VI.
Agitazione in
Toscana.
Ma inopportuno
ragionamento sarebbe qui discorrere le vicende di Europa; mi ristringo in più
modesto confine; parlo di Toscana.
La lunga amministrazione
precedente al Ministero Ridolfi aveva, da una parte, aumentato fra noi
universale disgusto: delle cause non tratto, nè mi gioverebbe trattarle:
accenno un fatto, che male può revocarsi in dubbio: dall'altra, si disfacevano
nel disprezzo e nell'odio gli agenti dell'autorità, utili in Istato che goda la
pubblica opinione, necessarii negli Stati che dalla pubblica opinione si
scompagnano, perchè, se essi difettano di credito e di forza, chi gli sosterrà?
Certo la forza poco dura; ma finchè dura, costringe. Così il Popolo, un giorno
commosso dal medesimo impulso (e a torto si affaticano qui a rintracciare
instigazioni di sètte), prese a imprigionare e a manomettere tutti gli
ufficiali superiori e subalterni della Polizia. Io non assumo di certo la
difesa della vecchia Polizia: troppo bene conosco che i Governi la nutrivano e
l'accarezzavano allora, come si sopportano i gatti in casa, per prendere i
topi: oggi poi, mi dicono, che non è più così; amen! - ma nel giorno che
il Popolo incomincia a fare da sè, mi sembra che pel Governo sia finita, là
dove egli non sappia adoperare i mezzi acconci pel restauro della smarrita
autorità. Nè si obietti, che in Inghilterra costrinsero Giovanni Senza-terra a
segnare la magna carta, e nonostante la Monarchia si resse; conciossiachè non il Popolo,
ma i baroni gli usarono violenza, pei quali, quanto importava circoscrivere
l'autorità regia per estendere il proprio dominio, altrettanto poi premeva
conservarla in piede, come quella che era fondamento dell'ordine feudale. E di
vero, indi a poco, qui fra noi, ebbero a cansarsi tutte o la massima parte delle
Autorità governative partecipi della medesima animavversione. Allora corse un
plauso generale, ed io udii battere le palme con gli altri a Magistrati
gravissimi, che mi avevano garbo del folle che menava trionfo nel contemplare
lo incendio di casa sua. Il Governo non osò difendere (e nemmeno lo avrebbe
potuto) la Polizia,
e la lasciò, come la mignatta, morire dentro al sangue ch'ella aveva succhiato.
Così rimase in un subito disarmato di forza per farsi rispettare, e soli
avanzarono i partiti di sapienza e di conciliante composizione, i quali si
reputarono allora, e tuttavia dovrebbero reputarsi, meglio alla toscana civiltà
convenevoli. Però che la mente che considera quanto sia arduo revocare gli
uomini dalla naturale ferocia alla mansuetudine, e quanto, per lo contrario,
facile farli trascorrere ai bestiali istinti, trema ogni volta che vede gittare
a piene mani la semenza dell'odio nei cuori che Cristo destinava ad amarsi.
Dalla parte del Vaticano
soffiava un vento, che non pure in Toscana, ma in Italia, in Europa, anzi, per
tutto il mondo, alzava le menti a incredibile aspettativa. Allora uomini,
che io voglio credere inspirati da puro amore di patria, allo scopo di condurre
Toscana a migliore governo, e alle riforme troppo ritardate, impresero a far
circolare per le vene del Popolo stampe clandestine eccitatrici a
desiderarle, ed a chiederle.
La
Legge
sopra la stampa si promulgava: egli è evidente, che il Popolo minuto, il quale
poco legge o punto, non poteva poi fare le stimate per cosiffatta Legge: nonostante
invitato ad applaudire, si rese allo invito, ed applause. Coloro,
che primi lo invitarono, per certo a fine di bene, non avvertirono come sia più
agevole sprigionare i venti dall'otre di Ulisse, che ricacciarveli dentro, e
come, appellato il Popolo una volta in piazza ad approvare,
bisognava sopportarlo quando spontaneo avrebbe disapprovato più tardi.
Fu in quel tempo, che considerando io come il Popolo ricevuto cotesto impulso
non si sarebbe rimasto soddisfatto alla Legge della stampa, ma avrebbe
richiesto cose maggiori mano a mano che gliene fosse venuto il desiderio; nè
essere senza grandissimo pericolo per l'Autorità esporsi a lasciarsi svellere
ora questa concessione, ora quell'altra, imperciocchè, così operando, il potere
non acquista il merito del pronto concedere, e il Popolo si educa a crescere
più intemperante nelle domande; fu, dico, in quel tempo ed in questo concetto,
che dettai il libro Del Principe e del Popolo, il quale prima di
stampare sottoposi allo esame di Magistrato per altezza di mente distinto, e fu
tenuto allora non indegno dei casi consigliere discreto di quelli ai quali
m'indirizzavo, presago poi delle sopravvenute vicende. Era mio conforto al
Governo ritirarsi indietro dallo immediato contatto del Popolo minuto,
concedendo subito quanto reputava prudente, riacquistare credito, e temprato
per nuova opinione, prendere tempo a ricostruire gli arnesi necessarii di
Governo. Questo non volle fare il Ministero; lasciò che gli eventi lo
strascinassero legato dietro il carro. Di qui gratitudine poca, esitanza a
concedere crescente, su le labbra concordia, in cuore sospetto.
Gli agitatori, i
quali dapprima non furono i demagoghi, chè questi vennero in fondo, ma
sì uomini chiari per fama, e per condizione cospicui, ottennero le riforme da
loro reputate sufficienti. Giusta il costume antico di quelli che commuovono le
moltitudini, pretesero allora, ch'esse posassero; contenti loro, contenti
tutti. Il Popolo minuto, poco soddisfatto della Legge sopra la stampa perchè
non legge, nè della Guardia Civica perchè n'era escluso, continuò ad
agitarsi per conto proprio.
Giuseppe Mazzoni
deputato, con molta verità accennava a questo con le parole profferite nella
Seduta del Consiglio Generale toscano del 16 ottobre 1848: «Però le agitazioni
anteriori al settembre dell'anno passato, le quali non si disapprovavano
nemmeno da certi alti personaggi, furono generalmente riguardate come
politiche necessità; e s'esse non erano, l'antica Babele della Polizia non
sarebbe espugnata, e le libertà dello Statuto, che tutti stimiamo carissime,
sarebbero tuttora un sogno6.»
Io però non dubito punto
affermare, che i Toscani di natura contentabile, acquistate le libertà
costituzionali, sarebbonsi tenuti soddisfatti, se anche sopra di loro non fosse
passato il vento che sconvolse l'Europa intera dal Mediterraneo al Baltico,
dall'Atlantico al Mar Nero, e minacciò portar via, come la polvere di una
strada maestra, i troni di Vienna, di Berlino, di Roma, di gran parte della
Germania, e d'Italia, nella guisa stessa che disperse quello di Francia; ed in
ispecie poi il prossimo incendio di Sicilia, di Milano, e di Venezia, la guerra
della Indipendenza prima, poi i disastri della guerra.
Per la rivoluzione di
Francia si diffuse la idea della Repubblica, e parecchi fra noi presero a
coltivarla, non perchè ve ne fosse bisogno, ma per fare qualche cosa; e poi
corre sciaguratamente nelle contrade nostre antico il vezzo di ricavare dalla
Francia pensieri e voglie, e begli e fatti i vestiti. Le moltitudini rimasero
un cotal poco spruzzate di comunismo e di socialismo, di cui però
non conobbero le dottrine, e giova che le ignorino. Imprudenti, a mio parere,
suonarono le parole del Lamartine nel suo Manifesto alla Europa, affermando
essere la Repubblica
il punto estremo dove giunge la civiltà di un Popolo per mezzo di reggimenti
costituzionali, imperciocchè somministrassero a molti motivo di non posare,
finchè non avessero toccato il vertice, e nei Principi mettessero sospetto di
confidarsi intieri sopra una via sdrucciolevole; nè lo avere raccomandato,
com'egli fece, ai Popoli i quali non fossero peranche giunti alla maturità dei
Francesi, rimanessero indietro ad ammaestrarsi, assicurava punto, avvegnadio
facesse comprendere ai Principi, che potevano sperare tregua, pace non mai. E
come imprudenti, se male non mi appongo, furono coteste parole non vere, però
che nella Inghilterra le libertà costituzionali durino dal 19 giugno 1214 in poi, nè mostrino
per ora di volere cessare, e la
Repubblica v'ebbe vita brevissima dal 1649 al 1660; per la
quale cosa evidentemente apparisce, come nella formula costituzionale i destini
dei popoli possano quietarsi, almeno per tempo lunghissimo7. Nè danno minore, io penso, ci ridondò dal
proclamare che fece il Lamartine, non avrebbe sofferto in pace la Francia, che alcuna
Potenza si fosse mossa contro i Popoli rivendicantisi in libertà; imperciocchè
questa sicurezza rese baldanzose a insorgere nazioni, le quali forse
diversamente ci avrebbero pensato due volte. So bene, che non si ha sperare che
un Popolo metta in avventura la propria libertà per sovvenire all'altrui; ma mi
sembra, ed è disonesto, spingere i creduli nel pericolo con promesse, che non
si vogliono mantenere. Quante volte accadde rivoluzione in Francia, tante i
Francesi eccitarono a sollevarsi Popoli confinanti per metterli come sentinelle
perdute fra loro e le Potenze settentrionali di Europa; passata poi la
burrasca, con ingenerosa politica dichiararono non potere sopportare, che i
Popoli insorti si facciano gagliardi, onde i negozii politici non si
complichino, i commerci loro non iscemino, l'autorità non diminuisca, ed
abbiano a dividere con molti quella potenza, che gli Stati, quantunque
liberissimi, attendono possedere in pochi. Questo vedemmo praticare dalla
Monarchia Costituzionale di Francia del 1830, questo aspettavamo vedere dalla
Repubblica, e lo vedemmo. Lamartine stesso, autore del Manifesto alla Europa,
nella sua Storia della Rivoluzione del 1848 ci ammonisce essere cosa contraria
agl'interessi di Francia acconsentire che qui in Italia si componga uno Stato
potente. Politica di Enrico IV e del successore Richelieu, fu mantenere Italia
e Germania deboli, epperò divise. Da Richelieu in poi, sembra agli uomini di
Stato francesi, che nè sia mutato nulla, nè nulla sia da mutarsi, e poi si
vantano non pure amanti, ma promotori del progresso. Da questo tengansi
avvertiti i corrivi ad abbandonarsi alle lusinghe francesi. Di Lamartine ho
parlato; mi sono taciuto degli altri, perchè temeva che lo inchiostro nero mi
diventasse sopra la carta rosso per la vergogna. Intanto in Germania di Francia
non curano, e in Italia così bene si adopera, che essa vi perde ogni giorno
autorità, vi acquista odio. Molti mali ci vennero dalla Monarchia francese, ma
spettava alla Repubblica, dopo avere sospinte le voglie dei Popoli oltre ai
confini del giusto, affaticarsi ardentemente a spengere anche i sospiri della
libertà. Qui vi è progresso d'iniquità, e nessuno può impugnarlo. Ma questo non
è tema da svolgersi qui; a me basti avere indicato, che la rivoluzione francese
fu causa di commovimento in Toscana.
Le rivoluzioni lombarda
e veneta nei petti già infiammati raddoppiarono l'ardore della guerra. Fra
tutte le nobili imprese nobilissima, fra le sante santissima, la guerra della
Indipendenza. I Germani, discendenti generosi dello antico Ermano, certo non
condannano in altrui i sensi che gli han resi nelle pagine della storia
immortali. Seme di guerra perpetua è dominio di Popolo sopra un altro Popolo:
allora la necessità rende il dominatore ingiusto, il soggetto violento; la
pace, togliendo, si perde: la storia è lì con le sue tavole di bronzo per
insegnare come le conquiste costino troppo più del guadagno che procacciano, e
all'ultimo si perdono: una sola maniera ci presenta la storia capace di
occupare permanentemente il paese vinto, ed è la conquista normanna. I
vincitori si fermano nella Inghilterra, e a mano a mano distruggendo gli
Anglo-sassoni, si sostituiscono al Popolo disperso. In altro modo non pare che
si possa; però che neppure i Romani durassero a tenere la rapina del mondo, nè
i Longobardi la Italia,
nè i Saraceni la Spagna,
nè i Greci l'Asia, e degli altri popoli conquistatori chi vivrà loderà il fine.
Nonostante, se come Italiani a noi riusciva impossibile rifuggire dalla guerra,
come Toscani ci appariva piena di eventi dubbiosi. Vincendo Austria, era da
aspettarci la sorte che ci è capitata addosso: vincendo Piemonte, poteva forse
credersi che saremmo stati assorbiti.
A compimento di rovina
sopraggiunsero i disastri della guerra italiana. Nella sventura l'uomo diventa
maligno. I Lombardi, e con essi parecchi Italiani, dubitarono della fede di
Carlo Alberto; di tradimento sospettarono; inaspriti pensarono non aversi a
riporre speranza nel Principato. Napoli, mormoravano, ritirare i soldati dal
campo, Toscana procedere con fiacchi provvedimenti, Torino farsi rompere in
battaglia a disegno. Mostruosa opinione era questa ultima, eppure propagata, e
creduta nei ciechi impeti di passione smaniosa. Allora ottenne seguito nell'universale
il disegno d'invertire il concetto politico: invece di giungere per mezzo
della guerra allo assetto federativo della Italia, vollero con la istituzione
dell'unica Repubblica arrivare al conseguimento della Indipendenza.
Qui pertanto in Toscana
convennero infiniti Lombardi, e li premeva cocente la cura di ricuperare la
patria diletta; cagione legittima ad ogni più arrisicato consiglio. Nè si
creda, che facinorosi essi fossero: all'opposto erano uomini distinti per
dottrina, per natali, e per ricchezze, benvoluti come fratelli, come infelici
compianti, da per tutto ammirati a modo di magnanimi propugnatori delle patrie
libertà. La Emigrazione
lombarda dimorava in Firenze come corpo organizzato sotto il governo di un Consiglio
dirigente8; possedeva pubblicisti,
ingegneri, e ufficiali superiori del Genio; fondò un Giornale La Costituente, e
lo pubblicava, come si diceva, a scapito; divenne padrona di parecchi altri,
che indirizzava al medesimo fine; acquistò aderenze, partigiani, ed amici; finalmente
propose armare ed armò compagnie di Bersaglieri9.
E' fu forza accettare la offerta concepita in termini dittatoriali, e
accomodarsi a comprare un padrone, secondo ch'è fama gridasse Diogene, esposto
in vendita sul mercato; per l'appunto come al Ministero Capponi fu mestieri
arruolare 720 prodi componenti la legione della Indipendenza Italiana, e
più se ne venivano10; e, trapassando a cose
maggiori, come fu mestieri a Carlo Alberto condurre generali a modo altrui,
rompere lo armistizio inopportunamente, e combattere battaglia intempestiva.
Alla Emigrazione
lombarda aggiungi parecchi uomini calati giù dalla vicina Romagna, gente
manesca, arrisicata molto, alle baruffe avvezza, ed al sangue, Siciliani,
Napoletani, Polacchi, ed altri cultori ardentissimi di sconfinata libertà;
privi di patria, cupidi di ricuperarla.
|