XXIII.
Dichiarazioni in Senato
ostili al Granduca.
L'Accusa, sotto il
titolo di Atti Speciali, incomincia dal porre il mio discorso in Senato. Io non
devo biasimare il metodo ch'ella ha creduto bene, in questa parte, seguire;
passo passo le tengo faticosamente dietro nei suoi meandri. - L'Accusa
preoccupata dalla idea singolarissima che il Circolo e le turbe concomitanti,
dopo pronunziato il Plebiscito e commessi i fatti narrati, mi lasciassero
nella piena facoltà di agire a mio talento, ci narra come esse sparissero
tornando alle proprie stanze dove, a modo dei vipistrelli allo accostarsi dello
inverno, si addormentassero, finchè, avendo io compíto libero, spontaneo, gli
atti incriminati, tornassero a riprendere l'usato costume. Ora questa idea è
contraria alla ragione come al fatto, e i testimoni devono avere deposto che da
quel punto in poi non venni mai più abbandonato, e fui fatto segno di
sospettosa vigilanza.252 Il Circolo non si
ridusse a Santa Trinità per dormire, ma per sedere in permanenza, dove
così stava fino dal 5 febbraio, e di là spediva i suoi Popilii che assediavano
le anticamere, e penetravano, non annunziati, nelle segrete stanze, per imporre
ordini e referirne al Circolo, in quei primi giorni troppo più poderoso del
Governo, costretto a cedere sopra una parte per conservarne un'altra: di là
muovevano di ora in ora Deputazioni per sindacare i nostri atti, e dirci,
scrollando il capo amaramente, le parole riportate dal N° 13, febbraio 1849,
del Popolano:
«Il Governo vorrà sì o
no accorgersi di essere un governo rivoluzionario, e persuadersi che le
rivoluzioni vere vanno avanti soltanto a colpi di cannone?» E' fu pertanto a
cagione di questa non vincibile pressura, che il Nazionale del 9
febbraio predicava: «L'azione del Governo può essere vigilata, ma non
attraversata; nè senza disordine grandissimo potrebbe altra azione estranea
al Governo sostituirsi alla sua.» Le quali cose significano per lo appunto
il contrario del dormire, cioè stare sveglio notte e giorno senza interruzione
per invadere ed usurpare ogni cosa: parte dei principali agitatori mi
accompagnò nelle stanze di Ufficio levando a cielo l'operato di quel giorno; e
siccome io di tanto non potei contenermi che per me non si favellasse a costoro
qualche acerba parola, ebbi a vedere tali gesti, e a udire tali minaccie, che
dovei risolvermi di mettere capo a partito, studiare, non che le opere, gli
accenti, se pure non ero deliberato in tutto di capitare a fine infelice.
Nelle parole del signor
Montanelli, profferite davanti al Senato, occorre la prova del difetto di libertà
in cui ci trovammo tutti appena rientrati in Palazzo: «Credemmo nostro debito,
appena avemmo un momento di libertà, di portarci in mezzo di voi ec.» Di
vero non ci potevamo sviluppare dalla turba dei Faziosi, che, urgentissima, ci
si stringeva alla vita.
Pensai alla mia
condizione, come meglio mi fu dato in mezzo a tanto trambusto. Come mai,
considerava, me, che pure sapevano contrario allo scopo a cui gli agitatori
tendevano con tanta ostinazione, vollero preso? Era evidente ch'essi mi
apparecchiavano insidie per perdermi, come contumace ai voleri del Popolo. La
resistenza da me dimostrata alla Camera dei Deputati, che, nel Decreto del 10
giugno 1850, si qualifica pravo consiglio, dagli organi repubblicani
allora si accusava come colpevole opposizione. L'Alba,
moderatissima in quel giorno, narrando il fatto diceva: «Vi tornarono i
Deputati nel mentre che taluno chiedeva la dissoluzione della Camera, opinione
combattuta dal pertinace coraggio di F. D. Guerrazzi, e in quel momento per
lo meno importuna.» (N° 9. feb. 1849.) - Molto mi teneva sospeso il
contrasto col Niccolini, e la umiliazione alla quale io lo aveva ridotto; mi
occorse al pensiero, che sovente i Deputati dell'Assemblea di Francia ebbero a
pagare amara una parola di rimprovero detta contro taluno dei Caporioni dei
Circoli. Il silenzio nell'Assemblea fu spesso stemperato in fiele nelle
scapigliate adunanze di Popolo, che chiamavano Clubs, ed aguzzò la scure
del carnefice. Cose volgari io narro, e dal comune degli uomini
conosciutissime; dai miei Accusatori soltanto ignorate, o volute ignorare.
Quanto sia assurdo intento volere dimostrare che poca mano di Popolo allora
insanisse, ho chiarito altrove. Il Nazionale dell'8 febbraio raccontando
ora per ora i fatti della giornata attesta: «Ore 11. La piazza è stivata
di Popolo.» - La Costituente
del medesimo giorno: «Il Circolo popolare è radunato in piazza. - Molti distinti
cittadini prendono la parola, e conchiudono nella necessità di costituire
un Governo Provvisorio.» - Gli elementi che operarono il 12 aprile, operarono
eziandio l'8 febbraio. Se Guardia Civica, se Popolo, se plebe così urbana come
rustica, se milizie non avessero acconsentito, chi le poteva costringere?
Dov'era la forza capace a violentarle a quello da cui aborrivano? Questo è
manifesto, e non vi ha sofisticheria che valga a metterlo in dubbio: - è
manifesto.
L'Accusa si arrabatta
smaniosa a persuadere, che una mano di gente stracciata operò i fatti dell'8
febbraio; presentendo l'obietto, che allora mal poteva fare violenza alla
Camera, ci dice che il luogo chiuso e la sorpresa non lasciarono campo a
misurarne la estensione. - Bene: ma la guardia custode della Camera composta di
60 uomini? - Non avendo ordine, non sapeva che pesci pigliare. - Meglio: ma la Guardia civica
apparecchiata? - Consegnata nei quartieri, uscì fuori a cose fatte. -
Egregiamente: ma le cose fatte si potevano disfare; e il Popolo, la Guardia Civica, e
tutti gli altri rimasti fedeli, malgrado la tristezza, o tristizia (chè
nell'uno e nell'altro modo corre egualmente bene il discorso nella famosa
Accusa) dei tempi, usciti fuori, e vista la scarsa mano di gente cenciosa,
potevano in un attimo depositarla al Bargello253.
Se si trattava di pochi ribaldacci, oh! che mi vengono adesso i Documenti
dell'Accusa a contare di ora di riscatto suonata, di slancio, di
eroici fatti operati il 12 aprile, e di simili altre novelle? Se ella volesse
nulla nulla essere coerente a sè stessa, dovrebbe rampognare con arrabbiato
cipiglio la poltroneria delle migliaia dei fedeli cittadini, e sopra tutto la
codardia delle migliaia degl'impiegati fedelissimi, che si lasciarono mettere i
piedi sul collo da un cento di ragazzacci sbracati. A disperderli sarebbero
state sufficienti una voce sola e una frusta; or come dunque, essa dovrebbe
dire, gente paucæ fidei, non trovaste valore in petto, nè lena in gola,
che bastasse ad inalzare un grido? Non una frusta, che servisse a frustare quel
branco di ragazzacci sbracati? Tanto è, migliaia e migliaia d'impiegati
fedelissimi non ebbero una voce, una frusta sola. Extra jocum, chè la
dolente materia nol comporta: laddove il Popolo si raccoglie in gran numero
padroneggia sempre, attestava Silvano Bailly, il quale verosimilmente
doveva intendersene254. Io era stato
trabalzato in piazza dalla moltitudine carezzevole, e atterrato, e per poco non
pesto. Le mie orecchie erano intronate di morte ai traditori, e a cui
non importa dire. Aveva conosciuto il Plebiscito decretato sotto le Logge
dell'Orgagna, che dichiarava così:
«Il
Popolo di Firenze.
Considerando, che la
fuga di Leopoldo di Austria infrange la Costituzione e lascia senza Governo lo Stato;
Considerando, che il
primo dovere del Popolo, solo Sovrano di sè stesso, è di provvedere a questa
urgenza;
Facendosi anche
interpetre del voto delle Provincie sorelle, nomina un Governo Provvisorio
nelle persone dei Cittadini Montanelli, Guerrazzi e Mazzoni, che a turno
assumeranno la Presidenza,
e loro affida la somma delle cose per la Italia, e per l'onore toscano,
a condizione:
Che la forma politica
definitiva della Toscana si rimetta alla decisione della Costituente Italiana;
e
Che frattanto il Governo
Provvisorio deva unirsi e stringersi con quello di Roma, in guisa che i due
Stati agli occhi del mondo ne compongano uno solo255.»
Rigoroso il mandato;
palese il tranello, però che in quel medesimo giorno l'Assemblea Romana votava
la decadenza del Pontefice, e la
Repubblica, ed è da credersi che di ciò fossero troppo bene
informati i Caporali del Circolo quaggiù; per la qual cosa quello che la
immediata Unione con Roma volesse dire, ognuno sel vede. Infatti, il Plebiscito
del Popolo fiorentino non era presentato mica come un voto o un consiglio: al
contrario, come ingiunzione, che equivale «all'obbligo espresso di
percorrere la strada tracciata intieramente senza riposo256.»
Ed io per parare il
colpo, e tutelare il mio capo, ormai mi vedeva abbandonato da tutti. Il
Municipio si opponeva forse? Protestava egli? Si dimise? No. Egli prese parte
agli atti governativi. Finchè il terreno apparve ingombro di spine, stette
dietro al Governo: quando seppe da lui, che la Toscana si mostrava aliena
alla Unione con Roma e alla Repubblica; quando conobbe gli ostacoli remossi; e
sopra tutto quando non ci era pericolo; allora spiccò bravamente la corsa, e
vinse il palio.
Sì, io non serbo
amarezza; ma, o voi del Municipio, che a tale orribile passo, con arti di cui
la pubblica coscienza raccapriccia, mi avete condotto, ditemi: non mi deste
conforto e soccorso nella universale trepidanza a preservare da ruina il Paese?
Ah! Voi lo neghereste invano; ne menavate vanto allora, e con Deliberazione del
12 febbraio bandivate, ed era vero: «che dopo avere speso ogni cura a remuovere
dall'animo del Principe il pensiero di uno allontanamento, lealmente
offriste il vostro concorso agli uomini, che di necessità assumevano il
grave carico di reggere provvisoriamente il Paese in sì difficili
momenti.» In che cosa peccai? dite. Forse per essere proceduto parziale ai
Repubblicani? Ma io solo mi opponeva al precipitare della fazione, mentre voi
mostravate volerle ormai dare vinte le mani257. Forse per avere
convocato i comizii universali? Ma con un Giornale protetto da una parte di
voi, questo provvedimento consigliavate e pretendevate258! Forse perchè alla difesa delle patrie
frontiere con tutta l'anima attendeva?... - Forse perchè alla restaurazione del
Principato Costituzionale io ostava?... E qualcheduno di voi lo ha detto per
onestare la tradita fede, che non si onesta mai. Ma di questo più tardi.
Urgeva pertanto, che io
mi atteggiassi in modo, che le insinuazioni dei malevoli, i rancori delle vanità
offese, i sospetti di parte non facessero breccia nell'animo del Popolo
maravigliosamente commosso: e, molto più importante ancora, urgeva che le
esterne turbe non passassero sul capo al Governo e ai suoi conduttori stessi;
salvare insomma la città. Però, andando in Senato, alla proposta del Senatore
Corsini, che il Governo Provvisorio conservasse le forme attuali governative
dello Stato, e il potere devoluto alla persona del Principe, risposi a un di
presso nei termini seguenti; e dico a un di presso, perchè tutti conoscono che
la nostra stenografia lasciava molto a desiderare, in fatto di
esattezza.
Ministro dell'Interno, «Sento il bisogno di
manifestare l'animo mio intero. Signori! Io, con quella maggior fede che un uomo
del Popolo può esercitare, ho servito fedelmente Leopoldo Secondo; e debbo
dirvi, o Signori, francamente, era offuscato da un gravissimo errore;
imperocchè io credeva che libertà di Popolo e Principe potessero stare insieme.
Mi confortava in questa mia speranza il considerare Leopoldo Secondo, per
quanto egli mi diceva, onestissimo e dabbene.
Oggi questa speranza è
caduta; questo velo si è squarciato, ed io devo solennemente dichiarare che
Leopoldo Secondo non ha corrisposto per niente alla fede con la quale noi lo
abbiamo servito. Per conseguenza, io sono stato chiamato al Governo Provvisorio
dal Popolo; sono stato confermato dalla Camera dei Deputati toscani; chè
altrimenti io non accetterei questo mandato; intendo esercitarlo a benefizio
del Popolo, non intendo esercitarlo a benefizio di Leopoldo Secondo, che giusta
la mia opinione ci ha traditi.»
L'Accusa, ad escludere
la difesa, oppone che io non poteva essere dominato da timore, imperciocchè
poco innanzi avessi esposto, che io non aveva paura del Popolo. Della
malevola quanto irragionevole induzione, che ricavasi da queste parole, altrove
ho discorso, e a quel punto rimando. Qui aggiungo (e chiedo venia al lettore se
lo trattengo di studii filologici, dacchè io nol faccio per vana saccenteria:
mi compianga piuttosto vedendomi, con Toscani Giudici, ridotto perfino a
raddrizzare il significato di parola toscana), qui aggiungo, che dove mai
avessi dichiarato nell'Assemblea non avere paura, questo non esclude che
più tardi dovessi concepire timore. Paura è codardia di animo, che
aombra o per immaginativa, o per cose, che non abbiano potenza far male: timore
denota la giusta estimazione che gli uomini, comecchè fortissimi, fanno del
pericolo sovrastante:
Temer si
dee di sole quelle cose,
Che hanno
potenza di fare altrui male;
Delle
altre no....
avverte Dante nostro; e la distinzione fra
timore e paura fu notata dal Grassi, confermandola con esempii elegantissimi259.
Ora, quando prima venne
il Popolo nell'Assemblea, bene sta che io non ne avessi paura;
conosciuta poi la sua furia, e considerate le arti pessime, che altri poteva
adoperare per indirizzarla a mio danno, sarebbe stata stupidezza non
raccogliere dentro di me il prudente timore. E, se male non iscorgo,
parmi sul futile argomento dell'Accusa avere adoperate parole già troppe.
Io per me ho tanta
opinione nella intelligenza del Senatore Corsini, che non dubito punto asserire
ch'egli si sarebbe astenuto dal suo discorso, dove lo avessero informato della
deliberazione presa dal Popolo, e dello impeto col quale la pretendeva
eseguita, minacciando chiunque, anche con parole, gli si fosse opposto. -
Supponiamo che la proposta del Senatore Corsini fosse stata accettata, che cosa
ne sarebbe avvenuto? La fazione, il Popolo, la turba insomma, che comandava
sovrana, incitata dall'ostacolo, chiamando me e il Senato traditori, ci avrebbe
condotto a fiero passo. La proposta Corsini pareva ed era una sfida contro al
Plebiscito decretato in piazza dalla moltitudine onnipotente; così saremmo
andati incontro ai danni che più c'importava evitare; la società si perdeva. Me
atterrato, chi saliva in Palazzo? Domandatelo agl'impiegati più alti, a cui le
labbra diventavano pagonazze discorrendo fra loro di cotesto pericolo.
Supponiamo, che vedendo
impossibile mandare ad esecuzione la proposta Corsini, io ne avessi tolto
pretesto a rassegnare lo ufficio, e si fosse sparsa in quel giorno fra le turbe
commosse la voce, che io mi era dimesso per la insorta opposizione; avete mai
pensato a quello che stava per nascere? Certo non ci avete pensato. Sì, ripeto;
se il Senatore Corsini fosse stato informato della condizione delle cose,
pensando quanto grave posta giuocava con le sue parole, si sarebbe taciuto.
Invero gli avvisati colleghi del Senatore con cenni lo ammonivano a desistere,
sicchè egli ebbe luogo a correggere il detto, e il Senatore Capponi, sempre più
confermando la grave sentenza riportata altrove, aggiungeva:
«Questo è certo.
Il Paese è in una di quelle necessità supreme dove il Potere mancando, il Paese
provvede a sè stesso. In questa necessità di cose, il Senato vota per
quel Decreto ch'è stato proposto. Il Senato non può fare altro, e intende di
farlo come rappresentante della Nazione, o del Popolo, giacchè Popolo e
Nazione sono sinonimi.»
Il Senatore Fenzi dichiarava
unirsi alle parole del Senatore.. - ' Capponi.
Donde si conosce, che il
Senato sentiva la necessità di esprimere il suo voto, non più come uno dei
poteri costituiti nel reggimento costituzionale, ma come rappresentante di
Popolo, e in virtù del presuntivo mandato, che la parte eletta della Nazione
conferisce sempre agli uomini insigni per dottrina, per costumi distinti.
Se pertanto io e il
Senato, ed io più assai di lui, ci trovavamo nella dura necessità di esprimere
il concetto medesimo, perchè solo è scusato il Senato, e perchè solo accusato
sono io? I Senatori egregi, consapevoli delle ragioni che ci fecero parlare,
non m'incolperebbero per questo: di qui pure il diritto sacrosanto e per ora
negato, che eglino soli, come miei Giudici naturali, intorno alle mie sorti
pronunzino.
Nè già si creda, che
come le parole del Senatore Corsini (certo senza avvertirlo) posero in quel
giorno a grave cimento la pubblica salute, a lui non fossero per partorire
danno. Egli forse ignorò quanto furore si concitasse contro, e quanti sforzi
tutto il Governo Provvisorio adoperasse, perchè incolume passasse la tempesta;
e non rifinivamo dire ai più accesi: «Come così intendete voi libertà? Invitate
gli Oratori ad aprire schiettamente l'animo loro, e poi se non favellano a modo
vostro vi adirate? Allora voi li fate liberi di pensare e dire come piace a
voi.» E così il Senatore Corsini scampò per questa volta la mala parata. Più
tardi però, come altrove ho detto, vollero invadere il paterno palazzo, e
rovistarglielo tutto; con quanto e quale pericolo ogni uomo comprende. Inoltre,
quando le intemperanze dei Faziosi stringevano il Governo a creare il Comitato
di Salute Pubblica con poteri rivoluzionarii, e impadronirsi delle persone
sospette, il Senatore Corsini fu designato fra le principali.
E forse lo stesso
Senatore io penso che si accorgesse del danno che poteva uscire dallo incauto
discorso, imperciocchè, oltre le parole aggiunte da lui, come lenitivo alle
prime, fu visto, in certe occasioni, mettere prontissimo tappeti alle finestre,
mentre gli altri cittadini non reputavano opportuno mostrare al Governo
Provvisorio tanta svisceratezza.
Mi conferma nel mio
proposito la visita del padre suo Principe Don Tommaso, sollecitatore della
protezione del Governo, per circolare liberamente nel Granducato e recarsi fino
a Genova senza sospetto, adducendo lui essere capo di famiglia e non tenuto pel
fatto dei figli; in quanto a sè, tutto il mondo sapere quello che a benefizio
di Roma avesse adoperato, e potermi mostrare altresì la patente amplissima
rilasciatagli dal Popolo romano in guiderdone, non meno che un consulto di
solenni Teologhi declarativo la erronea opinione di coloro che supponevano i
Rappresentanti della Costituente italiana o romana meritevoli di scomunica. Ed
io, mentre della esibizione di questi documenti lo ringraziava, penso avergli
detto parole cortesemente idonee a rassicurarlo da qualunque dubbio avesse
potuto concepire.
Sarebbe giusta cosa
ricavare adesso da simili ripieghi, che ogni prudente cittadino pratica in
tempi difficili per uscirne illeso, argomento di accusa e d'ingiuria
contro cotesti signori, dicendo loro: «Quei vostri furono atti e parole di chi
ha doppio il cuore per gettarsi a quel Partito che avesse trionfato?» Ci pensi
l'Accusa.
Non basta ancora:
imperciocchè quando l'Accusa crederà, ch'io mi abbia vuoto il sacco, spero
ritrovarci frugando qualche altra cosa che valga, non dico a farla vergognare,
che questa è da altri omeri soma, che dai miei, ma almeno a confonderla. Sappia
pertanto l'Accusa, che il Senatore Corsini, il quale siede adesso nei Consigli
della Corona, scrivendomi privatamente mi si professò parziale, ed in fine
adoperando parole di affetto disse essere rimasto, non che contento, edificato
della mia cara politica. Nelle incursioni della Polizia questa
lettera andò dispersa; parecchi testimoni però l'hanno veduta e la rammentano,
ma io confido nella lealtà del signor Duca di Casigliano per sentirmela
affermare vera. I gentiluomini non negano le proprie parole, non le
smentiscono, non sanno tradire, e se fra loro qualcheduno si trova bugiardo, o
fedifrago, o traditore, si deve credere che in mezzo ad essi stia come Pilato
nel Credo, o come Barabba nel Passio.
L'Accusa invece di
ponderare a qual tremendo repentaglio fosse posta la pubblica e la privata
sicurezza; quanto fiere apprensioni agitassero i cittadini a cotesti giorni; il
mancato governo; la macchina costituzionale caduta, perchè colpita nella sua
sostanza; la plebe minacciante, e male raffrenantesi; me sbilanciato e in
pericolo; irritante la proposizione Corsini; fatale provocare l'ira della
moltitudine accesissima; attaccata a un filo la comune salvezza; me ultimo
argine della società trepidante; invece, dico, di ponderare tutte queste cose,
pensa che io libero e spontaneo, senz'altro motivo che pel piacere di mostrare
animo ostile al Principe che a supremo ufficio avevami assunto, e che
lealissimamente aveva servito nel mio Ministero, favellassi in cotesta
sentenza. Sicuramente che, in questo modo argomentando, non ci sarebbe a fare
altro che declinare il capo e dire: percuotete! - E voi, Giudici, ponendo una
mano sul cuore, senza sentirvelo trasalire nel petto, vi reputereste capaci a
percuotere? Poche ore innanzi di cotesto discorso, vi avreste dovuto
rammentare, signori Giudici, con quanto zelo, con quanta calda
affezione io raccomandava il Granduca con lettere confidenziali dirette
allo stesso Montanelli; sarebbe stata religione che voi non metteste in oblio
come scrivendo ad amico intimo io m'ingegnassi confermare la fede della mia
Patria al Principato Costituzionale: dovevate pure avvertire con quante
diuturne dichiarazioni mi fossi mostrato alla Costituzione devoto; lo studio
posto a compiacere ai desiderii del Principe; insomma avreste dovuto
considerare tutto quanto non avete voluto considerare, e allora avreste
compreso che necessaria fu la risposta al Senatore Corsini, e ch'è follia
risguardare alle parole profferite in simili angustie. Più tardi sarete
chiariti come uomini di Stato, politici e storici, giudichino le parole e i
fatti di tale che, circondato da esercito devoto, non nutriva timore alcuno di
sè, poco della Patria!
Mi giovi qui pure
riportare la pittura, comunque sfumata, che di cotesti tempi fece il Conciliatore,
non sospetto di parzialità col Governo; e chiunque ha mente giudichi della
verità delle mie parole:
«Questo commuoversi
continuo delle moltitudini; questo accorrere su le piazze levando a rumore il
Paese; questo gridare di popolo minuto contro i popolani grassi che
rappresentano la defunta aristocrazia; questo fare scendere sovente il
Governo di Palazzo e condurlo a deliberare sotto la Loggia dell'Orgagna, ci
rende immagine viva dei tempi dell'antica Repubblica di Firenze, la quale ebbe
vita continua di tumulti, di fazioni e di commuovimenti.»
Considerando il riguardo
che non si scompagnava allora dal cauto Giornale, parmi che possiamo
comprendere le apprensioni dei cittadini, lo impeto delle moltitudini, e il
pericolo continuo nel quale versava il Governo.
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