XIX.
Della contradizione
notata dai Documenti dell'Accusa fra la potenza e la impotenza di resistere
alle pretensioni del Partito repubblicano.
Or come, dice l'Accusa,
potete voi sostenere a un punto la potenza e la impotenza a reprimere? Questo
suona contradittorio: anzi, deve dirsi, che siccome a parecchie enormità
opponendovi le impediste, così a tutte le altre successe voi non vi opponeste,
nè le voleste impedire. (Decreti del 10 giugno 1850 § 54, e del 7 gennaio 1851
§ 53.)
Due erano, come ho
detto, i fini che io pensai essermi affidati, e mi affidarono certo gli onesti
cittadini e il Parlamento: la salute della società, e questo principalissimo;
l'altro di preservare il Paese da avventurosi esperimenti; o, se si vuole più chiaro,
di consultare con pacatezza i Toscani intorno al modo col quale intendevano
essere governati. Al primo scopo provvidi, e corrisposi, confido almeno, alla
aspettativa universale; ma in questa parte ebbi a compagni anche gli onesti
Repubblicani, i quali pure aborrivano dalle violenze, dalle rapine, e dal
sangue; la coscienza pubblica mi sovvenne con la sua grande voce; e una tal
quale esitanza provavano ancora quelli che procedevano più rotti, sicchè,
comunque aspra lotta durassi, pure, Dio aiutando, mi venne fatto conservare
illesa, anche in mezzo ai trambusti, l'antica fama di civiltà, di cui,
meritamente, godeva, e dovrebbe continuare a godere il nostro Paese. Ma se a
tutto non avessi potuto riparare, come sarebbe giusto imputarmelo? Se portai le
mille libbre e non potei le due mila, i miei Giudici non solo mi negheranno la
mercede per le mille libbre portate, ma pretenderanno multarmi per le mille che
non ho potuto portare? Egli è invano, che i miei Giudici rigetterebbero questo
paragone e questa conseguenza; i loro argomenti procedono sempre così. In
quanto poi al secondo scopo che mi era proposto, ecco come riuscii a salvare la
somma delle cose. Vuolsi principalmente avvertire, come principio emesso dai
Repubblicani, in ispecie quando si agitò la questione se la Lombardia dovesse
unificarsi al Piemonte, fu consultare il voto universale, imperciocchè,
abolita ogni idea di diritto divino, reputino il Popolo origine di tutta
sovranità. Il quale principio oggi non pure è dei Repubblicani, ma vi si
accostano eziandio quelli che si mostrano caldi promotori delle regie
prerogative. «Io credo che la sovranità, secondo la teoria costituzionale,
risieda esclusivamente nel Popolo, il quale delega a questo il potere
legislativo, a quell'altro il potere esecutivo;» diceva il Montalembert (il
quale, credo che non importi avvertire che non è Repubblicano) nell'Assemblea
di Francia il 10 febbraio 1851. Il Governatore di Livorno con Dispaccio dell'8
febbraio avvisava, come Giuseppe Mazzini arrivato (al mal fagli male), su
l'alba di quello stesso giorno, a bordo dell'Ellesponto, arringando al
Popolo avesse concluso: «che la
Toscana doveva aspettare le determinazioni della Costituente
- e di Roma198.» E sue precise parole
furono: «La nazione, per mezzo dei rappresentanti del Popolo, eletti col
suffragio universale e con libero mandato, farà conoscere le sue volontà, e
noi c'inchineremo al sovrano199.»
Questo stava bene in
teoria; ma in pratica non istava più bene; anzi, secondo le contingenze, aveva
ad esser tutto a rovescio.
Là dove il Popolo
propende alla Repubblica, si consulti col voto universale; dove no, cotesto
diventa fastidioso puritanismo, e bastano le petizioni dei Circoli, gl'indirizzi
dei Municipii (che oggimai noi conosciamo a prova di che cosa essi sappiano), e
i clamori di piazza. Logica è questa di ogni Partito di cui lo scopo consiste
nel riuscire a qualsivoglia costo. - In Toscana il Popolo, non ostante la
vertigine che lo agitava, consultato a cose quiete, non avrebbe risposto nella
maggioranza alla Repubblica: questo aveva subodorato Giuseppe Mazzini, ed
invero, informando l'Assemblea romana su le condizioni della Toscana, spiega
chiaro: «che le tendenze della parte più energica, più importante della
popolazione, sono altamente unificatrici, e dicendo unificatrici intendo
escludere il dubbio vocabolo di unione. Tutti i Giornali sono unanimi in questa
espressione.... tutti i Circoli, - molti Municipii, - parecchi Comandi della
Guardia Nazionale, dichiararono nella penultima domenica del mese scorso,
con una manifestazione solenne seguita da altre adesioni nei giorni seguenti,
che il voto della Toscana era la forma repubblicana e la unificazione con Roma200.» Le quali parole lasciano pur troppo
intendere, che la parte più energica era per la Repubblica, ma lo
stesso non poteva dirsi della più numerosa. Però Mazzini intende, ma non
approva più che sia consultato il Popolo.... «perchè l'unica legalità
nelle rivoluzioni sta nello interrogare.... nello indovinare il volere
del Popolo, e nello attuarlo201.» Tra interrogare
e indovinare passa divario grande, quasi quanto tra il complice e
lo impotente, o tra tutti e taluno dell'Accusa. Ma egli è
così: là dove lo spirito di parte detta i giudizii, si affacciano sempre le
medesime formule di sofisma. Fatto sta, che si voleva commuovere, rimescolare
il Popolo, e, s'era ebbro d'acqua arzente, dargli a bere olio di vetriolo. Così
s'incendiano gli Stati, non si costituiscono, ed io non ho voluto rovine. E poi
neanche poteva conseguirsi quello a cui tendeva, perchè ai deliranti non faceva
mestieri aumentare delirio, e pei repugnanti ogni argomento tornava inutile,
per la ragione dichiarata poco anzi dello starsi a vedere e poi chiudere le
finestre. - Abbiamo veduto altrove Popoli interi muoversi e insorgere al nome
di Repubblica: ma io credo che vadano grandemente errati coloro che immaginano
le moltitudini si muovessero unicamente per forma di governo, che neppure intendevano;
parte si mossero per fame, parte per ingiurie patite, parte per odio di feudali
istituti, parte per amore di libertà: altri per altre cose. La formula delle
rivoluzioni somministrano gl'intelligenti, le passioni, il Popolo: donde
avviene che tutte le tendenze unite a distruggere, disaccordino poi sul modo di
fabbricare. La ragione, per la quale i Partiti compaiono a prova
prodigiosamente deboli a governare, si è questa, che il fascio, stretto durante
la battaglia, si scioglie dopo la vittoria. Or qui in Toscana mancavano (e
prego Dio che abbiano sempre a mancare) ingiurie sanguinose a vendicare, odii
antichi a sbramarsi; solo in molti, ma non nei più, Toscani, era vaghezza di
forme repubblicane; molti ancora, non può negarsi, si agitavano per cupidigie o
per bisogni, e, non frenati, stavano per partorire deplorabili lutti;
piantatrice e spiantatrice degli alberi della Libertà, per la massima parte,
era di questa sorta gente, che ama le baruffe e le provoca solo per pescare nel
torbido; taccio di quelli che non erano di qui. Ma per amore della Repubblica,
per quante ne sapessero fare, non si muovevano davvero i mezzaioli in campagna,
nè i borghesi in città, i proprietarii grandi, la nobiltà, il clero. - Agitate,
agitate, perchè le minorità vincono le maggiorità; - le vincono, è vero, o
piuttosto le stupefanno, ma per durare ci vogliono gli annegamenti nella Loira,
le mitraglie di Lione; e questi estremi rendono spaventevole la Libertà, e la fanno
precipitare alla tirannide soldatesca. Tuttavolta, questo volevasi, intendetelo
bene, signori Giudici, e questo sarebbesi fatto: e poichè la vostra coscienza
non ve lo ha saputo dire, vi dica il Paese intero, cui mi giova sperare non
ingrato, chi impedì questo, e a qual prezzo. - Agitate, agitate, e troveremo
cannoni, armi ed armati; - ahimè! la esperienza ha dimostrato non succedere
così; e senza un buon nervo di esercito disciplinato, i volontarii o fuggono,
come i Francesi a Grand Pré, o muoiono, come i Toscani a Montanara -
gloriosamente, sì, ma non vincono....
Finchè pertanto i
Repubblicani si stavano ai ragionamenti, che erano: inutile consultare il
Popolo, dacchè per le petizioni dei Circoli, dei Municipii, della Guardia
Civica, e per le acclamazioni delle genti, il voto si dimostrava patente; io
rispondeva: tanto meglio: s'è vero come supponete, apparirà solennemente
manifesta la propensione dell'universale per la Repubblica; ma non
falsiamo il principio del suffragio da voi stessi predicato: guardate a non
comparire apostoli bugiardi: parmi, ed è indegno di uomini che si vantano
creatori di nuovo ordine di cose, incominciare con la menzogna, ch'è vizio
della viltà. Così non ho mai veduto incominciare i reggimenti gagliardi. Romolo
inizia il suo regno con un atto di ferocia, ma non di bassezza. Ora con quale
fronte vorrete adoperare voi le medesime arti, che più diceste aborrire negli
avversarii vostri? Voi sostiene la opinione di lealtà; di amici sinceri del
Popolo, voi diventate sopraffattori e tiranni. Voi, Mazzini, avversaste
Vincenzo Gioberti, quando, prima che la vittoria decidesse le fortune italiane,
voleva che Lombardia si aggiungesse al Piemonte, e dicevate non essere quello
il momento di sturbare con importune trattative il pensiero dei Popoli, che
unico doveva concentrarsi nella guerra della Indipendenza; ed io vi detti
ragione202. Ed ora quello ch'era
buono per Lombardia e Piemonte, non è più vero per Toscana e per Roma? Ma
lasciamo questo da parte: come potete pretendere onestamente proclamata la Repubblica a tumulto,
mentre l'aria dura commossa dalla vibrazione della vostra voce, che diceva:
«che la nazione deve dichiarare la sua volontà per mezzo dei rappresentanti
eletti col suffragio universale?...» E fino dal 16 febbraio a Mazzini opponeva
Mazzini, gittandogli in volto le sue dichiarazioni predicate a Livorno; «ecco
le parole piene di fede, e di senno, che Mazzini rispondeva al Popolo di
Livorno, che saputa la fuga del Granduca domandava ad alte grida la Repubblica: - Io
repubblicano per tutta la mia vita, vi esorto ad attenderne la iniziativa da
Roma; sono là i veri rappresentanti del Popolo, e noi dobbiamo inchinarci a
quel potere sovrano203.» - L'Accusa io qui
l'ascolto esultare dicendo: dunque, vedi, anche tu accennavi aderire
all'Assemblea Costituente di Roma, - ed io le rispondo: tu non capisci niente;
- allora importava non irrompesse la Repubblica a furia, e non era a guardarsi la
natura del rimedio, purchè salvasse dal male presente: poi cosa fa cosa, e
tempo la governa. Mazzini pertanto, ed i seguaci suoi non potevano replicarmi
in viso senza inverecondia, imperciocchè adoperava a combatterli le loro
stesse parole. Allora furono tentate altre vie.
Imitate, dicevano i
Repubblicani, il Governo Provvisorio di Francia; ordinate provvisoriamente la Repubblica, salva la
sanzione del Popolo, come fece Lamartine. Per questo modo, proseguivano essi
giovandosi degli argomenti di lui, farete cosa a un punto rivoluzionaria, e
conservatrice; imperciocchè da un lato lo sperimento della Repubblica, durante
certo spazio più o meno lungo di tempo, sarà sempre tanto guadagno fatto pei
governi liberali, e pei vantaggi del Popolo; dall'altro, dove anche più tardi
l'Assemblea disfacesse la
Repubblica, partorirà adesso entusiasmo nel Popolo,
soddisfazione agli animi agitati, maraviglia alla Europa, impulso e forza per
traversare lo abisso senza fine cupo della rivoluzione204.
E questo era intoppo
duro davvero. Se non che, ripreso animo, io rispondeva: di grazia, ascoltatemi;
voi altri sapete come il Cormenin, favellando del Lamartine, abbia detto che un
castaldo avvezzo alle faccende di villa mostrerebbe facilmente a prova, anche
in quelle della politica, più giudizio del Lamartine; ed io del Lamartine, del
Cormenin, e degli altri uomini di Stato francesi non ripeterò, chè non sarebbe
giusto, quello che già scrisse il Machiavelli di loro, cioè, che i mali orditi
del cervello sanno rinforzare con le mani; e nè anche quello che ei disse al
Cardinale di Ambosa: «di Stato, voi altri Francesi, non intendete niente;» ma è
certo, che tutti quelli i quali in Francia fanno professione di politica, non
intendono troppo. Però posto questo da parte, e stringendoci a ragionare del
Lamartine, vi pare egli discorso cotesto suo di mettere in cimento la Repubblica, come si
farebbe, a modo di esempio, nelle scuole, di un calcolo, o di una dimostrazione
geometrica? A questo ufficio bastano una lavagna e un pezzo di pietra da sarto;
e se il calcolo non riesce, si strofina col ruotolo della cimosa, e da capo.
Volendo sperimentare la
Repubblica, se ti attieni al metterne fuori unicamente il
nome, converti il Governo in bersaglio, onde tutti i Partiti contrarii gli
tirino addosso di punto in bianco; ma al nome solo non puoi attenerti, nè devi;
quindi per durare anche una settimana ti trovi condotto a imprimere nel Governo
e nel Popolo un moto corrispondente al fine proposto, accomodarvi i
provvedimenti e le leggi, scansare gli uomini disadatti o contrarii, altri
sostituirne amorevoli e acconci, distruggere antichi interessi, altri
crearne,... e tutto questo per prova? E tutto questo, incerti se la Repubblica possa
sostenersi? Bel giudizio davvero, moltiplicare le cause di perturbazioni e di
contrasti, allorchè vi proponete ricomporre l'ordine sociale sconvolto! Poi,
Francia è Francia, e Toscana è Toscana: la Repubblica in Francia
può dare argomento di maraviglia alla Europa; in Toscana, di riso: costà fra 36
milioni di uomini, qualche milione può sorgere a sostenere con le armi la
opinione del Governo, e propria; ma qui fra noi conviene starci contenti alle
migliaia, ed anche poche. Nè mi parlate di Roma, di Sicilia e di Venezia:
queste ultime due, male si reggono in vita; e invece di trasmettere altrui,
chiedono forza per loro. Roma e Toscana, sommate insieme fanno una debolezza,
perchè non possiedono armi, nè pecunia, nè eserciti addestrati, i quali da un
punto all'altro non si arriva a formare. Ancora: Francia, per lunghi anni
educata nella vita politica, per avventura potè credersi giunta al grado
convenevole di maturità per adattarsi alla nuova forma di Governo, quantunque
voi sappiate come grave sia il subuglio dei Partiti colà, perfidiandosi intorno
alla libera scelta della Repubblica, con danno inestimabile alla reputazione di
questa: ma Toscana si leva adesso, e non ha ben desti gli occhi; gli animi vi
sono rimessi, inerti a molti gli spiriti, i partiti estremi impossibili;
speculatori arguti sono per la più parte i Toscani, e più facili a fare per
consiglio della mente che per subitezza del cuore; anzi quel continuo rombo di
parole superlative, e di concetti esorbitanti, gl'inquieta come api che fuggono
dai bugni, se odano rumore di lebeti percossi; e sopra tutto vi raccomando a
considerare, che la Toscana
delle libertà costituzionali si chiamava non ha guari soddisfatta; nè ella
operò rivoluzione alcuna; nè credo che la voglia operare: lo scettro è in mano
al Popolo, non perchè ei volesse strapparlo, o lo strappasse, ma perchè gli fu
lasciato. Questo abisso di mandare in perdizione la Società, noi da vicino non
minaccia; di comunismo per ora, se spruzzate, non paionmi contaminate le
moltitudini; la Repubblica,
anzichè diminuire le perturbazioni, avrebbe virtù di aumentarle, e rendere
forse disperato un male di per sè stesso gravissimo. Ad ogni modo, che il
Popolo universo a decidere delle sue sorti consentisse, questo prometteste,
questo promisi, e questo hassi a mantenere: leali vi chiamaste, e leali
perdurate, chè bene v'incorrà della conservata rettitudine. - E alle ragioni,
che procrastinando si sfiduciavano gli animi, i malfermi alienavansi,
sfocavansi gli ardenti, e si dava luogo a insinuare che il Governo procedesse
avverso alla Repubblica, io replicava: questo non essere da temersi,
imperciocchè il Governo fino dai suoi primordii aveva dichiarato, che per
pronunziare la decadenza del Principe e la Repubblica, dovesse
aspettarsi che lo universo Popolo toscano emettesse liberissimo il voto. La requisitoria
del Pubblico Ministero Regio dichiara francamente, che tutto il mio sforzo
si ridusse a persuadere, ed agire in qualche contingenza, perchè non venisse la Repubblica attuata
troppo sollecitamente: la requisitoria del Pubblico Ministero
Repubblicano, rappresentato dal sig. Carlo Rusconi, mi accusa: «Che giunto al
Potere, ebbi modo di fare proclamare la Repubblica, e non volli. - Che quando mi fu dato
unificare due provincie assecondando i voti del Popolo, comecchè
unitario ed entusiasta del Popolo mi fossi detto, bramai persistere in una
disunione insensata. - Il dottore Maestri inviato da Roma instava perchè
- il desiderio di unificazione, che nel Popolo si manifestava, fosse
appagato. Lottando quotidianamente col toscano Triumviro, a cui tutti
quegli argomenti adduceva che sogliono far forza in chi non ha preconcetta
opinione ec.» Chi ci era, racconta che quotidiane erano le istanze, (e
istanze di gente arrabbiata, fanatica, e forte su le armi, si sa che cosa
vogliano dire); chi non ci era sostiene che furono rade; chi ci era mi accusa
che procrastinando rovinai il concetto repubblicano, chi non ci era, sprezza
cotesta opera come di piccolo momento. I Repubblicani, i quali di rivoluzioni
s'intendono più assai del Regio Procuratore Generale (e spero che questi non me
lo vorrà contrastare) dicono, che occasione passata è occasione perduta;
ed hanno ragione: la
Repubblica poteva instituirsi in Toscana, ma nel modo che
nelle antecedenti carte ho avvertito; ed io ripeto, fui tutore del Paese, non
capo delirante di fazione. Anche quando fosse vero, come non è, che il mio
sforzo tendesse unicamente a procrastinare, l'Accusa dovrebbe sapere che ciò
sarebbe più che non bisogna nelle rivoluzioni. Una notte di pensiero cangia le
tendenze dell'animo, il quale senza impulso veemente ed attuale schiva, almeno
nei più, precipitare a partiti disperati.
Devo confessare come fra
le infinite umiliazioni con le quali fu saziato il mio cuore, nessuna tanto
profondamente mi tocca quanto quella del trovarmi condotto a esporre la mia
ragione a tale, che le verità volgarissime della Storia s'infinge ignorare; e
dico s'infinge, conciossiachè riesca duro a credere, che abbia animo per giudicare
di politica chi di politica si senta siffattamente inesperto. Il sig. De
Barante, uomo di senno antico, e per pratica di negozii pubblici rinomato
assai, dettando il suo libro della Storia della Convenzione di Francia,
assicura che tutto il male della Rivoluzione venne dal non trovarsi persona
capace a resistere allo impeto dei primi moti, onde si componesse una opinione
giusta delle cose, una bandiera sorgesse dove i cittadini sbigottiti si
assembrassero; - all'opposto, persuasi fino dai primi giorni che ogni Governo
era cessato, si trovarono in balía di tutte le autorità imposte di mano in mano
dalla violenza, le quali comandavano in virtù del meccanismo delle sètte,
mentre l'ordine nella Società era venuto meno. - Tutto il mio sforzo si ridusse
ad agire perchè la
Repubblica non venisse attuata troppo sollecitamente! -
Fatto sta, che la non venne proclamata mai; pur sia come vuole lo Accusatore:
ma sa egli, che cosa importi un giorno, una notte nelle rivoluzioni? Lo vuole
egli sapere? Se di una notte sola avesse potuto ottenere indugio il virtuoso
Malesherbes, per presentare le sue osservazioni sul modo di contare i voti, la
vita di Luigi XVI era salva; e certamente poi, se nella giornata del 19 gennaio
fosse stato vinto il partito dello aggiornamento alla esecuzione della
sentenza: «car (nota Thiers) un délai était pour Louis XVI la vie mème205.» Vuol egli sapere, che cosa giovi un'ora? La
mattina dell'8 termidoro cadde reciso il gentil capo di Andrea Chènier,
a cui, poveretto! doleva morire così giovane, e con tanta potenza di poesia
nell'anima... Un poco più tardi, nel sangue che aveva fatto versare, affoga
Robespierre, e seco va disperso il regno del terrore206.
Infatti il Regio
Procuratore Repubblicano afferma, che non mi mancavano gli avvertimenti:
«come nulla vi fosse di peggio in politica, specialmente in tempi di
rivoluzione, che il non far nulla, e lo aspettare gli avvenimenti con la stolta
lusinga di dominarli207.»
Ma i condottieri della
fazione repubblicana erano oltre ogni credere tenacissimi, e vedendo che le
parole non bastavano, fecero prova di operare una nuova rivoluzione nel giorno
18 febbraio. Nel giorno 18 febbraio una immensa moltitudine conveniva in
Piazza; nel 18 febbraio Niccolini arringando diceva con parole aperte: «Il
Popolo ingannarsi sul conto mio, avversare io la Repubblica,
intendermela col Granduca; entrasse il Popolo in palazzo, mi costringesse a
proclamare la Repubblica:
se assentissi, bene; se no, giù dai balconi!»
Questa minaccia fu
ripetuta più volte: si aizzava il Popolo a trucidarmi. Quanti tremavano allora
per la mia vita, che ora non dirò lieti, ma in parte certo profondamente
indifferenti, del mio non degno infortunio! Ma allora ero una trincera dietro
la quale riparavano sbigottiti; adesso sono diventato documento increscioso
d'ingratitudine. Però fu detto dei nostri vecchi: mala bestia è quella, che dà
di calcio al vaglio dopo avere mangiato la biada...
Poco dopo, il fatto
tenne dietro alla minaccia. Il Popolo allagò imperante e furioso. Che cosa
fare? A qual Santo votarmi? In mezzo al tumulto era difficile farmi
intendere, e folle il parlare quello che sentivo; ridotto allo estremo, dicevo:
«Ora via, Cittadini, dacchè volete la Repubblica ad ogni costo, e Repubblica sia; a
patto però, che mi mostriate domani duemila giovani fiorentini armati, e
disposti a combattere per la Repubblica.» Risposero urlando: «trentamila ne
condurremo!» Ed io di nuovo: «Bastano duemila.» Era cotesto un ripiego che il
mio buon genio mi suggeriva per ischermirmi dalla tremenda violenza che faceva
una moltitudine capace d'ingombrare sale, scale e piazza; e al punto stesso era
prova, con la quale intendevo certificare il Partito repubblicano della vanità
dei suoi conati a strascinare il Popolo intero. Firenze non ebbe i duemila
soldati per la Repubblica,
mentre gli aveva avuti, e generosissimi, per la guerra della Indipendenza italiana,
bandita dal Principe Costituzionale. Così preservai in quello accidente il
Paese, la opinione del Partito repubblicano fu indebolita, e cresciuta a
dismisura la sua rabbia contro di me. Questo io operava con pericolo
mio contro la moltitudine arrabbiata il 18 febbraio, non già dopo la
disfatta di Novara, come con offesa manifesta del vero non aborrisce
affermare l'Accusa208.
Nè per questo i
Repubblicani si davano punto per vinti: mediante il Ministro romano sig.
Maestri presentano una Nota contenente diversi articoli per approvarsi subito
dal Governo toscano. Se le cose richieste fossero state ammesse, non lasciavano
più il Paese in potestà di deliberare. Io mi professai incapace a discernere la
importanza della proposta, e dissi, il mio dovere impormi mandarla al Consiglio
di Stato; sperare che il Consiglio l'accoglierebbe; lo avrei sollecitato a
rimettermi il suo parere. - Nello inviarla al Consiglio, gli commisi scevrasse
nelle cose richieste quelle che avrebbero pregiudicato la libera votazione,
dalle altre che la lasciavano illesa. Così fece il Consiglio: grandissimi si
elevarono i clamori per questo, e tuttavia durano. Io giunsi appena a sedarli,
facendo notare, che la imminente votazione dell'Assemblea avrebbe reso inutile
qualunque restrizione209.
Ecco in qual modo
pervenni a impedire le urgenti molestie per la proclamazione della Repubblica,
e gli attentati contro la sicurezza dei cittadini. Le altre improntitudini, per
la loro natura non somministravano uguali rimedii; non pativano dimora; erano
cose da farsi su l'atto; non potevo dei loro stessi principii comporre un freno
per ritenerle; e non avevo meco la opinione pubblica, che mi sorreggesse:
tacevano, tremavano i dabbene cittadini, e si contentavano a pregare Dio che mi
desse forza a resistere. Riguardo a destrezze, nè sempre giovano, nè sempre si
affacciano alla mente nella subitaneità dei casi che succedono. -
Ora, senza distinguere
il modo della resistenza, e confondendo la ragione delle cose, ricavare dai
conati riusciti a bene argomento per accusare dei fatti che non poterono
ripararsi l'uomo che si sagrificò alla salvezza comune, parmi tanto crudelmente
assurdo, quanto iniquamente ingrato.
|