K
XXIX. Del Giudizio
pronunziato sul mio operato dal Decreto del 7 gennaio 1851. - Pag. 671 e
seguenti.
Opinioni di alcuni
Scrittori partigiani di varie Fazioni intorno al medesimo argomento.
Secondo che me ne venne
il grido dal mondo lontano, scrissero dei fatti miei distesamente un Inglese,
un Francese, parecchi Italiani, fra i quali un Cappuccino. Inglese, Macfarlane
energumeno: di costui già lessi la Storia degli Assassini di tutto il Mondo
in 3 volumi, e mi parve Omero degno di cotesti eroi, e cotesti eroi degni del
loro Omero. Quando mi proveranno, che predicando al Rospo egli potrà per via di
persuasioni lasciare il veleno, che gli viene da natura, imprenderò a curare
Macfarlane l'Inglese. Il Francese è D'Arlincourt: se costui fosse giovane, la
risposta che meriterebbe non sarebbe nemmeno una guanciata....; ma essendo
vecchio passeremo su lui, come sopra un sentiero fangoso, in punta di piedi, e
in fretta, per non c'imbrattare le scarpe: nella sua gioventù compose romanzi
assurdi; ha voluto disonorare i suoi capelli canuti con un romanzo perfido;
sciagurato vecchio! Non sembra a voi che io abbia parlato troppo di cotesto mal
vecchio? Sì davvero, la metà di avanzo. Lasciamo degli oltramontani, e degli
oltremarini, e le loro ignominie: veniamo a favellare degl'Italiani, principiando
dal Cappuccino; ma come volete che io mi trattenga con Padre Pasquale (dacchè
importa grandemente, o miei Lettori, che voi tutti sappiate come il buon Frate
si chiami per lo appunto Fra Pasquale), se fino dal principio del suo Opuscolo
mi paragona con una secchia? Secchia? dite voi. - Secchia, dico io; e per
farvelo vedere vi cito addirittura il passo, che dichiara così: «Al signor
Guerrazzi si tributa nella penisola una specie di culto, onde la nostra critica
potrebbe sollevare contro noi le passioni dei suoi proseliti.... La Italia è il
solo paese, che possa vantarsi avere trovato in una secchia una causa di
guerra, un soggetto di poema. Or bene, il Guerrazzi è questa secchia,
senza altri giuochi di parole!761» Così, Padre, io tolgo
presto commiato da voi; e se non mi sembra dovermi raccomandare ai vostri
scritti, penso potermi, o Reverendo, raccomandare con maggiore frutto alle
vostre orazioni.... però badate, che io conto sopra di queste.
Dopo il Frate metto due
Rossi tinti in chermisi: uno si chiama C. Augusto Vecchi, l'altro Carlo
Rusconi. Dirò poco del primo, non tanto perchè mi pare che meriti poco, quanto
per non conoscerlo intero, essendomi pervenuto della sua Opera fino al
sedicesimo fascicolo; ma se la balla corrisponde alla mostra, so bene io come
mi avrà concio. Favellando a pagine 248 della mia vita privata, dopo molte
gagliofferie afferma, che appresi sui processi criminali le corruttele dei
viventi. Ora io non avvocai cause criminali, tranne due o tre, e queste per
la singolarità loro, perchè ricordo che in una si trattava di fattucchieria, e
in un'altra di un Carabiniere còlto con l'amante sua dentro a una capanna, -
parendomi strano, che là, dove Virgilio aveva trovato argomento dello episodio
di Didone ed Enea, i Giudici nostri avessero rinvenuto materia per cacciare in
prigione la innamorata Regina, e il pio Troiano; onde io per puro amore del
Libro IV della Eneide mi feci a difenderli. Più oltre C. Augusto Vecchi
senti un po' che cosa scrive: «La pazza idolatria di sè stesso lo spinse tanto
oltre a credersi disceso da stirpe dominatrice, poichè un Guerrazzo aveva
tiranneggiato in remoti tempi la sua natale città. E tutti hanno letto in
una sua Lettera diretta a Giuseppe Mazzini com'ei rivendicasse su tarlata
pergamena rinvenuta in Portoferraio l'albero geneatico della modesta famiglia
sua. Ed io ho veduto nello scorcio del 48 in Firenze siccom'egli dispregiatore
in altrui degli aviti vezzi, facesse imprimere sur un polizzino ingessato un
blasone di propria fattura; in cui tra bandiere, picche, e pastorali
mitrate, appariva un lione rampante; e sotto una insegna cavalleresca, che
nessun principe al certo gli aveva conceduto762.» Io con troppo
maggiore motivo di quello che ebbe il Cardinale Alfonso d'Este, quando domandò
all'Ariosto in proposito dell'Orlando Furioso: donde avete cavato tante c....,
devo ricercare il mio Augusto dove diacine abbia letto tante bugie. - Tutti
hanno letto la lettera ec. Orsù, sa egli leggere? Nè prenda in mala parte
la domanda, imperciocchè ho trovato persone, che non sapevano leggere, le quali
ne avevano obbligo molto maggiore del suo: supposto pertanto ch'ei sappia,
torni a leggere questa lettera meco. Discorrendo delle cose mie alla buona,
così scrivo a pagine 19 di questa lettera stampata a Livorno nel 1848 nella
Poligrafia Italiana:
«Nasco di gente antica.
Gli avi miei, agricoltori e soldati, seppero versare il sangue per la patria e
per la fede, come senza troppo svolgere di carte te ne porge testimonianza l'Odeporicon
del Proposto Lami. Guerrazzo combattè in Ungheria contro il Turco, quando
pendeva lite se il mondo dovesse obbedire a Cristo o piuttosto a Maometto, e se
alla causa della Umanità avesse a prevalere quella della barbarie; nè egli si
ritrasse dai campi di battaglia prima che lacero di ferite non divenne incapace
alla milizia, come si ricava dalla patente amplissima del Principe Don Mattias
dei Medici datata da Vienna; ebbe la insegna di Santo Stefano, e la potè
portare senza vergogna perchè prezzo di sangue763.
Filippo, regnando Cosimo I, governò Livorno dove io suo discendente dimoro
senza neppure il titolo di cittadino. Donato avo mio condusse una compagnia di
soldati armata a proprie spese a Napoli col Principe Carlo: nella speranza di
future duchee vendeva in parte i paterni poderi. Il Principe Carlo acquistato
il regno, seguendo il vecchio costume, attese a tenersi bene edificati i
sudditi nuovi, e i suoi sovventori gli increbbero. Gli uomini nelle superbe
fortune infastidiscono spesso dei proprii amici nelle umili, i Principi sempre.
Antico caso e non raccolto mai dalla esperienza.
Donato si ridusse povero
a Livorno, e vergognando tornarsi a casa donde erasi dipartito con tanta
iattanza, qui stanziò come uomo deluso, sazio di giorni, e soldato che dal
menare le mani in fuori non sapeva fare altro. Roso dal tedio del vivere solo,
condusse tardi in moglie una del Popolo, e per sostentarsi continuò a struggere
il suo. Le nozze sterili lo confermavano in questo proponimento: moriva, e
credo all'ospedale, miserissimo in parte per cagione delle improvvide vendite,
in parte per le rapine dei congiunti. Per colmo di sventura lasciava incinta la
moglie.»
Dunque nè il signor
Augusto, nè tutti, possono avere letto nella mia lettera le cose, che
non vi sono; almeno pare, e dico così, perchè tra la portentosa illuvie delle
bugie giudiciali, e stragiudiciali, se io non perdo il lume dello intelletto, è
proprio miracolo. Rimane pertanto a conoscere se quello che scrissi, non
fatuamente, fosse vero; ed il signor Vecchi, se avesse voluto tôrsene il
carico, avrebbe potuto trovare nell'Opera del Proposto Lami intitolata: Charitonis
et Hod[oe]porici Hod[oe]porìcon (Pars secunda;
Florentiae 1741, ex Typographio Jo. Bapt. Bruscagli et Sociorum, ad insigne Centauri):
Pag. 606. - Anno 1553. -
Il Capitano Filippo di Raffaello Guerrazzi di Castelfranco è Commissario
dell'Artiglieria della Fortezza di Foiano. (Vedi sotto all'anno 1574.)
Pag. 606. - Anno 1563. -
Guerrazzo figliuolo di Filippo Guerrazzi di Castelfranco fu da Cosimo
I Granduca creato Cavaliere di S. Stefano pel merito fattosi nella milizia,
come consta dal suo Diploma. - Di questo Cavaliere non si fa menzione nella Galleria
dell'Onore.
Pag. 608. - Anno 1574. -
Muore Castellano di Livorno il Capitano Filippo di Raffaello
Guerrazzi, il quale fu soldato di valore, ed era prima stato Commissario
dell'Artiglieria nella Fortezza di Foiano in Val di Chiana, come si vede
da una sua patente del 1553.» - Giuseppe Vivoli Cavaliere, nel Tomo III
degli Annali di Livorno, Annotazione alla Epoca XI, pag. 126, 128,
parlando del Forte dell'Antignano, aggiunge: «Il disegno di questo Forte, dice
il Grifoni (Cron.) con la guida del MS. del Pezzini, fosse dal
Capitano Filippo Guerrazzi di Castelfranco posto in carta; e che essendo
piaciuto a Cosimo I, desse tosto l'ordine al medesimo di presiedere a farlo
eseguire (1567).» E più oltre: «Alcuni opinano, avess'egli, oltre il comando
della Fortezza, ottenuto in Livorno anche il posto di Commissario, vale a dire,
di Capo del Governo locale. Ebbe rinomanza di prode soldato e di ufficiale di
merito distinto, perchè, innanzi essere impiegato a Livorno, era stato
Comandante del presidio militare dell'Elba.» Al medesimo successe nella stessa
carica di Castellano di Livorno il suo fratello Antonio stato Capitano alla Isola
del Giglio. - (Storia del Valdarno di sotto, MS. presso il signor
Dottore Domenico Guerrazzi di Castelfranco.)
Pag. 609-610. - «Anno
1594. - Vive Battista di Bonaccorso Guerrazzi, prima Castellano, poi
Capitano di Archibusieri a cavallo in Ungheria, sotto D. Antonio de' Medici;
ove in una battaglia restò ferito e inabile a continuare nella milizia: onde si
ritornò in Italia, come apparisce dal Passaporto di quel Principe dato in Vienna
il dì 9 ottobre di questo anno, ed esistente appresso i signori Guerrazzi.
- Questa famiglia Guerrazzi passò da Gangalandi ad abitare a Castelfranco
nel 1427, come consta da' Libri pubblici della Comunità, e di essa vi sono
ancora in oggi due soggetti considerabili per la dottrina; ed uno è il signor
Avvocato Guerrazzi, dimorante in Firenze, e l'altro il signor Dottore Raffaello
Guerrazzi, che esercita pure la professione legale nella medesima città,
adorno nello stesso tempo di molta erudizione, contro il consueto di simili
Dottori, che fanno assai capitale della barbarie per essere reputati
eccellenti. Ha di più fatto considerabile profitto della lingua greca sotto il
signor Dottore Angelo Maria Ricci pubblico professore della medesima,
onde è da esso commemorato nel Catalogo dei suoi discepoli, dato fuora nel
primo Tomo delle Dissertazioni Omeriche, non lasciando di far menzione
ancora del signor Tommaso suo Fratello, colle seguenti parole: His
adnumerandi Raphael Guerrazzius in Græcarum Litterarum curriculo longe
progressus, et Thomas eius frater Sacerdos moribus integerrimis.
Pag. 612. - Anno 1645. -
Prete Lodovico Guerrazzi di Castelfranco, Proposto.»
La prima fabbrica di
vetri fu fondata in Livorno dalla mia famiglia, come si ricava dal seguente
Documento riportato negli Annali del Cavaliere Vivoli, Tomo III, pag.
419:
«Paolo e Michele
Guerrazzi di Castelfranco abitanti in Pisa supplicano a S. A. S. di haver
privilegio di poter fare in Livorno una Fornace di Vetrami di ogni sorta.» - In
pié della quale come in filza S. A. S. benignamente rescrisse:
«S. A. S. gli farà dar
la Casa in Livorno Nuovo a pigione moderata, a loro soddisfazione, et così
ordina al Paganuccio che faccia, et che per anni 10 nessuno possa far vetrami
in Livorno nè suo Capitanato, nè condurre di fuora per vendere, eccetto loro, eccettuando
da questo però cristalli orientali fini, occhiali, spere, paternostrami, et
vetri per invetriate, fiaschi che venghino di Fiandra, fiaschi coperti di
spalatro, di Francia, che questi vi possono venire. - Con che li Supplicanti
saranno obbligati dare le robbe ai bottegai di Livorno per il prezio nel quale
gli stanno di presente posti a Livorno, perchè possino vendere a minuto per
servizio delle lor botteghe, et come li bottegai saranno obbligati a pigliar le
robbe dai Supplicanti, così non potranno li Supplicanti vendere a minuto in
detta Terra, et suo Capitanato, a manco numero di dodici pezzi per volta, et il
quale ordine il Governatore di Livorno lo farà bandire subito che haveranno
messo fuoco, al che fare sieno obbligati per tutto dicembre prossimo, et lo
faccia eseguire con quelle pene che saranno convenienti, et quanto alle legne
il Paganuccio gliene faccia dare sempre a l'uso et prezzo che le paga S. A.
FERDINANDO.
9 marzo 1598.
Antonio Serguidi.»
L'arme trovai in casa,
nè avevo punto mestieri falsarla, commettendo opera infame per fine da nulla,
imperciocchè la si trovi murata nel mastio della Fortezza Vecchia di Livorno,
come tutti i Castellani costumavano fare, e nelle sepolture della mia famiglia
nella
Chiesa di Santa Caterina
di Pisa, dove si legge questo epitaffio:
Sepulcralem
hunc lapidem
Quem
mortalitati consulens
Sibi
suisque vivens posuerat
Franciscus
Guerratius Philos.
Ac
Medicinæ Doctor
Templi
incendium consumpsit
Ardens Camillæ Guerratiæ
In Patruum amar
restituit
Anno Reparatæ Salutis
MDCLXV.
E dell'Accademia Pisana
fu non volgare ornamento Pietro Guerrazzi professore, dichiarato cittadino fiorentino.
Turpi sieno, o innocenti, ed anche puerili, le giunterie non sono da me,
neppure per fabbricare una insegna. Filippo Guerrazzi nell'arme sua pose i
cannoni, perchè Commissario di artiglieria; Guerrazzo la croce di Santo
Stefano, e la mitra Monsignore Vincenzo di Domenico Guerrazzi, dell'ordine di
Sant'Agostino di Lecceto, promosso al Vescovado di Borgo San Sepolcro, quale
non potè conseguire stante la morte immatura. - (MS. citato di sopra.) - Il
costume porta di stampare la insegna di famiglia sopra i polizzini da visita, e
ve la posi ancora io, non temendo davvero commettere delitto di lesa maestà
repubblicana; in ogni caso spero non venire condannato alle gemonie
per questo. Riguardo poi alla nobiltà il signor Vecchi, se veramente desidera
conoscere quello che io ne senta, potrà riscontrarlo, purchè lo legga davvero,
nel Capitolo XV dell'Assedio di Firenze, dove troverà che io ne professo
la opinione stessa, che ne aveva Dante:
«Ben se'
tu manto che tosto raccorce,
Sì che,
se non s'appon di die in die,
Lo tempo
va dintorno con le force.»
E colà dico, che parmi ostentazione di vanità
disprezzarla, come pregiarla troppo; e che ai nati da lignaggio reso illustre
dagli avi per atti di mano e d'ingegno la chiarezza del sangue impone obbligo
grande di continuare la bella trama che eredarono ordita. In quanto a me,
ripeto che vengo da agricoltori e da soldati, e pongo fine a simili quisquilie,
a cui mi condusse la necessità di lavarmi dalle disoneste imputazioni di
falsità, che il signor Vecchi non ha dubitato appormi nel suo libro, che pure
intitola: - Storia!
Succede un altro
Repubblicano, e, per quanto egli c'insegna, socialista: Ministro fu
della Repubblica Romana, e tenne l'ufficio degli Affari Esteri; io lo conobbi
in Firenze, dove venne a sollecitarmi per la Unificazione et reliqua,
con ogni maniera di pressure morali. Ho detto com'egli, nello intento di
strascinarmi, giungesse fino ad affermarmi, che Francia e Inghilterra gli
avevano promesso protezione e difesa, se di Roma e Toscana si componesse
Repubblica; e questo non era vero: ma passione stemperata di Parte sospinge
troppo più in là, e stemperatissimo mi apparve il signor Rusconi. Leggo, lui
essere d'ingegno mite, d'indole amoroso, e questo volentieri mi presto a
credere; e se tale è come ce lo dicono, confrontando le molte falsità, che pure
non ha aborrito scrivere, tanto più dovremo deplorare la devastazione che il
maledetto spirito di Parte opera anche sopra i migliori. Io pertanto stamperò
quello che nel suo libro mi riguarda, e lo verrò di mano in mano con opportune
Note commentando.
In opposizione alla
Requisitoria del Regio Procuratore di Firenze ecco la
REQUISITORIA DEL REGIO
PROCURATORE DELLA REPUBBLICA,
SIGNOR RUSCONI,
estratta dalla sua opera
intitolata: La Repubblica Romana del 1849.
«Reggeva allora la
Toscana con poteri quasi dittatoriali764 Domenico Guerrazzi, uomo
di acutissimo ingegno, ma che troppo poco credeva alla umana virtù per essere
capo di un paese, che da una grande virtù soltanto poteva essere salvato765. Scrittore efficace, ma dotato piuttosto
d'immaginazione che di sentimenti profondi, egli dalle pagine di Machiavelli e
di Guicciardino desumeva le ispirazioni di quella politica che intendeva
professare766. Informato a quelle
letture, e i prodigi operati dai Popoli nelle grandi crisi sociali non
accettando, che in quanto potevano riuscire sublimi nei dominii dell'arte, egli
poco credeva a quelle manifestazioni patriottiche, che vedeva farsi dintorno767; stimava la Toscana più facile preda, che non
gli dessero ragione per crederlo le maraviglie di un anno prima di Curtatone e
di Montanara. La fuga del Duca gli era sembrata su le prime avvenimento di
minore rilievo che altri non riputasse, e con facile fantasia precorrendo
lo evento in quello vedeva forse il filo misterioso, che da quel laberinto
poteva trarlo. Ostentando di basarsi sul positivo, sul pratico, come lo
scrittore del Principe e messere Francesco, egli, che romanziere era e poeta,
rispondeva a chi gli parlava di entusiasmo nazionale, dimandando quanti cannoni
e quanti soldati sapeva mettere insieme cotesto entusiasmo768. Terribile uomo era egli, e che addimandava
gran tatto per essere appressato, giacchè troppo sicuro egli si sentiva di sè,
per adottare nessuna risoluzione che paresse essergli stata da altri
consigliata.
Il voto di Toscana era
però di unificarsi con Roma, di non comporre con essa, che un solo paese, e già
i Deputati la Toscana aveva eletti per andare a far parte della Costituente
Italiana769. Le renitenze del
Governo, o piuttosto del Guerrazzi, rimanevano a vincersi, per bandire
intanto di fatto quella Unificazione, salvo poi alla Costituente di ratificarla.
Il Ministro di Roma sentì la importanza del mandato, che affidato avrebbe al
suo Inviato in Toscana, e volle incaricarne il Dottore Pietro Maestri. Se il
Guerrazzi era uno avversario terribile, avrebbe avuto con chi lottare, e il
Dottore Maestri era tale da sviscerare i pensieri del Dittatore Toscano770.
Il doloroso tema delle
cose toscane ci chiama a sè, e imprendiamo con tanto maggior disgusto a
trattarlo, quantochè la Toscana fu la sola Provincia d'Italia che oscurasse con
una pagina turpe la più gloriosa delle Rivoluzioni.
Già dicemmo in altro
Capitolo come la Repubblica di Roma fosse stata festeggiata al di là
dell'Appennino, e come il voto popolare di Toscana si manifestasse in favore
dell'Unificazione delle due Provincie771. Ci rimane a dire
perchè quella Unificazione non si effettuasse, e quali ne fossero le fatali
conseguenze.
Il Guerrazzi che, come
vedemmo, reggeva pressochè solo le cose toscane dopo la fuga del Principe, era
uno di quegli uomini che, dopo essere stati innalzati dalle Rivoluzioni772, vergognano, quasi si direbbe, dell'origine
della loro grandezza, e non anelano che a farla obliare, blandendo i Partiti
opposti.
Repubblicano per tutta
la vita, se poteva credersi ai suoi scritti, e tirato anche forse più al
demagogo che al repubblicano, allorchè giunto al Potere ebbe modo di far
proclamare la Repubblica, non volle773; allorchè gli fu dato
di unificar due provincie assecondando i voti del Popolo, egli, che unitario e
entusiasta del Popolo si era detto, bramò persistere in una disunione insensata774. Avviluppato dalla Diplomazia, che, non avendo
concetti politici, formula nel temporeggiare tutta la sua scienza, egli che
scritto avea le pagine dell'Assedio di Firenze, e vilipeso a quanti
assumono il mandato di Rappresentanti di Re o di Corti, caduto era nelle reti
di un ambasciatore che giudicava colle istruzioni che riceveva dalla distanza
di mille miglia dei bisogni e dei provvedimenti che dovevano adottarsi
per un Popolo775. Fatto propenso al
Piemonte del quale non era mai stato ammiratore, la Repubblica Romana era
divenuta per esso come uno spino, e quello spino vieppiù gli era infesto
allorchè gli si parlava di Unificazione776.
Qual era il concetto di
quell'uomo? Lo si può indagare traverso alle oscillazioni della sua condotta.
Egli aveva poca fede nella Rivoluzione, niuna nei resultati ch'essa si era
proposti. Per esso la questione era di rendersi necessario a tutti i Partiti, e
reggere col Positivismo che affettava le sorti del Paese di cui stava a
capo777. Non volendo
offendere il Piemonte prima della Battaglia di Novara col mostrare di aderire a
Roma, perchè più dell'entusiasmo del Campidoglio apprezzava le baionette
piemontesi, dopo la disfatta del Piemonte persistè a non volere unificare la
Toscana con Roma, perchè reputò quello il solo mezzo ad evitare un intervento
forestiero778. Non vedendo come, dopo
Novara, non vi fosse più che da inalzare il grido di Francesco I a Pavia: Tutto
è perduto, fuorchè l'onore, - egli l'onore ancora volle mettere a
repentaglio, e lo perdè miseramente779. Errore incompatibile
in Uomo di Stato, contraddizione a tutta una vita che celebrato avea sempre la
gloria e le virtù del sagrifizio, egli credè possibile una Restaurazione senza
soldati conoscendo i sentimenti del suo Popolo, egli antepose alla gloria di
vivere o morir coi Fratelli il miserabile egoismo di salvarsi solo in mezzo
all'esizio universale780.
Le cose però
s'incalorivano ogni giorno dopo la fuga del Duca, e qualche concessione era pur
mestieri di fare a quel desiderio di Unificazione che nel Popolo si
manifestava. Il Dottor Maestri, Inviato di Roma781, instava perchè quel desiderio fosse appagato,
mostrando che nulla di meglio chiedeva la Repubblica, che nessun altro scopo
avea la sua missione. Lottando quotidianamente col Toscano Triumviro, a
cui tutti quegli argomenti adduceva che sogliono far forza in chi non ha una
preconcetta opinione, egli gli mostrava come i principj dovessero salvarsi,
quali che si fossero i pericoli a cui si andasse incontro, come la moralità dei
democrati stesse nel far concordare le aspirazioni colle opere, come l'utile
vero si procacciasse seguendo i dettami di quello che era nobile e grande,
e come nulla vi fosse di peggio in politica, specialmente in tempi di
Rivoluzione, che il non far nulla, e l'aspettare gli avvenimenti colla stolta
lusinga di dominarli.
Queste cose egli diceva
altresì al Montanelli e al Mazzoni, compagni del Guerrazzi nel Governo
Provvisorio; ma benevoli ascoltatori avea in loro, nè per parte loro sarebbero
mai venuti gli ostacoli. Il Guerrazzi solo balenava, prometteva un giorno, poi
si peritava, finchè cresciuto l'impeto dell'opinione del Popolo dovette alfine
arrendersi sulla fine di febbraio, e fare inserire nel Monitore Toscano782:
«Come il Governo,
volendo mostrare quanto gli stesse a cuore la desiderata Unificazione della
Toscana con Roma, avesse intavolate trattative a quell'uopo.»
Le trattative dovevano
versare per allora sulla congiunzione dei due territorj, togliendo le linee
doganali che li dividevano;
Sulla parificazione
delle Tariffe;
Sulla unità di
Rappresentanza diplomatica all'Estero;
Sulla reciprocità pel
corso delle monete ec. ec.
Quanto al decretare
l'Unificazione assoluta dei due Paesi, Guerrazzi opinava che si dovesse
aspettare il voto dell'Assemblea Toscana che dovea fra breve radunarsi,
sentenza a cui pure aderiva Mazzoni per un suo amore di legalità, soverchio
forse in quei momenti, e a cui non ostava il Montanelli, assorto più che in
tutt'altro nel concetto della sua Costituente.
Quella concessione fatta
all'opinione calmava per un momento il Popolo, ma in breve si vedeva con quanta
sincerità Guerrazzi aderisse a ciò che annunziava il foglio officiale783. A legare vieppiù i due Paesi, l'Inviato di
Roma avea proposto da gran tempo un cambio di Truppe, una divisa per esse
uniforme; ma nè l'una, nè l'altra cosa veniva mai attuata. L'unità della
Rappresentanza all'Estero restava del pari obliata, sebbene il Governo della
Repubblica ne avesse dato l'esempio, affidando al Console Toscano in Genova la
tutela eziandio degli interessi dei sudditi romani. La parificazione delle
Tariffe, votata infine dall'Assemblea di Roma, era accolta da Guerrazzi colla
stessa indifferenza, nè il Governo Toscano facea un passo, mentre quello di
Roma gli spianava da ogni lato la strada784.
Quell'ambigua condotta
teneva il Paese nell'agitazione, sfatava gli animi di ogni generoso sentimento,
preparava quella terribile catastrofe che dovremo fra breve raccontare. Aggiornata
per quanto si era potuto la convocazione della Costituente Toscana785, il Guerrazzi si vedeva però alfine costretto a
radunarla, e nel Discorso di apertura che profferiva faceva una parte tanto più
larga a quel voto di Unificazione dei due Paesi, quanto meno intenzione avea di
attenerlo, ben conscio d'altronde, che senza assecondare quel voto, almeno in
parole, non gli sarebbe rimasto per un'ora il Potere786. Senonchè poi, onde non lasciare mettere in
discussione quel soggetto, a cui con tanto ardore parea riportarsi, con mille
piccole arti ei lo andava sempre aggiornando, adducendo ora la necessità di
aspettare lo scioglimento delle cose del Piemonte, ora motivando i sentimenti
toscani che da quell'atto, diceva, potevano rimanere offesi. - E all'effetto di
prender tempo, egli suggeriva ancora all'Inviato Romano, come, per condizioni
preliminari di quella Unificazione, sarebbe stato bene, che Roma sanzionasse
che il Governo e la Rappresentanza nazionale avrebbero risieduto un anno a
Firenze, uno a Roma; che Firenze avrebbe avuto un collegio militare, una
università, una scuola di belle arti, - disposizioni che avrebbero servito a non
irritare quelle suscettibilità municipali che troppo fatalmente sentivano, egli
soggiungeva, i suoi compagni787. Ma gli rispondeva con
dignità l'Inviato Romano, non doversi stuprare un gran concetto con quelle
meschine considerazioni; doversi far scomparire gli elementi secolari di
divisione che tanta parte erano stati nella rovina d'Italia, non piaggiarli,
accarezzando grette passioni, che da nessuno, che l'Italia amasse, potevano
alimentarsi; doversi mostrare colle opere al Mondo che l'Italia era matura a
quella civiltà, per cui dettato avevano le loro pagine i suoi scrittori
immortali, per cui il sangue avevano sparso migliaia di martiri: essere
necessario infine un atto magnanimo, che forse Sicilia e Venezia avrebbero
tosto imitato: e quanto alla Costituente Italiana poi, per cui già la Toscana
eleggeva i suoi Deputati, essa avrebbe difinitivamente regolate le condizioni
di ogni provincia, facendo ragione a quelle esigenze che potessero restare.
Guerrazzi, stretto così
da vicino, inaugurava la Toscana Costituente col Discorso a cui accennammo788; poi tergiversando in mille maniere decidevasi
ad aspettare l'esito delle cose piemontesi prima di fare null'altro. La Toscana
permaneva quindi col Governo Provvisorio, permaneva staccata da Roma; il
Partito liberale, sdegnato di quell'inerzia, accennava d'irrompere da un
momento all'altro789.
La notizia della
disfatta di Novara poco dopo giungeva, e paralizzava vieppiù le risoluzioni del
Guerrazzi. Quella notizia produsse oltre Appennino l'impressione che aveva
prodotto a Roma, e là pure si sentì che una crise si avvicinava. Ma mentre Roma
traeva forza dalla sventura e si apparecchiava a morire, almeno degnamente, la
Toscana, mercè la condotta subdola del suo Triumviro, s'accasciava miseramente;
in una stolta ed egoistica lusinga miseramente si addormentava790.
Guerrazzi, riescito a
disfarsi791 dei suoi Colleghi, che
opposti si sarebbero a quelle risoluzioni a cui già piegava, spaventando792 l'Assemblea con un Rapporto dei Ministro
dell'Interno, che dipingeva coi più neri colori lo stato del Paese, indotto
avea l'Assemblea ad aggiornarsi, conferendogli una specie di Dittatura, a cui
l'ultimo ostacolo veniva tolto coll'allontanamento di Montanelli, mandato a
Parigi793. Fatto solo rettore
delle sorti toscane, fu allora che fra i due partiti che gli restavano,
d'unirsi a Roma, o di accudire ad una Restaurazione, si attenne a
quest'ultimo, avendo egli, repubblicano, voluto prima forse l'unione
col Piemonte monarchico, se il Piemonte vinceva; poi il ritorno del Duca come
il solo mezzo, così credeva, di evitare l'intervento tedesco. Questa ultima
risoluzione, che avrebbe potuto scusare le sue intenzioni, se fossero state
leali, non scusava certo il suo senno. Come non vedeva egli che il Duca non
poteva tornare che colla Reazione? Che Livorno, non vi fosse stato altro, non
si sarebbe piegata mai a quel ritorno? Che, in fine, un'intervenzione armata
diventava necessaria794?
Infiammando i sentimenti nazionali,
egli potea mettere il suo Paese in solido con Roma; evocando le memorie di
Curtatone e di Montanara, potea spingere la terra ov'era nato a dar di sè una
testimonianza dell'antico valore; e se destinato era che entrambi quei Paesi
cadessero, grande consolazione sarebbe certo stata che cadevano almeno con
gloria; gran documento di virtù cittadina alle venture generazioni avrebbero
lasciato! Prima che far ciò, egli preferì di assiderare, con mille voci
insidiose astutamente sparse, quei po' di spiriti patrii che tuttavia
restavano; si oppose ai Corpi Lombardi che chiedevano di traversare il suolo
toscano per andare a Roma; blandì con ogni maniera di accorgimenti gli uomini
del Principato, e fu stolto abbastanza, o abbastanza orgoglioso, per credere
nella riconoscenza loro, o nel bisogno che avrebbero avuto dell'opera sua795.
Qual successo potessero
aver quelle trame, egli cominciò a immaginarlo la sera dell'11 aprile. Una mano
di Livornesi, venuti in Firenze già qualche tempo prima per scuotere la
neghittosa che le ambagi del Triumviro avevano assopita, si era impegnata in
una lotta con alcuni Fiorentini in cui erano sembrati risvegliarsi tutti gli
antichi odii civili796. I Livornesi avevano
avuta la peggio, e avevano giurato di vendicarsi. Essi erano tornati, forse in
un migliaio, il giorno appresso, e Firenze era stata minacciata da una vera
battaglia campale. Mercè gli ufficii di molti cittadini la tempesta si era però
diradata; i Livornesi erano ripartiti, ma non senza mantenere un cruccio segreto
che presto o tardi avrebbe voluto sfogarsi. Ed ecco finalmente che nella sera
dell'11 aprile corre voce per Firenze che i Livornesi si battono coi Fiorentini
alla Stazione della Strada ferrata; che la Piazza di Santa Maria Novella
risuona di colpi e rosseggia di sangue; e l'allarme vien dato alla città, in
cui prende allora decisamente il sopravvento il Partito reazionario, che,
avendo profittato prima delle ambiguità del Guerrazzi, di quei nuovi fatti
allora si valeva per dire i Livornesi rappresentanti dei Demagoghi che
insidiavano Toscana, e che era tempo di finirla con quei forsennati che avevano
convertito uno Stato tranquillo in un teatro di disordini e di anarchia. Il
Partito reazionario concludeva affermando che bisognava tornare alle
istituzioni antiche se si voleva la pace, che essi erano Toscani, non Italiani,
e che senza ripudiare l'opera dei Democratici non si sarebbero evitate le fiere
catastrofi da cui la Toscana era minacciata797.
Molti Livornesi
macellati in quella sera in Piazza Santa Maria Novella, e le grida di morte
ai Lombardi, morte agli Italiani, mentre sparsero la desolazione nell'anima
di tutti i buoni, dovettero far accorto il Guerrazzi a che via andava la
Reazione.
L'avvertimento però giungeva
troppo tardi. La novella dei fatti di Firenze si spargeva pel contado, dove da
qualche giorno manifestavasi qualche commovimento in favore del fuggito
Leopoldo, e la mattina del 12 aprile Firenze era percorsa da un'orda briaca,
che acclamando al Principe imprecava al nuovo Governo, inferociva con ogni
maniera di sevizie contro chiunque le era additato per liberale, andava per
abbruciare le case e i fondachi di quelli, che l'opinione pubblica designava
per amatori delle cose nuove. La schifosa turba imbestialì a suo senno; così,
senza che il Potere costituito ardisse farle opposizione, atterrò gli Alberi
della Libertà davanti ai presidii delle Guardie Nazionali, che come smemorate
la lasciarono fare, rialzò gli stemmi del Duca facendo gazzarra, e stampò per
tal modo un marchio indelebile d'obbrobrio sopra una delle città più gentili di
questa terra italiana. Dov'era allora il Governo? Che facea il Municipio? Dove
erano le truppe? Come patì la Guardia Nazionale sì rea violenza? La condotta
del Guerrazzi portava i suoi frutti; il nulla fare, il paralizzare ogni
sentimento patrio, lasciava una delle prime città italiane allo sbaraglio di
alcune migliaia di villani; i Liberali piansero di disperazione vedendo
l'eccidio a cui le cose erano condotte, vedendo come anche l'onore era stato
indegnamente immolato.
La Reazione percorse
tutto il suo stadio, si autorizzò dell'idea fatta spargere dal Guerrazzi,
che solo una Restaurazione poteva risparmiare un intervento tedesco. Le
grida di morte ai Deputati, morte ai Liberali, rimbombarono per molte
ore, accompagnate da atti che per l'onore d'Italia non vogliamo ricordare. Una
Commissione fu istituita poi che disse governare in nome del Principe, e gli
amici del Principato Toscano cominciarono dal retribuir Guerrazzi dei servigi
fatti loro, con quella carcere che da tutt'altri, che da essi, avrebbe
dovuto meritare798.
Le Deputazioni si
apprestarono a partir per Gaeta, per richiamare il benamato Principe, e tornare
a quelle saggie franchigie troppo dal Guerrazzi e dal Montanelli
conculcate. Ma il benamato Principe lasciò scorgere che non voleva far più a
sicurtà come prima con quelle dimostrazioni di affetto, e che alcuni
battaglioni di tedeschi lo avrebbero meglio rassicurato. Fu allora che anche
gli spegnitori di ogni entusiasmo patrio, fu allora che quei reazionarii
commovitori delle campagne conobbero che abisso si fossero scavato, e che
cercarono (indegno strattagemma) di adonestar l'intervento austriaco,
mostrandolo da Livorno solo motivato. D'Aspre però, a cui noiavano tutte quelle
reticenze, che voleva anche un po' umiliar Leopoldo pei suoi sentimenti
italiani, troncò le ambagi con un Proclama in cui disse, che il Principe
stesso aveva voluto quell'intervento. Gli amici del Principato Toscano
avrebbero dovuto nascondersi allora per vergogna, se di qualche pudore fossero
stati capaci; ma trovarono più idoneo il continuare a bandir la croce sui
Repubblicani, dicendo che se anche il Principe non si affidava più in essi, ciò
era sempre per opera loro.
Così cadde Firenze, e,
che peggio è, cadde vituperosamente; vituperosamente non pel suo Popolo che
l'Italia aveva amato, come quello di tutti gli altri Paesi, ma per le stolte e
ambiziose tergiversazioni di un uomo che portò il pessimismo dei suoi
scritti nella vita politica799, e per lo zelo di una
gente fredda, egoista, inconsiderata, che non comprese come, ostando al
movimento nazionale, diveniva per necessità l'alleata dei Tedeschi.
Era serbato a
quell'inclita città il vedere quindi una Convenzione stretta col nemico
d'Italia per l'occupazione della patria, e il vedere un Corsini ad apporre il
suo nome in un patto, che convertiva una provincia italiana in un feudo
tedesco.
La Storia, che
giudicherà gli uomini e gli atti di questa età dolorosa, saprà dispensare
imparzialmente le lodi e l'infamia800.»
Seguono due libri
entrambi stampati da Felice Le Monnier, il quale si è fatto Editore del pari
della mia Apologia, onde si può dire di lui quello che gli antichi
narravano della lancia di Achille, la quale sanava le ferite che faceva.
«Vulnus Achilleo quæ quondam fecerat hosti
Vulneris auxilium Pelias hasta tulit801.»
La prima ha titolo: «Gli
ultimi Rivolgimenti Italiani; Memorie storiche del signor Marchese F. A.
Gualterio di Orvieto. - Firenze, 1850-51.» Quando di queste Memorie mi
pervenne notizia, ne augurai subito male, talchè nel 9 gennaio 1850 ebbi a
scrivere al mio Difensore signore Avvocato Tommaso Corsi: «Ricordi quello che
si narra di Alessandro Macedonio, quando Lisimaco gli leggeva certa storia di
strani gesti operati da lui? È fama che Alessandro, interrompendo Lisimaco,
esclamasse: e dove eravamo noi quando facevamo sì stupende cose? - Questa
storia mi si affacciò alla mente più volte leggendo le mille gagliofferie e
perfidie stampate sul conto mio; però a imitazione di Alessandro mi sono
stretto nelle spalle interrogando me stesso: - e dove ero io quando facevo
tante belle cose? - Jeri leggendo il Galignani's Messenger del 28
decembre me ne capitava una sott'occhio nuova di zecca, e parla così: - dicesi
che un certo signor Marchese Gualterio di Orvieto abbia pubblicato una Storia
Politica d'Italia dal 1847 al 1849, la quale cause one immense sensation by
the new light which it will throw on the men and things of our day ec..... by
documents esaminati nello Archivio segreto del Governo, e di alcune
Cancellerie; - e seguita: - another revelation still more curious will show
in the most evident manner that the Dictator Guerrazzi was supported by Lord
Palmerston. The proof of this exists in a letter
of Guerrazzi to Sir G. Hamilton, complaining in the better terms of having
abandoned by England after the english Ambassador had formally promised him
that he might calculate on his support.»
Ora niente di
questo è vero; e l'onorevole Lord Palmerston ebbe la bontà di significarmi, col
mezzo del Ministro Hamilton, il suo gradimento per i miei sforzi, da me in
tempi difficili, e privo di qualunque aiuto, operati in benefizio della salute
pubblica, confortandomi a perdurare in quelli, e a sostenere con ogni facoltà
mia il Principato Costituzionale. Lo evento poi corrispose al presagio. Cotesto
è libro di Parte; due compaiono essere i fini che si propone: favoreggiare
gl'interessi della Monarchia Costituzionale Piemontese, esaltare il Partito,
che si dice dei Costituzionali moderati. Malgrado le lodi prodigategli da
questi ultimi, senta un po' me il Marchese Gualterio, chè, quantunque non gli
sia parso finora, troverà che io so dire il vero, e posso, perchè fin qui, e
sono quarantasei anni, viltà che sia non ho saputo mai; da parte il merito
letterario di cotesto libro, io gli dichiaro che non è opera da prudente
storico, nè da uomo onesto. Come storico di casi contemporanei, sembra a me che
dovesse mettere più coscienza nel ricercarli, più gravità nello esporli, dacchè
io davvero non comprendo come possa giovare alla comune Patria, e allo stesso
concetto che promuove, inciprignire le piaghe, e perpetuare, anzi crescere, le
maladette discordie. Se io male non veggo, in questa parte egli amministra
ottimamente i negozii, - non però quelli d'Italia. Come onesto, io lascio
considerare a lui, che pure è gentiluomo, e si professa dabbene, se egli doveva
raccogliere nelle orecchie tutto quanto vi versava dentro la necessità di
attenuare un'azione turpissima, l'astio della mediocrità, e l'odio di superbie
umiliate. Egli non è ancora giunto co' suoi scritti alla mia vita politica, e
siccome mi giova sperare che di ora innanzi avrà compreso, con un bove solo non
tirarsi il solco, nè potersi giudicare del suono delle campane se ambedue non
si ascoltano, e che di ciò farà senno così per dettare le rimanenti Memorie,
come per correggere le già scritte, non mi trattengo più oltre sopra di lui,
pago, intorno alle ragioni della mia vita privata, di quel tanto che mi fece
l'onore di attestare Tommaso Corsi, e che io stesso ho discorso sparsamente
nella mia Apologia.
«Ma sopra
ogni altro feritore infesto
Sopraggiunge
Farini, e me percuote.»
Non dirò delle sue
intenzioni, quantunque, secondo il mio giudizio, rette non pare che abbiano ad
essere; ad ogni modo io domanderò chi gli abbia insegnato comporre Storie sopra
Requisitorie di Procuratori Regii, cospargendole di tratto in tratto di qualche
fiore còlto nel suo giardino! Ora che cosa altro ha egli fatto, almeno per me?
E gli domando eziandio, se sono prove di temperanza, di moderazione, e di
probità, praticare com'egli ha fatto contro uomo, che da trenta mesi si logora
chiuso in carcere, e non gli può rispondere! Se così costumano i moderati, che
cosa dobbiamo aspettarci dagli sbracati e dagli scamiciati, è
difficile immaginare. Pensino a questo i Moderati. Il suo libro si manifesta
dettato nel medesimo spirito di quello del Gualterio, ma con manco di
generosità, e più piglio di Procuratore Regio, però che Gualterio non dia i
suoi giudizii per definitivi, e prometta, se avvisato, emendarli. Io già ho
tenuto proposito del libro intitolato Lo Stato Romano in varie parti
dell'Apologia: mi giovi qui singolarmente rilevare alcune, che, adoperando il
più benigno linguaggio, chiamerò falsità. A pagine 86 del Tomo III afferma: «Chi
rompe paga, scriveva per telegrafo il Guerrazzi a' suoi Livornesi, usi da
lui a rompere ed essere pagati?» Mi sia permesso domandare al Farini: su che
cosa fonda questa vergognosa imputazione ai Livornesi, e a me? Se nel proprio
mal talento, questo non fu mai, per quello che io sappia, annoverato fra le
sorgenti della Storia; e veda, che quello ch'ei finge, grave sempre, per me
oggi è gravissimo. A pagine 87 afferma: «dicendo provvedere alla sicurezza
pubblica, provvidero al proprio impero, soldando guardie di polizia fra le
turbe dei turbolenti e dei fuorusciti, le quali, come non avevan prima nè
termine nè misura nelle voglie pazze e malvagie, così furono poi non presidio,
ma offesa della città.» E questi, veda il Farini, e' sono rotondi, non già
sinceri periodi; avvegnadio se della Guardia Municipale tu consideri la
origine, troverai averla scelta una Commissione composta del Prefetto e del
Gonfaloniere di Firenze con altri cittadini spettabili, e non avervi preso
punto parte io, se togli la nomina Basetti, e i suoi figlio e fratello; o, se
piuttosto tu vogli considerare i portamenti, li conoscerai essere tali da
meritarsi di essere conservata dalla Commissione Governativa. Individui pessimi
certo entrarono in quella, ma non per colpa del Governo, e perchè in qualunque
composizione di corpi questo guaio vediamo avvenire sempre; nè poi furono
tanti, che dessero cattivo nome al corpo intero: onde l'accusa del Farini suona
singolare, e non vera. Intorno al disfacimento degli ordini in Toscana, lo
mando.... se il Farini ci vorrà andare.... a quella parte della mia Apologia,
dove di ciò si ragiona, e le parole di Gino Capponi si riportano. Quanto scrive
intorno al Granduca nostro, suona così:
«Havvi chi afferma, che
egli non si fosse mai acconciato agli ordini liberi in guisa da lasciare gli
appetiti e le ubbie dell'assoluto, e, come dicono, paterno reggimento. Havvi
chi dice, che sin da quando rallentò i vincoli della libertà, perchè il papa
coll'esempio aveva sciolti i popoli italiani, scrivesse all'arciduca Ranieri
vicerè di Milano ed altri suoi consanguinei, facendo querela e beffa dei
liberali che inuzzolivano. Taluno attesta, che nel tempo, in cui colle poche
sue armi concorreva alla guerra d'indipendenza, egli fosse in buoni termini co'
regii ed imperiali parenti, coi quali non aveva intralasciato i consueti
uffizii. Ond'è, che molti hanno argomentato poi dai fatti che seguirono, e da
quelli che si vanno via via svolgendo in Toscana, che Leopoldo II non solo
fosse sempre oscillante fra gli avvisi e le parti contrarie, ma che sempre
fosse fermo nella devozione ad Austria ed alieno dalle liberali novità. Del che
io non ho a fare giudicio, perchè non ho d'onde fondarlo su base a cui la
coscienza s'acqueti; nè d'altra parte ho debito di addentrarmi nelle cose
toscane più di quanto sia necessario ad indagare e chiarire le attinenze di
quelle colle romane. E dovendo rimanermi in prudente, e direi onesta,
dubitazione, amo meglio, il confesso, pendere a benigno giudizio d'un principe
che pur si parve ornato di buone qualità, mite dell'animo, degli studii
fautore, riformatore d'abusi, quando gli altri italiani principi di sè davano
nome ed esempio peggiori.»
Ora, che cosa egli è
questo vedere, e non vedere, a modo della Vergognosa di Camposanto? Non si
gittano addosso accuse pessime per iscivolare via lasciando dietro una traccia
di bava a mo' di lumaca. La storia scrivono gli Storici, non gli Scoiattoli.
Egli doveva verificare le accuse, e se accertate esporre gravemente, e
lealmente, e se non riusciva ad accertarle doveva trascurarle, perchè davvero
raccattare quello, che ai giorni di oggi s'incontra per via, è mestiere da
carrettaio, non ufficio da Storico. Tra lo Storico, che pazientemente raccoglie
la materia, la studia, la saggia, la sottopone a religiosa indagine, e alla
fine la veste con forme caste ed elette di stile, e lo scrivano che tuffa la
penna nello inchiostro e la mena di su e di giù per le carte, la differenza che
corre è grande quanto fra un pittore e uno imbiancatore; oltre che elle paiono,
coteste del Farini, come veramente sono, ipocrisie, che putono di vieto lontano
un miglio; e per un momento ho quasi dubitato, che dei Gesuiti oggimai fossero
le voci, ed altri avesse avuto le noci; chè se la cosa non istà per l'appunto
come la credo, in quanto a noci, almeno mi pare, che se le sieno spartite, e da
un pezzo.... - A pagine 218 afferma: «che i Ministri tennero consiglio co'
sollevatori nei Circoli nella notte dell'8 febbraio.» E veda l'onesto Farini,
questo fatto che sarebbe cagione di capitale condanna, nemmeno l'Accusa (che
non ha fatto a risparmio per inventarne grosse) ha osato affermarlo. A pag. 219
pone: «che nell'8 febbraio il Governo prima gridò, poi disdisse la Repubblica;»
ed anche questa è calunnia pretta che neppure ha potuto riscontrare
nell'Accusa, - fidata scorta degli erranti passi. Intorno alla
inverosimiglianza delle tre lettere scritte dal Granduca, con le quali prima
chiede, poi renunzia, e finalmente torna a sollecitare i piemontesi aiuti, ho
discorso altrove; le due prime possono credersi, non già la terza, che a me
pare immaginata a posta per salvare chi aveva promesso quello che non doveva
promettere, e non poteva mantenere, se gli ordini costituzionali si
vogliono osservare.
Però in queste mie
miserie mi hanno somministrato non mediocre argomento d'ilarità le lodi smodate
con le quali prosegue la commissione del Ministero Toscano del 22 settembre
1848 al Marchese Ridolfi per le Conferenze di Brusselle. Se io di mia certa
scienza non sapessi essere allora Presidente del Consiglio Gino Capponi, non lo
crederei a cui mel giurasse; però che Gino Capponi sa, che politica francese di
Enrico IV, e seguita sempre da Richelieu a Lamartine inclusive, fu tenere
deboli e divise la Germania e la Italia, e sa che gli Stati piccoli congregati
ad equilibrio di leghe all'urto degli Stati uniti e grossi non reggono, come
vedemmo ai tempi di Ludovico il Moro; e finalmente sa che rovina d'Italia fu
appunto questa, operata in buona parte dal Magnifico Lorenzo dei Medici, che in
condurre un disegno piccolo e cattivo pose arte e sagacia eccellenti: che
mentre le si stavano componendo su i confini, grosse ed unite, l'Austria e la
Francia, essa durava frantumata in piccoli brani; nè potersi della indipendenza
nostra neppure parlare là dove nell'alta Italia non venga posto uno Stato forte
capace a guardare le frontiere da vicini potentissimi; - e nonostante che
queste cose sapesse, leggiamo con maraviglia commettere al Marchese Ridolfi di
consentire che la Lombardia si concedesse a un figlio di Carlo Alberto, e la
Venezia o ad un Arciduca di Austria, o a Francesco V di Modena; in quanto alla
Sicilia s'ingegnerà di promuoverne la separazione dalla Corona del Re di
Napoli, assegnandola in retaggio a un figliuolo di lui; i Ducati di Parma e
Modena ad ogni modo si sforzasse fare abolire; e per quanto concerne Toscana si
adatterebbe a prendere di Lombardia un pezzo, ma non tale che si avesse a
dire di lui: la carne non vale il giunco; però di 12 oncie buon peso, e senza
osso, - e per di più Toscana non vorrebbe chiedere, ma sì piuttosto
desidererebbe essere pregata. - Cose sono queste da far cascare le braccia ad
ogni fedele cristiano. Così, invece di diminuire, si accrescevano le divisioni
in Italia! E quello poi che riesce più stupendo a vedersi si è, che Farini, il
quale si sbraccia a maledirmi (e se fosse vero, come è falso, avrebbe fatto
bene) per essermi mostrato avverso alla composizione necessaria di uno Stato
gagliardo, trova a lodare un concetto che guastava il presente e l'avvenire.
Egli è vero che debole Stato siamo noi, e la nostra voce poco avrebbero
ascoltato; e questo a parere mio somministrava un motivo di più o per parlare
almeno magnanimi, o per tacere prudenti; e concludo sostenendo che un uomo
dotto nelle storie e nelle ragioni della politica, come Gino Capponi, non può
avere consentito così mirifica commissione, e mi pare assai che volesse tôrne
il carico il Marchese Ridolfi, se pure non ebbe ordini segreti, che, la
stupenda commissione correggendo, la riducessero ai termini del credibile. - È
falso quanto scrive Farini a pag. 285, che «i Governanti Toscani non erano
amici al Piemonte;» io ho chiarito, onde non si rinnuovi questa sventura, come
taluni fra i Piemontesi si dimostrassero, all'opposto, poco amici dei Toscani.
- Dello esilio di Massimo Azeglio, e delle ingiurie al Lovatelli di che ragiona
a pag. 332, davvero nulla so, che pare qualche cosa dovrei saperne, ed anche
questa va messa al monte. Delle contumelie stampate contro Gioberti, non
occorre fare altra parola. Non fu il 4, ma il 3 di aprile, che l'Assemblea
sospese il voto intorno alla Unione con Roma, non lo profferì contrario, come
Farini asserisce erroneamente, dacchè, in modo diverso, fino da quel giorno la
Restaurazione sarebbe stata decisa, e quanto racconta in seguito non accaduto,
come quello ch'era ad accadere impossibile. - In due luoghi scrive, che gli
agitatori menavano tanto rumore che Guerrazzi non gli sapeva sopportare
(pag. 219), e che i lazzaroni democratici deturpavano la Toscana, fremente
lo stesso Guerrazzi! (pag. 332.) Ma io ricuso cotesto pane dato con la
balestra, anzi perfino col punto di esclamazione in fondo; e neppure si
potrebbe onestamente accettare, perchè accompagnato da soverchie tumidezze e da
bugie. Bugia le sommosse fiorentine represse dalle bande livornesi; bugia
l'essermi io ridotto co' Livornesi in Castello; bugia essermi mostrato pronto a
pigliare posto nella provvisoria congregazione del Governo; bugia il mio girare
nel manico per accettare la Restaurazione (pag. 333): le quali cose tutte,
secondo che io affermo, essendo con copia di prove dimostrate nell'Apologia,
non abbisognano di più largo discorso. Vorrei piuttosto tenere proposito di
certa sua imputazione intorno ai successi di Genova, molto più che l'Accusa
tocca anche di questi, e poi dice: te li do per giunta; - onde io, che
dell'Accusa non vorrei la giunta nè la derrata, mi condurrei volentieri a
tenerne ragionamento, ma basti dire (e se sia vero lo può il Farini riscontrare
nel Volume dei Documenti della sua Musa, - l'Accusa), - che io desiderai
soccorrere Genova quando venne fra noi la notizia, che il Piemonte in gran
parte commosso per lo infortunio di Novara, respinto da sè ferocemente ogni
principio di accordo, voleva tentare le ultime prove, e quando fu detto che il
Generale La Marmora fra i patti della capitolazione ponesse quattro ore di
saccheggio802. Non si verificò la
prima notizia, e, se male fosse o bene, mi confesso incapace di giudicare; in
quanto alla seconda, che non si verificasse fu certamente bene. E si acquistò
bella gloria Vittorio Emanuele, e diè con auspicii felicissimi fondamento al
nuovo Regno, superata Genova, commettendo ogni trascorso all'oblio, concesso
prima lo scampo a coloro che consigli di politica lo dissuasero a ricevere su
quel momento in grazia; e leggo con piacere come il buon seme generasse frutto
migliore, conciossiachè i Liguri lo abbiano di recente accolto nella loro
nobile città con dimostrazioni di stima profonda.
In questa nuova percossa
della fortuna, come fu visto l'apice a cui possono arrivare la ignoranza con le
sue stupidezze, e la tristizia con le sue perfidie, così doveva presentarsi
eziandio uno spettacolo di stranezza piuttosto portentosa che rara, e consiste
nel concorso di due Giornali, che si accordano fra loro come il Diavolo con
l'Acqua Santa (e poichè ad uno Accusato non si addicono le parti di Giudice, io
mi asterrò prudentemente dal decidere chi di loro sia il Diavolo, chi l'Acqua
Santa), a favellare onestamente di me: uno è il Cattolico dei RR. PP.
della Compagnia di Gesù, come ho notato nell'Apologia; l'altro è la Opinione,
dello Autore chiarissimo della Vita di Fra Paolo Sarpi, Bianchi Giovini, il
quale scriveva nel novembre dell'anno passato: «e prima di questo scisma, ci
giustificava uno dei martiri illustri della causa italiana, l'infelice
Guerrazzi, il quale, checchè si sia detto da alcuni, non è, e non fa mai
mazziniano, e che riconobbe anzi a quali sventurati risultamenti avrebbero condotta
l'Italia i delirii di quel Partito. Tentò egli di opporvisi, ma l'onda era
troppo forte, ed egli espia in carcere, e sotto la minaccia di un processo
iniquo, gli altrui errori.»
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