XVII.
Mia situazione in
Piazza.
Vi rammentate di
Mazzeppa legato sul dorso del cavallo indomito? Tale io era fatto, per opera
dei faziosi, di faccia al Popolo, ed anche per gli scongiuri della stessa Camera
dei Deputati. La rivoluzione mi stava davanti con le sue mille teste, con le
sue mille braccia, palpitante e smaniosa. Quanto possano il sospetto e la paura
sopra le moltitudini agitate ogni uomo che legge storia conosce. Plaudivano
adesso le genti, ma da un punto all'altro disposte a diventarmi prima carnefici
che giudici. Intanto inquisitori, a modo dei Veneziani, mi si stringevano al
fianco. Dirò cosa non credibile e vera, che, avendo retto il Popolo di Livorno
e quello di Firenze, mi è sembrato il primo, quando imperversa, a trattarsi più
agevole del secondo; della quale cosa ricercando sottilmente la ragione, mi
parve trovarla in questo: che il Popolo di Livorno, per natura impetuoso,
trascorre in escandescenza per motivi lievissimi e con molta facilità; ma o tu
lo lasci sfuriare, e quel fuoco per difetto di alimento si estingue subito; o
ti riesce gittarvi dentro una parola di senno autorevole, e, non altrimenti che
per acqua, si spegne del pari: il Popolo fiorentino, all'opposto, è mite d'indole,
arduo a muoversi, però causa grande ed eccitamento potentissimo si richiedono a
spingerlo; ma spinto che sia, la difficoltà di acchetarlo sta in proporzione
della difficoltà di agitarlo: le parole non bastano; procede concentrato e
feroce. Considerai la insidia dei Repubblicani che mi si tenevano come
vincitori davanti, quasi volessero dirmi: «ti faremo noi Repubblicano per
forza.» Niccolini allora comandava onnipotente; una sua accusa poteva perdermi;
ed io lo aveva, in pubblico, mortificato e costretto a tacere. L'accusa veniva
spontanea; chè a colorarla bastavano, e ce ne avanzava, le circostanze
dell'essermi io sempre mostrato avverso alla Repubblica, parzialissimo del
Principato Costituzionale; le voci sparse della benevolenza singolare del
Principe; i perfidi sospetti, non senza frutto, insinuati tanto a Livorno che
qui; finalmente il contrasto pertinace opposto ai voleri del Popolo nella
Seduta della Camera. Reputano i miei Giudici subdolo trovato di difesa, se,
mentre tanti e poi tanti appena curati, o non curati affatto, addussero a
giustificazione dell'operato, e loro valse, il pensiero di provvedere alla
propria sicurezza, affermo che ancora io badai un poco a me, io che mi ero
posto a duro cimento e mi vedevo circondato da gente nemica e da Popolo
sospettoso. Io aveva detto: «Chi si sente capace di operare in guisa diversa,
sorga e mi accusi.» I Giudici sono sorti e mi hanno accusato: io devo
confessare che ammiro il più che spartano coraggio di loro. In quanto a me,
sono uomo, nè cose sopra natura so fare: non temo la morte, imperciocchè tosto
o tardi, e tutti, e in breve, dobbiamo morire; pure, da morte sanguinosa e
senza onore repugno; nè per leggere che io abbia fatto storie mi venne fin qui
incontrato uomo cui dilettasse cadere sotto ignobile ferro. Io ero solo. Il
Municipio, rappresentato dall'egregio Gonfaloniere, pregavami a non abbandonare
in quel pericolo la Patria,
e prometteva valido aiuto. Così pregava eziandio la Guardia Civica per
l'organo del suo degno Generale, che si affrettò, in Senato, di aderire al voto
del Popolo. Il personaggio tenuto come Capo della Commissione governativa del
12 aprile, nell'8 febbraio pronunziava parole gravissime per giustificare
quello che il Popolo esigeva. - Io non incolpo nessuno; solo vorrei che quello
che bastò ad altri o non costretti, o poco, potesse bastare a me, sottoposto a
ineluttabile pressura.
Nè si trattava di me
solo, ma, nell'universale sbigottimento, meco dovevano salvarsi i miei
compatriotti tutti, la pericolante società.
Qui cade in acconcio
favellare dell'accusa appostami nel § 52 del Decreto del 7 gennaio 1851, e
ripetuta in seguito, di non avere abbandonato la posizione che poteva
strascinarmi o farmi perseverare nella via del delitto.
Non vi era luogo a
renunzia: non si offeriva lo ufficio come cosa che potesse rifiutarsi o
accettarsi. La moltitudine imponeva, e fu dimostrato. Guardia Civica,
Municipio, Deputati instavano a salvare la vita e le sostanze dei cittadini.
Quando il naufrago chiede soccorso, possiamo ricusarlo per debito di coscienza?
Se curando il mio proprio interesse avessi duramente respinta la preghiera, e
se questa durezza avesse partorito i mali che pur si temevano, e che sarebbero
stati inevitabili, in qual parte di mondo potrei sollevare io adesso la faccia
svergognata? - Dove sarebbero andati i familiari del Principe, ai quali, con
Decreto del 10 febbraio 1849, d'accordo con P. A. Adami, riuscii a mantenere le
pensioni? Dove gl'impiegati? dove voi stessi, o Giudici che mi accusate? Ma
lascio della ingratitudine atroce: e in qual modo potevo sottrarmi io? E non
avete saputo che nè notte nè giorno mi abbandonavano? Che, pieni di sospetto,
specialmente nei primi tempi, mi seguitavano come ombra? Voi lo avete saputo,
ma lo dissimulate. E dove fuggire? A Livorno forse? Sì certo, perchè, come
traditore, mi ponessero a morte! A Roma...? In tempi di rivoluzione, difficile
e piena di pericoli è la fuga, anche apparecchiata da lunga mano. Il Decreto
dovrebbe sapere qual maniera di gente stanziasse allora in Firenze; Romagnoli e
Romani, che a rinnuovare la strage di un supposto Rossi avrebbero reputato
ottenerne merito presso gli uomini e presso Dio: e senza uscire di Toscana, il
Frisiani, caduto in sospetto, quale acerbissimo fine non ebbe egli a patire!
Egli è impossibile
giudicare di cose politiche, senza lo studio o la pratica degli avvenimenti
politici. Un uomo, comecchè mediocremente versato nelle storie, consapevole del
come il Popolo commosso proceda inesorabile nella sua vigilanza, non avrebbe
domandato: Perchè non fuggiste? E molto meno poi della omessa fuga avrebbe
fatto accusa. Questo uomo si sarebbe sovvenuto, che non riuscì la fuga a Carlo
I, nè a Giacomo II, nè a Luigi XVI. Carlo II si salvò per miracolo nascosto
nella quercia reale: delle regie, e pontificali fughe dei più recenti tempi a
me non importa discorrere; basti rammentare che non vennero operate senza
difficoltà, e precauzioni grandissime. Nella prima rivoluzione di Francia (e
correva sempre l'anno 1789), il barone de Bechman, maggiore del reggimento
Guardie svizzere, era strascinato alla Comune solo perchè la sua carrozza,
scendendo il Ponte Reale, volse a sinistra dalla parte di Versaglia. Bonseval
dal Municipio di Villenasso è sostenuto prigione; Cazalès, fuggendo l'Assemblea
nazionale, si trova arrestato a Caussade; l'abate Maury, quantunque travestito,
viene fermato a Peronna; all'Aura di Grazia traducono in carcere il duca de la Vauguyon e il suo giovine
figliuolo, che pure mentivano abito, professione e nome. Delle fughe tentate e
capitate male più tardi, basti accennare appena: Roland costretto a trapassarsi
il cuore con la propria spada, e Condorcet a prendere il veleno; dei profughi
Girondini ve ne furono perfino taluni divorati dai lupi; al solo Louvet riuscì
lo scampo mercè le cure portentose di amantissima donna. Ecco come si riesce a
fuggire dalle rivoluzioni. Veramente, se i Giudici pensano che per me si
potesse abbandonare lo ufficio con la medesima comodità con la quale, giunti
gli ozii autunnali, mandasi pel fattore onde ne aspetti col calesse alla
Stazione della strada ferrata, e ci conduca in villa a far vendemmia, hanno
ragione di appuntarmi per la mia permanenza: ma la cosa non è così; e la storia
ammaestra come nè anche ai Principi, potenti di danari e di aderenze, sia
riuscito talvolta fuggire; sempre poi con pericolo. Il cittadino privato, in
cosiffatte fughe, perde o la vita o la fama, e sovente ambedue.
Pietro Augusto Adami dal
Decreto del 10 giugno 1850 venne a ragione scusato della sua permanenza in
ufficio per le mie insinuazioni, che lo impressionavano di vedere ridotta a mal
partito la casa e famiglia sue per l'enormezze dei faziosi: ora questi timori
non partecipava io, e bene altramente gravi per me? Forse si dirà (e così mi
bisogna procedere, perchè quale vituperosa supposizione ha risparmiato l'Accusa
a mio danno?) che senza sentirle simulava io coteste paure per inspirarle in
altrui? Or come, anche all'amico, anche all'uomo che conviveva meco? E
quantunque io glielo indicassi, non aveva egli senno, non aveva occhi ed
orecchi per conoscere se io gli dicessi il vero? Queste insidie noi, la Dio grazia, non siamo usi a
concepire nemmeno, e tanta pravità supererebbe perfino la immaginazione
infelice di chi per mestiere maligna su la natura umana; nè il Decreto la
suppone nemmeno. Dunque si ha da ritenere, che siffatte apprensioni palesate
fra amici, nella intimità delle domestiche mura, dovessero essere troppo bene
sentite, e pur troppo vere. Ed io non avevo casa allora, non avevo famiglia allora
(ahimè! adesso mi sono state spietatamente rovinate, e disperse), non ho
cuore io come l'Adami? La mia forza è ella come la forza delle pietre? la mia
carne è ella di rame186? - Oh! non è questo il
solo punto dove con inestimabile amarezza ho veduto che i medesimi Giudici
adoperano due pesi e due misure. Pietro Augusto Adami è scolpato per essere
rimasto in ufficio, dietro le istanze che gli muovevano spettabili persone,
timorose che la Finanza
cadesse in mani pessime. E me non pregarono? No? Me la cittadinanza áncora
ultima di speranza chiamava; a me i servitori stessi di S. A. come a rifugio
estremo ricorrevano; me impiegati principalissimi, mantenuti tuttavia in
carica, scongiuravano a non disertare lo ufficio con rovina sicura del
Paese e di loro; nè questo già mi dicevano in faccia per piaggeria, ma nelle
private lettere lo predicavano ai lontani, ma nei penetrali della famiglia, ma
nei fidati colloquii con gli amici non rifinivano ripetere; e quando più tardi,
indignato degl'improperii di parte repubblicana, dichiarai volermi dimettere,
la grande maggiorità dell'Assemblea per lunghissima ora non supplicò, che io
non volessi mancare nel maggiore uopo al bisogno della Patria187? - Del Municipio, della Guardia Civica e dei
Deputati, ho detto qui sopra. Oh! chi sa, che quelle mani... - ma che dico io,
chi sa? - quelle mani stesse, che vergarono la ingrata Accusa, scrissero il
voto di fiducia a mio favore, volendo allora tributarmi l'onorevole
approvazione pel mio operato! - Ma ahimè! il sentimento della gratitudine
s'inaridisce più presto della lacrima dell'erede... Io, invitato ad usare le
mie scarse facoltà in benefizio del mio Paese, non ho mai rifuggito, comecchè
con mio carico grande; e se nel 12 aprile io non lasciai Firenze, e' fu perchè
mi pregarono interpormi, onde Livorno aderisse di quieto alla restaurazione del
Principato Costituzionale: poi si scoperse essere un tranello cotesto; ma il
mondo dirà da qual parte stia la vergogna, se dalla parte dei venerabili
personaggi che dello amore di Patria fecero insidia, o dalla mia, che mi
lasciai prendere a quell'amo!
I Giudici commendano
Adami per avere conservato gl'impiegati: ma io feci di più; un segretario
antico e benemerito del Ministero dello Interno, Ambrogio Piovacari, me
istante, fu promosso a Consigliere di Stato, e nel suo ufficio posi la persona
ch'egli stesso mi designava. Frequenti lettere anonime mi confortavano, ed
anche minacciavano, a dimettere un altro Segretario, il Signore
Allegretti. Io gli mostrai le lettere, gli dissi reputarlo, qual è, onesto, e,
per quanto stesse in me, volerlo conservare in ufficio. Altra lettera anonima
mi notiziava agitarsi ai miei danni Ferdinando Fortini; io gli mandai per suo
governo il foglio accusatore, certificandolo della mia perenne amicizia.
E la mia lettera suonava
in questa sentenza: «Amico. Se io credessi vero quanto nell'acclusa lettera si
legge, io non te la manderei. Da quella vedrai come in questi tempi infelici la
calunnia non risparmia te nè la tua famiglia. Se puoi argomentare da quale mano
nemica muove cotesto foglio, badati. In quanto a me è inutile dirti che simili
infamie non valgono a farmi mutare opinione intorno ai probi uomini, fra i
quali novero meritamente te. Fammi grazia salutare il Sig. Duchoqué, il quale
ebbi l'onore di conoscere in circostanza non troppo piacevole, ma non per
cagione sua. Addio.
Firenze,
20 ottobre, 1848.
Aff. Guerrazzi.
Al Sig. Avv. Ferdinando
Fortini Regio Procuratore Firenze188.»
A certo altro facevano
guerra (Stefano Stefanini Commissario degli Ospedali di Livorno) e n'era
pretesto l'affezione al Governo passato, gli onori ricevuti da quello; motivo
vero la cupidità della sua carica onoratissimamente esercitata. L'egregio uomo
tra le angoscie della iniqua persecuzione smarriva l'animo, e a me per aiuto
scriveva. Ecco come io lo confortava: «Amico carissimo. - A questa ora avrai
pace, lo spero, e poi lo voglio. Ed ho potuto, e voluto, quando ero
nulla; pensa se adesso! - La mia amministrazione sarà breve o lunga, poco
importa, ma sarà di giustizia. Dunque rispondimi se ti lasciano tranquillo.
- Eccoti una supplica. Se merita, ti offro modo di fare un bene, e conciliarti
favore; - se non merita, - nulla: Addio.»
Dirò altrove del giovane
Boiti per sospetto degli Arrabbiati dovuto allontanare, e poi da me restituito
in ufficio.
A tutti i servitori del
Principe curai si mantenessero gli stipendii, e fu già detto, col Decreto del
10 febbraio 1849.
I sussidii alle molte
famiglie povere elargiti dalla Corte di S. A. ordinai si continuassero189. Finalmente provvidi affinchè in modo stabile
le sorti degl'impiegati della Corte si determinassero190.
Membro del Governo
Provvisorio, impiegai perfino Pretore al Porto Santo Stefano chi venne ad
arrestarmi un anno avanti! - E basti..... perchè è pure ignobile, Dio mio! - è
pure infelice la
condizione ove la
necessità della difesa mi costringe a spogliare il benefizio del suo divino
pudore191.
Lodano i Giudici
meritamente Emilio Torelli, il quale per lungo tempo mi servì con zelo come guardia
del corpo aspettandomi spesso nelle tarde ore di notte, per iscortarmi a casa;
lo lodano, dico, per essersi adoperato a salvare dalle mani dei faziosi oggetti
di regia proprietà, e non sanno compartire merito alcuno a me, che rientrato
appena in Palazzo, sbigottito della mente, e indolenzito della persona, firmai
tre Decreti, e primo fra questi, quello che instituisce la Commissione dei
Signori Generale Chigi, Gonfaloniere Peruzzi, Deputato Fabbri, e Professore
Emilio Cipriani per prendere in consegna immediatamente tutti i palazzi
regii, e oggetti di qualunque natura nei medesimi esistenti192, onde salvarli dalla dispersione.
I Giudici e l'Accusa non
hanno avuto occhi per leggere la risposta, che di mia commissione mandava il
Segretario del Governo Chiarini al sig. Poggi, custode del Palazzo della
Crocetta, il quale mi avvisava come una mano d'individui, nel 23 marzo 1849,
minacciasse convertire cotesto Palazzo in Quartieri, e lo annesso giardino
ridurre a orto, per seminarvi carote, cavoli e patate ad uso
delle milizie.
«Sig. Poggi. Sono
incaricato dal Governo Esecutivo di rispondere alla sua del 23 spirante. Avanti
tutto le faccio sapere che le di lei osservazioni, in essa manifestate, sono
ritrovate non giuste, ma giustissime. Nel tempo stesso rendo a sua piena
cognizione, che il Governo mai ebbe in animo di ridurre il Palazzo della
Crocetta ad uso di Quartieri, nè per ora soggetto a nessuna innovazione. Il
Governo conosce benissimo le convenienze, e molto più sa rispettare le
opere di Arte: mai è stato vandalo. Si rassicuri, caro sig. Poggi; usi il solito
attaccamento alle cose affidatele, e vada persuaso che comunque girino gli
eventi, i galantuomini sono sempre rispettati, e riveriti.» (Così allora
credevo.) «Se il Governo non ha potuto in tutto e per tutto ostare alle
esorbitanze e agli arbitrii dei molti intemperanti, non è stato suo volere,
ma sola mancanza di cooperazione, e di forza. Dove non è ordine, non è
legge. Però mai sotto il suo Governo (cioè del Guerrazzi) saranno compiti atti di
violenza, nè contro le cose, nè contro le persone, di qualunque condizione si
sieno193.»
A me da tempo
remotissimo era noto il signor Poggi, che fu amico di mio padre, e sovente me lo
era venuto ricordando con affetto, sicchè quando lo rividi, lo accolsi come
conoscenza antica: però questa lettera, oltre lo scopo pel quale adesso è
citata, giova maravigliosamente a provare quante esorbitanze avessi a subire, e
a quante, con mio sommo dolore, non mi trovai capace di riparare per difetto di
forza e di sussidio!
I Giudici non trovano
parola di lode alla discretezza mia di fare apporre sigilli al gabinetto
particolare di S. A., onde le sue carte non andassero rovistate; nessuna pel
Proclama scritto da me nella notte dell'8 al 9, e pubblicato nel Monitore
del 9 con la data dell'8, dove s'incontrano le parole: «Custodi per volere del
Popolo della civiltà, della probità, della giustizia, noi siamo determinati a
reprimere acerbamente le inique mene dei violenti e dei retrogradi;»
nessuna alla perigliosa minaccia da me diretta al Niccolini e alla turba
seguace, che intendeva irrompere nel Palazzo Corsini, e trambustarlo da cima in
fondo, per trarne un supposto tesoro appartenente a S. A., di che eglino erano
(come asserivano) informati da un servo di casa. I Giudici lodano il Prefetto
Guidi Rontani, per avere fatto abbattere gli alberi nella corte del Liceo
Imperiale; e me, che davanti le moltitudini affollate ostai al piantare
dell'albero sopra la piazza, non ricordano nemmeno. Che più! quello che in
altrui dai Giudici si scusa, in me s'incolpa: così si approva il medesimo
Prefetto per avere fatto remuovere i granducali stemmi a scanso di oltraggi
plebei; io poi che condotto dagli stessi motivi trasmettevo ordini uguali, al
parere dei Giudici commettevo delitto. Dovevo io sopportare che si rinnuovasse
la turpitudine di vederli da Fiesole strascinati a Firenze194?
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