XXII.
Atti Speciali.
§ 1. Fatti di Siena.
Siena sopra ogni altra
città toscana presenta se non antiche
le cagioni del tumulto,
almeno gli spiriti pronti a trascendere in contenzioni di parti. Io ho sentito
dire come ad un Santo riuscisse persuadere, che ai coltelli surrogassero sassi
nelle pugne, costumate dalla gioventù per vaghezza nelle novene natalizie: e
gli parve avere fatto un bel guadagno! Simili gare di origine vecchia si
perpetuarono in cotesta città per futili motivi, e s'invelenirono per dissidii
politici.
Io, davvero, vorrei
tacere per affetto alla nobilissima terra; ma considerando la causa che mi fa
parlare, non dubito che torrà in pace se io ricordo le contese per la morte del
Petronici, il pericolo dei Carabinieri, e Giovanni Manganaro costretto a
salvarsi notte tempo con la fuga. Non senza mistura politica furono i tumulti a
cagione dei grani, per quanto almeno me ne assicurava la Deputazione, che venne
a intercedere a pro dei colpevoli, i quali tutti ottennero amplissima
remissione di pena dalla clemenza sovrana.
Però studiando comporre
in pace la travagliata città, proposi, accettandolo il Principe con lieta
fronte, a Prefetto di Siena il signore A. Saracini. Considerando lo inclito
lignaggio, l'onore acquistato combattendo per la Indipendenza Italiana,
la indole egregia e la mitezza dei modi, pensai essere questo personaggio
acconcissimo per ridurre i partiti a concordia218.
Il Proclama del sig.
Saracini, che si legge stampato nel Monitore del 10 decembre 1848,
chiarisce come le maledette parti già tenessero Siena divisa, e quanto
premurose fossero le cure del Governo di pur comporle in pace. - Ah! che per
somma sventura di noi, troppo più agevole riesce predicare pace, che
conseguirla! -
A mano a mano che io
m'inoltro in questa Procedura, la mia maraviglia diventa maggiore; imperciocchè
l'Accusa invece di ricorrere ai Rapporti ufficiali del Governo, se veramente
voleva formarsi giusto concetto dei casi di Siena, vada raccogliendo articoli
di Giornali, e corrispondenze dei Circoli, e carte altre cotali meno adatte
all'uopo. E tuttavolta anche con gli elementi che scelse mettersi fra mano, no,
non si poteva, senza ingiuria manifesta del vero, tessere storia uguale a
quella dell'Accusa.
Cotesta mala peste delle
parti sembra essersi ingenerata fino dall'agosto dell'anno 1848, quando i
reduci dalla guerra lombarda trovarono in Patria ai patimenti e al dolore un
rimerito di scherno219. I quali umori pessimi,
inacerbiti dai fatti del 24 ottobre 1848220, crebbero così, che
una deplorabil divisione di opinioni
«Già saprai che tutta la
famiglia granducale, eccetto il Granduca, è qui ritirata, e saprai come da questo
abbiano i nemici d'ogni libertà preso ardire per formare di questa un tempo
italianissima città un centro di reazione. All'opera costoro hanno dato
principio eccitando con arti infernali un trambusto gravissimo.
Jeri il partito
retrogrado imbaldanzito dalla presenza della corte, dietro un piano già
stabilito, cui non erano estranee alcune autorità, proruppe arditamente in
ostilità facendo insultare dai suoi cagnotti del basso popolaccio tutti i
liberali che incontrava per via, o nei Caffè, dando loro l'accusa di Repubblicani.
Dagli insulti orali si passò ai fatti, e quindi agli arresti e alle
carcerazioni arbitrarie eseguite dallo stesso popolaccio sfrenato: io non starò
a descriverti minutamente tutti gli eccessi commessi a sfogo ancora di private
vendette; ti dirò solo che le persone le più specchiate erano fatte segno alla
insolenza di questa canaglia. Fra gli altri un giovane Vignoli e Raffaello
Crocchi (ambo onestissimi) furono trascinati in prigione a guisa di assassini,
battuti e calpestati in mezzo agli urli e a fischi che assordavano il cielo. Ti
dirò di più che quest'ultimo è alquanto difettoso nella persona, gracilissimo e
di mal ferma salute. - Ad un giovane israelita di cotesta città fu sputato in
faccia ricoprendolo di contumelie. Furono cercati due altri Livornesi
conoscenti del Vignoli, giunti qui da pochi giorni, con animo forse di
ucciderli, imperocchè grandissimo è l'odio dei nostri retrogradi contro tutti
voi altri Livornesi; nè mai desistono da calunniarvi, da vomitar contro di voi
le più schifose invettive. Per colmo poi di scelleraggine si tentò d'inveire
contro i reduci prigionieri che esposero la loro vita su i campi di Lombardia,
e che soffersero la dura cattività di Boemia: opportunamente avvertiti si erano
già posti in salvo dileguandosi per le campagne circostanti. Ne vuoi di più?
questo Governo locale anzi che attutare la effervescenza popolare, la blandì, e
la rese più forte col non prendere nessun provvedimento: solo in ultimo fece
affiggere una fiacchissima notificazione, nella quale, anzichè disapprovare sì
rea condotta, si lodava come dimostrazione di affetto al Principe.
I protagonisti di questo
vergognoso dramma (e li nomino, chè frutti loro eterna infamia), furono
Giovanni Bordoni tenente della Civica, Giuseppe Fantacci, e un tal Didaco
Becattini, tutti impiegati nella bottega Raveggi, tutta gente vile ed abbietta.
Fra i nobili, Giovanni Placidi, Bernardino Palmieri e Ottavio Spennazzi
figuravano come istigatori andando di bottega in bottega a suscitare
l'incendio. L'ultimo poi era dei più accaniti, e si valeva dell'opera di un
popolano a cui contamina la figlia consenziente il padre. - Oggi questi ribaldi
hanno presentato una nota delle persone che vogliono espulse, e che ascende al
N° di 150.»
Altra Lettera.
«Domenica passata doveva
aver luogo una merenda dei volontarii e prigionieri senesi, e nello stesso
tempo fare fra loro un giuramento di ritornare tutti al Campo quando il bisogno
o la guerra riprincipiasse. Il tempo sinistro impedì che fosse effettuata detta
merenda.
Pur non ostante, questo
accordo suscitò sinistre interpretazioni nel popolo senese, per cui furono
chiamati per parte del Governo due individui, i quali assister dovevano alla
merenda, e furono fatte loro delle domande per sapere il vero scopo di una tale
riunione. - Inoltre fu fatto credere che l'oggetto di detta riunione non era
già quello di fare una merenda, ma bensì di concertarsi onde far nascere un
tumulto nella città avente uno scopo repubblicano. - Avvertì che tale
congettura era avvalorata dall'idea che vi fossero nella succitata riunione
implicati varii Livornesi. - Dietro di ciò, dopo fatta una giojosa
manifestazione alla famiglia reale che a Siena tuttora dimora, - fu insultato
da quattro del popolo cioè - Didaco Becattini, Beppe-Bello, Passa-Bello, ed
altro, - un certo Cammillo Castelli israelita di Livorno, accusandolo di essere
Repubblicano; gli fu sputato in viso da uno di loro, ed esso Castelli entrò nel
Caffè del Greco, e chiese soddisfazione dell'insulto a quel Becattini, che
vilmente non accettò la sfida. Nel successivo lunedì furono arrestati e
maltrattati dal popolo varii onesti individui, i quali come il Castelli
suddetto venivano segnalati per Repubblicani. La Guardia Civica
coadiuvava con la sua forza il popolaccio negli arresti, ed era sempre in
movimento, ora per arrestare, ora per maltrattare, ora per circondare le
abitazioni di quelle persone che credeva repubblicane: fra queste si
segnalavano i due Livornesi Gio. Patron e Paolo Pieruccetti; per quello si
circondò la casa ove abita, e per questo lo spedale ove fa le pratiche, - per
cui ad ambedue i succitati Patron e Pieruccetti è convenuto fuggirsene da Siena
come meglio poterono. Altri fatti potrebbersi notare, ma servirà a conchiudere
il tristo avvenimento del giovine calzolajo Vignoli e d'un certo Crocchi che
sono stati mal conci dai colpi e dalle sassate nell'atto che erano condotti in
arresto; e del dentista Venturini che dovè fuggirsene a gambe dalla città
perchè era indicato come Livornese. - In brevi termini, questi fatti non sono
di assoluta volontà del Popolo, ma bensì suscitati dalle molte Camarille
Aristocratiche ed Austro-Gesuite, e dall'appoggio a queste della non del tutto
defonta Polizia. Quando però esse non desistano dalle loro mene infernali,
siamo pronti a dare i nomi di coloro che le compongono, perchè la pubblica
opinione ne faccia giustizia, e per infamia di pochi non condanni una generosa
città.» - (Corriere Livornese del 26 ottobre 1848.) politiche
radicata nelle menti dei Cittadini, rendeva la guerra civile inevitabile221; onde nel 24 novembre 1848 per opera di
cittadini dabbene, fra i quali il colonnello Saracini e il professore Corbani
primeggiavano, fu fatta pace fra i capi di parte con universale allegrezza.
Quantunque non tutte le cose in cotesta occasione avvenute meritassero pari
lode, pure per confermare la pace che sperava durevole, e per premiare la
dichiarazione concorde che in Toscana volevasi la libertà
costituzionale, la conservazione di Leopoldo, e i plausi fatti alla
libertà, al Principe e alla sua reale Famiglia, io reputai prudente non
istarmi tanto sul sottile, e concedere il perdono ai condannati pei tumulti del
grano nell'anno precedente, secondo me ne fece ressa la Deputazione mossa da
Siena222.
Nel giorno 30 gennaio 1849,
il Granduca giunge a Siena nelle ore vespertine. Fattasi notte, la Banda, preceduta da bandiera
bianca e rossa e seguíta da molto Popolo, si recò suonando sotto il palazzo
regio; quivi s'inalzano gridi di: Abbasso la Costituente! Morte
agli Scolari! Viva il Regno di Napoli! Chi leva diverso grido, come: viva
la Costituente!
viva il Ministero! è battuto, e inseguito. Il Principe, per ben due volte
costretto di affacciarsi al balcone, ringrazia i Sanesi dell'accoglienza fatta
a lui e alla famiglia.
Il giorno seguente, 31
gennaio, su pei cantoni si lessero appiccati cedoloni, che dicevano:
«Avviso salutare ai
Sanesi. La Costituente
italiana è una invenzione del Montanelli toscano, la quale spinge il Popolo
ignorante al macello della guerra ed alla miseria. O Popolo, non cedere alla
violenza dei pochi tristi, o pazzi, che te la lodano. Roma non la vuole; il
Piemonte non l'approva; tu solo vuoi rimanere ingannato? Lo Stato è in miseria,
e questa crescerà per la guerra, perchè il ricco dovrà alimentarla con quel
danaro, che serviva a darti lavoro, e tu dovrai sostenerla con gli stenti e i
pericoli della vita223.»
A mezzogiorno gli
Scolari si radunarono, e deliberarono abbandonare Siena riducendosi a studio
nella Università di Pisa.
I Documenti dell'Accusa
narrano, come si tenesse per certo che il Granduca, per tôrre via ogni
pretesto di scissura, si fosse determinato a ricondurre la sua famiglia alla
Capitale, e come di cotesti avvenimenti gravissimi andassero incolpati - i
ricchi di Siena, superbi e ignoranti, che temono dovere sborsare qualche soldo
di più per la guerra della Indipendenza, e gridano morte ai liberali
chiamandoli Repubblicani al solito. Il male è cominciato dallo agosto passato.
Gli animi si accalorano,
e già nel 3 febbraio taluno narrando i casi del giorno antecedente, ammonisce:
«Il Partito liberale si è risvegliato, credimi, per Dio, che si è svegliato, e
lavora energicamente, e le prime lezioni sono state date.» E nel 2
febbraio questo Partito, fatto per provocazione furioso224, si aduna sul prato della Lizza, e manda pel
Prefetto onde spieghi al Popolo, Costituente che sia; e il Prefetto, come
vollero, fece: richiesto inoltre persuadere a S. A. di concionare alla
moltitudine, promette adoperarvisi, e lo invita a convenire nell'ora prefissa
in piazza. Intanto da una parte si grida: Viva Leopoldo solo; e basta; -
dall'altra: Viva Leopoldo e Viva la Costituente225; - e per allora
dividonsi; la sera si trovano puntuali al convegno. «Venne l'ora» (io cito i
Documenti dell'Accusa) «in cui si muta la guardia; ed ecco, che la canaglia
pagata, tutti armati, si mettono davanti a noi e incominciano a gridare: Viva
Leopoldo secondo solo! e noi: Viva la Costituente! e quelli: no; - e noi: sì! - Si
affaccia il Granduca, ringrazia e si ritira; si ripetè: - Viva Leopoldo! viva la Costituente! - e
quelli di nuovo: - Viva Leopoldo solo! e chi ha coraggio venga avanti. - Allora
cominciò la zuffa, ma durò poco, e vi furono soltanto tre feriti dalla parte
dei retrogradi.»
I giorni seguenti temevasi
peggio; bande di gente armata vagano per la città pronte alle offese. Quei
dessi, che provocando avevano suscitata la tempesta, ora ne rimangono
atterriti. Da un punto all'altro un conflitto sanguinoso aspettavasi, e i
provocati dichiaravano: «Noi siamo preparati, e non si avrà più misericordia
per nessuno d'ora in avanti226.»
Intanto per le terre
toscane correva un grido, cresciuto, come suole, dalla fama, che sacrilega
guerra si combatteva in Siena; sangue cittadino, e da cittadine mani versato,
correre le strade: «Che più manca a voi, Guelfi e Ghibellini? Alla riscossa,
Bianchi e Neri....» si esclamava dintorno. - E fiere minaccie si indirizzavano
al Ministero, ora perchè non avesse provveduto, ora perchè non avesse seguíto
il Granduca a Siena, ora perchè non ne procurasse il ritorno227; tale altra perchè, nonostante gli avvisi,
favorisse il Governatore amico e sostegno dei nobili, nobilissimo anch'esso;
finalmente tennero dietro le proteste degli Scolari, che di consenso dei
Professori, si erano rifugiati alle loro case; e i rimproveri di facile,
sofferente le perfide trame, sollecitandolo a procedere severamente contro gli
svergognati promotori della dimostrazione del 30 gennaio228.
Questi miserabili casi,
pei quali la mente travagliata considera come dopo cinque secoli duri fra noi
la maladizione, che costrinse la grande anima dell'Alighieri a lamentare:
«Ed ora
in te non stanno senza guerra
Li vivi
tuoi, e l'un l'altro si rode
Di quei
che un muro, ed una fossa serra;»
non hanno virtù alcuna per commuovere le ardue
viscere dell'Accusa. A noi il pianto nasconde la dolentissima storia.... ed
anche all'Accusa questi fatti nasconde.... il pianto no.... ch'ella non piange
mai, - ma il fiero talento di nuocere a torto, in onta al vero, e con angoscia
della innocenza; - che cosa dunque rappresenta fra noi questa Accusa?
I Rapporti governativi
depositati negli Archivii del Ministero, fin qui non concessi, mi davano
abilità di fare stampare quanto segue nel Monitore del 5 febbraio 1849:
«S. A. il Granduca si condusse, secondo il solito, a Siena per visitare la Reale Famiglia che
sverna costà. Un Partito di pochi, e, piuttostochè tristi, stupidi retrogradi,
si valse della presenza dell'Ottimo Principe per fare una dimostrazione
avversa alla Costituente, coonestando lo stolto intento con acclamazioni al
suo Nome, le quali non potevano essere se non che universali. - Di qui
avvenne la reazione; e i retrogradi ebbero la peggio, rilevando alcuni di loro
parecchie ferite. La
Giustizia informa: molti arresti sono stati operati; alcuni
arrestati confessarono, a un tratto, essere stati pagati: a vero dire,
sottilmente pagati, perchè i retrogradi hanno copia di generosità come
d'intelletto. - Intanto il Principe, per queste angustie dell'animo e per
disposizione di corpo, è caduto infermo. Sebbene obbligato a tenersi giacente,
non ha febbre, ma sonnolenza e gravezza, dolore di capo, e gli altri segni
tutti di forte reuma. Il Consiglio dei Ministri, ieri sera, aveva deliberato
mandargli qualche Ministro per circondarlo della responsabilità ministeriale, e
il Presidente Montanelli si chiamò pronto a partire. Nella notte sono
arrivate notizie da Siena, le quali istruiscono che il Principe desidera e
chiama intorno a sè parte del Ministero, o per lo meno un Ministro. Così il
pensiero ministeriale si è trovato d'accordo co' desiderii del Principe. Il
Presidente Montanelli è partito in compagnia del Segretario Marmocchi di patria
sanese. Queste notizie, della verità delle quali non è dato dubitare, abbiamo
voluto rendere palesi, affinchè ogni trepidazione cessi, e la città si
rassicuri. La stretta armonia tra il Principe e il suo Ministero, anzichè
soffrire alterazione, ogni dì più si conferma.»
Ora, comecchè coteste
cose non mi tocchino, tuttavolta in omaggio del vero, esaminiamo se il Granduca
statuisse la partenza da Siena prima o dopo l'arrivo del signor Montanelli. Già
fu avvertito che il Presidente lasciava Firenze il 5 febbraio, ed arrivava il 6 a Siena nella mattinata. Ora,
dai Documenti pubblicati dal Ministero degli Affari Esteri Inglese, intorno ai
casi d'Italia, per essere presentati alle Camere del Parlamento, s'impara come
Lord Hamilton avverta il Visconte Palmerston, nel 7 febbraio, che il
Granduca desiderava uno dei vapori inglesi stanziati in Livorno per imbarcarsi
il giorno 8 a
Porto Santo Stefano229. - Dunque, se si
calcola il tempo che un messaggio impiegava allora, per difetto di strada
ferrata, da Siena a Firenze, il tempo per mandare a Livorno e ottenere risposta
dai Comandante Inglese, il tempo per riscontrare S. A., il tempo finalmente
perchè il piroscafo giungesse nel prefisso giorno a San Stefano per imbarcare
S. A., non sarà indiscreto supporre che, o nella notte del 5 febbraio, o almeno
nelle prossime ore matutine del giorno 6 pervenisse al Ministro Inglese la
richiesta di S. A. per imbarcarsi il giorno 8 a Porto Santo Stefano. - Però ci persuaderemo
che la risoluzione presa di partirsi da noi, precedeva, non susseguiva,
l'arrivo del signor Montanelli a Siena: e ci persuaderemo eziandio, che
infausti consiglieri di quella furono i successi accaduti dal 30 gennaio al 5
febbraio, non già la presenza del Montanelli e dei seguaci suoi.
I Documenti dell'Accusa
si sbracciano a volere trovare un concertato fra i disegni dei Repubblicani, le
agitazioni di Siena e la presenza dei signori Montanelli e Marmocchi in cotesta
città: in prova di ciò allegano certa lettera di Antonio Mordini a Lorenzo
Corsi ingegnere di Arezzo; ma è di evidenza intuitiva che il concetto di quella
non accorda per nulla con quanto avvenne, nè con quanto il Ministero operò.
Infatti la lettera si basa sul caso possibile della dimissione del Ministero
toscano che il Partito provocherà fra il 1° e il 5 febbraio. Ora questa
dimissione non solo non avvenne, ma in quel medesimo giorno 5 il Monitore
annunziava, per mia diligenza, che l'armonia fra il Principe e il suo
Ministero, invece di soffrire alterazione, ogni dì più si confermava. - E
chi, Dio mio, non lo avrebbe creduto al pari di me? Da Siena, lettere confidenziali
di persona intima all'A. S. me ne assicuravano sollecito il ritorno; delle
notizie, pervenutemi per via particolare e colà trasmesse, mi ringraziavano; di
usare solerte opera onde la città rimanesse tranquilla mi raccomandavano.
Lusinghiere, amorevoli erano coteste lettere, ed io mi vi affidavo intero. Nè
andava di tanta benignità immeritevole la mia fede, perchè ogni mio riposto
consiglio manifestava al Principe, e perfino la mia corrispondenza privata.
-
E non avvenne la Dittatura immaginata dal
Mordini, nè il nostro invio a Roma; e gli sforzi miei erano diretti a
conseguire il ritorno del Granduca, la sua partenza non già, e fatti e
scritti il dimostrano; nè la unificazione con gli Stati Romani, Toscani e
Veneti, nè alcuna delle cose quivi indicate successero. Io non so pertanto che
consiglio sia questo di andare a trovare un nesso tra il fatto mio e le
infinite fantasie uscite dagli accesi cervelli di quei tempi; molto più quando
fra loro appariscono siffattamente disformi.
Il Decreto del 7 gennaio
1851, nel § 16, dice espresso, che Montanelli andò a Siena seguíto da
Marmocchi, e più tardi da Niccolini: l'Accusa del 29 gennaio 1851 ostenta
ignorare se eglino con Montanelli andassero, o innanzi o dopo esso. Nè
questa esitanza si creda priva della sua buona ragione, imperciocchè tutti i
Documenti vorrebbero trovare che il subuglio in Siena avvenisse dopo,
non prima la giunta loro a Siena. Ma no; anche il Lunario è inesorabile:
il gennaio nell'ordine dei mesi viene innanzi al febbraio, e nel processo dei
numeri il 5 tiene dietro al 4. Molte cose possono fare e molte ne hanno fatte i
Giudici, ma porre febbraio prima di gennaio, e il 4 dopo il 5, non possono:
però, se non lo possono fare, lo possono dire; e lo dicono, e certamente non si
risparmiano da scriverlo. Il Decreto del 7, § 17, imperturbato afferma che i
movimenti anarchici accaddero dopo il 5 febbraio, pei quali cessò
la sicurezza della reale famiglia; l'Accusa, § 54, anch'essa sostiene, che
Siena, bastantemente tranquilla.... fino ai primi di febbraio, cambiò tosto
aspetto e trascese alla rivolta. Il Lunario dice che i moti anarchici
avvennero dal 30 gennaio 1849 al 5 febbraio 1849. Il Lunario dice che la
deliberazione presa di abbandonare Siena, e imbarcarsi l'8 a Santo Stefano, ebbe a
precedere, per necessità, l'arrivo del Montanelli; ed il Lunario intende avere
ragione, ed il Lunario l'ha, perchè per mostrare che il torto è del Lunario
questo non si tribola, e non può tribolarsi col carcere. Felice Lunario!
Leggendo attentamente l'Atto d'Accusa, § 45, non trovo che dopo lo arrivo del
Montanelli altro abbia saputo raccogliere che conferenze con pretesi demagoghi,
dimostrazioni apprestate, voce di danaro sparso, opinioni
di mutate condizioni della città; ma gli assembramenti, le grida in senso
opposto, le percosse, le ferite, il Granduca costretto a presentarsi alle
moltitudini, le minaccie: «uccisi prima i Repubblicani, daremo addosso ai
Signori;230» gli Scolari deliberati
ad abbandonare Siena, e il fatto dello abbandono; le bande armate per la città;
il proponimento di non usare d'ora innanzi misericordia; il Lunario inesorabile
dice che successero dal 31 gennaio al 5 febbraio, e non dopo il 5
febbraio 1849; anzi dall'agosto del 1848, quando vi fu chi ebbe cuore
d'irridere i reduci dalla infelice guerra lombarda!
I Documenti dell'Accusa
talvolta capiscono troppo, e talora troppo poco: se volessero leggere meco i
Rapporti di polizia, troverebbero questi fatti semplicissimi che loro racconto.
Due Partiti da molto tempo travagliavano Siena: uno smanioso del Principato
assoluto, nemico naturalmente di guerra, avverso alle dubbie fortune, il
quale alla patria, alla gloria, alla voce stessa del Principe, che pur ci
chiamava ad impresa ch'era e che fu detta santa, la tenace conservazione, e lo
ignavo godimento del paterno censo anteponeva; l'altro, promotore del
Principato Costituzionale, della Costituente, e di quanto altro in quei tempi
antichi andava per le bocche (chè per i cuori mal saprei dire davvero)
dello universale; conciossiachè vuolsi notare da cui fa studio della verità,
come dalle stesse carte dell'Accusa non ricavo che in Siena si acclamasse la Repubblica nè prima, nè
quando giunse il signor Montanelli. Il primo provocò il secondo, questi raccolse
le forze, e andò a combatterlo; quindi scontri deplorabili e timore di peggio.
- L'Accusa sembra che lealissimi, degni di onore, amici veri del Principato
reputi quelli che acclamavano: - al Principe solo, e basta; - che urlavano: -
Morte agli scolari! - che spiegavan bandiera bianca e rossa; che imprecavano
alla guerra della Indipendenza, che insultavano la gente, che in piazza si
presentavano armati, e a cui non gridava come loro davano di buone coltellate
pel mezzo della faccia: - demagoghi (dacchè oggi di questa parola è gran
consumo nelle scritture, specialmente nelle curiali), e meritevoli di perpetua
infamia gli altri che spiegavano bandiera tricolore, e alla Costituente
applaudivano. Ma la guerra della Indipendenza avevano bandita i Ministeri tutti,
il Parlamento, e il Principe stesso; ma la bandiera tricolore era stata
dichiarata bandiera nazionale; e tutti, badate bene, tutti, o di seta al
cappello, o di smalto fra i ciondoli dell'orologio, ne portavano il segnale; ma
tricolore fu dato il nastro ai Deputati donde pendeva la medaglia, tricolore la
sciarpa che ricingeva il collo ai Senatori, tricolore il nastro della medaglia
che, mostrando la effigie del Principe, consolava i suoi sudditi dell'angoscia
per la guerra dove li tradì la fortuna, non l'animò; tricolori le bandiere
giurate, tricolori le bandiere agitate dalla sovrana destra dai balconi della
regale dimora; ma i padri mandavano i figliuoli a studio in Siena, perchè vi
venissero istruiti e non ammazzati; ma la Costituente proposta
alle Camere con Decreto del Principe e votata dal Parlamento, finchè non era
reietta col veto, doveva rispettarsi.
Ai fatti narrati io vedo
opporre la testimonianza di alquante persone, intorno al deposto delle quali una
cosa sola dirò: che nè anche l'Onnipotente può fare che il fatto non sia. A che
questi testimoni di cose che l'Accusa stessa, co' suoi Documenti, smentisce?
Perchè ricorrere a così torbida sorgente? Non tali auxilio.... doveva
esclamare l'Accusa, come Ecuba quando vide Priamo barcollante sotto il peso
delle armi; ma l'Accusa accolse Priamo e mi ha preso anche Tancredi. Purchè
mordano, l'Accusa accetterebbe gli orsi, non che gli eroi dei poemi epici! O
non vi sono dentro gli Archivii i Dispacci del Prefetto, i Rapporti dei
Delegati, le informazioni del Provveditore della Università di Siena, le
Procedure incominciate o concluse? E mentre l'Accusa tiene queste lucerne sotto
il moggio, o come fa ella a mettere sul candelabro un Misuri copista, un
Baldassini tappezziere, un Fedeli sarto, un Corsi falegname, e un Tancredi
(senza avvertirci se sia diverso dallo amante di Clorinda), i quali vi
dichiarano (e l'Accusa par che lo creda) che Siena era tranquilla, ma che
venuto il Montanelli venne il diavolo?... L'Accusa non dice se qui il
testimone si sia fatto il segno della santa croce. - È notabile una lettera
confidenziale di Niccolini al Circolo di Firenze, dove gli si dà ragguaglio di
quanto egli operò a Siena il 6 febbraio 1849: in quella egli non ispaccia il nome
del Governo, nè se ne dice incombensato, nè propone, o fa cose che gli si
possano riprendere231.
Io per me, quando
considero i Documenti dell'Accusa e li confronto con quello che so, ed è vero,
e si trova nelle carte officiali del Governo, non posso impedire alla mia mente
di meditare sopra la tremenda sentenza del signor Thiers: «Nei tempi in cui si
agita la discordia civile, si vedono quei vergognosi processi dove il più forte
ascolta per non credere, il debole parla per non persuadere232.»
§ 2. Invito al
Circolo Fiorentino di tenere le sedute in Palazzo Vecchio.
I Documenti dell'Accusa
ritengono che io invitassi il Circolo fiorentino a tenere una orgia
rivoluzionaria nella Sala di Palazzo Vecchio, che per mio ordine fu
illuminata a festa, dopo avere rimproverato il signor Lanari, perchè non
concedesse il suo Teatro per celebrare cotesta solennità di Popolo.
Ora io dichiaro siffatto
invito apertamente falso. Nel giorno 8 febbraio, tra le altre
pretensioni del Popolo, dei Repubblicani, dei Demagoghi (chiamateli come meglio
vi piace, ma di quella gente insomma a cui nessuno di quanti mi accusano
avrebbe saputo dire di no in nulla, - assolutamente in nulla), vi fu
quella di volere tenere Circolo nella Sala di Palazzo Vecchio. Tanto poco io lo
invitai, che il Circolo volle la
Sala quasi in sussidio per non essere stato accolto nel
Teatro Nuovo. Tanto poco io lo invitai, che scrissi parole acerbe al signor
Lanari per rimproverargli il suo rifiuto, nello scopo appunto, che cotesta
vicinanza molestissima non venisse ad annidarsi in Palazzo Vecchio; e se
adoperai la espressione di solennità popolare, ciò feci perchè, come
costumava a quei tempi, ebbi a scrivere il biglietto sotto gli occhi dei
petizionarii. Comecchè io primo confessi che sarebbe stato un impossibile,
tuttavolta, immaginiamo che l'onorevole Magistrato, che sostiene adesso le
parti di Regio Procuratore, nell'8 febbraio si fosse trovato nei miei piedi, ed
avesse creduto per lo meno reo consiglio scrivere il biglietto al signor Lanari
onde allontanare il Circolo da Palazzo Vecchio, e di questo biglietto avesse
dovuto fare portatori i petizionarii; io mi attenterei domandargli, così per
mia istruzione, se avrebbe scritto sotto ai loro occhi: vi raccomando
accomodare questa geldra di ribaldi degna di corda, del vostro Teatro, per
certa orgia rivoluzionaria con la quale intende deturparvelo materialmente, e
moralmente....? Ecco, io sono uno di quelli, che credo che l'onorevole
Magistrato non avrebbe scritto precisamente così; e mi ha da essere cortese,
che tra scrivere queste parole il giorno 8 febbraio 1849, sotto gli occhi dei
rappresentanti il Circolo fiorentino, e scriverle nel 29 gennaio 1851, nel § 73
della sua Requisitoria, un qualche divario vi potrebbe pur correre233! Andate a vuoto le preghiere, le offerte di
pagamento, ed anche le minaccie, se così si vuole, per allontanare il Circolo,
onnipotente in quei giorni, i suoi rappresentanti tornarono più imperiosi che
mai a volere il salone di Palazzo Vecchio; e questa verità di per sè si
comprende, imperciocchè, se avessi inteso invitare il Circolo nel salone, non
avrei adoperato tutte le vie perchè non ci entrasse. Ricordo come, per
ischermirmi, osservassi non convenire che una sala deturpata con le pitture
rappresentanti il Trionfo di Cosimo I sopra città innocentissima, udisse la
eloquenza di uomini liberi: ma non mi valse, perchè risposero che il Savonarola
l'aveva fatta fabbricare a posta per favellarvi di libertà, e che il Popolo
voleva usare liberamente degli edifizii fabbricati da lui, nè più nè meno come
disse il Circolo sanese quando volle occupare il salone delle Alabarde;
per lo che lascio considerare a chi legge, se tanto pretendeva nel 30 gennaio
del 1849 a
Siena il Circolo sanese, che cosa dovesse pretendere l'8 febbraio il Circolo
fiorentino a Firenze234! - Con simile ripiego
mi riuscì, più tardi, salvare la campana del Bargello, venerabile monumento di
patria antichità, minacciata anch'essa della fusione: tanta era la
smania del fondere a quei tempi! Allora posi loro sott'occhio la spesa
della illuminazione, grave sempre, adesso gravissima pei bisogni della guerra:
non la potei spuntare: ridotto a piè del muro, non nego avere detto al signor
Giuseppe Nardi: bisogna contentarli; - ma tardi, verso sera, tornato
invano ogni schermo, ogni pratica venuta meno per mandare il Circolo altrove;
ed anzi parmi ricordare avergli detto, com'era vero, «lo vogliono;» ma
se io male non appresi la mia lingua, mi sembra che il termine bisognare
corrisponda ad essere di necessità; ed è scrivendo o parlando il più
usitato, quantunque, per vaghezza di variare, si muti talora con la frase - è
forza, tal altra con quella - fa di mestieri, e simili. Però, se fui
costretto codesta sera a cedere, mi adoperai, facendo tenerne proposito a
parecchi caporioni del Circolo, perchè andassero altrove a piantare i loro
tabernacoli, principalmente insistendo sopra la improvvida spesa. Voglio
aggiungere un altro fatto, ed è, che se avessi invitato il Circolo, non mi
sarei mostrato di tanto scortese a non accoglierlo di persona, o almeno, per
breve ora, visitarlo: ma no, io non lo accolsi, neanche per un istante mi vi
affacciai. Questi fatti bene poteva attestare il signor Nardi archivista del
Ministero dello Interno, e poteva attestare altresì se io, repugnante, come
quello che patisce forza, o volenteroso, come chi invita, lasciassi entrare il
Circolo nel Palazzo Vecchio. Se il signor Giuseppe Nardi (la quale cosa non
credo, però che egli mi parve onestissimo uomo, e mi dorrebbe più per lui che
per me se dovessi persuadermi adesso di essermi ingannato) per peritanza che
spesso, e a torto, sente uno impiegato a deporre in favore del caduto in
disgrazia, non avesse somministrato testimonianza del vero, non mancano
testimoni che sappiano e vogliano attestarne, conciossiachè lo espediente a cui
mi appresi, per sottrarmi, si sparse per la città, dando luogo, siccome
avviene, a novelle. Intanto l'Accusa si acquieti di questo, che, per quanto
cercare ella faccia, ella non troverà che prima e dopo l'8 febbraio il Circolo
fiorentino procedesse d'accordo con me; io con lui235.
§ 3. Impieghi dati in
ricompensa a Mordini, a Ciofi, a Dragomanni; danari a Niccolini.
Antonio Mordini erami,
come ho detto altrove, e qui confermo, non pure non legato in amicizia, ma236 perfino ignoto di persona. Giuseppe Montanelli
lo mise in sua vece al Ministero degli Esteri, ed io non poteva contrastare. Da
prima furono le mie relazioni poche con esso, se non che nell'udirlo ragionare
parendomi, come veramente egli è, uomo d'ingegno non ordinario, incominciai di
mano in mano ad aprirmi seco, e di leggieri, ponendogli sott'occhio le ricerche
coscienziose, ed i fatti dai quali resultava evidente la repugnanza del Popolo
toscano dalla Repubblica, lo ebbi persuaso della necessità della restaurazione
del Governo Costituzionale. Di questo egli somministrò non dubbie prove, e lo
vedremo più tardi nell'Assemblea della Costituente combattere i suoi antichi
amici politici. Dalla parte repubblicana sono stato acerbamente ripreso di
avere assiderato i cuori delle persone che mi stavano attorno; e fu posto in
dileggio quello che chiamano positivismo237.
Non è così: io non ho assiderato come non ho inebriato nessuno: ho pregato di
bene esaminare i documenti raccolti, e decidere con coscienza, posto da parte
qualunque privato desiderio. Quando si tratta delle cose di questo mondo, mi
sembra che dare loro una occhiata non sia poi irragionevole affatto, nè scandaloso
tanto quanto il Regio Procuratore della Repubblica sig. Rusconi
presume; però che spesso mi tornasse alla memoria quel filosofo, che per
fissare sempre le stelle cadde nel pozzo. Ora, in quanto al signor Mordini
concludo, che non lo conoscendo non lo avrei impiegato, come invero io non lo
impiegai; ma dopo averlo conosciuto io lo avrei impiegato, perchè di mente
giusta, capacissimo a tenere uno officio, e di vuote astrattezze troppo meno
vago, che altri non immagina.
Consentii che il signore
Demetrio Ciofi, anzi ebbi caro che ad ogni modo si allontanasse da Firenze. Le
carte del Processo attestano com'egli fosse persona di moltissimo seguito nel
Popolo minuto, capo del Circolo di San Niccolò, parlatore facondo e potente a
tirarsi dietro la moltitudine devota. Siccome per ordinario le provincie
prendono norma dalla Capitale, così rimuovere da Firenze le persone che forse
avrebbero mantenuta accesa l'agitazione, mi parve diritto consiglio; altri
propose, ed io approvai, quantunque a vero dire non vi fosse luogo a repulsa;
e certo non è senza riso questa accusa, imperciocchè conoscendo l'autorità
grandissima in quei giorni del Ciofi e dei compagni suoi, vuolsi maravigliare,
che di sì lieve ufficio si contentasse, e ad assentarsi da Firenze
acconsentisse, e non piuttosto rovesciato il Governo in luogo suo si surrogasse;
il quale avvenimento quanto potesse essere desiderato da quei medesimi che
adesso m'incolpano, lascio a loro considerare.
Dragomanni poi proposi
io stesso: egli non era temibile affatto; mal destro a discorrere; di poco
credito in guisa, che mai gli riuscì farsi eleggere Deputato: o di fortuna poco
bene in arnese. Quando mi capitò il destro di mandarlo lontano, io lo afferrai,
e così adoperando intesi dare sussistenza ad uomo di chiara stirpe, cultore
delle lettere, e mostratomisi parziale fino da quando egli, Presidente
dell'Accademia della Valle Tiberina, me immeritevole e non chiedente, anzi
repugnante, volle ascritto nell'albo dei socii della medesima238. L'Accusa da prima sospettò, che cotesto
impiego fosse mercede della opera prestata nell'8 febbraio; io feci avvertire
che soltanto nel 10 aprile egli era promosso: ricompensa un po' troppo
remota; - allora gavillando l'Accusa ha trovato che si volesse allontanare
perchè, più che di vantaggio, fatto impedimento; e nè anche questo è vero. Il
signor Lemmi era stato eletto Segretario allo Incaricato di affari a
Costantinopoli: ricusando egli, gli subentrava il sig. Dragomanni quasi
fortuitamente239. Quantunque, come il
proverbio dice, l'asino non valga la cavezza, chè materia di piccolo momento
ella è questa, pure anche qui mi piace ripigliarti senza rancore, o Accusa, e
condurti a toccare con mano che non ne imberci una. Fammiti qui appresso, e
vediamo un po' se mettendo tutto il nostro in comune (poichè di comunità oggi
corre la usanza), ci riuscisse fabbricare qualche cosa che avesse garbo di
ragionamento. A che miravo io? Su, dìllo, via. - L'Accusa, che teme esporre il
suo a compromesso, mi sbircia alla trista, e tiene i labbri stretti. Lo dirò io
per te; io non risico nulla: tanto in prigione ci sto. Miravo forse alla
restaurazione del Principato Costituzionale? L'Accusa, scattando il capo, si
tocca col mento la manca e la diritta spalla. No, eh! Ma potevi fare più adagio
a negare, che per poco non hai preso una storta nel collo. Mulinando contro il
Principato Costituzionale, un Repubblicano (e accordo, di lieve importanza)
doveva pure tornarmi più vantaggioso a Firenze che a Costantinopoli; perchè
anche tu, o Accusa, devi andare persuasa che indurre il Sultano a mandare
Turchi in soccorso della Repubblica toscana, neanche al Dragomanni sarebbe
potuto riuscire. Bisognerebbe credere che io mirassi al provvisorio eterno.
Come provvisorio eterno? Non ci è rimedio: a considerare questa ipotesi io mi
sento tratto pei capelli proprio da te, o Accusa mia; avendo tra i gratissimi
testimoni a carico del Romanelli accettato quello che depone avergli udito
dire: - Viva il Governo Provvisorio eterno, - e' pare che anche tu abbi
fede nella eternità provvisoria. Lasciamo, chè di questo avrai a rendere conto
a Dio, perchè gli è un peccato grosso. Come non devo credere io così, quando di
queste antitesi, o come le si abbiano a chiamare, io ti vedo innamorata?
Difatti, con mio non mediocre insegnamento venni notando l'uno o taluno,
il complice o impotente, e fino dalle prime carte la mia scienza del veleno
nascosto che si nascondeva nella montanelliana Costituente, con altre più taccherelle
che si tacciono per lo migliore, come di Guccio Imbratta diceva
Messer Giovanni Boccaccio. Ma dacchè provvisorio eterno, o eterno
provvisorio, anche a rifarsi di capo al mondo non si trova se non su i labbri
del tuo testimone, così mi sia lecito passare questo punto sotto silenzio.
Avanza pertanto una cosa sola; la Repubblica. Ora come, quando si agita di
Repubblica, cacciansi via i Repubblicani? La vigilia di vendemmia si licenziano
eglino gli operaj della vigna, o piuttosto, in qualunque ora del giorno si
presentino, si fermano e mettono alle faccende? E se mi si oppone che ancora io
confesso che piccolo frutto poteva cavarsi dal Dragomanni, rispondo che è vero,
ma che ogni pruno fa siepe, ed al bisogno da ogni legno schiappa si cava;
sicchè convien dire che l'Accusa, gittando la rete al motivo della spedizione
del Dragomanni presso il Gran Turco, non è giunta a pescarlo. - Certo,
Dragomanni visitava spesso la mia casa, ma non per questo godeva davvero la mia
confidenza: al contrario, nel cospetto di tutti, si manifestava di principii
opposti ai miei, ed io sovente lo riprendeva alla presenza di familiari ed
amici con parole acerbe della sua irrequietezza, e delle pratiche che teneva
con persone troppo diverse da lui, per educazione e per nascita. Ancora: dalle
sue parole profferite nel calore della disputa ricavava lume per conoscere i
disegni del Circolo e degli apparecchi repubblicani, per cui talvolta mi fu
data abilità di prevenirli. S. A. un giorno ebbe la bontà d'interrogarmi su
questa pratica; io le ne dissi la origine e il motivo, ed essa mi parve
approvarla240.
D'altronde, prudenza
così ammaestra operare. Gli uomini diventati o pericolosi o potenti negli Stati
bisogna opprimere, o amicarseli; il primo partito è dei tempi del Borgia, la
religione lo riprova, non lo consente la indole toscana; molto meno la mia;
importava dunque li gratificando allontanarli. In questa guisa pertanto operai
Ministro, e palesandone le ragioni alla Corona, ella mi parve andarne
persuasa. Finchè il Governo starà nelle mani di gente esclusiva, agirà e
sarà odiato come fazione. - È intendimento elementare dei Governi
Costituzionali, accogliere negl'impieghi persone di varii Partiti, onde l'uno
all'altro non prevalga, e l'Autorità della Corona regga entrambi
equilibrandoli. Maestro di cosiffatto equilibrio fu Luigi XVIII, e morì re.
Carlo X e Luigi Filippo l'obbliarono, e morirono esuli. La storia rammenta come
egregia arte di regno la promozione che fece Napoleone, ad ufficj supremi,
degli stessi Convenzionali. Però, e l'Accusa lo prova, pochi furono dal
Governo conferiti impieghi a cui parve procedere infesto al Principato, e con
qual mira, e da quale necessità costretto, già esposi; e che il disegno non
fallisse dimostrò il successo, dacchè tolto dal Circolo il Mordini, e dei più
capaci alcuni amicati al Governo, altri espulsi, andò di giorno in giorno
declinando, agitandosi alfine con rabbiosi, ma disperati conati. In breve
vedremo come i Demagoghi contro me si sbracciassero, perchè alla mensa
degl'impieghi non convitassi i puri Repubblicani; ed anche in questa parte mi
trovo fra incudine e martello.
L'Accusa afferma avere
goduto il Niccolini la mia confidenza, e avergli io pagato nel 13 febbraio
dieci monete. Si è veduto se Niccolini potesse essermi amico: egli mi fu
soverchiatore, esploratore, e nemico, ora coperto, ora palese. Quando potei lo
bandii, nè egli si richiamò della offesa, come altrove esporrò con larghezza
maggiore. In quanto alle dieci monete che ordinai pagassersi al Niccolini, e'
fu appunto per non serbare obblighi seco, il quale per insinuarsi nell'animo
del mio giovane nepote, o per altra causa che il muovesse, volle donargli una
carabina, e questi vago di armi accettò. Io come prima lo vidi, instai a che, o
si riprendesse la carabina, o ne accettasse il prezzo: dopo averlo rifiutato,
egli alla fine accettollo; ed io, che non avevo la moneta addosso, gliela feci
pagare in dieci francesconi dallo Adami, perchè convivendo meco egli mi andava
debitore della sua quota di spese di casa. - La carabina deve essere stata
rinvenuta nella stanza di Palazzo Vecchio abitata dal giovane. I conti col
signore Adami nè anche adesso sono fatti, nè si fecero mai, onde io non potei
accorgermi se mi avesse portato a debito, come doveva, le L. 66. 13. 4.
A confermare questa
spiegazione agevole e piana, concorrono il modo confidenziale del biglietto: - Adami.
Paga dieci scudi a Niccolini. Guerrazzi; - che dimostra come io
m'indirizzassi all'amico, non al Ministro, e la omessa indicazione dello uso
della moneta, il quale è costume specificare quando si tratta di pubbliche
spese; e finalmente io credo, che non sieno mancate testimonianze validissime
intorno alla verità del fatto: nonostante l'Accusa tiene in tutto e per tutto
le pugna strette, quasi paurosa che schiudendole un poco si volino via le
raccolte incolpazioni. Dieci scudi? E in questa somma l'Accusa presume vedere
la giusta mercede di una rivoluzione? - Per amore del cielo, non faccia credere
queste cose l'Accusa, imperciocchè se le rivoluzioni fossero a tanto buon
mercato, correremmo pericolo pei tempi che volgono che se ne aumentasse
prodigiosamente il numero dei consumatori!
§ 4. - Lettera al
Sig, Giovan-Batista Alberti Prefetto di Arezzo.
Questa lettera è
riportata nel § 25 del Decreto del 7 gennaio 1851; e dice così: «Il Granduca è
fuggito da Siena: ignorasi dove si sia ridotto. Prima di partire ha dichiarato
annullare la Legge
intorno alla Costituente. Il Ministero convoca le Camere e dà la sua
dimissione. Sarà instituito necessariamente un Governo Provvisorio. Si
circondi dei Patriotti più caldi dello amore del Paese. Prenda i provvedimenti
che in simili casi straordinarii persuade la necessità. Se avvengono reazioni,
si comprimano ad ogni costo, sotto la sua personale responsabilità. Crei una
Commissione di salute pubblica; energia, e vigore; viva la Patria. I
Principi se ne vanno, ma i Popoli restano ec. - Firenze, 8 febbraio 1849, - 5
di mattina.»
Il Decreto afferma che
per questa lettera si dichiara come per me si reputasse ormai la Monarchia cessata in
Toscana. A me pare che questa lettera non dimostri altro, tranne la mia ansietà
e la mia diligenza che in tanto sconvolgimento la Patria non s'infamasse con
azioni scellerate. In che e come nuoce cotesta lettera? Forse, perchè porgevo
avviso al Prefetto dell'operato della Corona? Ma la stessa Corona voleva si
rendesse palese, e presto. Forse perchè presagivo la elezione del Governo
Provvisorio? Ma questa ormai era diventata politica necessità; e il Giornale
dei Conservatori Costituzionali annunziava essere nella mente di
tutti. Forse per la notizia dello allontanamento della Corona? Ma se si era
allontanata! Forse perchè non indicavo il luogo dove si era ridotto il
Principe? Ma nè il Principe lo diceva, nè sembrava egli stesso saperlo. Forse
per la raccomandazione di circondarsi di Patriotti caldi dello amore del Paese?
O di chi doveva circondarsi? Di quelli che gli volevano male? E ci erano. Forse
per le pressanti istanze onde i moti reazionarii non avvenissero, o avvenuti si
comprimessero? - Qui giova fermarci alquanto, e chiarire per bene questa
materia.
I Documenti dell'Accusa,
noi lo vedemmo, ritengono il Ministero nostro come uno di quei parti mostruosi
a cui le balie devono lasciare sciolto il bellíco: egli ebbe prima il torto di
vivere; poi subito quello di non farsi ammazzare di buona grazia, persuaso,
come doveva essere, di nascere in peccato originale: però anche allora, agli
occhi dell'Accusa, fu colpa opporsi ai moti reazionarii; bisognava non
impedirli, anzi dar loro comodo di operare con sicurezza piena. Se l'Accusa
così pensa di me mentre fui Ministro, immaginate un po' voi che cosa pensi
quando mi vollero parte del Governo Provvisorio! Ed io apertamente dico
all'Accusa, che pessimo argomentare è cotesto suo. - Non si dissimulino le
cose, ch'è vano e non plausibile conato: la verità si ricerchi, e si dica. Il
Principe parte da Siena, aborrendo reazioni e sanguinosi conflitti; e
l'Accusa invece non vuole che le reazioni, i conflitti sanguinosi, nè la guerra
civile s'impediscano; e perchè? Perchè crede che tutte queste cose la causa del
Principato favorissero. Dio ci liberi dalle offese, - ma ed anche dalle difese
dell'Accusa!
Dunque il Principe, a
mente dell'Accusa, sta con la reazione? La Corona (e lo dovrebbero sapere i Magistrati) non
istà con i reazionarii, nè con i Repubblicani; sta con la Costituzione. Ma
i Giudici sanno eglino reazione che sia? Sanno eglino come proceda? La reazione
è ripristinamento dell'odioso dispotismo, e del suo tristo corteggio, co' modi
che la umanità aborrisce, e la morale condanna. Ora in Toscana, per la Dio grazia, non erano soltanto
due Partiti estremi, ma prevaleva, mentre io vivea nel mondo, il terzo Partito
degli amici delle Libertà Costituzionali più o meno largamente intese.
Ricordano i Giudici come la reazione operasse nell'Aretino nei tempi passati?
Forse lo hanno dimenticato; mi concedano che lo richiami loro alla memoria.
«Nella vigilia dei santi
Apostoli Pietro e Paolo (28 giugno 1799), allo incessante rimbombo dei colpi da
fuoco e dei Viva Maria, il Popolo sanese accorre in folla; e si
unisce co' suoi vendicatori aretini; nei suoi primi slanci si scaglia
contro coloro che stimava non semplicemente avversi alla religione cattolica,
ma occulti cospiratori per abbatterla, quali sono i giudei; pone quindi
a sacco qualche bottega, e qualche casa di essa; alcuni ne uccide e
gli aborriti cadaveri getta sul fuoco!....»
Sanno i miei Giudici,
che fece la reazione nella inclita città di Siena nel medesimo tempo? A Siena
furono gettati cinque ebrei vivi ad ardere sul rogo acceso su la piazza
maggiore davanti alla immagine della Madonna, che sta a piè della Torre, e allo
Arcivescovo Zondadari!! Questi fatti i Giudici possono ritenere per veri pur
troppo, imperciocchè vengano narrati dal Canonico Giovanni Battista Chrisolino
dei Conti di Valdoppio, parroco della Cattedrale aretina, a gloria
(com'egli dice) di Maria Santissima del Conforto, stampati in Città di
Castello nel 1799.
Cotesti immani uomini,
siffatte nefandità commettendo, invocavano il nome della Consolatrice degli
afflitti; sarebbesi dovuto lasciarli fare, nella fede che ciò operassero a
maggiore gloria della Madre di Dio? - Anzi imparo, fremendo, come nell'Agro
aretino fare Viva Maria! significhi portare le mani ladre nella roba
altrui. Ora i ladri e i violenti sol perchè gridino Viva Maria, o Viva
Leopoldo II, voglionsi venerare per santi, o lodare per leali?... Vergogna
per tutti queste cose, non che dire, pensare; per Magistrati poi enormezza!
Sanno i miei Giudici,
che cosa operasse la reazione nel 1849 a Empoli, a Lucca, nell'Aretino e altrove?
Certo prendevano a pretesto il nome del Principe, ma le case incendiavano, le
strade rompevano, le imposte ricusavano, dalla patria difesa aborrivano,
straniere dominazioni macchinavano, ruberie e ferimenti commettevano, terre e
castelli di assaltare tentavano. - Io non ho gli Archivii, ma se giustizia vive
nel mondo mi verranno finalmente concessi, e allora si conosceranno le mene
delle Provincie, e chi le suscitasse, a qual fine tendessero, non meno che gli
sforzi dei Giusdicenti a reprimerle. In tanta deficienza giovi non ostante
favellare di alcuno.
«Nella sera del 12 febbraio,
un piccolo pugno di scioperati, e avversi al Paese, non che al proprio
interesse (non però dimoranti a S. Miniato, o appena 8 o 10), concepito il
vandalico disegno di troncare e guastare la linea ferrata in quel tratto di
pianura, che giace fra l'Arno e il posto della Scala, si recarono alla
Parrocchia di S. Piero alle Fonti; ove di prepotenza vollero suonare la campana
a martello, nella speranza che i contadini, ed altri popolani accorsi al suono,
gli avrebbero secondati. Ma gl'intervenuti, comunque numerosi.... altamente
biasimarono, e, protestando non volere dare mano a opera tanto nefanda, si
dileguarono. I pochi facinorosi, vedutisi delusi, si dettero con forsennate
grida, e con fiaccole, a fare proseliti lungo la strada nel punto che passa
la parrocchia della Isolata, quando per l'unione di altri male intenzionati si
lusingarono potere dare principio; gl'Isolani in numero di circa 60 si fanno
loro incontro a passo di carica, e fatto alto al cancello della strada ferrata,
esplodono in aria i fucili. Ciò bastò, perchè i perversi e i faziosi estinte le
fiaccole si disperdessero, dandosi a fuggire per le vie traverse, temendo
essere inseguiti. A S. Miniato appena ebbesi contezza dell'accaduto, la
indignazione dei cittadini contra questi perturbatori dell'ordine, fu
universale; e già molti volentierosi avevano preso le armi per discendere al
piano ec.» - (Lettera del signor Carlo Taddei al prof. Giovacchino Taddei. -
Vedi Monitore del 17 febbraio 1849.)
Tutti i Documenti
dell'Accusa riportano lo incarceramento dei Parrochi, e di altra gente,
ordinata dai signori Montanelli e Mazzoni in premio, essi dicono, della
gioia che le popolazioni circostanti a Firenze, nella purezza dell'animo,
mostrarono con innocenti e festive dimostrazioni allo annunzio del ritorno
del Granduca. Di questo incarceramento io non so; ma so, che un Lally Tolendal
viene celebrato per le storie, come quello che nelle prime commozioni di
Francia ebbe il coraggio di proporre un proclama col quale esortavasi il Popolo
a non insanguinare le mani, e lasciare libero il corso alla giustizia. Il
Bailly intendendo a salvare la vita al Bertier, ordinava che lo trasportassero
alla Badia, e quivi lo custodissero prigione; se non che fece tronco quel
disegno la plebe, la quale avventandosi in Piazza della Greve contro cotesto
sciagurato lo ridusse a morte. Assai più notabile è il caso del Foullon.
Lafayette, di cui certamente non vorrà negare alcuno la nobiltà del carattere,
e lo amore degli uomini, per sottrarre dalle mani del Popolo furibondo il Foullon,
trovò il consiglio di mostrarglisi acerbamente crudele: «Ed io, diceva
arringando la moltitudine, lodo il furor vostro; sempre ebbi in odio costui; lo
reputo perdutissimo uomo, e non credo che possa immaginarsi pena che uguagli al
suo fallire.... Però badate; egli ha da avere complici, e non pochi: importa
conoscerli; intanto io farò trasportarlo alla Badia: quindi lo processeremo, e
condanneremo alla morte infame che si è meritata pur troppo.» Il Popolo
persuaso applaudiva, quando il Foullon, indovinando il segreto concetto del
Lafayette, ebbe la inavvertenza di fare plauso anch'egli. Allora il Popolo si
ravvisava, una voce sinistra sorse a gridare: «sono d'accordo!» e il pietoso
trovato del Lafayette riuscì invano. - Inoltre, cosa nè singolare, nè inusitata
presso i Governi, è schiudere la carcere come asilo supremo ai perseguitati...
e me pure pretesero dal fiorentino Popolo.... Ma di questo più tardi. Che tale
poi fosse lo scopo del Montanelli, me ne persuadono e la indole mite di lui, e
il nessuno aumento, per quanto io sappia, del martirologio in Toscana.... e i
successi che stiamo per esporre.
Intanto, è mestieri
affermare apertamente, che le tinte, di cui l'Accusa colora il tumulto del 21
febbraio, sono false e smontano al sole. Se cotesto moto avesse presentato il
carattere che immaginano, o come la città di Firenze sarebbesi tutta levata a
reprimerlo? Nè il tumulto si rimase a così tenere dimostrazioni; però che io
leggo, egli acclamasse ai nemici della nostra Patria, e seppi con certezza come
gli ammotinati s'indirizzassero contro la città con urli di minaccia, e spari
di schioppo. La Guardia
Civica non pare che andasse persuasa troppo della purezza
dell'animo di cotesti innocentissimi, dacchè accorse spontanea a ributtarli
con le armi, e accorse ancora spontaneo e furibondo il Popolo fiorentino.
L'azione del Governo non fu di eccitare, ma di risparmiare la effusione del
sangue, trattenendo la moltitudine da mettere le mani violente nella vita
altrui, ed ostando che gli arrestati a furia di Popolo si manomettessero241. Il Montanelli, comunque infermo, sorse dal
letto e vi si adoperò, oltre quello che parevano consentirgli le forze. Funesta
notte poteva essere quella, e madre di assai più terribile giorno: quando il
sig. Montanelli non avesse altro merito, parmi che Firenze dovrebbe benedire il
suo nome. Adesso corre il tempo della ingratitudine; ma i tempi non vanno
sempre ad un modo; e chi ha bene operato può aspettare nella tranquillità
dell'animo, che gli sia resa giustizia un giorno, e da tutti. - Ora,
considerati i Rapporti di Polizia, il consenso spontaneo ed universale della
Civica e del Popolo fiorentino, nello avventarsi contro i campagnoli
tumultuanti, parmi che si possa concludere con una di queste due cose; o che il
moto del 21 febbraio non presentava i caratteri attribuitigli dall'Accusa, o
che nè i tempi erano quelli, nè i modi per operare la restaurazione del
Principato Costituzionale.
E anche ad Empoli, negli
avvenimenti del 12 febbraio, i facinorosi gridavano: Viva Leopoldo II! e
intanto la Stazione
bruciavano, e la strada ferrata rompevano. Ho sentito dire che si scusassero
col timore che i Livornesi sopraggiungessero, ed hanno accettato la scusa; ma,
in grazia, la Stazione
con la strada come ci entrava ella? E nel 23 febbraio, quando gli Empolesi,
minacciando rinnuovare gli attentati medesimi, vi fecero accorrere pronta e
spontanea la brigata delle Guardie di Finanza di Firenze, avevano sempre paura
dei Livornesi? No. La verità è che uomini avversi più che al Governo alle persone
di quelli che lo tenevano, eccitarono le passioni delle moltitudini, e queste,
fiduciose della impunità per la dissoluzione del Paese, non pure trascorsero al
guasto della strada ferrata e allo incendio della Stazione, ma posero in
compromesso la proprietà degli agitatori medesimi. Il Popolo di Empoli, dedito
al commercio dei trasporti più di ogni altro, ebbe a patire danni per la
costruzione della strada ferrata, e l'odiò allora, e forse l'odia anche adesso;
solito effetto della nuova industria che disagia o rovina l'antica. - Tutte
queste cose sapeva, e le dissi apertamente in faccia agli Empolesi; però
nessuno si dolse di asprezze per parte mia, nè fu ricercato per negozii
politici, e tutto a tutti rimisi, salvo delitti comuni; ed ecco come favellai
ai Deputati di Empoli venuti a Firenze per condannare le grida non
consentanee ai tempi levate dalla gente empolese, e per respingere da sè
il fatto della strada ferrata:
«I fatti di Empoli
commossero a dolore il Governo Provvisorio, a sdegno la Toscana tutta. L'essere
usciti in parole non consentanee ai tempi, e in atti di ferocia contro le cose
e le persone nella sera del decorso venerdì, affligge non solo quanti amano le
istituzioni e i governi liberali, ma quanti hanno senso di umanità.
Lo incendio della Stazione è siffatto eccesso, che parrebbe incredibile, se non
fosse avvenuto alla distanza di poche miglia da noi. Ben fa il Paese a
respingerlo da sè. Così si mette d'accordo con la pubblica opinione che lo ha
fulminato con la sua disapprovazione.» E continuavo confidando che gli uomini
più autorevoli di cotesta illustre terra «raccomanderanno al Popolo di quella e
delle adiacenti campagne l'amore all'ordine, che ogni Partito dee
rispettare; la tolleranza delle opinioni, che i soli illiberali possono
respingere; la concordia, che i soli fautori degli Austriaci possono
odiare; il rispetto alla proprietà, e soprattutto alla strada ferrata,
che solo l'uomo nomade può guardare di mal occhio; la quiete e la sicurezza,
che sole possono mantenere la floridezza di quel Paese ec.» - (Vedi Monitore,
16 febbraio 1849.)
A Castelfranco-di-sopra
le turbolenze presentarono tale carattere da indurre il Gonfaloniere e la Guardia Civica a
interporre le loro premure affinchè cessassero. Colà il Governo non mandò
forza; i Cittadini stessi compresero la necessità di prevenire disordini, e
vi si adoperarono con frutto. - (Monitore, del 26 febbraio 1849.)
A Castelfranco-di-sotto,
nel 9 febbraio, successero moti così gravi che la Guardia Civica ebbe
a impugnare le armi e combattere; alcuni Civici rimasero feriti. I Rapporti di
Polizia autorizzarono il Governo a pubblicare la seguente notizia nel Monitore
del 14 febbraio 1849: «In Castelfranco avvenne un movimento in senso retrogrado.
La Guardia
cittadina accorse numerosa a reprimere il disordine, sebbene ne patisse
danno. - Il sangue uscito dalle vene dei Civici di Castelfranco è una
offerta fatta alla causa della nazione e dell'ordine. Perchè i buoni
cittadini non si affrettano a respingere questi movimenti? Qui non si tratta di
quistione di forma governativa. Il nome di Leopoldo è un pretesto per
violare la proprietà, per saccheggiare le case, e per uccidere i migliori
cittadini! - Il movimento non è politico, ma anarchico: non si combatte per
un Governo contro un altro, ma per non averne nessuno. Il Governo vuole
l'ordine, perchè la Legge
abbia forza e sia salva la
Patria. I cittadini devono volere l'ordine per la sicurezza
della Patria non solo, ma ancora per quella dei proprii giorni e delle proprie
sostanze. - Vogliono i cittadini che la Toscana sia invasa da continui ladronecci?
Vogliono che Austria speri nelle nostre contese le sue vittorie? - Morire
per l'ordine è morire per la
Patria. Ritenga i poveri dall'anarchia il pensiero che il Governo si
adopera per diminuire la miseria; muova i ricchi a resistere alla reazione,
il senso dell'onesto, l'amor patrio, il proprio interesse.»
In Prato si tentavano
disordini contro la strada ferrata Maria Antonia, della specie di quelli di
Empoli. Le Autorità e la Commissione Governativa seppero prevenirli con
prontissimi e gagliardi provvedimenti. (Vedi Monitore, 16 febbraio
1849.)
A Cascina incendiavano la Stazione della strada
ferrata. «Nel mio passare ho trovato la Stazione di Cascina in fiamme. Spegnere lo
incendio era impossibile, perchè la
Stazione era presso che distrutta. Io seguito il mio viaggio,
appena avrò preso alcuni concerti col Pretore di Pontedera. - Al Ministro dello
Interno. - Paoli242.»
Finalmente a Lucca la strada
ferrata a furia di Popolo disfacevano.
Del contado di Arezzo
più tardi. Dovevano dunque lasciarsi fare? Stare a vedere le genti sbranarsi,
battere le mani agl'incendii, plaudire ai saccheggi, con sempiterna infamia
assistere, neghittosi, al sobbissare del Paese? E queste cose con serena fronte
profferiscono Magistrati toscani? E, nel pretenderle, il loro cuore nei loro
petti sta saldo? Dunque, a mente di loro, la bandiera cuopre sempre comecchè
perfidissimo il carico? La marca basta per garantire la merce falsata? Non
così, per onore del nostro Paese, la intendono tutti i Magistrati toscani. La Corte Regia di Lucca,
con Sentenza del 4 giugno 1850, decidendo intorno alla spedizione di Capannori
e di Porcari, ha dichiarato che: «Essendo diretta a ricomporre in quiete e
all'ordine la provincia.... di comprimere ogni reazione che minacciasse
disorganizzare lo Stato, e di risparmiare, allontanandone il pericolo, le
calamità di mutue stragi.... e non tendente a rafforzare il Governo nel male
acquistato potere.... comparisca ragionevole ritenere che il Governo stesso non
si allontanò da quella linea di condotta che la necessità della precauzione e
le regole della prudenza consigliano, e che in pariforme caso un Governo, anche
legale, avrebbe, senza esitazione, abbracciata.»
Perchè la Verità dorrebbe preferire
le sponde del Serchio a quelle dell'Arno? - Così è: come a Lucca, accadeva da
per tutto. Le agitazioni politiche già già destavano le furie socialistiche.
Commosso da apprensioni terribili, oppresso da fatiche, a cui sembrava
impossibile che uomo potesse durare, io mandava un grido di desolazione col
Proclama del 16 febbraio 1849: «La nostra bella contrada si disfà, se quanti
hanno cuore italiano non sorgono animosi a salvarla. Bande di facinorosi, col
pretesto della fuga di Leopoldo II, ed anche senza pretesto, irrompono
al saccheggio e allo incendio. Il Governo ha represso gli scellerati, e saranno
puniti.»
In cotesti tempi, per
così vigile provvedere, persone onorevolissime mi levarono a cielo; nè fra queste
mancavano parecchi membri del Municipio fiorentino, e il suo egregio Capo. Alle
mie dichiarazioni che la mia natura, vinta dal travaglio, stava per soccombere,
allibivano; e primi fra gli altri, gli antichi impiegati, gli stessi servi
della granducale famiglia, a mani giunte, mi supplicavano a non gli
abbandonare. Sapevano ben essi quali sorti gli aspettassero! Ahimè! Come mai
tutte queste fatiche, cure e pericoli adesso, a un tratto, diventarono delitti?
Fra tante, e
solennissime tutte, testimonianze, mi giovi allegare quella del signore
Allegretti, e ciò per due ragioni; la prima, perchè, preposto allora, e credo
anche adesso, nel Ministero dello Interno alla Sezione della Polizia, giudicava
dei tempi con esattissima cognizione delle cose; la seconda, perchè
dall'attuale Governo adoperato e promosso non può neanche dalla ombrosa Accusa
reputarsi sospetto. Almeno così parrebbe che da costei si potesse sperare.
Scrivendo pertanto il sig. Cav. Segretario Allegretti al sig. Biavati di Lucca
lettera confidenziale sul principiare del marzo 1849 così si esprimeva: «essere
io stanco di cotesto stato di cose, avere minacciato andarmene, e laddove
questo avvenisse, grandi guai sarebbero caduti addosso alla Toscana.» Io
poi non dubito nella onestà del signore Segretario Allegretti, che egli non sia
per commentare largamente a voce quanto scrisse, e credo che come compiacenza
all'animo, gliene verrà lode dai suoi Superiori, cui certo non può piacere la
selvaggia e veramente smodata persecuzione dell'Accusa.
Nella lettera scritta al
signor Prefetto di Arezzo si avverta, all'opposto, che non vi si parla di
decadenza del Principe, nè di Repubblica; anzi, non vi si adopera espressione
offensiva alla Corona; le quali cose stanno a dimostrare che io la dettai
quando mi trovava abbastanza libero di me, nè mi si teneva accalcata e furiosa
dintorno la fazione a impormi frase e concetto di quanto, prepotentissima, ella
ordinava di poi. Che se fa amarezza la frase: «i Principi se ne vanno, il
Popolo resta,» hassi a riflettere in prima, ch'ella suona piuttosto cruccio o
dolore, che esultanza per la partita del Granduca; e poi, che essendo quel
Dispaccio dettato, lo scrivente poteva avervi messo coteste parole che furono
dette in quella notte, e ripetute il giorno successivo nel Parlamento; e in
quanto a leggere prima di firmare, davvero, mancava il tempo e la voglia. -
Però se l'Accusa intendeva a penetrare l'animo mio in cotesta occasione, sembra
che avesse dovuto fondarsi in preferenza sopra gli autografi miei.
«Il Consiglio dei Ministri
al Governatore di Livorno. - Il Granduca ha abbandonato Firenze e Siena. Non si
sa dove si sia ritirato con la famiglia. Scrive non volere approvare la Legge della Costituente. Il
Ministero convoca le Camere, e si dimette. Si prevede la elezione di un
Governo Provvisorio. Raddoppi le guardie alle porte. Chiami a sè gli Ufficiali
della Civica e della Linea. Si assicuri delle Fortezze. Appello ai cittadini di
stare uniti per prevenire qualunque avvenimento doloroso. Energia,
attività, e si salvi ad ogni costo il Paese. - Guerrazzi.»
Al Maggiore Fortini nel
giorno 8 febbraio 1849, ore 7 antimeridiane: «Soldato e Cittadino, come
ella è, farà in modo che col Governatore e il Comandante la Piazza sieno religiosamente
mantenuti tranquillità e ordine. - Guerrazzi.»
Altro Dispaccio
parimente autografo:
«Il Consiglio dei
Ministri al Prefetto di Pisa. - Il Granduca è fuggito da Siena; non si sa
dove siasi ritirato con la sua famiglia. Scrive disapprovare quanto ha
consentito circa alla Costituente italiana. Il Ministero convoca le Camere, e
si dimette. Si prevede la elezione del Governo Provvisorio. Chiami
intorno a sè gli Ufficiali della Linea e della Civica. Appello dei cittadini di
stare uniti onde prevenire qualunque catastrofe. Circondarsi dei
migliori patriotti. Si salvi il Paese. - Guerrazzi.»
Ho peccato io se fra
tanto sbigottimento, mentre trepidavano tutti sul giorno che stava per sorgere,
mi affaticai ad operare in guisa che il Paese non si disfacesse con sanguinosa
rovina? Merita questo che mi si mandi un Profeta Natan onde io scelga, per
pena, fra peste, fame e guerra? O Giudici, che fino ad ora osaste reputarmi
colpevole, ditemi in grazia se tali fatti voi considerate delitti.... ditemelo,
onde, insegnandomelo voi, impari anche io quali sarebbero state in cotesto
fiero caso le vostre virtù!
§ 5. - L'Accusa non
vuole leggere.
L'Accusa asserisce come
dalla Segreteria del Ministero dello Interno fu, nell'8 febbraio, mandata
notizia ai Prefetti e alle altre Autorità, contro il vero, che Leopoldo aveva
abbandonata la Toscana;
cosa, ella aggiunge, ch'era pure inserita nel Proclama affisso nel
medesimo giorno.
Adesso che l'Accusa non
voglia leggere si manifesta primieramente dal Proclama allegato, dove io sfido l'Accusa
a trovarmi lo annunzio che il Granduca avesse abbandonato la Toscana243.
Inoltre, l'Accusa a che
intende ella con la sua proposizione? Per avventura a provare, in mio danno,
che la falsità della notizia circolata fu, senza dubbio, la causa del
commuoversi della Toscana contro, o piuttosto del non commuoversi in favore del
Principato? Venga l'Accusa, legga meco i suoi Documenti, e conoscerà chi
sostiene il falso.
A pagine 236 del suo
Volume occorre la prova che alle ore 7 2/5 antimeridiane partirono
Staffette per Massa e Carrara, Arezzo, Montepulciano, e Grosseto. Il Dispaccio
al Prefetto di Arezzo dichiara: «Il Granduca è fuggito da Siena: ignorasi
dove si sia ridotto.» (pag. 279.) Alla pagina 231 leggiamo: «Qui
ricorrerebbe il Dispaccio del Guerrazzi al Prefetto di Grosseto del preciso
tenore di quello diretto alla Prefettura di Arezzo244.» Alle ore cinque antimeridiane al
Governatore di Livorno e al Prefetto di Pisa facevo sapere: «Il Granduca ha
abbandonato Firenze e Siena, e non si sa dove siasi ritirato con la sua
famiglia.» (pag. 235.) E così erano avvertiti il Comandante di Piazza e il
Maggior Fortini a Livorno. Dunque nelle prime ore pomeridiane del giorno 8
febbraio Firenze, Pisa, Lucca, Livorno, Massa, Arezzo, Montepulciano, Grosseto
e Siena con tutti i paesi circostanti erano per me informati precisamente del
vero stato delle cose; cioè, che il Principe aveva abbandonato Siena, e che
ignoravamo il luogo dov'egli con la sua famiglia erasi riparato.
Ma qui opporrà l'Accusa:
dì pure quanto sai; al Governatore di Portoferraio fu mandata lettera nell'8
febbraio che spiegava: «Leopoldo di Austria ha abbandonato la Toscana245;» e il Segretario Allegretti scrive, che
egli la compose dietro le traccie somministrategli da te verbalmente, e
che lettere di uguale tenore furono mandate alle Superiori Autorità del
Granducato; ed in fine, il Segretario scrive, che quantunque esse non
appariscano firmate da te, l'Archivista «cui secondo il costume incumbeva
procurarne la firma, non ti trovando accessibile, perchè in conclave co' tuoi
Colleghi, non potè farlo, - e di fronte alla commissione ricevuta fosse
stabilito spedirla anche senza firma di te.»
Altrove insisto su
questa dichiarazione. Qui importa notare come nel medesimo giorno 8 febbraio
fosse scritto al Governatore di Portoferraio in due maniere.
Il Governatore di
Livorno lo avvisava così: «il Granduca ha abbandonato improvvisamente Siena246.»
Il Segretario
Allegretti: «Leopoldo di Austria ha abbandonato la Toscana.»
Il primo, dietro ingiunzioni
scritte autografe mie. Il secondo, sopra asserte traccie verbali.
Ancora: prima delle ore
tre pomeridiane del giorno 8 era nominato il nuovo Ministero, e per via
telegrafica venne annunziato al Governatore di Livorno alle ore 5 e 10
minuti pom. del giorno stesso247: quindi la firma del
Dispaccio in discorso, secondo le attribuzioni ordinarie del Ministro dello
Interno, a lui propriamente apparteneva, e non a me.
Di più, gli Ufficiali
del mio Ministero avevano sempre liberamente accesso, anche non chiamati, a me.
Il sig. Segretario Allegretti pieno di riguardi soleva aspettare fuori; ma io
spesso ne lo riprendeva, confortandolo a entrare senza esitazione alcuna nella
mia stanza.
Inoltre, o io aveva
ordinato che i Dispacci senza la mia firma si mandassero, o no; se ordinai, che
senza la firma mia si spedissero, e allora che cosa importava, che io fossi inaccessibile?
Non mi dovevano venire a cercare. Se tale non ordinai, perchè stabilirono
spedire senza la mia firma i Dispacci? E quando si asserisce, che le traccie
verbali somministrai nelle ore pomeridiane, come poteva io indovinare, che
sarei stato impedito al punto di dovere firmare?
Finalmente, tra le ore 5
e le 6 pomeridiane del giorno 8, apprendevo, e mi era forza
annunziare, che, per notizia datami dal Ministro Inglese, il Granduca era
andato con la sua famiglia a Portoferraio248: come avrei patito io
che più tardi (poichè la Posta
pel Ministero, credo non andare errato se affermo, che nell'8 febbraio 1849
partì più tardi delle ore 6), si spedissero informazioni declarative lo
abbandono assoluto della Toscana per la parte del Principe? Quando pure avessi
di cotesto tenore ordinati Dispacci, io gli avrei fatti abolire.
Anzi (singolare
riscontro!) trovo, che il Prefetto di Firenze diramava il giorno 9 febbraio la Circolare compilata dal
Segretario Allegretti, mentre io pubblicava notizie, e tutto il mondo le sapeva
contrarie al tenore di quella.
Per le quali
considerazioni si farà manifesto, in primo luogo, quale e quanta fosse la
perturbazione in quel giorno, e con quale confusa e disordinata ansietà
procedessimo tutti così nei più umili come nei più alti ufficj; e
secondariamente, che, salvo il debito onore che alla probità del sig.
Allegretti sempre mi piacque professare e piace, dubito non del tutto esatte le
sue reminiscenze.
Non ostante però queste
avvertenze, rimane provato, che rispetto a me l'Accusa non vuol leggere,
avvegnadio ponessi cura d'informare fino dalle prime ore del giorno 8 la
massima parte della Toscana del vero stato delle cose, voglio dire il funesto
caso della partenza del Granduca da Siena, noi ignoranti del luogo dove si
fosse diretto, nè egli consapevole troppo per le cose altra volta discorse.
§ 6. Ordine per
abbassare gli stemmi.
Altrove toccai di questo
addebito, sicchè mi occorre adesso spendervi più poche parole dintorno. Il
Decreto del 10 giugno 1850 somministra di questo fatto tale difesa, che io non
saprei desiderare nè addurre migliore: «La furia dei faziosi esigeva violentemente
lo abbassamento degli stemmi, e l'ottemperare in ciò a un ordine del Popolo non
può non apprendersi che come lo effetto di un desiderio di evitare i danni alle
cose e alle persone, e così animato dalla veduta di proteggere la sicurezza e
l'ordine pubblico.» (Attesochè 84.)
Quindi io non ricorderò
per quante guise questi stemmi fossero, in molte parti della Toscana, vilipesi
ed arsi. - Non era meglio risparmiarli all'onta? Poteva e doveva patire io che
venissero strascinati per le strade, come a Fiesole avvenne? Infatti, dove
l'azione del Governo si estese, furono risparmiati e custoditi; e fu lodata la
prudenza del Vice-Prefetto Zannetti, il quale, informando il Governo, così
scriveva il 10 febbraio: «Nella perduta sera volevansi atterrare e distruggere
tutte le armi granducali. Bastò qualche rilievo a trattenere le dimostrazioni
che a colto e ben civilizzato Popolo non si addicessero. E le armi furono, a
sera inoltrata, scese e calate dai posti e depositate in una stanza del
Municipio249.» Vuolsi avvertire che
in taluni luoghi, non solo di onta, diventavano eziandio materia di furore e di
offesa. «Ma la prudenza è al colmo, la licenza dei retrogradi e dei tristi
sfrenata, il contegno nostro moderato, ma già diventa furore vedendo fra noi
esistere il monumento di derisione, l'arme di quel Principe250.» Non era meglio remuovere il motivo di furore,
che permettere lo spargimento del sangue? Certo era meglio; i Giudici lo
dicono, e in questa parte siamo d'accordo. E badate che non solo gli stemmi
granducali lorenesi, ma eziandio i medicei vollero remossi, perchè quando
s'innalza l'Albero della Repubblica debbono cadere i monumenti della
oppressione251. Invano però fu scissa
dall'Accusa la mia dalla causa dei signori Guidi ed Adami, onorandissimi amici;
o fummo violentati tutti, o nessuno. Se da me emanò copia maggiore di ordini,
questo naturalmente vuolsi attribuire agli ufficj diversi che occupavo. Nella
loro carica avrei dovuto fare quanto essi fecero; nella mia avrebbero fatto
quanto feci io.
Ma le parole riferite
che proruppero dalle labbra dei Giudici meritano esame profondo. Ecco, per
esse, vengono a stabilirsi due fatti ed un principio importantissimi.
Primo Fatto. Furia di
Faziosi.
Secondo Fatto. Azione violenta
e imperante del Popolo.
3. Principio. Adesione a
cotesti ordini violenti persuasa dal consiglio di proteggere la pubblica e
privata sicurezza.
Ora questi fatti e
principio di propria loro natura non ponno limitarsi a un caso, ma devono, per
necessità, estendersi al periodo del tempo percorso ed alla serie dei casi
avvenuti sotto la impressione delle condizioni medesime; non possono
restringersi ad uno o due individui, ma referirsi a tutti coloro che negli
stessi accidenti versarono: sintomi permanenti sono eglino della infermità, che
travagliava tutto il corpo sociale; e comparisce insania, o perfidia, che le
medesime cause non abbiano virtù per partorire i medesimi effetti per tutti.
Se, pertanto, questa furia di Faziosi esercitò la sua violenza contro il
Prefetto, perchè avrebbe rispettato il Presidente del Governo Provvisorio? Se
la forza si confessa tale da imporre al Prefetto, ragion vuole che più intensa
si adoperasse sopra di me, avvegnadio troppo più gravi fossero le cause che la
spingevano contro il Presidente del Governo Provvisorio, che contro il
Prefetto, e di molto maggiore importanza i resultati che attendeva estorcere da
lui: e se valse, nella coscienza dei Giudici, a scusare il Prefetto, davvero
rimane arduo a comprendersi come e perchè la reputassero pel Presidente
inefficace. Se questa furia premeva, e lo dicono i Giudici, così
irresistibile a cagione de' segni delle cose, ma certo più gagliarda (e mi
basta uguale) deve essersi razionalmente avventata per volere eseguito il
Decreto risoluto sotto le Logge dell'Orgagna, che le cose aboliva. Se alla furia
dei Faziosi e' fu forza cedere in un punto, per evitare danni alle sostanze e
alle persone dei cittadini, e nella veduta di proteggere la sicurezza e
l'ordine pubblico (e i Giudici approvano, ma non per me!), pari concetto ebbe a
muovermi sopra altri punti, nei quali concentrandosi principalmente le loro
antiche mire, i diuturni conati e le attuali necessità, è troppo naturale che
con prepotenza maggiore li pretendessero. - I Giudici dunque hanno rasentato la
verità, anzi si erano posti sul cammino di conoscerla intera: pochi più passi
sopra la via ch'eglino stessi tracciarono, e la luce si sarebbe fatta loro
manifesta.
Ma giunti a me, essi
tornarono a calarsi la benda su gli occhi, che si erano in tanto buon punto
sollevata: per me non bagna la pioggia, il fuoco non brucia; per me non fa buio
la notte, la luce non illumina; per me il sale le cose sciocche non sala;
queste, ed altre più strane sentenze dicono coloro che giù la benda su gli
occhi si calano.
E se l'Accusa, invece di
rovistare gli Archivii per ricavarne soltanto armi da offendere, vi avesse
avuto ricorso per trarne luce a illuminare la verità, quivi avrebbe trovato
documento di bene altra importanza, ed io lo ricordo, sicuro di non rimanere smentito.
- Certo giusdicente del Granducato chiese ordini precisi per la esecuzione del
Decreto intorno allo abbassamento delle armi granducali, avvisando che il
Popolo nella sua giurisdizione sarebbe per avventura sceso alla violenza per
impedirlo: io, per l'organo del sig. Segretario Cav. Allegretti, feci
rispondere: la misura presa dal Governo circa l'abbassamento delle armi
essere stata appunto diretta a risparmiare loro sfregi plebei e ad impedire
luttuosi conflitti: se il Popolo costà desiderava le armi, lasciassersi stare,
avvegnachè il Granduca non avesse perduto i suoi diritti su la Toscana.
Non sarebbe stato di
qualche utilità riporre in Processo un simile documento? Ahimè! Gli esaminatori
degli Archivii carte siffatte hanno guardato con l'occhio cieco del Bano di
Croazia. E poichè l'Accusa incominciò a interrogare i Segretarii del Ministero,
non poteva e doveva udire tutto quanto essi avrebbero saputo deporre in
proposito? L'Accusa ha ascoltato i temuti testimoni del vero con
l'orecchio sordo del Bano di Croazia.
|