C
Ivi. - Pag. 76, in
nota
«Al Popolo, che ingannato era venuto
ad arrestarmi, tali apparecchiava parole, come resulta dallo Scritto inedito
pubblicato dall'Accusa (a pag. 60 del suo Volume di Documenti).»
Eccolo per intiero:
Suadeo vos
emere aliquantulum charitatis et verecundiæ, et
animadvertetis
vos esse cives ejusdem miseræ civitatis.
Foscolo, Hypercalypsis.
Repugnavo a emettere
qualunque dichiarazione intorno al mio stato, perchè farlo dal carcere mi
sembrava viltà. Adesso poi sollecitato reiterate volte dai miei amici, e
persuaso che le mie parole possano tornare di qualche benefizio al Paese in cui
nacqui, mi è forza rompere il mio proponimento. Dirò parole sincere, e quali nè
persecuzioni immeritate, nè ardenti calunnie, potrebbero farmi dettare diverse.
Io venni strappato dal seno della mia famiglia con violenza e con ingiustizia;
poteva fuggire, e non volli: fuggono i colpevoli, e nei passi paurosi della
fuga cercano scampo: gl'innocenti hanno da trovarlo nella giustificazione delle
opere loro. Popolo sono, Popolo nacqui, e quindi non abbisogno adularlo per
ottenere il suo favore; nè io posso odiare il Popolo, nè egli me: noi siamo
stretti con vincolo necessario! Però troppo spesso il Popolo lascia aggirarsi
dai falsi profeti, e troppo spesso lapida i veri, e poi al bisogno si trova
tradito miseramente, e il pianto non giova. Popolo mio, che cosa ti feci? Mi
dissero: Che tu non contavi nulla; mi proposero di entrare nel novero
degli sciagurati che ti s'imposero padroni insolenti e ignoranti; si
vantarono possedere potenza di punirti: finalmente (lo dico o lo faccio?)
lo dirò, perchè la mia difesa è sacra: minacciarono strangolarmi, se io non
avessi consentito a formar parte di loro. Immani cose e spregevoli! Forse
il mio sangue potrebbe animare un secondo Trasibulo, non certo uno dei trenta
Tiranni. La prima colpa, e il mal seme delle calunniose persecuzioni fu questo,
- il mio aborrimento a entrare nel novero di cotesti Tiranni da dodici al
quattrino. Io mi posi in disparte, e non valse: costoro non pure in Livorno, ma
in Toscana, ma in Italia, me predicarono furibondo Gracco, me invaso di
itterizia di sangue, me erede delle furie di Marat; ed in aggiunta agente dei
Gesuiti, e compro dall'Austria, e simili altre calunnie, che mi farebbero tremare
la mano se non mi muovessero a riso la bocca. Lasciamo di loro; io scuoto dal
mio pensiero la loro memoria, come gli Israeliti scuotevano dai loro calzari la
polvere uscendo fuori di casa abominata, - conciossiachè non sieno degni
neppure di disprezzo. Ma tu, o Popolo, soffristi che io fossi tratto a
vituperio in carcere, e non solo lo soffristi, ma venisti a gravare le mani, a
me infermo, di obbrobriose catene! Tutto questo, perchè? Mi accusano di sette,
di congreghe, conventicole insomma, dirette a sovvertire il Governo? È
calunnia: io sfido chiunque ad articolare un fatto solo che induca a
sospettarlo, e giuro sopra l'anima del padre mio, ch'è cosa falsa: nessuno del
mio paese ardirebbe dirlo. Lo scrisse il Giornale La Italia: tale sia di
lei. Parlo dei fatti del 6. Io giaceva steso sul letto infermo quando venisti
in casa, o Popolo, perchè io ti servissi; cercai sottrarmi, perchè male
disposto della persona e studioso di quiete; ma riuscì impossibile lo
allontanamento per essere ingombro il cortile del palazzo; tornai in casa e
favellai di forza: - mi lasciassero; disapprovare ogni idea di tumulto, non
sentirmi capacità nè salute di avventurarmi fra coteste procelle. - Uno del
Popolo mi rispose: - Ora, come? Voi avete detto che dei carichi pubblici avreste
assunto quelli che il Popolo vi avrebbe commesso, e adesso vi ricusate? - Non
mi ricuso; ma voi siete tutto il Popolo? Io qui non vedo alcuno che rappresenti
il Governo, e il Governo nel mio concetto forma parte principalissima del
Popolo, composto di tutte le classi della città. - Voi volete lo invito del
Governo? - lo avrete. - Alcuni partirono, molti rimasero, tenendomi quasi in
ostaggio; tornarono, e con essi lo Aiutante di Piazza Baldanzi, con istanza
del signor Governatore a recarmi al Palazzo per acquietare il Popolo. Andai: -
il Popolo chiedeva armi, e non altro. Seppi, che l'Avvocato Marzucchi ne aveva
fatta promessa, ma non aveva potuto mantenerla; seppi inoltre avere il Popolo
nominata una Deputazione per esporre i suoi voti al Governo, e cessare le
dimostrazioni tumultuarie; e mi disse il Marzucchi averla proposta al Popolo
egli medesimo; - proposizione che egli rinnovò il giorno nove nella Caserma
della Guardia Civica, alla presenza di mille e più persone.
Parlai al Popolo poche
parole, e si disperse: mentre mi tratteneva in Palazzo favellando con
l'Avvocato Marzucchi e il Conte De Larderel, entrarono alcuni individui
concitati nello sguardo che chiamarono in altra stanza il Marzocchi, e quindi a
breve vidi uscire alcuni del Popolo, e udii che dicevano, non senza improperii:
- sono venuti a proporre l'arresto di una cinquantina di popolani, la
pagheranno: il pezzo più grosso ha da essere un orecchio! Abbandonai
precipitoso il Palazzo, mandai subito a chiamare persona congiunta per sangue
col più minacciato di coloro, e lo avvertii del pericolo. Feci il mio dovere, e
non meritava veruna riconoscenza; e se non l'ho avuta, non me ne dolgo. Il
giorno 7 per tempo mi condussi al Palazzo del Governatore; eranvi gli Assessori
Marzucchi e Venturi e il Conte De Larderel: favellai, io credo, nè insensate nè
triste parole; esposi i mali della città, proposi i mezzi di rimediarvi; di più
domandai loro quello che per me dovesse farsi. Mi pregarono tutti a
rimanere nella Deputazione, e adoperare ogni mio sforzo pel bene del paese.
Promisi farlo, purchè essi pure cooperassero, e come provvedimento per tôrre
via ogni pretesto di lite li persuasi a interporsi presso Gianpaolo
Bartolommei, col quale da qualche tempo io viveva con freddezza, ond'egli
consentisse formare parte della Deputazione. Recatomi col Conte De Larderel
alla Comune, conferivamo su quanto era da farsi, quando sopraggiunsero gli
Assessori Marzucchi e Venturi, e referirono le loro premure presso il signore
Bartolommei riuscite indarno. Presenti gli Assessori distendemmo la prima
Notificazione; dettò il Venturi il paragrafo relativo all'approvazione, su
tutto quello avevamo fatto e facevamo, e fu egli che persuase inserire la frase
che avremmo ragguagliato il Popolo del nostro operato volta per volta,
sostituita alla espressione di ora in ora, avvertendo come la prima
denotasse maggiore spessezza della seconda. In questa sopraggiunse un giovane
colla notizia che il signore Bartolommei erasi determinato a formare parte
della Deputazione, ma che prima voleva vedermi. Andai: sopita ogni grossezza,
venne alla Comune. Il Popolo applause; quinci passammo alla Caserma della
Guardia Civica. Tutti mi porsero amica la destra; la strinsi a tutti: il Mayer per
la seconda volta domandò oblio di una ingiuria fattami; lo concessi: il
Ricci pareva restio; più tardi venne a casa in compagnia dei Capitani Orsini e
Conti: disse essere stato ingannato, e che chiarito dello errore veniva adesso
a scusarsi; e fu accolto amorevolmente. Ogni cosa pareva disposta alla
concordia, e cotesto giorno ebbe la sembianza di felicissimo. Il giorno otto
per tempo mi mandava a chiamare il Governatore; eravi seco l'Avvocato Venturi;
poco dopo sopraggiunse il Conte De Larderel: mostraronmi la Notificazione del
Marchese Ridolfi; considerata attentamente rispondemmo: il Governo ha male
appresa la Deputazione; ebbene, ognuno ritornerà alle proprie case: noi non
desideriamo meglio. - No ci venne detto, voi non partirete; noi non vogliamo
pubblicare cotesta Notificazione, che manderebbe a soqquadro ogni cosa.
Marzocchi è partito per Pisa, e già ci ha ragguagliato. Vedete la lettera; tanta
è la lealtà nostra, che noi non dobbiamo celarvi nulla. La lettera parlava
di spiegazioni date al Ministro, e della favorevole accoglienza delle medesime;
avere proseguito, egli Marzucchi, per Firenze, per dare ad altri coteste
spiegazioni; augurarne bene; - badassero a tenere tranquilla la città; -
dissuadessero la Deputazione recarsi dal Ministro, perchè forse non sarebbe
stata bene accolta. Conchiusero finalmente col pregarci a rimanere nella
Deputazione fino a nuove istruzioni. Osservai, badassero bene che noi
intendevamo rimanere perchè pregati, e non volevamo poi essere ripresi di
nulla. Il Venturi mi stese la mano dicendo: Francesco, noi ci conosciamo da
molti anni: sono un galantuomo: tutto quello che avete fatto e farete fu con
piena approvazione del Governo: e se mai trovassero a ridire sul vostro
operato, io vi prometto che darò subito la mia dimissione. Venturi non
ismentirà le parole, e il Conte De Larderel ne può fare buona testimonianza; ma
non abbisognerà certamente. Dopo ci mostrarono varie dimissioni dai gradi della
Civica, che a loro e a noi parvero inesplicabili; erano di Gianpaolo e di Luciano
Bartolommei, di Federigi e di Fiorini. Il Gonfaloniere ed io andammo alla
Comune: qui trovammo lettera di L. Giera dimissionario dal posto della
Deputazione. Il signor Gianpaolo Bartolommei non credè civile neppure scrivere
alla Deputazione; mandò un articolo al Corriere Livornese, in cui,
discorrendo di non so quali rimorsi, diceva deporsi dall'assunto incarico.
Rispondemmo ad ambedue manifestando loro lo invito dell'Autorità locale, e
pregandoli a sospendere le dimissioni fino a nuovi ordini del Governo. Tutto
ciò ci fece nascere sospetto, che qualche segreto agitatore si compiacesse
seminare lo spavento e scompigliare la concordia; sospetto reso tanto più grave
da un Ordine del Giorno del Colonnello della Guardia, del giorno avanti, che
invitava tutti i Civici a radunarsi per difendere (niente meno) la vita e le
sostanze dei cittadini, - e da certe espressioni sfuggite al Ricci nella
Caserma, nel giorno stesso quando mi era condotto davanti: come! mi avevate
detto che dovevamo fare sparger sangue; ed ora non è più vero? - Adesso
alcuni ufficiali della Civica prorompono nella stanza, e passionatamente
domandano, che cosa intendessimo fare, se scioglierci o rimanere. Manifestammo
loro le istanze del Governo locale. Invitati ad andare in Caserma a ripetere
coteste spiegazioni, andammo e le ripetemmo. L. Giera, sopraggiunto, disse che
nel suo particolare aveva ricevuto uguale preghiera dal Governo. Invitati a
pubblicare cotesto fatto li compiacemmo con la seconda Notificazione. Di poi
ognuno si ritirò, aspettando le ulteriori disposizioni del Governo. Il giorno 9
il Governo non cerca più di me, ma invita gli ufficiali della Civica, e
partecipa loro altra Notificazione del Marchese Ridolfi. I fratelli Bartolommei
vennero a comunicarmela, domandandomi che intendessi fare. Risposi sorridendo:
«starmene in casa a badare ai miei negozii.» Più tardi si fecero a trovarmi
molti individui, avvertendomi essere necessario che io manifestassi il mio
concetto (che la soppressione della Deputazione non era cosa che meritasse
sdegno), e inculcassi la necessità della concordia. - Ben volentieri mi recai
alla Caserma a prestare quest'ufficio. Nella stanza degli ordini avvennero
diverse arringhe più o meno concludenti, ma cospiranti tutte alla pace, alla
tranquillità e alla concordia. - Nello uscire dalla stanza una voce sinistra mi
percosse: - «Bisognerebbe ammazzarli tutti!» - Mi sentii ribollire il sangue,
ed esclamai: - la quiete è stabilita, nessuno ardirà turbarla; ma se mai per
somma e non preveduta sventura qualche tumulto avvenisse, guardi la Civica a
non far uso delle armi: pensi che potrebbe rimanere ucciso un padre o un
fratello. - Giunsi alle scale; la calca era folta; non si poteva avanzare nè
retrocedere; intanto vedo apparirmi incontro l'Avvocato Marzucchi. Respinti in
mezzo alla Caserma, io domandai al Marzucchi spiegazione di certe parole lette
nella Notificazione, che mi parvero lesive così alla verità come all'onore; le
parole suonavano: coloro che si dissero vostra Deputazione ec. - Come
hai consentito, lo interrogava io, che queste parole si stampassero, quando noi
fummo da te pregati a formarne parte? quando quello che facemmo fu da te
approvato? - Il Marzucchi, presenti mille persone, rispose: - Finchè io mi
rimanga rappresentante del Governo, mi sia permesso non manifestare la mia
opinione sopra gli atti del medesimo; in quanto a quello che avverte il
Guerrazzi, è vero; il Governo locale approvò quanto dalla Deputazione venne
operato, e la Deputazione fu proposta e consigliata da me. - Io mi dichiarai
soddisfatto, e aggiunsi che mi ritiravo nelle mie case. Marzucchi allora,
ammonendomi gravemente, mi disse: - No, non devi ritirarti, ma affaticarti pel
bene del tuo paese; - con certe parole dolci di lode, scontate con largo sorso
di amaro. Allora di nuovo parlai, parlò lo stesso Marzucchi e Bartolommei,
credo Bernardi e Ricci. Mentre così ci travagliavamo, una vocina stridula si
fece sentire: «la Deputazione è figlia della minorità!» - Queste parole
irritanti m'increbbero: mi volsi a vedere chi le avesse proferite: era un tal
Viviani; allora esclamai: - Oh! l'ho notato, è il Viviani, non ci occupiamo di
lui.-E la gente d'intorno impose silenzio allo importuno. Il Viviani pretende
che io immaginassi una proscrizione; ch'egli fosse posto nelle note; egli mi
finse Silla, sè proscritto. Il Viviani ha fatto me e sè troppo grandi.
Veramente non ho la pazienza dello zio Tobia, che vessato dalla mosca la prese,
aperse la finestra, e dicendole: creatura di Dio il mondo è largo abbastanza
perchè noi non ci diamo noia! la pose in libertà; - ma mi protesto, che non ho
mai imitato Domiziano: però viva, sieno quieti i suoi sonni: se deve morire per
le mie persecuzioni, può contare sopra 100 anni di vita. - Il Popolo adunato,
scosso da tante esortazioni, giurò sopra il suo onore da ora in avanti
rimanersi tranquillo; la Guardia promise vigilare alla quiete della città.
Allora proposi a Marzucchi: poichè ogni motivo di provvedimenti straordinarii
cessa, prega il Ministro a ritirare le milizie, e concedere che il Municipio si
aggiunga varii individui, i quali, prevenendo ogni dimostrazione tumultuaria,
si facciano organo presso di lui dei voti del Popolo. Promise farlo, e credo
ancora promettesse darmi risposta in giornata. Tornai a casa. Alle 2 p. m. il
Conte De Larderel venne a trovarmi; mi disse essere stato accolto freddamente
dal Ministro Ridolfi; aggiunse sentirsi male disposto, andassi a trovarlo
nella sera. Più tardi ricevo avviso essere stato risoluto il mio arresto;
mi posi a ridere; a buio si rinnovarono gli avvisi. Mi misi a scrivere un
articolo di Giornale. Alle 8 circa, vennero Giannini e Meucci per parlare del
Giornale, e rinnovarono lo avviso; intanto sopraggiunge Dario Bastianelli ad
avvertirmi per parte del Conte De Larderel, non istessi ad andare da lui perchè
gli era entrata la febbre. Dopo questi venne il signor Mastacchi, giovane
al quale in tempo di mia vita avevo allora forse favellato tre volte, e mai di
politica; e notiziandomi sicuro il mio arresto, mi scongiurava a non soffrire
questo insulto tanto fatale alla mia mal ferma salute; mi scansassi, in qualche
luogo riparassi fino a ragione conosciuta. Ringraziai cordialmente per tanta
bontà l'onesto giovane, e gli altri venuti con lui a me ignoti perfino di
vista, ma nel tempo stesso scriveva un biglietto a Gianpaolo Bartolommei: avere
da più parti saputo che il Governo disegnava arrestarmi, ordinasse tenere
aperto il portone, perchè non desideravo trovassero i Carabinieri impedimento.
- Ahi io credeva che soli i Carabinieri sarebbero venuti ad arrestarmi!
Questa è la verità, e
null'altro che la verità. Ora mi volgo ai miei Nemici, ai Giornalisti, ai
Municipii, al Governo, e al Popolo, e dico:
Ai Nemici: - Voi mi
avete atrocemente perseguitato; calunniato senza coscienza e senza verità: voi
mentre ero in carcere avete versato a piene mani sopra di me la ferocia e la
menzogna754, rinnovando le immanità
dei Veneziani che conducevano la loro vittima al supplizio tra le colonne di
Piazzetta San Marco con la spranga alla bocca, o la gittavano cucita dentro un
sacco nel Canale Orfano. Voi mi avete baciato e tradito come Giuda755. Tal sia di voi. Voi temete che io mi vendichi
di voi? Il giudizio del pubblico e i rimorsi della vostra coscienza bastano
soli alla mia vendetta.
Ai Giornalisti: - Alcuni
senza conoscermi mi hanno difeso; che posso dir loro? Io gli ringrazio meno
della difesa, che per avermi mantenuta la fede negli uomini: altri,
conoscendomi, tacquero; pieni di tanto sdegno per le ingiustizie che si
commettono mille miglia lontano, per le domestiche non hanno ire. Il cuore loro
è fatto ad uso di fantasmagoria. Che giovano le parole? Esse sono frasche.
Ognuno verrà giudicato a misura delle opere, e un giorno il vostro peso sarà
trovato leggiero sulla bilancia.
Ai Municipii Toscani: -
Perchè veniste volta a volta a lanciare le vostre imprecazioni sopra Livorno
vostro fratello, come sopra una vittima espiatoria? Certo vi scusa lo essere
stati indotti in errore da taluni de' miei concittadini, che per sostenere le
loro calunnie non aborrirono infamare il proprio paese, e renderlo esecrabile
alla faccia della Italia: ma senno e carità volevano che voi v'informaste bene
dei fatti, prima di cuoprire d'obbrobrio una città innocentissima. Adesso
sarebbe giustizia emendare i vostri Indirizzi, non già nella parte in cui dimostraste la vostra benevolenza al
Principe Costituzionale, che non contiene in sè nulla che non sia commendevole,
ma nell'altra che esprime gl'immeritati improperii.
Al Governo: - Io non
voglio con inopportune querele creare imbarazzi e promuovere scandali; ma si
persuada che nè Catilina vissero in Livorno, nè vi fu mestieri salvare la
patria. Il Governo porse troppo facili le orecchie, e trasmodò in atti violenti
ed ingiusti. Quando i Popoli si commuovono, è difficile che non nascano
Partiti; più difficile che i cittadini all'uno o all'altro non si appiglino.
Solone, che pure fu salutato uno dei sette Sapienti della Grecia, ordinò, nelle
leggi che dava ad Atene civilissima, il bando a chiunque non avesse Partito;
piacendogli piuttosto il cittadino appassionato, comecchè poco direttamente al
bene pubblico, che lo ignavo e lo inerte. I Partiti voglionsi dominare e
dirigere, e non farsi schiavo di nessuno. Il Governo rinnuovò lo errore di
Enrico III, il quale si dette in balía della Santa Lega, e cessando essere re
di Francia diventò servo dei Guisa e capo di fazione. I tumulti a Roma, nota
Machiavelli, giovarono alla Repubblica, perchè terminarono sempre in buone
leggi: nelle condizioni presenti dei Popoli, io per me non approvo i tumulti,
ma, come Machiavelli nelle Storie m'insegna, noi non potremo deplorarli
abbastanza, quando terminano con le prigioni e lo esilio dei cittadini. Questa
sventura condusse a precipizio la Repubblica Fiorentina. E se siffatti mali
nascono da provvedimenti violenti, quanti non ne dobbiamo temere maggiori
quando le violenze percuotono cittadini incolpevoli, che invece di provocare
tumulti si affaticano, richiesti, con ogni forza loro a comporli? Ma se umana
cosa è lo errare, bestiale è poi ostinarci nello errore. Io non muovo querele,
nè do consigli; e non ostante, meno per me che per la causa della giustizia e
della verità, pei luttuosi fatti della notte del 9 gennaio, io lo conforto a
riparare l'onore offeso di persone che non demeritarono la benevolenza della
patria e la stima dei generosi.
Al Popolo poi convienmi
fare più lunghe parole. - Tu, o Popolo, sei venuto a incatenare me, colpevole
soltanto di averti obbedito in cosa innocente, a te consigliata, e ad ogni modo
a me estranea affatto. Tu hai incatenato queste mani che non vergarono scritto
che non tornasse in onore della patria italiana. Gli stranieri una volta,
sbarcando in Livorno, davano di occhio ai Mori della Marina, e andavano via
sprezzando questa nostra città, come una osteria posta sopra la strada
maestra756. Se oggi si trattengono
un'ora, lo fanno per istringermi la mano, e l'onore del figlio del Popolo
refluisce sul Popolo, perchè la mia fama è tua fama..... Se ho trascorso.....
perdona questa vampa di orgoglio a colui che fu sempre saturato di calunnia e
di vituperio! Un Carabiniere, nonostante il timore della punizione, mi tolse le
catene che tu mi desti, e agitato dalla paura di avermi offeso ne ha perduta la
ragione. Una persona costituita in dignità squassò sdegnosa le catene, gridando
più volte, e non senza pianto: questa è una indegnità! - E così un
Carabiniere ed uno Impiegato ebbero per me la pietà che mancò a te, - a te, mio
Popolo, pel tuo figlio che t'ama. Ma tu, o Popolo, rigetti la colpa sopra la
Guardia Civica, ed essa, chiamandosi ingannata, la rigetta sopra alcuni
ribaldi. E sia così, e così mi piace, e
giova credere. Ma dimmi: i lupi cessarono di starsi in custodia del
gregge? Il grano fu separato dal loglio? Dura tuttora, o cessò il regno di
Giuda? Cotesti servi di tutti i poteri, traditori di tutti gli amici, adulatori
di chi sorge, calunniatori di chi cade, coteste vespe importune e venefiche ti
sussurrano sempre dintorno?
Ma se tu pensassi, o
Popolo, che io volessi concitare il tuo sdegno contro costoro, t'inganneresti.
Oh! vivano nella loro viltà come sopra un letto di riposo. La stirpe dei
codardi per sommo di Dio benefizio è scarsa tra noi; conserviamoli gelosamente
come mostri: noi gli additeremo ai nostri figliuoli, nella stessa guisa che
accennavano al fanciullo Spartano lo Iloto ubbriaco.
Io l'ho detto: tra me e
te, Popolo, noi non dobbiamo odiarci, nè lo possiamo. Forse Aristide odiò la
patria perchè bandito ingiustamente? In certa notte con pericolo di vita ruppe
il bando, e fu la precedente alla battaglia di Salamina, per avvisare
Temistocle intorno alla ragione dei venti, e all'ordine della flotta persiana.
Gli antichi esempii non saranno stati letti invano. I Veneziani supplicarono
Carlo Zeno imprigionato iniquamente, onde salvasse la patria dal pericolo
supremo da cui era minacciata: usciva, pugnava, vinceva, e poi altero e
costante tornava al carcere757.
Tra me e te ogni trista
memoria è obliata, o Popolo, e con tutti fra te. Vi lasciai non liberi:
uscendo adesso vi trovo facoltati a farvi liberi se volete. A patto tale, chi
non vorrebbe avere sofferta la prigionia? Baciamoci dunque, e stringiamo ora
che ne fa mestieri più che mai i vincoli di famiglia. Giù rancori, giù
discordie, se volete essere forti contro il nemico comune: io non so davvero
come potrete riuscirvi, con matte fazioni tra voi. E soprattutto nè viva
a tale, nè morte a tale altro: il secondo grido è crudele, o la nostra
religione lo aborre; il primo è segno di servitù. Oggimai non hanno a contare
gl'individui, ma i principii. Mi confortarono, o Popolo, ad abbandonarti, e
porre la mia stanza in altro paese. Non posso farlo: le cose si amano pei
sagrificii che costano, e il mio paese mi costa assai. Io qui ebbi nascimento,
e qui desidero sepoltura accanto alle ossa del padre mio e dei miei amici, che
più felici di me mi precederono nella morte: io continuerò, secondo che è dato
al mio povero ingegno, a onorarli come posso e devo; ma tu, o Popolo,
ricompensami con lo starti unito, col non fare il mio nome bandiera di fazioni
e di tumulti: io te ne scongiuro per la mia fama, e più per la tua: anche tu
fosti accusato, e devi mostrare che lo fosti a torto, a nessuno secondo tra i
Popoli italiani, e a qualcheduno primo. Le petizioni offrono mezzi legali per
manifestare i tuoi voti: e per tôrre d'inganno il Governo attienti a queste.
Terminerò col darti uno
avvertimento non inopportuno ai tempi che corrono. Le cose di Francia non
t'illudano; gli Stati non vivono d'imitazione. Ogni Popolo ha le sue età. Non
bene risensato dal lungo letargo, male imprenderesti a correre. Sta quieto;
fortificati; sviluppa il tuo ingegno nello studio del reggimento degli Stati.
La forma costituzionale presenta campo abbastanza per questo. Certo, il
contegno di Luigi Filippo ti rende sospettoso; per lui il trono circondato da
istituzioni democratiche diventò menzogna; ma la colpa stette nell'uomo, non
già nella cosa; e alla fine tu vedi a quale luttuoso termine lo ha condotto la
sua slealtà. Occorrono esempii di re e repubblica vissuti lungamente d'accordo.
Senofonte nella vita di Agesilao ci porge testimonianza di questo fatto, con le
seguenti parole: «lo elogio di Sparta non può separarsi da quello della sua
famiglia, perchè se Lacedemone non imprese a spogliare i suoi re del potere
supremo, i re a posta loro non ambirono autorità maggiore di quella che
concedevano loro le leggi.»
Di più non dico, e forse
il detto è troppo. Tu, o Popolo, vorrai intenderlo e seguitarlo? Deh! sia dato
un giorno di conforto al travagliato mio spirito!
Di Prigione, 19 marzo
1848.
F.
D. Guerrazzi.
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