissimo lavoro, presentato in forma magnifica dalla compagnia di Emma
Gramatica, in tutte le sue parti, degno di essere veduto e riveduto.
(14 giugno 1919).
«Il silenzio» di Pescetti al Carignano.
Il dramma si svolge con un protagonista silenzioso: la casa. Dramma
sentimentale, di piccole lacerazioni sentimentali, che si esaurisce nel mero
dialogo e nelle contrazioni dei muscoli facciali: un motivo tenue, senza
conseguenze gravi, che l'autore, giovanissimo, ha il merito grandissimo di aver
espresso sobriamente, senza amplificazioni enfatiche e letterarie. Giovanni
Bereni vive una sola vita con la sua casa, coi ricordi, con le immagini del
passato che perennemente nascono e popolano, viventi creature, il silenzio
discreto delle stanze. Giovanni Bereni è il passato, è la contemplazione, è
l'inerzia che sogna; la vita pullula intorno e dentro la casa, prorompe
vittoriosa, frange e lacera, spalanca le finestre e fa scappare esterrefatti i
fantasmi. Una figliuola cresce accanto al Bereni, ama, tende alla vita attiva,
si sposa e parte. Ha svuotato la casa, ne ha rotto l'incanto, l'ha spopolata
dei suoi abitatori per farsi posto e la lascia cosí, ridotta una tomba,
definitivamente. L'azione drammatica è tutta in questa tenuità, interrotta da
quadretti brevi, di vita provinciale, ed è condotta con candore, con dizione
semplice e quasi scialba. È lavoro di un giovane, perciò è notevole tanta
sobria misura e assenza di esaltazione letteraria. Rappresentata con cura dei
particolari da Luigi Carini e dai suoi collaboratori, ha ottenuto un successo
che non è solo d'incoraggiamento.
(19 giugno 1919).
«Nell'ombra della vallata» di Synge al
Chiarella. L'interno di una casupola da pastore, ai piedi di una collina
irlandese, in una sera di uragano. Un vagabondo bussa e domanda ristoro. Una
giovane donna accigliata lo invita a entrare. In casa c'è un morto, il vecchio
marito. La compagnia del cadavere non turba la donna che la distanza e la
tempesta separano dai viventi. Una cosa la turba: sarà sola anche domani e
dopodomani e ci son le pecore da condurre, e in casa non c'è torba, ed ella non
può uscire perché bisogna vegliare il cadavere. Il vagabondo veglierà, ella
esce. Il vecchio si scuote, fingeva d'esser morto; è un vecchio pastore
bizzarro, roso da un'ira cupa e sordida verso la moglie. Si fa dare da bere, si
fa consegnare un randello e si distende nuovamente sotto il sudario,
gorgogliando acquavite e maledizioni. Nara rientra, con un giovane pastore:
parla, della sua vita sacrificata, dei suoi aneliti bramosi alla libertà, alla
maternità, accanto al marito, un rozzo tronco di umanità feroce e bisbetica. Il
giovane fa l'inventario dell'eredità: le offre di sposarla. Il cadavere si
risolleva spettrito, squassato dalla tosse, minaccioso col randello. Scaccia la
moglie, furioso, mentre ella sta impassibile, fredda dinanzi a quella frenesia
senile che si consuma maledicendo, vogliosa di nuocere, di vedere la nemica
ridotta all'abiezione della fame e del vagabondaggio, per quindi uscire, in
compagnia del vagabondo che le parla con dolcezza virile e le offre il suo
sostegno per una nuova vita, fuori dalla valle, dalla nebbia, dal trito
inseguirsi dei giorni, delle settimane, dei mesi, delle stagioni. E il vecchio,
dopo aver impaurito il giovanotto, siede insieme a costui e beve, sghignazzando
trucemente.
Un seguirsi di rappresentazioni rapide, secche,
incisive che si giustificano in se stesse, nel rilievo dei singoli quadretti.
(29 giugno 1919).
Emma Gramatica. Il teatro, come
organizzazione pratica di uomini e di strumenti di lavoro, non è sfuggito dalle
spire del maelström capitalistico. Ma l'organizzazione pratica del
teatro è nel suo insieme un mezzo di espressione artistica: non si può turbarla
senza turbare e rovinare il processo espressivo, senza sterilire l'organo
«linguistico» della rappresentazione teatrale.
L'industrialismo ha determinato le sue necessarie
conseguenze. La compagnia teatrale, come complesso di lavoro retto dai rapporti
che intercedevano nell'arte medioevale tra il maestro e i discepoli, si è
dissolta: ai vincoli disciplinari generati spontaneamente dal lavoro in comune
– lavoro di natura particolare, perché tendente a fini di creazione artistica –
sono successi i «vincoli» che legano l'intraprenditore ai salariati, i vincoli
della forca e dell'impiccato. Le leggi della concorrenza hanno rapidamente
condotto a termine l'opera loro disgregatrice: il comico è diventato un
individuo, in lotta coi suoi compagni di lavoro, col «maestro», divenuto
mediatore e coll'industriale del teatro. Sfrenata la speculazione sordida, essa
non ha conosciuto piú confini. Il carattere stesso peculiare del lavoro da svolgere
è diventato reagente corrosivo. Primeggiare nel guadagno va di pari passo col
primeggiare nella compagnia, nelle funzioni direttive e autoritarie, nella
libertà di scegliere per sé le parti a successo e spiccare, monumento
funerario, in un cimitero di fosse comuni. La tecnica teatrale ne è stata
scombussolata, la produzione si è adattata «facilmente» alle condizioni nuove;
facilmente, nel senso che l'equilibrio è stato raggiunto in un piano infimo, di
compagnie, di pubblico, di scrittori di teatro. Si parla di depravazione del
gusto, di decadenza dei costumi, di dissoluzione artistica. L'origine di questi
fenomeni vistosi è da ricercare unicamente nel mutarsi dei rapporti economici
tra l'impresario del teatro, divenuto industriale associato in un trust,
il capocomico, divenuto mediatore, e i comici soggiogati alla schiavitú del
salario.
Poche resistenze si verificarono a questo
imperversare della concorrenza e della speculazione. Resistere d'altronde è
difficile. Qualcuno cercò di salvare almeno una parte della libertà
d'espressione artistica di fra le urla e gli stridi avidi del mercato
capitalistico. Emma Gramatica è certamente di questi pochi: segno della sua
personalità e della sua volontà artistica. Ribellarsi sarebbe stato pazzo e
puerile: è finito il tempo delle avventure romantiche e delle audacie
donchisciottesche. Del resto queste sono possibili alle iniziative individuali,
non alle imprese che domandano un complesso di individui. Ribellarsi avrebbe
solo significato essere immediatamente privati delle possibilità maggiori di
espressione. Ma c'è adattamento e adattamento. La Gramatica ha conservato
una sua libertà di movimento e di scelta: c'è una ricerca continua, una lotta
continua nella sua attività: c'è vita. Può conoscere zone inesplorate, può
allargare la sfera della sua sensibilità e delle sue esperienze: non cade nella
routine, non è diventata una mera impiegata, che ha applicato il metodo
Taylor all'espressione plastica della vita, che ha ridotto a meccanismo –
complicato, esperto, di 20.000 pezzi mobili, ma meccanismo – ciò che è in
quanto imprevedibile e incoercibile: l'espressione.
A Torino, almeno, dove l'industrialismo teatrale
opera implacabile come un flagello, la Gramatica è la sola che in questi ultimi anni ha
«prodotto» novità, ha suscitato dall'interiore sua vita creature nuove, che
vibrano d'amore e di odio o svolgono la quotidiana fatica del vivere in forme
non logorate e rese opache dall'abitudine e dallo schema del mestiere, che è
regolato dalla legge del minimo sforzo. Ha tentato, ha osato, dicono che abbia
anche arrischiato dei capitali senza certezza di rivalsa, per imporre fantasmi
artistici che altrimenti non avrebbero mai passeggiato sulle scene italiane.
Vive dunque in lei e opera incessantemente, condizionando anche l'attività
pratica, il principio della creazione irresistibile e prepotente che foggia una
personalità e plasma un carattere secondo le leggi sue proprie: le leggi della
bellezza.
(1° luglio 1919).
«Una donna moderna» di Berrini al Teatro
del Popolo. Questa sera il nostro Teatro del Popolo darà la prima
rappresentazione di Una donna moderna, commedia in tre atti di Nino
Berrini. Il lavoro non è nuovissimo, perché venne rappresentato per la prima
volta nel 1912 al Teatro Carignano dalla compagnia di Tina Di Lorenzo. Allora,
appena alzato il sipario, prima che l'azione si iniziasse e cominciassero i
dialoghi di preparazione, un sussurro di delusione correva fra gli spettatori
eleganti e impomatati dell'aristocratico teatro. Quel pubblico, abituato a
vedere in iscena la bellissima attrice in vesti sfarzose, contornata da rigidi
gentiluomini in marsina, aveva provato e subito manifestato il suo stupore nel
vedere la prima attrice in un semplice e umile vestitino di dattilografa,
impiegata in un ufficio di avvocato. La commedia infatti svolge le vicende di
una signorina che, nata in una ricca famiglia borghese, in seguito a disgrazie
familiari è ricondotta alla legge comune del lavoro. Energica e volenterosa,
ella si mette nella nuova via acquistando a poco a poco, insieme con
l'indipendenza economica, anche una indipendenza morale e sentimentale,
trovandosi perciò in contrasto con le tradizioni e con le persone della sua
famiglia, rappresentate da un fratello ufficiale e allievo della scuola di
guerra a Torino.
La commedia dunque, sia per l'ambiente, sia per le
idee cui si ispira, trovò nel pubblico borghese delle resistenze che però
vennero vinte dall'azione serrata e dalle verità anche se poco gradite,
scaraventate dall'autore senza esitazioni; e conseguí un buon successo con un
buon numero di repliche.
La rappresentazione di questa sera pel nostro
pubblico ha perciò valore di una prima rappresentazione. L'autore curò
personalmente le prove e attende l'esito al Teatro del Popolo come una vera e
piú schietta riprova del valore d'arte e di vita dell'opera sua.
(5 luglio 1919).
«Addio sogno» di Motta al Carignano.
Luigi Motta è un copioso scrittore di romanzi d'avventure nei quali abbondano i
sultani, i pirati, i diamanti, gli scotennatori piú che il buon senso e il buon
gusto. L'anno scorso ha incominciato a uscire dal suo dominio, commercialmente
cosí fruttuoso, e ha scritto un libretto per operetta. Con questa sua commedia,
Addio sogno, il Motta ha voluto tentare le grandi vie. Non contento di
aver istupidito tanti innocenti bambini, vorrebbe continuare la sua opera anche
con gli adulti. Nei tre atti non è possibile trovare neppure una immagine,
neppure un gesto che riveli una sensibilità artistica: si tratta di un
mucchietto di scempiaggini, che sono anche mediocri nella loro scempiaggine. Il
pubblico scarso ha riso gustosamente dove l'autore si proponeva di far piangere
a calde lagrime, e il tentativo del Motta è stato cosí allegramente seppellito.
(10 settembre 1919).
«Il soldato millantatore» («Miles
gloriosus») di Plauto al Carignano. Il soldato Pirgopolinice, mentre
il giovane Pleusicle è lontano da Atene, perché conduce un'ambasceria a
Naupatto, rapisce la meretrice Filocomasia e se la conduce per forza a Efeso.
Palestrione, schiavo di Pleusicle, si imbarca per andare ad avvertire il
padrone, ma è catturato dai pirati e regalato a Pirgopolinice. Pleusicle viene
da lui chiamato a Efeso e diventa ospite di Periplettomene, vicino di casa di
Pirgopolinice. Tra le due case viene praticato un passaggio segreto, attraverso
il quale Filocomasia vola tra le braccia del suo fedele e perseverante amico
Pleusicle. Sceledro, altro schiavo del soldato, mentre insegue una scimmia sui
tetti, li sorprende abbracciati; Palestrione e Periplettomene lo convincono che
è arrivata a Efeso la madre e una sorella di Filocomasia, e che la donna che
egli ha visto abbracciata da un giovane è appunto questa sorella, che
rassomiglia a Filocomasia come due gocce d'acqua. Per risolvere la situazione,
Palestrione inventa l'intrigo che dovrà liberare lui e i due amanti dalle
grinfie di Pirgopolinice e dovrà condurre il soldato a una solennissima beffa e
a una solennissima bastonatura. Pirgopolinice, oltre a credersi un secondo
Achille (il suo nome significa l'«espugnatore di città») si crede anche un
nipote di Venere, un irresistibile conquistatore di donne: Palestrione gli fa
credere che la moglie di Periplettomene è innamorata follemente della sua
bellezza e della sua virtú, che per lui ha divorziato dal marito e che vuole sposarlo
e recargli in dote la casa. Una meretrice di Efeso, Acrotelenzia, viene assunta
per far la parte di moglie divorziata e innamorata. Pirgopolinice cade nella
rete; rimanda in Atene Filocomasia con l'amante, che si è travestito da
marinaio e libera Palestrione, che parte anch'egli con la piccola meretrice
ateniese. Ma quando Pirgopolinice, baldanzosamente entra in casa di
Periplettomene, viene preso e legato dagli schiavi di costui e sottoposto alla
umiliante e indescrivibile punizione degli adulteri colti in flagrante.
La commedia ha avuto un vivo successo
nell'adattamento di G. Sinimberghi. Occorre dire subito che il successo è
dovuto alla buffoneria intrinseca nell'intrigo e nel carattere tipizzato dei
protagonisti e alle virtú comiche degli artisti della compagnia «Eclettica». Di
Plauto, in questo adattamento, rimane nulla. Perché di Plauto, nella commedia
latina, era il linguaggio, l'espressione particolare del dialogo, la ricchezza
del vocabolario popolaresco: tutto ciò che nell'adattamento è precisamente
svanito. Il dialogo, come espressione del particolare, come varietà
individuale, è pessimo in questo adattamento. La scoloritura incomincia nella
traduzione del titolo: gloriosus (millantatore, spaccone) viene reso con
«vanaglorioso». Si può immaginare la truculenza iperbolica di Pirgopolinice
rappresentata come una «vanagloria» da studentello? Si può immaginare un tipo
da commedia, che ha generato Falstaff e il capitan Fracassa e l'Ammazzasette
(Pirgopolinice ne ammazza settemila in un giorno) qualificato come un
«vanaglorioso»? La commedia è tutta «ridotta» in tal modo.
(11 novembre 1919).
«Quella che t'assomiglia» di Cavacchioli
all'Alfieri. In questo «tentativo scenico» (la definizione è dell'autore o
è stata autorizzata dall'autore) il Cavacchioli si è «proposto» di arrovesciare
il processo di intuizione e di espressione artistica. L'artista intuisce, vede,
vive la sua concezione, la unifica, la concreta, nel suo interiore travaglio, e
la esprime, le dà una forma linguistica, cioè la conduce alla sua perfezione
(quando è perfezione) assoluta, alla sua universalità. Dal generale,
dall'indistinto, l'artista giunge all'universale, al distinto individuato, al
lirismo. Il Cavacchioli si è «proposto»... cioè ha incominciato col negare in
sé l'artista, il fabbro di forme espressive, e ha lavorato con la volontà dello
scrittore inchiodato al tavolino professionale. Egli ha fissato l'«esistenza»
di una serie di stati d'animo tradizionali nelle belle arti e nella psicologia;
cioè è partito – non dal tumulto interiore della fantasia che cerca attraverso
una sua intima dialettica, di comporsi, di organarsi, di esprimersi, di
giungere alla sua maturità lirica – ma da una astrazione, da un mondo meramente
cartaceo, libresco, dove le parole sono cifre, dove i sentimenti non sono, come
sono nella vita individuale degli uomini, imprevedibili nel loro svolgimento,
nel loro divenire motivo d'azione e di passione, ma sono freddi pezzi anatomici
da gabinetto di psicologia letteraria; e ha «tentato» di «materializzarli», di
fasciarli in uomini che: – si chiamano Leonardo, hanno quarant'anni, sono calvi
baffuti e di grossa pancia quando rappresentano il senso statico, fanfarone,
pauroso della vita – si chiamano Gabriele, sono lunghi, allampanati, spettrali,
lamentosi quando rappresentano l'ideale sempre calpestato – si chiamano
Gabriella quando sono giovani donne, hanno i capelli verdi, sono volubili,
carnali, rancide di sentimento e trovano solo nel sentimento la loro umanità –
e non si chiamano con un nome, ma con la designazione professionale «il
meccanico», quando sono il praticismo inesorabile macchinale dell'esistenza,
hanno due ruote al posto degli occhi e sembrano tutto un congegno di leve e di
ingranaggi.
Il Cavacchioli non ha raggiunto nessuno dei fini
che si era «proposto» perché essi potrebbero essere raggiunti, tutt'al piú, con
una conferenza da università popolare arricchita di molte proiezioni. Ha
raggiunto una costruzione, degna del «meccanico» che ha due ruote al posto
degli occhi e sembra ecc. ecc. L'intrigo dell'azione ha, contro la sua volontà,
continuato a essere il tradizionale intrigo, e, come succede per il novantanove
per cento degli intrighi, ha guidato l'attenzione degli spettatori attraverso
un rosario di scene «ogni figura un fatto», piuttosto che fino al fuoco di una
visione drammatica. L'intrigo comune postbellico della moglie che tradisce il
marito al fronte dopo averlo, con le sue perfidie di sposa, ahimè!, infedele,
spinto a partire volontario, e si pente e si converte alla vita casta e pura quando
il marito ritorna cieco, non è stato per nulla «originalizzato» dalle luci
diverse, dagli scenari fantastici, dall'essere il «drudo» un avventuriero
illusionista, e dai fantocci parlanti, dagli spettri ecc. ecc. Il Cavacchioli è
stato un militante della retroguardia marinettiana; in lui il futurismo appare
nella sua forma letteraria essenziale, come un travestimento, nell'epoca delle
macchine e della grande industria moderna, del romanticismo trucolento e
grandiosamente cretino del 1848.
Il «tentativo» ha, tuttavia, fortemente
interessato il pubblico. Una lotta si è impegnata tra ammiratori e
«denigratori»; fischi, applausi, gente in piedi che si sporge e si tende, fuori
dai parapetti e dalle file, per approvare o disapprovare. Risultato:
sopravvento degli applausi, una quindicina di chiamate al Cavacchioli e agli
interpreti (Tina Di Lorenzo, Luigi Cimara, Ruggero Lupi, Armando Falconi, D. M.
Migliari) che avevano spesso ricondotto a umanità viva e individuale gli «stati
d'animo» della commedia, contravvenendo ai «propositi» del Cavacchioli.
(27 novembre 1919).
«La sonata a Kreutzer» di Fleischmann al
Chiarella. Gli operai russi non avevano ancora dato tutto il potere ai
soviet. La Russia
non era ancora diventata, nella fantasia dei portinai, dei pizzicagnoli e dei
farmacisti, l'apocalittico paese di Gog e Magog, dove Satana arruola le sue
milizie per mettere il mondo a sacco prima del giudizio universale. Jasnaia
Polijana non era ancora stata violata dalla rozzezza e dalla insensibilità dei
contadini bolscevichi. Ma da un pezzo gli speculatori occidentali
dell'intelligenza avevano già messo a sacco e violato le opere di Tolstoj,
senza che nessun giornalista, depositario della fiaccola di Prometeo, ululasse
lamentosamente e invocasse tutte le forze sane del mondo contro i sacrileghi e
i barbari. Cosí è avvenuto che gli italiani non possono conoscere, dalle
edizioni italiane, l'opera che Tolstoj ha intitolato: La sonata a Kreutzer.
L'editore italiano ha giudicato che Tolstoj non conoscesse l'arte sua e ha
fatto aggiungere alla traduzione francese già modificata sulla traduzione
tedesca del testo russo, qualche decina di pagine di impressioni e di
descrizioni che rimpolpassero la scarsità verbale di Tolstoj. A questa
contraffazione, attraverso la quale la massa degli ammiratori italiani di
Tolstoj hanno conosciuto La sonata a Kreutzer, si è aggiunta la
traduzione di quest'altra contraffazione del Fleischmann: il «borghesismo»
italiano non è tenero col grande scrittore russo. Questi tre atti non hanno
niente che li distingua da una pessima contraffazione. La Sonata a Kreutzer
è un violento pamphlet, che risulta artisticamente piú efficace dalla
commistione del dialogo alla dimostrazione logica fino all'assurdo; non è un
dramma di individui particolari, che possano essere immaginati viventi
singolarmente. La riduzione scenica non può che risultare una raffazzonatura,
se il dramma, che è interiore alla coscienza morale del Tolstoj, viene
profilato come urto fra uomini e donne realmente vivi, muoventisi e speranti in
un mondo corporeo. E cosí è stato, con un peggiorativo per l'interpretazione
artificiosa e superficiale del Tempesti. Una serata da registrare nel catalogo
del perverso destino italiano di Tolstoj.
(20 dicembre 1919).
«Il chiostro» di Verhaeren al Chiarella.
Una nota del traduttore, stampata nel programma della serata, avverte:
«Il dramma è dominato da una concezione
"claustrale" della vita, che cozza e urta contro un'opposta
concezione "umana" della vita stessa. Ma sopra il dramma determinato
dall'urto di codeste due opposte concezioni sta, apparentemente, il dramma che
si opera in una coscienza, in quella cioè del protagonista principale, di
"frate Baldassare".
«Dico apparentemente, perché, a chi ben guarda,
non può sfuggire che il dramma di frate Baldassare è, nel suo fondo, generato
dall'urto in se stesso di codeste due medesime concezioni della vita: la
concezione "claustrale" e quella "umana". Affermare,
perciò, la personalità del protagonista, equivale a comprendere lucidamente
tutto il significato del dramma».
La personalità del protagonista di questo come di
ogni altro lavoro di teatro, può essere afferrata e ricostruita
dall'interpretazione dell'attore che lo impersona. Dall'«interpretazione»
dell'attore Tempesti non appare che il protagonista abbia una personalità e
tanto meno appare che essa sia una personalità «dialettica», vivente e
svolgentesi per il cozzo di due concezioni della vita; appare solo la «maniera»
di recitare, propria del Tempesti, formatasi nella ripetizione a getto continuo
dei lavori teatrali di Sem Benelli. Qualche cosa appare tuttavia chiaramente:
il distacco tra l'attore e le parole che l'attore recita, il distacco tra il
significato delle parole, tra la vita interiore che le parole esprimono e i
gesti, i moti, le contorsioni, le smorfie dell'attore. Appare chiaramente che
il protagonista viene dinanzi al pubblico ricoperto da una maschera: la
maschera dei protagonisti dalla gola canora e dall'anima di legno dei lavori di
Sem Benelli. E cosí viene presentato al pubblico italiano un dramma di
Verhaeren...
(24 dicembre 1919).
«La principessa» di Géraldy al Carignano.
Susanna, principessa, ama Giorgio Enrico, re. Giorgio Enrico, re, ama Susanna,
principessa. Susanna è, dinanzi al mondo, alla corte e nello stato civile, la
sorella di Giorgio Enrico. Ma Giorgio Enrico non è fratello di Susanna che
nello stato civile; egli è un intruso nel regno e nella dinastia, egli è il
frutto di un adulterio della prima moglie del padre di Susanna, e solo per evitare
uno scandalo clamoroso e per non insozzare la memoria di una regina, gli è
stato trasmesso il potere. Giorgio Enrico potrebbe dunque amare Susanna e
Susanna amare Giorgio Enrico: invece Susanna sposa un principe di... Imbritch.
Tutto questo intreccio è sviluppato nella sua
esteriorità superficiale. Il conflitto è presentato nelle fasi salienti di
bizze, dispetti, sgarberie, rivelazioni esterne. Il dramma è incorniciato nel
cerimoniale e nella ragione di Stato, è ridotto a un episodio borghese o
piccolo borghese: sí, insomma, è doloroso che un amore legittimo, dinanzi
all'innocenza dei fiori e degli astri, debba sacrificarsi alla ragione di
Stato, ma questo sacrificio può costare una lacrimuccia, può determinare anche
uno strappo abbastanza fiero alle abitudini della vita quotidiana, non far però
affiorare dall'intima umanità nessun grido di poesia, non produce nessuna
lacerazione vitale. Lo Géraldy immagina i re moderni molto diversi dagli eroi
della classicità; essi sono indispensabili nell'intreccio per giustificare
l'intreccio stesso, per giustificare i motivi del dramma; ma i motivi, che
hanno domandato come attori del conflitto persone regali, sono rimasti inerti
nella fantasia, sono rimasti alla fase dell'invenzione; le persone regali non
sentono il dramma piú che non lo sentano due coniugi droghieri, improsciuttiti
nell'esercizio della professione, resi teneri e patetici di temperamento dallo
spettacolo permanente delle provviste di magazzino, che, per distrarsi, leggano
una traduzione popolare di Sofocle. Lo Géraldy ha solo lavorato con cura e
attenzione letteraria la forma esterna scenica, in modo da presentare al
pubblico una cosina ben gentile e garbata, che ha avuto un buon successo di
applausi anche e specialmente per la recitazione accurata e viva del Carini,
della Gentilli e della Sanmarco.
(3 gennaio 1920).
«La nostra ricchezza» di Gotta al
Carignano. Dov'è la nostra ricchezza? È nell'attività industriale o
nell'agricoltura, nelle speculazioni di borsa o nella coltivazione dei campi,
nelle città o nella campagna?
Siamo nel dopo guerra: il problema è, come usa
dire, di attualità, non v'è studente che abbia masticato un po' di scienza
economica e politica il quale non si senta in grado di farvi un discorso, con
gli ingredienti di uso (le virtú e i vizi di oggi e di una volta, l'urbanesimo,
il decentramento regionale, se occorre) la sua brava dissertazione. Salvator
Gotta invece ha scritto una commedia; gli ingredienti però sono gli stessi,
quelli di una dissertazione accademica di seconda mano. E quanto all'arte?
Vediamo.
Tre uomini: un nonno, un padre, un figlio. Il
figlio è stato in guerra, volontario, e la guerra lo ha fatto diventare, cosí
dice l'autore, socialista. Il padre è un industriale che si è arricchito con le
forniture governative. Il nonno è un ricco campagnuolo, che ama la sua casa e
la sua terra, che è legato dai piú tenaci vincoli d'affetto e di tradizione al
suolo ch'egli coltiva, al podere che è per lui la sola, la vera ricchezza. Tra
questi tre uomini dovrebbero sorgere il contrasto, la tensione drammatica e
l'urto. E apparentemente sorgono. L'industriale specula, perde, vuol salvare la
sua posizione e non vede di meglio che vendere la vecchia casa, liquidare il
podere, trasformarlo in ciò che per lui è ricchezza, in denaro da lanciare nel
giuoco e nel circolo degli affari cittadini. Per il nonno questa è una
enormità: si ribella, resiste, poi non si sa come, cede, vende casa e podere e
va in esilio. E il figlio che prima, allontanatosi dal padre, sembrava volersi
dedicare egli pure alla vita dei campi, si pone recisamente contro tutti e fa
l'organizzatore dei contadini.
Il contrasto, come si vede, c'è. Siamo davanti a
tre posizioni mentali, a tre tendenze diverse, a tre diverse soluzioni di un
problema. Ma niente di piú. L'urto deriva da una antitesi logica, non da una
contrapposizione di passioni, di volontà, di sentimenti.
Dalla prima battuta all'ultima non vi è nulla che
accenni a umanizzare il problema, a far sí che i protagonisti cessino di essere
rappresentanti di una tesi o di una idea, e diventino uomini. Non vi è, dal
principio alla fine, uno sviluppo. Accenti di umanità profonda avrebbero potuto
essere tratti dalla posizione della donna che è insieme figlia, sposa e madre,
e invece questa donna non ha un'anima, è un piccolo fantoccio che si può far
ballare con tre fili diversi, è un brandello di carne che oscilla senza una
direzione e senza un significato.
Ma nessuno ha un'anima qua dentro, nessuno vive di
una vita che non sia quella artificiale, che l'autore crede possa consistere
nell'essere per l'industria o per l'agricoltura, per il denaro o per i campi. E
nessuno parla realmente un linguaggio umano: declamano tutti, declamano per
l'una e per l'altra tesi.
Vero è che gli artisti si sforzano di aggiungere
con l'azione loro ciò che ai personaggi l'autore non ha dato, e, bisogna dirlo,
ci riescono talora assai bene. E il pubblico applaude. Applaude un po' come ai
comizi, non perché la rappresentazione artistica lo conquisti e lo faccia
vibrare di un sentimento unico, ma perché condivide l'una o l'altra tesi,
perché gli piace o non gli piace sentir svalutare il febbrile lavoro delle
città di fronte alle calme e sane fatiche dei campi, gli piace o non gli piace
veder piú o meno biasimato il contadino che si inurba o quello che resta legato
alla sua terra e all'opera sua, e getta contro alla tempesta l'acqua santa
invocando da santa Barbara e da san Simone la salvezza delle terre padronali.
Ma a noi, che non vogliamo che dare un giudizio
sul valore dell'opera di arte teatrale, sia permesso di non discutere la tesi.
(10 gennaio 1920).
«La ragione degli altri» di Pirandello
al Carignano. La casa è dove sono i figli. La convivenza familiare non può
essere fondata su meri rapporti sessuali, non può essere fondata sul codice,
non può essere fondata sulle idee convenzionali di dovere, non può essere
fondata su motivi sentimentali di pietà; un solo legame esiste, elementare e
perciò costante e incoercibile, i figli e solo dove sono i figli esiste la
casa...
La logica di questo principio (condotta fino
all'assurdo: i figli anche se di un'altra donna, la maternità anche se... presa
a prestito) sostanzia questi atti del Pirandello. Pirandello abbandona i motivi
letterari, i motivi... filosofici di intrigo e di conversazione drammatica e
poggia lo svolgimento dell'azione su un motivo primordiale di umanità, la piú
profonda e istintiva. Il dramma si rivela atroce e scheletrico nel terzo atto:
sono di fronte due donne, che si contendono una bambina, l'una per difendere la
sua maternità, non per conservare un amante: l'altra per avere in casa una
figlia di suo marito, apparire a suo marito come madre, e con questa illusione
di maternità ricostruire o costruire la famiglia, dare all'amore una moralità.
Lotta atroce, crudele, perché la madre dovrà rinunziare alla sua bambina per
assicurarle un avvenire, il nome del padre, una ricchezza, una casa; dramma
rappresentato senza lenocini oratori, senza sdilinquimenti, senza scene
grandiloquenti, e perciò direttamente rivolto a colpire tutte le abitudini
sentimentali del pubblico, che reagisce con irti tutti i pregiudizi
piccolo-borghesi. Ma il Pirandello è poi riuscito a esprimere il dramma in
tutta la sua pienezza? Si ha l'impressione penosa, nei primi due atti, dello
stento, del tormento senza uscita, che si adagia nella direzione, nella
prolissa insistenza su particolari inutili: il motivo fondamentale è accennato
vagamente, non conduce e non indica lo sviluppo dell'azione: il terzo atto
appare come una rivelazione troppo cruda, troppo offensiva del... buon gusto e
delle buone maniere.
Il dramma non si replica.
(13 gennaio 1920).
«Io prima di te» di Veneziani al
Carignano. Si contempla, in questi tre atti, lo svolgersi di un intrigo
molto drammatico e pieno di risposte e profondissime significazioni: nel terzo
atto compare perfino un personaggio simbolico, l'ignoto che fa da reagente
sulle coscienze e determina precipitazioni ricche di sapori nuovi e mai
gustati.
L'intrigo è questo: il cav. Giovanni Ranzi vuole
sempre essere un personaggio di dramma e giammai di commedia, vuole sempre
essere protagonista e giammai comparsa sul palcoscenico della vita, vuole
sempre essere «prima di te», di lui, di voi, di loro, di tutti. La moglie del
cavaliere è amata da un tanghero imbecille, che finanzia le imprese del
cavaliere, ed è amata da un tal altro, che è stato un anno in Cina. Una notte
(ahi, notte di misteri e di orrori!) il tanghero imbecille ottiene un convegno
(o quasi); mentre attende viene ucciso da uno dei «soliti ignoti» che voleva
semplicemente derubarlo. Nel frattempo il tal altro si introduce furtivamente
nel salotto della dama (scena rivelatrice di riposti amorosi sensi), viene
bloccato dalla polizia che cerca l'assassino e dal marito tornato d'improvviso
da una partita di caccia. Il marito fa il protagonista con la polizia, facendo
arrestare il tal altro come assassino, e fa il protagonista con la moglie,
dicendosi l'assassino del povero giovane vittima di ignoti. La moglie è presa
nella morsa; la morsa viene allentata dal «solito ignoto» che si presenta,
scopre il trucco alla moglie e sta per costituirsi come assassino legittimo.
Allora il cavaliere si decide ad essere ancora una volta protagonista, e
irrompe furiosamente per... chissà mai cosa dire dinanzi al giudice istruttore.
Si contempla, nei tre atti, lo spettacolo penoso
di un mediocre freddurista che si sforza di sembrare intelligente e originale.
(20 gennaio 1920).
«Chimere» di Chiarelli al Carignano.
L'ingegner Claudio Rialto è un uomo d'affari; si crede un forte ed è un debole;
crede di riuscire a dominare il mondo, ed è una marionetta in pugno al
banchiere Rogai. Marina Rialto, sua moglie, è una donna come ce ne sono poche:
ha una coscienza questa donna, ha degli ideali e un piano generale della sua
vita di sposa amata e amante.
Alla fine del terzo atto Marina dorme su un sofà,
stanca per le soverchie emozioni, suo marito rimpannucciatosi dopo una minaccia
clamorosa di fallimento e di gattabuia, dorme tranquillo al capezzale della
sposa addormentata: il banchiere Rogai dorme anch'egli sicuro che all'indomani
Marina diventerà la sua amante.
L'originalità della commedia consiste in questo:
l'ideale, che di solito si infrange e quindi si chiama ideale infranto, nel
secondo atto si tira un colpo di rivoltella, non muore, e quindi non può
chiamarsi ideale rivoltellato: vive al lumicino, l'infelice ideale, per essersi
procurata la tubercolosi galoppante e al terzo atto muore per un colpo d'aria.
È la sua morte appunto che provoca la scena finale dei tre assopiti. Il
Chiarelli insomma esteriorizza in due fantasmi il Bene e il Male che si
combattono ferocemente nell'intimo di ogni ben nata e mal nata coscienza: un
poeta è il bene, l'ideale, è la purezza ecc., ecc., che vorrebbe tutta per sé
la donna; un fallito vizioso ubriacone cinico chiacchierone è il sogghigno
della realtà che, come Satana, tira per le gambe la gente e la spedisce al
calderone di pece e zolfo. L'ingegnere Claudio Rialto, un debole che si crede
un forte, un uomo che si crede un lottatore ed è puramente un energumeno senza
numero per l'eroismo, si rivela nella sua piccolezza alla moglie: fallito, si
dispera vanamente, si contorce come un vermiciattolo assalito da uno scorpione:
il banchiere Rogai, che lo ha rovinato per ricattare Marina, offre a Marina di
salvarlo dietro ricompensa: Marina esita, e l'ideale-poeta si tira un colpo,
mortale, ma non immediatamente.
L'ideale, divenuto tisico, si decompone ed è
naturale muoia di un colpo d'aria, mentre Rogai bacia Marina: il Cinismo
ubriaco e sconcio trionfa e ride silenziosamente.
La commedia ha avuto successo contrastato: una
parte del pubblico temeva di essere preso in burletta, un'altra parte trovava
nei personaggi simbolici significati profondi, degni di pensiero e di matura
riflessione. Ha divertito molto lo spettacolo dell'ubriaco in iscena, che parla
chiaro dicendo pane al pane vino al vino: un ubriaco sulla scena fa infatti
sempre divertire.
(7 febbraio 1920).
«Pane altrui» di Turghenieff al Balbo.
Turghenieff ha rivelato all'occidente la vita della nobiltà provinciale russa,
ignorante e presuntuosa, credente in Dio, fedele allo zar, crudele col servo
che chiama fratello. Tutta l'opera letteraria di Ivan Turghenieff è animata
dalla ripugnanza per questa vita, da lui conosciuta in ogni particolare, da lui
vissuta dolorosamente. Pane altrui non è che un bozzetto, una scena. Ma
è tutta la tragedia del popolo russo che rivela. È la meschinità ripugnante
dell'ambiente posta in rilievo con richiami sentimentali, è la reazione della
nobiltà dell'anima al costume volgare della nobiltà russa qual era ancora pochi
anni fa, in regime di servitú della gleba e di incontrastato feudalismo.
L'interpretazione di Ermete Zacconi è
appassionata, ottima, efficace.
(14 marzo 1920).
«Sorelle d'amore» di Bataille
all'Alfieri. Amore, dolcezza, virtú, generosità, tenerezza, candore: sono
queste le doti che campeggiano nei quattro atti di Sorelle d'amore di
Henri Bataille. Ma quale passione vivifica queste qualità, quale vita interiore
attiva e operante? Nessuna. Esse rimangono inerti, non hanno una
giustificazione, sono nient'altro che la monotona descrizione letteraria dei
rapporti esterni, di avvenimenti che si succedono, perché le parole li
riferiscono nella loro banalità vuota, d'una vuotaggine iridescente come nelle
bolle di sapone. Vediamo muoversi e parlare fisicamente una donna: Federica; un
essere tenue ed evanescente che ha marito e una figliuola e ama Giuliano. Per
sei mesi, per un anno, per due anni, Giuliano attende che l'amore diventi
realtà, si conceda alla passione; Federica ama Giuliano seriamente (l'autore lo
afferma in modo perentorio), ma non vuole materializzare l'amore. E per quattro
atti è un rincorrersi della materia e dello spirito, della carne e dell'anima,
nel quarto atto si intravede anche un letto, un materialissimo e volgarissimo
letto, ma Federica se ne va e sul letto lascia una rosa, e lascia un bel
discorso che dovrà consolare Giuliano, che dovrà indirizzarlo a pensieri e
azioni alte e nobili. Tutto ciò è brutto e anche antispirituale, è falso
artisticamente ed è falso moralmente, perché non è vivo, perché una tale virtú
esangue e snervata rasenta la turpitudine. La commedia di Bataille è una mera
esercitazione letteraria, che può essere assunta come documento storico di
grande corruzione e di irrimediabile scadimento dei costumi. L'esaltazione
fredda di un atteggiamento sentimentale come quello di Federica può nascere
solo dopo una stanchezza fisica prodotta dalla voluttà professionale. La madre
di Amore è piú bella e piú morale delle sorelle di Amore.
(20 marzo 1920).
«La bilancia» di Martoglio e Pirandello
allo Scribe. Nino Martoglio e Luigi Pirandello hanno sceneggiato nei tre
atti di una nuova loro commedia dialettale, La bilancia, questo spunto folcloristico:
un marito scopre di essere tradito: non si vendica immediatamente, ma pensa di
vendicarsi ristabilendo l'equilibrio nei conti coniugali. Il rivale credendolo
lontano tranquillamente si è installato nel suo talamo, egli va in casa del
rivale e col terrore di un massacro, ne costringe la moglie a prestarsi alla
sua vendetta. I tre atti sono freddi e scarni; non si esce dalla esteriore
narrazione di un avvenimento di cronaca: l'azione si svolge secondo il piano
irrigidito dell'assioma «dente per dente» con un parallelismo crudo senza che
entrino in giuoco motivi sentimentali e passionali che diano particolare vita e
carattere individuale ai personaggi.
Teatro semivuoto, sebbene la compagnia del Grasso
sia composta di buoni attori, che meriterebbero migliore fortuna. La commedia
si replica, sebbene non ne valga la pena e il teatro siciliano sia ricco di ben
altri lavori.
(24 marzo 1920).
«Il beffardo» di Berrini al Regio.
Nino Berrini ha voluto ricostruire, dai documenti letterari, la figura e il
dramma interiore di Cecco Angiolieri, poeta senese del secolo XIII. Sarebbe
vano porsi il problema se il Berrini sia stato fedele ai «testi»: il lavoro
deve essere giudicato nel suo pregio intrinseco. Anche se l'Angiolieri del
Berrini non avesse nessun rapporto con l'Angiolieri del XIII secolo, ciò
importerebbe poco, è il Berrini riuscito a creare una figura umana, vivente
nelle sue azioni e per le sue azioni, il dramma del quale egli è protagonista è
un dramma reale, giustificato psicologicamente ed espresso artisticamente? Il
Berrini si è lasciato trascinare dalla ricerca letteraria e ha sacrificato
l'interiorità all'esteriorità; per contrapposto ha collocato l'Angiolieri in un
cupo abisso di orrore, ha cercato di far convergere sulla sua figura dei fasci
di luce infernale. L'Angiolieri diventa un Ezzelino da Romano, il frutto di un
accoppiamento mostruoso, determinato da questa sua origine a compiere orrende
gesta e ad assistere a orrende gesta: il suo ghigno, illeggiadrito da parolette
che suonano leziose, diventa superficiale, è staccato dalla sua vita, e la sua
vita stessa non esiste piú. Il Berrini è un lavoratore coscienzioso: la sua
preoccupazione soverchia del particolare provoca rotture, fragilità, franamenti
del mondo interiore che egli si propone di esprimere; provoca disuguaglianze e
contrasti che poi il Berrini non riesce a superare artisticamente. Nel Beffardo
il Berrini ha sentito ancora piú energicamente il freno di queste
preoccupazioni e ha esitato tra il documento storico cui avrebbe voluto
rimanere fedele e la concezione sua del dramma di Cecco Angiolieri: non ha
osato sacrificare il documento.
I quattro atti del Berrini hanno avuto buon
successo: una ventina di chiamate.
(4 aprile 1920).
«Come prima, meglio di prima» di
Pirandello al Carignano. Tredici anni prima: la signora Fulvia Gelli
abbandona il tetto coniugale, il marito e una figliolina. Tredici anni dopo: la
signora Fulvia Gelli rientra sotto il tetto coniugale, col marito ma senza
essere riconosciuta (e dovendo non essere riconosciuta) dalla figlia. Nei
tredici anni è successo questo: la signora Fulvia è diventata una Flora
qualunque; la sua ultima avventura è un disgraziato pretore che abbandona per
lei moglie, figli e pretura; la sua ultimissima avventura è un tentativo di suicidio;
il marito chirurgo che la salva, è nuovamente preso d'amore per lei e la
riporta a casa. Ma nei tredici anni è successo anche questo: il professore
Gelli ha educato la figliuola Lina nel culto della madre morta; per Lina la
signora Fulvia Gelli è morta, la signora Fulvia ritorna come un'intrusa, come
un'estranea, che sarà odiata e disprezzata dalla figliuola.
La commedia consiste in questo contrasto, ma il
contrasto è accennato, non è approfondito; gli episodi nei quali si rivela sono
di carattere secondario. L'autore non ha curato il lavoro nel dialogo, come è
nel suo carattere di scrittore di teatro: il dramma è solamente impostato e non
è svolto in nessun modo, né con un'azione serrata, né con una «trattazione»
dialogata.
(8 aprile 1920).
«L'amico di famiglia» di Caillavet e De
Flers al Carignano. L'amico di famiglia, di Caillavet e De Flers, è
il lavoro teatrale da cui è stato estratto il libretto dell'operetta: La
regina del fonografo. Nessun elemento teatrale di notevole importanza
esiste nella commedia che non sia passato nell'operetta: la figura di «amico di
famiglia», quantunque dia il titolo, non è effettivamente che la «macchina» che
serve esteriormente a saldare i vari episodi dell'azione. La commedia si svolge
in questi due motivi: una donna «onesta» dà buoni consigli a una cocotte,
e una cocotte dà buoni consigli a una donna onesta. Una cocotte è
rammaricata perché come donna ella è sempre scelta e non ha la libertà di
scegliere: una moglie le insegna come si possa scegliere l'uomo che piace. La cocotte
è stata educata a vedere nell'amore «una carriera», è stata educata a non
vedere negli uomini altro che dei clienti, di cui non bisogna mai innamorarsi,
per non compromettere la carriera; la moglie invece è stata educata a far
innamorare e quindi a mostrarsi innamorata: può insegnare qualcosa. Ma anche la
cocotte può insegnare qualcosa alla moglie: può insegnare come si faccia
a conservare un uomo, arte che non conosce la fanciulla «onesta» che deve
trovar marito e non pensare al domani, non pensare a conservarlo: la cocotte
deve sapersi conservare le buone «pratiche». Sono questi due motivi che dànno
un qualche sapore ai tre atti, nonostante la farraggine degli episodi e delle
situazioni, costruite secondo uno schema, per far ridere a tutti i costi il
pubblico.
(27 giugno 1920).
«Tutto per bene» di Pirandello al
Chiarella. Nei tre atti di Tutto per bene, Luigi Pirandello dipana
questa matassa: un tale Martino Lori ha sposato la figlia di un illustre
scienziato che lascia, morendo, un pacco di appunti sulle sue ricerche rimaste
incompiute. Salvo Manfroni, discepolo dello scienziato, manomette e gli appunti
e la figlia del suo maestro, moglie del Lori. Manfroni diventa una
illustrazione della scienza, è deputato, diventa ministro, diventa senatore; il
Lori è da lui trascinato nella carriera politica e giunge fino al posto di
consigliere di Stato. Questo tale Martino Lori non sospetta di nulla; non
sospetta che sua moglie l'abbia tradito, non sospetta che sua figlia Palma sia
invece figlia del Manfroni, non sospetta di nulla, sebbene il Manfroni si
sostituisca a lui nel curare la fanciulla, divenuta orfana della madre, e la
tiri su per conto suo e le costituisca una dote e le trovi un marito
aristocratico; non sospetta di nulla, sebbene tutti gli intimi di casa
sappiano, e Palma sappia, e il fidanzato di Palma sappia. Non sospetta di nulla
e per sedici anni si costruisce una vita sua particolare, che a tutti pare la
commedia di un miserabile, contento dei benefizi ricavati dal consenso dato
alla moglie per la tresca col grande uomo politico. Non sospetta nulla e un bel
giorno, dopo tanto tempo, dopo tanta illusione sull'onestà e sulla bontà degli
uomini, la verità gli è rivelata. La commedia si impernia su questa rivelazione:
dovrebbe essere la rappresentazione di questo dramma fulmineo: il dramma di un
uomo che si è costruita tutta la sua vita interiore ed esteriore sull'ignoranza
di un fatto essenziale della sua vita stessa, e d'un tratto si trova sperduto,
perché il suo «io» intimo è svanito e il panorama circostante, veduto sempre in
un modo per tanti e tanti anni, è mutato radicalmente, è un panorama di rovine
e di macerie. Bisogna subito dire che il Pirandello si limita a dipanare la
matassa, a condurre l'intrigo; il lavoro è affrettato, e la figura di Martino
Lori non riesce a dominare lo svolgimento e a organizzarlo per giustificarlo; è
smorto, non reagisce altro che a sospiri e gemiti; non diventa un carattere,
rimane una vittima senza energia né sentimentale, né dialettica (come avviene
nelle creazioni del Pirandello), che si affloscia e scompare, rientrando nel
buio della nullaggine drammatica.
(7 luglio 1920).
«Gli interessi creati» di Benavente al
Balbo. Gli uomini sono dei fantocci che si muovono per il mondo e operano
guidati dai fili degli interessi. Su questo comune spunto della filosofia
popolare il Benavente ha intrecciato la sua commedia; le ha dato un colore di
novità introducendo nella scena le maschere del teatro italiano, Pulcinella,
Arlecchino, Balanzone, Colombina; gli uomini fantocci appaiono rappresentati da
tipi di fantocci uomini creati dal teatro dell'arte. L'intrigo è anch'esso
comune: come un furbo avventuriero riesca a combinare un matrimonio,
determinando una serie di interessi costituiti intorno alla fortuna del suo
amico-padrone. Ma il matrimonio è d'amore: esistono dunque altri fili, oltre
agli interessi, che fanno muovere gli uomini e dànno loro una dignità. Tre atti
lievi, graziosi, senza pretese, che furono accolti con favore dal non troppo
numeroso pubblico.
(27 luglio 1920).
«Il fantoccio» di Cantoni-Gibertini al
Balbo. Nell'ascoltare la commedia Il fantoccio di Osvaldo
Cantoni-Gibertini, si pone irresistibilmente questo problema, che nasce
dall'intimità piú preziosa della commedia stessa. Poiché il protagonista,
signor Mario Stella, è un superuomo, che soffre della malattia propria dei
superuomini, il discentramento scheletrico tra l'io-superuomo e l'io-fantoccio
di legno, e poiché Osvaldo Cantoni-Gibertini, se può rappresentare nella
pienezza della sua superumanità un superuomo, è da supporsi partecipi della
sublimazione geniale e soffra quindi anch'egli di discentramento tra i due «io»
– quale dei due «io» di Osvaldo Cantoni-Gibertini ha trovato la sua espressione
in questa commedia? L'«io» di legno non stagionato, che a primavera urge
l'involucro umano, o l'«io» superuomo? Il problema, che irresistibilmente si è
imposto, si è, per questa sua irresistibilità, risolto automaticamente; la
commedia è espressione di legnosità non maturata piú di quanto sia espressione
di genialità superumana; Osvaldo Cantoni-Gibertini è un genio foderato di una
pesantissima cappa da filisteo. Egli ha ridotto in cifra matematica il giudizio
del buon senso comune che in ogni uomo c'è un fantoccio; ha materializzato la
metafora, ha costituito intorno a essa un intrigo qualsiasi e ha affogato in
una nube di trivialità bambagiosa il qualche tratto originale che era risultato
casualmente dal giuoco della macchina inventata. Manca al Cantoni-Gibertini
proprio quel gusto letterario che è indispensabile per nascondere l'automatismo
legnoso sotto l'apparenza umana; il gusto della semplicità e della misura; gli
manca specialmente l'equilibrio dell'inventore che non balla la danza indiana
intorno al suo ordigno, gridando: come è bello! come è bello! quale grande
inventore di ordigni io sono! Il Cantoni-Gibertini insomma ha messo troppo del
suo io-fantoccio nella commedia e pochina pochina della sua umanità; ha
elaborato un «penso», non ha scritto un'opera letteraria.
(4 agosto 1920).
«Colline, filosofo» di Veneziani al
Carignano. Carlo Veneziani ha rimesso in iscena i personaggi della Bohême.
La gaiezza del Mürger si è invenezianizzata in farsaioleria, la vena di
malinconia e di sentimento è divenuta fiume lutulento di mutria e di
sentimentalismo. Colline, il filosofo, è divenuto un predicatore di energia, un
propagandista delle immortali parole d'ordine: «progresso nel lavoro e
nell'ordine», «volere è potere», «le bugie hanno le gambe corte», «le donne
sono la causa di tutti i mali», «l'ozio è il padre dei vizi». È questa, in
fondo, l'originalità della commedia, la quale può essere assunta a simbolo del
periodo che attraversa il nostro paese. Nella rovina di tutte le forze morali
che sostengono ogni società bene organizzata, nel venir meno di ogni norma di
condotta, che serva all'individuo e alla collettività, in Italia, che ha dato i
natali a Stenterello, sono i farsaioli che parlano delle cose serie e fanno la
predica della saggezza: cosí avviene che le cose serie e la saggezza predicate
da tali bocche non siano piú distinguibili dalle farsaiolerie e la vita
italiana diventi sempre piú gioconda.
Per la cronaca: nella commedia del Veneziani,
Colline, deluso in amore, sposa l'affittasoffitte, risolve radicalmente il problema
dell'alloggio, diventa genitore di tre pargoletti, ma non perde l'abitudine di
dormire sulle pubbliche panche. Sono stati applauditi i primi due atti, il
terzo è stato accolto da applausi commisti con abbondanti zittii e qualche
fischio. Luigi Carini (Colline) recitò con molto buon gusto e collaborò
parecchio alla buona riuscita del lavoro.
(13 ottobre 1920).
«Il bell'Apollo» di Praga al Carignano.
Piero Badia, signore milanese dell'anno di grazia 1893, è il «bell'Apollo». Ciò
significa che Piero Badia è un conquistatore di signore, è uno specialista
nella professione di sedurre e di abbandonare; ma la parola «Apollo» non deve
trarre in errore: non c'è alcuna traccia di lirismo nella figura di Piero
Badia, egli non esplica la sua attività come creazione artistica, come
espressione di una personalità che non può ritrovarsi altro che nel sedurre
belle signore. Piero Badia è un omaccione molto volgare e molto banale, che si
preoccupa solo di godere senza far nascere scandali e senza determinare drammi
incresciosi.
In che consistano questi quattro atti di Marco
Praga, non si riesce a stabilire con esattezza: probabilmente Marco Praga ha
semplicemente voluto scrivere quattro atti, ben congegnati tecnicamente, che
avessero un buon successo di platea. Pare la commedia sia stata, tempo fa, una
battaglia contro lo spirito dei tempi e sia stata una battaglia perduta. La
fortuna odierna proverebbe in questo caso che si è fatto un passo indietro
nell'educazione del buon gusto popolare. Poiché nella commedia si vede un uomo,
e precisamente l'eroe, il bell'Apollo, infilarsi le scarpe dinanzi al pubblico;
poiché il bell'Apollo è un uomo senza cuore, che fa all'amore col solo
cervello; poiché si assiste a scene veramente «ardite» e si odono proposizioni
molto ciniche, è da supporre che la battaglia, che la commedia ha rappresentato
tempo fa, sia stata combattuta per il «realismo».
La battaglia meritava di essere perduta: la
commedia non ha alcuna consistenza drammatica, essa è una pura esteriorità di
parole e di scene ben congegnate. Manca in questa commedia ogni
rappresentazione di caratteri; sarebbe stato meglio trarre dall'argomento un
romanzo d'appendice con un urlo popolaresco contro il cinico signore che non si
preoccupa se i suoi sollazzi lascino uno strascico di cuori insanguinati. In un
tale romanzo d'appendice ci sarebbe stata piú umanità e quindi piú arte che in
questo quadro sbiadito di un cinismo di maniera che ragiona su se stesso e si
giustifica con ragionamenti da lenone che non vuol abbandonare la professione
lucrativa.
La commedia ha avuto successo: c'è però da
domandarsi quanto abbia contribuito al successo l'interpretazione degli attori.
È un successo da teatro moderno o da teatro dell'arte? Pare veramente che si
ritorni indietro di duecento anni; il pubblico non si preoccupa del lavoro
artistico, ma dell'interpretazione artistica.
Non ci sarebbe niente di male, se dal teatro non
ricavassero fama e quattrini scrittori che non meritano né l'una, né gli altri
a cosí buon mercato.
(20 ottobre 1920).
«Anfissa» di Andreieff al Carignano.
Per il borghese che ha cenato bene e ha tre ore da perdere tra la cena e il
letto, un dramma è qualcosa di mezzo tra il digestivo e l'afrodisiaco. Per il
critico, dramma è una contrapposizione di «caratteri», cioè di marionette che
giocano alla vita. Anfissa di Andreieff non è né l'una cosa né l'altra.
Il borghese che vuol digerire ne riceve come un pugno sullo stomaco, il critico
vi cerca invano le marionette. La drammaticità di Anfissa è
nell'inasprimento, portato fino all'assurdo, fino alla lacerazione, fino al
delitto, di un contrasto originariamente semplice di passioni.
Nel centro è un uomo, Teodoro Kostamarov, un
avvocato, orgoglioso, vano, sensuale, grande ingegno per la città di provincia.
Ha pose da superuomo, ma da superuomo provinciale: insulta gli avversari in
un'arringa, prende a schiaffi per via chi non lo saluta, è un conquistatore di
donne, uno sprezzatore della moralità comune, ma non ha maggiore originalità di
un libertino. In complesso una figura che vuol dominare restando legata a
terra. Una crisi, che sorge piú da contrasti esteriori che da un intimo
dissenso, lo sconvolge, gli fa perdere il dominio di sé, lo fa insieme incerto
e brutale, violento e pauroso.
Intorno, tre figure di donne, o meglio in tutte
una figura sola: l'essere che vive dell'amore e del dominio dell'uomo, ne vive
fino al sacrifizio, alla perdita di sé, all'odio, al delitto.
La moglie di Kostamarov, tradita, trascurata,
chiama presso di sé la sorella, Anfissa, vedova che giunge con non si sa qual
fama di autorità, e spera che la sorella, ammonendo, esortando, inspirando
magari un nuovo sentimento, le riporti l'affetto e la fedeltà del marito. Ma
questi ama Anfissa, fin dal giorno che ne ha sposato la sorella e Anfissa ama
essa pure il cognato. Il sentimento, doppiamente colpevole, dei cognati si
esaspera nella strana situazione in cui essi vengono a trovarsi. Giungerà esso
a purificarsi, a trionfare come un sentimento primordiale, che non ha bisogno
di giustificazioni, che non soffre attenuazioni, che di per sé vale ed è tutto?
Il dramma si dibatte per quattro atti, per alcuni mesi di vita, e si chiude con
un delitto. Dico che si dibatte e non lo dico per esprimere un giudizio di condanna.
La scena è anzi perfetta. Se qualcosa vi è da rimproverare, è piuttosto la
tensione che non si allenta per un attimo, dalla prima all'ultima battuta,
dando l'impressione di una logicità perfetta e di uno sviluppo pienamente
conforme alle leggi della vita. Ma il dibattersi angoscioso, in cui la
drammaticità, in cui i limiti della comune esistenza sono superati, in cui si
giunge alla tragedia e alla poesia, è quello di alcune coscienze prese nelle
spire di una sorte che per essere fatta della loro stessa passione non appare
meno come qualcosa di tragicamente imponente. È tutto spiegabile, a cominciare
dalla prima ripulsa di Anfissa fino alla sua caduta, e alle promesse
dell'amante, e al suo desiderio piccino di vendetta e all'esasperarsi nella
donna del sentimento e della gelosia. È un processo tutto umano di sviluppo
quello che porta alla stanchezza dell'uno e all'odio dell'altra, alle offese
che l'uomo fa all'amore e la donna all'orgoglio, alla violenta scena, in cui
Anfissa di fronte alla famiglia riunita rinfaccia a Teodoro di aver tradito la
moglie, di essersi fatto della cognata un'amante e di cercare ora un'amante
nuova nella terza sorella, giovane, ingenua, ignara. È tutto umano e tutto si
snoda con agilità e rapidità, ma tu senti che un gorgo di passione si è aperto
nel quale questi uomini sono trascinati come festuche, che si è prodotta una
lacerazione che non può essere chiusa perché forze e sentimenti umani si
adoprano a renderla sempre piú grande e profonda.
Il delitto, col quale si chiude il dramma, quando
Anfissa uccide col veleno l'uomo che odia e ama, grava in realtà sull'azione
fin dalle prime scene. Si direbbe un destino se non fosse una cosa che vien
fuori in modo cosí chiaro dal cuore di questi uomini.
In questo senso Andreieff ha scritto un dramma
borghese, non solo introducendo in un ambiente comune un fatto tragico o
qualche elemento di tragicità, ma cercando di ottenere da un esacerbato
contrasto di passioni una trasfigurazione dell'ambiente, e se un appunto è da
fargli, è quello di avere in questo senso troppo insistito, introducendo a
esempio elementi secondari che servono a creare e mantenere un senso di diffusa
drammaticità e di incertezza, ma sono poco strettamente collegati con l'azione
scenica principale, restano impliciti e non si spiegano con essa. Tale la
figura della nonna che ha avvelenato il primo marito, che fa la sorda ed è
l'incubo del protagonista.
Anche su di ciò però l'appunto sarebbe valido se
l'opera drammatica non fosse opera d'arte, cioè di poesia, soggetta a nessuna
logicità che non sia quella della fantasia del poeta, che ha in sé la sua legge
e soltanto a essa deve obbedire. Riconosciamo che la vita stessa non è logica,
ma è piena di elementi che non si pesano con la bilancia del ragionatore; e
riconosciamo soprattutto che Andreieff ha dato vita a un quadro tragico di cui
la figura della nonna, nella stessa sua incerta posizione, è un elemento
essenziale. Se quell'essere parlasse e si sapesse chiaramente chi è, verrebbe
meno non solo un elemento scenico di incomparabile suggestione, ma sarebbe
distrutto un elemento intuitivo che è inseparabile dal resto dell'opera d'arte.
Lo stesso si dica di molti altri particolari e del rilievo e della finitezza
loro.
Tutto ciò fu reso dalla compagnia in modo
scenicamente perfetto. Se però vi è nel dramma un'ombra di pesantezza, questo
difetto fu accentuato dal tipo di recitazione, specialmente della signora
Melato, tipo di recitazione che risente troppo della scena cinematografica e
tenne sí avvinto il pubblico, ma finí per stancarlo. Cosí avvenne che alcuni
passaggi parvero pesanti per soverchia tensione, e avvenne che dopo tre atti,
condotti a termine con successo e con un buon numero di chiamate, alla fine si
sentí qualche zittio.
Confessiamo però che il pubblico borghese del teatro
non era dei meglio adatti a seguire e sentire l'opera d'arte. L'intiera verità
di essa doveva purtroppo fargli l'impressione di un pugno sullo stomaco.
Auguriamo dunque a questo dramma un pubblico
migliore, piú rozzo, piú immediatamente sincero, piú vicino a godere e soffrire
l'impetuosa angoscia della tragedia. Gli auguriamo un pubblico di proletari.
(14 novembre 1920).
«Glauco» di Morselli al Carignano.
Glauco, l'eroe della mitologia greca, è presentato, al principio del primo
atto, come un pescatore, il pescatore piú povero della Sicilia, privo di ogni
ricchezza, ma pieno il cuore delle piú grandi cose. Tende l'orecchio al canto
delle sirene e agli allettamenti dei tritoni e sogna terre lontane. Sogna
l'Africa piena di mostri da uccidere, di oro e di regni da conquistare, sogna la Colchide verso la quale
l'eroe Giasone sta guidando gli Argonauti. Sogna soprattutto la gloria che
uguaglia gli uomini agli dei. Ma insieme a queste alte voci di gloria anche una
modesta voce di amore parla al cuore del giovane. È l'amore di Scilla, una
fresca e tranquilla vena di acqua chiara, in mezzo a un tumulto di
insoddisfatte brame.
Glauco convince i pescatori a partire con lui per
l'Africa, con un carico di lana tessuta.
Lasciata l'isola, egli li trascinerà poi con sé
alle imprese che sogna. Ma la lana è di Forchis, il pastore padre di Scilla,
ricchezza e grettezza riunite, e Forchis come la figlia cosí nega al pescatore
la stoffa. I sogni debbono precipitare. E Scilla, la fanciulla che poco prima
si è disperata nel vedere Glauco, entusiasta dei suoi progetti, dimenticare la
voce tenera e sicura dell'amore, ora dà essa l'aiuto suo perché i progetti
possano diventare realtà. Consegna ai pescatori la chiave della capanna dove si
trova la stoffa: i pescatori la rubano e fanno vela per l'Africa. Glauco è
sulla poppa della nave e tende le braccia alla fanciulla che si abbatte su una
pietra della riva, come schiacciata da un'altra pietra invisibile.
Cosí all'inizio si prospetta un fondamentale
contrasto, sul quale dovrebbe correre tutta la tessitura della tragedia.
Piú che di sentimenti, vuol essere contrasto di
aspirazioni e di concezioni. Forse, e bisogna pur dire subito queste parole,
anche se in esse e già implicito un giudizio, è piú che altro un contrasto di
tesi e di simboli. Il quadro vuol quindi avere una cornice piú ampia di quella
di ogni comune azione scenica nella quale uomini parlano e vogliono e agiscono
e il ricorso a personaggi, scene e decorazioni mitologiche è fondamentalmente
giustificato da questa aspirazione. Ma fin dal primo atto appaiono gli strappi
e attraverso di essi l'arida, ossuta schematicità dei simboli: la fanciulla che
invoca la virtú come la sola cosa che può fare di una capanna una reggia, le
soddisfazioni e le dolcezze umili, le grettezze, le bassezze anche della vita
contrastanti con l'ardore di un sogno.
Tutto ciò l'autore vuol rendere concreto e vivente
in modo che sia drammatico e lirico insieme, ma la scena decorativa e simbolica
rende stentato, difficile a esser còlto immediatamente il ritmo della vita, e
la lirica non c'è ancora.
Dopo il primo atto il difetto si accentua. Glauco
è andato in Colchide, ha combattuto e vinto, ha liberato un popolo, è diventato
re e giunge, nel viaggio di ritorno, all'isola di Circe. È un dominatore che arriva
e la maga lo vuol conquistare con le sue arti, avvincerlo, tenerlo per sempre
legato a sé col suo magico influsso, come tiene chiusi in stalla gli altri eroi
che sono venuti per godere di lei, e ch'essa ha cambiato in porci. Glauco
vince. Fingendosi ubriaco e dormente carpisce alla dea il bacio che lo rende
immortale e poi respingendone l'amplesso fugge, richiamato dal ricordo di
Scilla, dalla voce sempre viva dell'amore di lei. La sua nave si allontana
veloce spinta dai tritoni, e la dea si vendica, recide il filo della vita di
Scilla, strappandolo dalle mani delle Parche.
Cosí quando l'eroe giunge alla Sicilia e scende
alla riva i pastori stanno piangendo la morte della ragazza che si è gettata in
mare. Il corpicino giace sulla sabbia e dopo essersi fatto legare a esso con la
catena dell'ancora, Glauco si fa gettare in mare. Dalla profondità salgono
ancora il suo lamento e il suo pianto.
Questa, nella sua trama e nella sua conclusione,
la favola. E di piú che la favola che vi è in questo dramma? L'autore,
dicevamo, ha voluto metterci grandi cose. Per velare dietro di esso grandi cose
ha scelto e sceneggiato un soggetto mitologico. Le cose grandi però, sono
rimaste cosí, dietro un velo, una velleità senza espressione definita. Tale è
pure la liricità di questa tragedia. È esatto dire che si tratta di un
tentativo apertamente confessato di fare in teatro cosa, se non nuova, diversa
almeno dal comune, di trasfigurare l'azione scenica con una intuizione di
poesia. Ma è pure esatto dire che il tentativo è fallito. La mitologia ha
inaridito la fonte della poesia, invece di alimentarla. Chi conosca la serena e
grande poesia dei miti greci, non ravvisa in questa tragedia che un
travestimento di problemi o di pseudoproblemi moderni.
Forse chi è abituato al teatro attuale vi trova
qualcosa di nuovo. Ma per il nuovo si perde il meglio, si perde quello che
conta e che vale: si perde la spontaneità e la pienezza dell'azione, si oscilla
tra una realtà e un sogno che non hanno entrambi consistenza che di parole.
Non si afferra, di concreto, nulla che non
potrebbe esser contenuto in una qualsiasi mediocre favola borghese.
Il successo c'è stato, sebbene un po' tiepido.
Tre chiamate a ogni atto. Nessun entusiasmo.
(21 novembre 1920).
Tre novità al Teatro Alfieri («Cecé»
di Pirandello, «Ma non lo nominare» di Fraccaroli, «Schiccheri,
tu sei grande!» di Lopez). Pirandello, Fraccaroli, Lopez. Tre atti
unici, del genere, «per rivista mensile "Lettura", "Secolo
XX"». Tre novelline dialogate: le prime due farsesche, la terza
sentimentalmente rosea, per fanciulle di buona famiglia, che abitano nella
mitica provincia gozzaniana. La prima, Cecé, di Luigi Pirandello, è una
sciocchezza semplice senza capo né coda: si descrive, a puro titolo di fare il
solletico sotto la pianta dei piedi, come avvenga che un viveur riesca a
non pagare seimila lire a una prostituta. La seconda Ma non lo nominare,
di Arnaldo Fraccaroli, è una sciocchezza con molte complicazioni. Arnaldo
Fraccaroli ha scritto la sciocchezza pensando che il pubblico fosse la
sublimazione sintetica di 10 abbonati da 20 anni al «Corriere della Sera» e
alla «Domenica del Corriere», che poi hanno alquanto mutato la loro psicologia
leggendo assiduamente anche il «Corriere dei Piccoli», moltiplicati per 10
scrittori di «cartoline del pubblico», divisi per 4 ammiratori di Luigi
Barzini, ridotti ai minimi termini di intelligenza. Il Fraccaroli descrive come
avvenga che, in un albergo con parco, un signore, travestendosi da iettatore,
riesca a far scappare, da un angolo propizio ai convegni amorosi, una cocotte,
la madre che la cocotte ha preso in affitto, un pescecane, un celebre
scrittore genere «milanese», un ricco di prima della guerra e un polacco, e
come poi, nell'angolo propizio, corrompa una dama morigerata.
La commedia di Sabatino Lopez, Schiccheri, tu
sei grande! rappresentata come conclusione, ha guadagnato enormemente per
il confronto; la bonarietà casalinga del Lopez è diventata grandezza
goldoniana. Dopo aver visto tutta la flora e la fauna che può sorgere dalla
putrefazione dell'intelligenza, del senso comune e del buon gusto, vedere un
buon diavolaccio di vecchio dottore che riesce felicemente a trovar marito per
due nipoti! Sabatino Lopez è diventato grande, come sono grandi le Piramidi,
quando la pianura del Nilo è una marcita popolata di ranocchi.
(16 dicembre 1920).
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