XII.
Notte del 7 all'8
Febbraio 1849.
Il Granduca lasciava
improvvisamente Firenze per Siena, e il Ministero ne aveva notizia dal signor
Adami, il quale conferendo nella notte con S. A. lo apprese dalla sua propria
bocca. Alcuni dei colleghi maravigliarono di cotesto annunzio casuale, ma io facevo
notare come il Granduca ci aspettasse verosimilmente al Circolo, che in cotesta
sera correva, e non doveva punto stupirci, se, essendo per mala sorte mancati
tutti, ne avesse avvertito quell'unico Ministro che gli era occorso vedere:
d'altronde, non doversi guardare tanto pel sottile, dacchè non eravamo mica in
Inghilterra, dove la Corona
non può uscire nè entrare in città senza certi riti convenuti. Si acquietarono,
ma indi a breve presero a correre voci sinistre: il Principe essersi partito
per non tornare più; licenziati i servi; questi andarlo propalando
pubblicamente. Feci verificare la cosa, e pur troppo trovai che di questa sorta
discorsi erano stati tenuti dai regii servitori per le botteghe della via
Guicciardini140. Avvertasi, che il Partito
desideroso del vecchio sistema non rifiniva sussurrare dentro città e fuori: il
Principe tenuto prigioniero in Palazzo, a forza costretto di firmare le Leggi;
gli andrebbero a genio tutti coloro che alle nuove Leggi non obbedissero, il
Ministero avversassero; - ed altri cotali discorsi, che le ultime fibre del
Governo tagliando, lo facevano impossibile. Forse erano anch'essi generosi
propugnatori dell'ordine? Io non lo dirò, lo dica l'Accusa. Allora fu che
scrivemmo a S. A., essere urgente la sua tornata in Firenze; e dove le piacesse
prolungare il suo soggiorno a Siena, noi, come inabilitati a reggere il
Ministero, lo pregavamo a degnarsi accettare la nostra dimissione. Promise
sollecito ritorno: e a me particolarmente mandava gli tenessi tranquillo il
paese. Differendo la tornata, parve ai colleghi non dovere trattenersi più
oltre a inviare la dimissione: nel presagio di agitazioni, ne avvisai gli
egregi uomini Generale della Civica Corradino Chigi, e Gonfaloniere del
Municipio fiorentino Ubaldino Peruzzi; i quali partecipando le mie apprensioni,
non dubitarono mettersi in viaggio nella malvagia stagione, conducendo seco il
Priore Luigi Cantagalli per supplicare S. A. a restituirsi alla Capitale.
Andarono; e tornati referirono il Principe trovarsi veramente infermo, sarebbe
venuto appena la salute glielo concedesse; sentire anch'egli la sconvenienza
della separazione della Corona dal Ministero; desiderare che almeno qualcheduno
dei Ministri andasse a Siena. Voleva partire io stesso; ma offerendosi il Presidente
dei Ministri, io m'ebbi a restare; in data del 5 febbraio, S. A. mi mandava il
Decreto col quale al Ministero dello Interno riuniva provvisoriamente quello
degli Esteri. - Partiva il signor Montanelli il 5 febbraio; giungeva a Siena il
6: tornava a Firenze il 7.
L'Accusa aveva sostenuto
prima, più sommessamente ha insistito poi, che Siena era tranquilla, e quivi il
Principe in pace avrebbe potuto esercitare la regia prerogativa del veto, se il
riposato vivere di cotesta città, se le oneste e liete accoglienze non fossero
state sconvolte dalla presenza dei signori Montanelli, Marmocchi e compagni.
Questo fatto non è vero, nè può esserlo, imperciocchè appaia fuori della
ragione delle cose, che da un punto all'altro un Popolo cangi genio e costume; e
in altra parte di questo Scritto mi sarà forza tornare intorno a simile
argomento. Ora importa rilevare, che la mancata sicurezza in Siena, dovuta,
come si dice, alla presenza dei mentovati individui, non sembra essere stato il
motivo dello allontanamento del Principe. Non fu timore di sicurezza perduta,
ma timore di reazioni ostili che lo persuase a fare così: «Ed abbandono
anche Siena, onde non sia detto che per mia causa questa città fu campo di
ostili reazioni141.» - (Lettera di S. A.
del 7 febbraio 1849.) - E queste frasi, se io non vado errato, significano:
«Siccome un Partito fa del mio nome bandiera, e siccome io non vo' che si dica
avere fomentato conflitti sanguinosi, così cedo al tempo, e mi conduco
altrove.» Questa illustrazione poi ho creduto dover fare, perchè è vera,
e perchè è onorevole al Principe.
Dicono, che il romano
Niccolini precedesse il sig. Montanelli nel portarmi notizia della partenza di
S. A. da Siena; e questo sarà. Montanelli è certo che venne più tardi al
Consiglio. Le tremende e moltiplici commozioni di cotesta notte, e del giorno
successivo, non mi lasciarono distintissima la memoria dei casi, ma io mi
ricordo che alla malaugurata notizia io rimasi tutto sbigottito.
Niccolini con accese
parole instava dicendo: doversi ormai proclamare la Repubblica e la
decadenza del Principe; me avrebbe fatto eleggere Dittatore e Capo; di qui non
potersi uscire. E siccome, recandomi coteste proposte incomportabile gravezza,
io proruppi in acerbi rimproveri contra di lui; egli diventato a un tratto, di
carezzevole, minaccioso e protervo, gridò: noi ti costringeremo!
Questo fatto, che
avrebbe forse schernito l'Accusa se riposasse sopra la mia semplice
affermativa, come alla Provvidenza piacque, viene provato largamente in
processo dagli stessi testimoni ricercati da lei.
Rimasi sbigottito,
pensando alle condizioni del Paese e alle mie. Lo Stato derelitto come cadavere
sopra la strada pubblica; ogni ordine sciolto; cessata tutta autorità; nessun
mezzo da fare riparo... nessuno; su la forza materiale, inferma e poca, non era
da contare; la forza morale aveva dato vinto il campo. Nei politici
sconvolgimenti, abbiamo veduto sempre afferrare il Potere quel Partito che dura
un po' meno disorganizzato; e quantunque più tardi, come già notai, se non si
accorda al voto universale, forza è che cada, nonostante in quella prima
confusione vince, e domina. Il Partito repubblicano, composto per la massima
parte di gente non toscana (chè per essere italiana io non m'indurrò mai a
chiamare straniera), appariva poderoso fra noi di armi, di danaro, di uomini
prestanti, ed osservava gli ordini di un Consiglio dirigente. Questo
Partito, era facile a prevedersi, avrebbe sospinto subito, con estremi conati, la Toscana alla Repubblica e
alla Unione con Roma, che già da parecchio tempo con ardentissime voglie
provocava. Nè i pericoli di questo avvenimento, comunque gravi, erano i
gravissimi; bene altramente mi spaventava vedere dietro ai Repubblicani le
turbe inferocite, sferzate dal bisogno e dalla cupida brutalità, che in breve,
soperchiati i Repubblicani, avrebbero allagato il Paese come fiume di fuoco. Io
per vaghezza di frasi, o per arte di difesa, non annerisco le tinte: i furti
cresciuti a dismisura; certe industrie diminuite, altre cessate142; e la pertinacia di non volersi ingegnare per
altra via; la elemosina pretesa con incussione di paura allo stesso passeggio
delle Cascine; i guasti tentati ed anche eseguiti a qualche palazzo, altri
minacciati; lavoro improntamente richiesto, più che per altro, a colore di
esigere non meritata mercede; miseria così veramente profonda, che poco più
poteva esagerarla la menzogna; operaj pretendenti aumento di salario,
proletarii in città, pigionali in campagna; Campi, Prato, ed altri paesi
tumultuanti non per libertà, ma per fame, - mi empivano di dolorosa ansietà.
Nel breve Ministero, non indulgendo a fatica, e quotidianamente interrogando
centinaia di persone, avevo tastato la piaga, e rinvenuta troppo più profonda
che io non temevo. Questa piaga dura tuttavia, e forse diventa maggiore; vi
badi a cui spetta. - Ecco in quali condizioni mi trovava alla presenza di
questa gente diventata padrona. Non già, come piace all'Accusa, per tardo
pentimento dovuto alle sorti mutate della guerra, od ai consigli altrui, ma per
instituto antico mi ero mostrato avverso alla Repubblica; e me falsatore della
Costituente incolpavano; il mio nome a segno di amare invettive ponevano; me
quotidiane lettere anonime, come traditore, di mala morte minacciavano; persone
altra volta benevole mi fuggivano, anzi con ostentazione fingevano non
ravvisarmi per via; uomo ligio affatto agl'interessi del Principe predicavano,
e non mancava gente usa in Corte che lo affermasse; di ciò andavano attorno le
novelle; ciò nei Giornali stampavasi: onde io più volte in quella notte, e
dopo, ebbi spesso a prorompere: «Ah! perchè fui gettato come uno schiavo alle
bestie del circo?»
Queste, e bene altre
cose pensai: ore di passione sono quelle; pure deliberai, potendo, provvedere.
I Documenti dell'Accusa, pare che reputino colpa la rassegna dei poteri; ma
sembra che essa non abbia avuto tempo o voglia d'informarsi, come, secondo le
forme costituzionali, la partenza della Corona, senza lasciare luogotenente che
la rappresenti, senza indicare il luogo della sua dimora temporaria o
permanente, rompa la macchina governativa. Decreti senza firma del Principe non
valgono; le Leggi senza la sua sanzione nemmeno; gli atti governativi,
quantunque per la finzione costituzionale non si attribuiscano alla Corona, e
ne rispondano i Ministri, pure è forza concertarli con lei: mancata la Corona, mancano il
principio e la origine donde i Ministri ricavano autorità: i Ministri, cessata
o interrotta la corrispondenza col Capo del Potere Esecutivo, sono morti;
mandatarii del Principe per la specialità del mandato ministeriale, si vieta
loro esercitarlo nella sua assenza; e tutto questo è ovvio: ora come continuava
ad essere Ministro io, con la
Corona lontana, in isconosciuta dimora, e per di più
disapprovato col veto apposto alla legge della Costituente? - La
dimissione per questi motivi era cosa inutile, perchè accaduta, per così dire, ipso
jure, appena verificato il fatto in discorso; anzi, conosciute le lettere
della Corona, veniva a mancarmi perfino la facoltà di prendere qualunque provvedimento;
e se in me cessavano questo diritto ed obbligo, come vorrebbe incolparmi
l'Accusa per non averlo preso?
Però non mancai al
dovere di cittadino, comecchè potesse essermi venuta meno la facoltà di
Ministro. Ne porga testimonianza il Proclama del Gonfaloniere di Firenze:
«Concittadini! Nella gravità delle circostanze, dalle quali può dipendere la
sorte della nostra Patria, il Municipio si affretta a confortarvi, assicurandovi,
che le Autorità e le Assemblee provvedono ai bisogni dello Stato, mentre alla
brava Guardia Civica ed alla vostra saviezza, è affidata la pubblica
tranquillità in questi supremi momenti più che mai necessaria.» Il
Cavaliere Peruzzi, che mi stette al fianco in cotesta notte, può attestare
meglio di ogni altro, quali cose lo confortassero ad assicurare così
apertamente la città.
Lo stesso dicasi delle
Camere. Elleno cessavano di pieno diritto, imperciocchè essendo inviate ad
esercitare il mandato dentro ai termini dello Statuto, e di concerto con gli
altri Poteri dello Stato, il mandato cadeva mancando taluna delle condizioni
necessarie allo esercizio di quello; tra le quali, la presenza della Corona
appariva suprema. La volontà annunziata dalla Corona di rimanersi in Toscana,
non è affatto capace di screditare la bontà del ragionamento discorso,
avvegnachè o abbandonarla affatto, o ridarsi in parte ignota, per gli effetti
di tôrre ai Ministri il potere, alle Camere l'autorità, torna il medesimo.
Breve; a cagione di questo accidente, il Paese, lasciato a sè stesso, era
dominato dalla necessità di provvedere alla sua salute, come gli sarebbe
riuscito più acconcio. Nè giova all'Accusa obiettare, che la latitanza della
Corona avrebbe durato brevissima, perchè alle Rivoluzioni basta un'ora, e il
Governo cessava sciaguratamente nel punto, in cui urgeva più veemente lo sforzo
dei Repubblicani per conquistare il fine agognato, più paurosa la minaccia
delle moltitudini contro la pubblica sicurezza.
La
Difesa
forense addurrà copia di Scrittori di Diritto costituzionale, che confermino
questo assunto: a me basti l'autorità del Senatore Capponi, cui tributano lode
i Documenti dell'Accusa. Egli, dopo la semplice lettura delle lettere
granducali, fatta dal signor Montanelli, nella tornata del Senato dell'8
febbraio, arringando favellava così: «In quanto a me dichiaro essere questo
mio voto dato con pieno convincimento, e con sicurezza di coscienza. Il
Decreto che viene a noi proposto è una stretta necessità, quando ci manca
ogni mezzo di comunicazione col Potere Esecutivo: al quale difetto è d'uopo
surrogare quei Poteri costituiti, che tuttavia rimangono.»
Io poi crederei fare
ingiuria ad uomo tanto reputato, se dopo la solenne protesta di favellare con
pieno convincimento e sicurezza di coscienza, mi affaticassi a prevenire il
dubbio altrui che egli così orasse per paura, nè la lingua corrispondesse al
sentimento riposto del cuore, adoperando come quei perfidi di cui è arte
apparecchiarsi ad ogni evento per gittarsi al Partito che trionfa. Cose vili
sono queste, e non possono supporsi che da uomini vili.
Ma qui odo obiettarmi: e
se presumevate venuto meno il mandato nei Rappresentanti della Nazione, se
sciolte le Camere, se cessati i poteri dei Ministri, a quale scopo convocaste
voi le Camere? Perchè le chiamaste a spenderlo in cosa alla quale non poteva
essere esteso, nè per la indole sua, nè per la intenzione dei mandanti? Perchè
voleste che la Legislativa
diventasse Costituente? Perchè deponeste nel seno della Camera dei Deputati un
Potere del quale vi credevate già privo?
Io feci questo, e meco
uomini spettabilissimi si accordarono a farlo, appunto perchè la fazione
repubblicana, prevalendosi di tale deplorabile stato, e instando sopra la
cessazione di qualsivoglia Governo, non si arrogasse prepotente il diritto di
creare a tumulto quello che meglio le talentasse; - perchè le Provincie agitate
dai Partiti municipali, non avessero motivo di repugnare143; - perchè le deliberazioni prese, se difettose
di legalità, presentassero carattere del maggiore consenso in quel momento
possibile; - perchè un simulacro di autorità costituita rimanesse; - perchè nel
naufragio quanto si poteva di ordine si conservasse; - perchè il Popolo non
riducesse in atto il vantato diritto di essere padrone di ogni cosa; - perchè
la fazione non precipitasse irrevocabilmente il Paese al passo al quale con
tutti i nervi tendeva; - perchè uscisse un Governo, che di tutelare dall'imminente
pericolo vite e sostanze assicurasse; - perchè il Paese per delitti infami,
o per guerre civili non s'insanguinasse; - perchè i Partiti alle ingiurie
estreme non irrompessero, - perchè voi stessi, cui basta il cuore accusarmi,
foste dalla procella imminente protetti.... - Quali potessero essere le azioni
della plebe e dei contendenti Partiti, ignoravasi; temevansi tristissime.
Nonostante il mio
affaticarmi a far credere le Camere tuttavia costituite, vedremo come i
Repubblicani, e parecchi Deputati dichiarassero omai cessato nelle medesime il
deposito della Rappresentanza Nazionale, la Sovranità del Paese
ricaduta nel Popolo.
Chiamai i signori
Generale della Civica e Gonfaloniere, e tutta notte circondato da frequente
avvicendarsi di persone, conferii ad alta voce provvedendo alla pubblica
sicurezza. Come supporre che mentre da un lato, con persone dabbene e
principali, prendevansi misure di ordine, dall'altro con facinorosi plebei
apparecchiassi il disordine? E avvertite, che io non mi mossi mai dalla stanza.
La nequizia immaginata dall'Accusa supera ogni segno, e arriva alla follia.
Difficilmente si cercherebbe nella storia personaggio più perfettamente
grottesco, di quello che mi fanno sostenere i miei Giudici: bisognerebbe
andarlo a cercare in qualche goffa Atellana, - delizia di fiera.
Certamente previdi, facile presagio davvero, che nello abbandono del Governo
costituito, avrebbero eletto un Governo Provvisorio. Così imponeva la
necessità.
Il Decreto della Camera
di Accuse afferma che Niccolini rimase con me gran parte della notte (§ 18).
Questo non possono avere detto i testimoni, e d'altronde gli osterebbe il
fatto, avvegnachè, durante la intera notte, io stessi circondato da moltissime
persone che lo attesteranno. Niccolini si sarà per avventura aggirato nel
Palazzo, come sovente usava, frugando ora quella, ora quell'altra stanza; ma,
che si restringesse meco gran parte della notte, è impossibile
materialmente, e per discorso di ragione. Taluno osservò, sarebbe stato
salutare consiglio avere a noi i Capi dei Circoli, esortarli a restarsi
tranquilli, e contenti a quello che il Parlamento avrebbe deliberato in pro
della Patria travagliata; non rendessero disperata con tumulti intempestivi una
condizione di cose già di per sè stessa gravissima. Mi parve savio partito, e
tale sarebbe apparso, io credo, a chiunque abbia fiore di senno. Non
conoscevano il domicilio di Antonio Mordini: dicono che io commettessi a Emilio
Torelli di chiamare Francesco Dragomanni: io non lo ricordo, ma sarà; e se ciò
è vero, devo averlo fatto richiesto da coloro che vollero adunati i Capi dei
Circoli, e perchè egli indicasse, se lo sapeva, il domicilio del Mordini. Vennero
eglino, i chiamati, o no? L'Accusa dice che vennero; però vuolsi notare, e
credo che dal Processo si ricavi, che io non conosceva i chiamati, se togli
Dragomanni, nè li vidi, nè loro parlai: altri conferiva con essi, e dovei
ritenere che l'esortazioni fatte ai medesimi fossero conformi al convenuto.
Insisto ad affermare, che io rimasi sempre nella mia stanza, circondato dai
signori Gonfaloniere di Firenze, Generale Chigi, e, se io non erro, dal
R. Delegato Beverinotti, dal Prefetto Buoninsegni, dall'Avvocato Dell'Hoste,
con altri moltissimi, che io non rammento, che prego per amore della santa
verità, ricordarselo per me, - e spero che lo rammenteranno.
Io già discorsi di
questi fatti, perchè il Decreto del 10 giugno 1850, quantunque non mi
accusasse, pure diceva, che non vi fu estraneo il Ministero, o taluno dei
componenti il medesimo. Strano linguaggio sempre; nelle cose criminali,
dove la vita e l'onore degli incolpati pericolano, peggio che strano,
avvegnachè fra tutti e qualcheduno la differenza appaia
grandissima; nello spazio che passa tra l'una e l'altra frase, cape la
innocenza; e trovarci tutti accatastati, presunti colpevoli e presunti
innocenti, come legna da ardere in un medesimo falò, non sembra precisamente
quella che gli uomini solevano un giorno salutare col nome di Giustizia.
I lettori giudichino. Il Decreto del 7 gennaio pareva avermi escluso (§ 59)
dalla partecipazione dei fatti, qualunque eglino sieno stati, della notte del 7
all'8 febbraio; ma l'Accusa, paurosa che per questo strappo uscisse lo
improvvido tonno dalla rete, eccola pronta a raccattare la maglia, e nel § 83
dichiara, che ebbi parte, e non secondaria, mentre era Ministro e Deputato,
nelle conferenze tenute nella notte dal 7 all'8 febbraio, con i Capi del
Circolo ed altri agitatori.
Di qui si fa manifesto
il bisogno, che i Decreti e le Accuse specifichino esattamente gli addebiti pei
quali deve lo imputato rispondere, perchè la Difesa, in diversa guisa, non sa da che parte
badare, e mentre attende di faccia, si sente alla sprovvista presa alle spalle.
Cotesti sono agguati buoni in guerra, ma io non ho inteso mai dire che i
Magistrati abbiano ad apprendere il gravissimo ufficio dell'accusa negli
Strattagemmi di Polieno...
Volete vedere come io di
lunga mano col Partito repubblicano cospirassi? Come io scavassi la fossa per
precipitarvi dentro il Trono Costituzionale? Come io macchinassi cacciare il
Principe di Toscana? - Costretto dal rimorso, allegherò per ora alcuni brevi
Documenti che daranno, senz'altra ricerca, vinta la causa all'Accusa.
Desideroso di ravvivare
con la presenza lo affetto, che pur conosceva portare il Popolo livornese al
suo Principe, con queste espressioni io consultava il Consigliere Isolani: «La
città è tranquilla così, che si possa presentare a S. A. come una famiglia
concorde ed unita ad un padre?» - (Dispaccio telegrafico, 1 novembre 1848.)
- E fu risposto: Sì.
Promuovendo Carlo Massei
amico mio, e non della ventura, in modo confidenziale nel 9 novembre io gli
scriveva:
«A. C.
Sei Prefetto di
Grosseto. Vieni per istruzioni; mando costà Buoninsegni egregio amico mio, e
persona degnissima. Gli saranno Consiglieri Corsini e Raff. Dal Poggetto. Non
jattanze, non millanterie: assumete dignità pari alla imponenza dei casi, e al concetto
che ho dei Democratici lucchesi. Non inasprite gli emuli, fate loro desiderare
di tornarvi amici. Fate festa. Consolate il Principe che vive sempre
alquanto abbattuto.»
E tuttavia nel desiderio
di procacciare amore al Sovrano, che mi aveva assunto ai suoi consigli, mandava
al Governatore di Livorno, con Dispaccio telegrafico del 19 novembre 1848:
«Adoperati a mantenere la quiete; o se volete esultare, fatelo per la
generosa amnistia concessa dal Principe.»
Allo scopo di rendere
vane le voci, che si spargevano ad arte di prorogata apertura del Parlamento
toscano, a motivo di dissidii intervenuti fra il Principe e il Ministero, nel Monitore
dell'8 gennaio 1849 così annunziava: «Possiamo assicurare, che tra Principe e
Ministero è pieno lo accordo; che fermo sta il giorno per l'apertura del
Parlamento toscano, e che se apparenza alcuna d'incertezza vi è stata per alcun
ritardo, notato nelle disposizioni necessarie innanzi a questa patria
solennità, non nel dissenso del Principe, ma nella lontananza del medesimo
dalla Capitale, se ne deve trovar la cagione. Del resto, noi bene ci
augureremmo se in tutti gli Stati Costituzionali, Principato e Governo si
accordassero così mirabilmente, come tra noi ne veggiamo lo esempio.»
A Gio. Battista Alberti,
alla persona del Granduca attaccatissimo, in guisa riservata mandava: «A. C.
Probabilissimamente S. A. verrà solo in Arezzo per ismentire con la sua
presenza le triste insinuazioni sul conto suo, e nostro. Io ti raccomando,
che le Deputazioni, le quali si presenteranno certamente da lui, lo tengano
sollevato, e lo persuadano che la quiete in Toscana non può durare che
continuando nel sistema governativo iniziato144.»
Nel giorno ultimo di
gennaio 1849, avvertito del prossimo sbarco di Giuseppe Mazzini, mandavo al
Governatore di Livorno il seguente Dispaccio telegrafico:
«Sento che verrà
Mazzini. Il Governo avverte il Governatore ad usare ogni possibile prudenza. Il
Granduca è lontano dalla Capitale. Un moto in senso repubblicano basterebbe a
non farlo tornare, e questo sarebbe il peggiore dei mali. Qui non si vuole
affatto la Repubblica
da tutti.»
Avvisato che Mazzini
sarebbe andato a Civitavecchia sotto mentito nome, senza toccare Livorno,
rispondo: Sta bene.
Allo annunzio delle voci
sparse di fuga del Principe, io ammonisco, con Dispaccio telegrafico del 4
febbraio 1849, il Governatore di Livorno: «S. A. è a Siena, ove cadde
ammalato. Firenze è tranquillissima; noi pure lo siamo, e continuiamo a
stare in perfetta relazione col Principe. Diffidi dei rumori sparsi dai
speculatori di torbidi.»
Nel 5 febbraio, onde
tôrre via il sinistro effetto delle insinuazioni di scissura fra la Corona e il Ministero, pei
casi successi a Siena, annunzio nel Monitore: «Cessi ogni trepidazione;
la città si rassicuri; la stretta armonia fra il Principe e il suo
Ministero, anzichè soffrire alterazione, ogni dì più si conferma.»
Per isbaldanzire i
maneggi dei Repubblicani, e levare loro ogni male concepita speranza, che il
Governo potesse sopportarli pazientemente, io componeva e faceva stampare nel
Giornale Officiale il seguente articoletto in forma di lettera, che immaginava
pervenuta da Roma il 7 febbraio 1849. «I buoni Italiani convenuti qui in
Roma, pare che abbiano deposto il pensiero di proclamare la Repubblica. Tutti
i frutti, in ispecie i politici, quando sono immaturi, guastano la salute.
Piemonte si chiuderebbe in politica isolata, seppure non irrompesse
manifestamente ostile. Toscana, noi lo sappiamo, vuole il Principato
democratico e repugna dalla Repubblica; - non parlo già del Governo, che io
non conosco, ma del Popolo nella sua maggiorità. Così invece di
stringerci per la guerra della Indipendenza, avremmo la guerra civile, madre
infelicissima di servitù interna ed esterna. A questo pensino tutti quelli che
si dicono amanti della Patria. Se vuolsi avvantaggiare la veneranda madre
Italia, è un conto; se pescare nel torbido, incendiare un pagliaio per
riscaldarsi le mani, è un altro. Ma siccome io reputo coloro che professano
concetti repubblicani, uomini di ottima fede, almeno la massima parte, così richiamino
la mente alla grave considerazione degli elementi che ci stanno sotto mano,
e giudichino nella rettitudine del cuore. Gli uomini sono uomini, e si
dispongono con le persuasioni e col tempo; con l'esorbitanze si rovesciano, e
inferociscono145.»
Ma l'Accusa, che
sospetta sempre in me trattato doppio, insorge, e dice: tutte queste sono «lustre,
finte, e mostre per parere;» voi tenevate due corde al vostro arco; voi
siete l'uomo vafer, atque callidissimus, dei Latini; nella composizione
del vostro corpo, per tre quarti almeno, ci entra carne di volpe. Bene! Grazie!
La fortuna, fra tante acerbità, mi fu cortese di amici, fra i quali
dilettissimo e venerato il signor Giovanni Bertani, che, intrinseco già del
padre mio, me lo rappresenta adesso per affetto, per cura, per ogni altra cosa
più dolce; e la Istruzione
lo sa. Ora può credersi sincero, almeno quello che confidavo a lui: non era
destinato a sapersi; dovevano rimanere le mie espressioni riposte nello animo
suo. E quando io gli facevo la confidenza dei miei pensieri? Poche ore prima
che Niccolini mi annunziasse il successo di Siena, e mi aprisse il disegno di
proclamare la Repubblica,
e me volere a forza Dittatore. - E come? - Oh! non dubiti l'Accusa: in guisa,
che i suoi stessi sospetti rimarranno placati: con lettera, che porta il doppio
marchio delle Poste di Firenze e di Livorno. - E che dic'ella cotesta lettera?
- Giovanni Bertani, con lettera del 6 febbraio, mi ragguagliava come la città
andasse turbata nelle decorse notti con le grida di - Viva la Repubblica! e
giorni innanzi un certo tale avere tenuto parlamento al Popolo dalla terrazza
della Comunità, in senso repubblicano e comunista. Io così gli
rispondeva la sera del 7 febbraio 1849: «Tutto andrà pel meglio, purchè
costà non avvengano disordini. Screditate questi mestieranti torbidi e
sviscerati della Repubblica per aver pane dal Principato. S... va fischiato. Lo
stesso sacramento in bocca sua diventa sacrilegio: vergogna al Popolo che
sopporta simili Apostolati146.»
Ma l'Accusa (per
adoperare il suo linguaggio) dirà: non sono questi atti univoci, non prove
limpidissime; gli è forza che vi scolpiate luminosamente, splendidamente;
bisognerebbe conoscere proprio quello che ruminavate tra voi altri Ministri,
quello che tenevate giù dentro al profondo del cuore. - Ahimè!
Facilis descensus Averni.
..........................................
Sed
revocare gradum, superasque evadere ad auras,
Hoc opus, hic labor est.
Ebbene, voi lo volete
sapere? Ve lo dirò. Quando il Presidente del Consiglio partiva per
Siena, io gli spediva dietro una lettera in data del 6 febbraio 1849,
nella quale, dopo avere dettato al Segretario le notizie pervenute in giornata,
di mia mano aggiungevo per poscritto: «P. S. Con Marmocchi e CC. bisogna dare
prova sensibile a S. A., che la sua sicurezza impone ch'egli e la sua famiglia
tornino subito a Firenze. Bisogna salvarlo anche suo malgrado.»
L'Accusa ringhia, ma non
lascia presa, e pretende la prova della mia incolpabilità avere ad essere
sfolgorante come la faccia di Giove quando comparve a Semele. Cotesto fu mal
consiglio; troppo volle costei, e diventò cenere... pur va, Accusa, e cenere
diventa. - Avvisato dalla signora Laura Parra, che nella notte del 7 febbraio
od ella sarebbe andata, o avrebbe mandato (chè ciò non bene ricordo), a Siena,
le confidava, breve ora e forse pochi momenti innanzi che giungesse lo annunzio
della partenza del Granduca, la lettera qui oltre impressa. Depositata presso
persona di fiducia del presente Governo, mi viene ora restituita, affinchè me
ne valga a confondere la impronta Accusa, che arreca ribrezzo e accoramento a
quei medesimi, i quali nella mia vita politica mi procederono più avversi. -
Pubblicando questa lettera dichiaro, che il giudizio quivi espresso da me
intorno alcuni individui, come formato sopra notizie altrui, non già sopra
osservazioni proprie, è erroneo, ed ebbi a doverlo riformare più tardi. -
«A. C.
Modena. - Non si verifica, nè
si conferma la notizia.
Civica. - Bisognerebbe
ricorrere alle Camere per Legge speciale. Concerto con D'Ayala se può farsi
altrimenti; ingaggierei Volontarii per un anno. Stasera conferiremo. I Circoli
si offrono pronti a secondarmi.
Mordini. - Anche per le notizie
della signora Laura è un cupo ambizioso che ci mina sotto. Credi potertene
servire con sicurezza, o vuoi rovesciarlo nella polvere? Pensaci: dimmelo, e fa
come vuoi.
Andreozzi. - Rimandatemelo
subito: ora è necessario a me: nulla giova a voi.
Roma. - Non hanno
proclamato la Repubblica;
ed è bene.
Torino. - Gioberti prevale
adesso; ma vuole accostarsi: per me, sempre nei limiti omai stabiliti,
accolgo qualunque comunicazione.
Saracini. - Pensate a sostituire
persona democratica, energica, cittadina sanese: se no, vedremo se va Del
Medico; ma lo credo difficile. Tenta Dell'Hoste. Io pure lo tenterò.
Marmocchi. - Avrà quanto chiede:
forse no la montura; per domani certamente sì.
Se non crepo, reggerò
ogni cosa. Retrogradi e Rossi mi tengono in subuglio il Paese: bisogna dare una
zampata ad ambedue.
Saluta il Granduca, e
digli da mia parte che oggi non gli scrivo, perchè proprio non posso. Non mi
muovo più di Palazzo. Abbia coraggio e fede in noi, come noi ne abbiamo in Lui.
Cacci via da sè gente che non sa altro che atterrirlo e lasciarlo indifeso; e
siccome io non ho mezze misure, - se credi, leggigli anche questo periodo, ed
anche tutta la lettera. - Quando può, torni con la famiglia, conquisti e si
mantenga i cuori. Diavolo! Vuol egli acquistare fiducia mostrando sospetto? -
Alla Granduchessa soprattutto insinua questo; - si ricordi del proverbio: Il
Diavolo non è brutto come si dipinge; - e noi non siamo orsi. La mostra (e sei
tu) val meglio della balla (che sono io), e questo succede sempre; ma non si
offrono angioli per campioni di demonii.
Saluti a
Marmocchi; riguardati; addio.
Firenze,
7 febbraio 1849.
Am.° Guerrazzi.»
Adesso che cosa dirà
l'Accusa? L'Accusa dice, ch'è evidente come di lunga mano, avanti il 7 febbraio
e nel 7, cospirassi a instituire la Repubblica, e a rovesciare il Principato
Costituzionale,
e a cacciare via il
Principe dalla Toscana; - e tale sia dell'Accusa!
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