XXIV.
Spedizione di
Portoferraio, e di Santo Stefano.
Desumo la storia di
queste due accuse dal Decreto del 10 giugno, facendovi le aggiunte e correzioni
opportune dietro il confronto del Decreto del 7 gennaio e l'Atto di Accusa del
25 detto 1851.
«È luogo a ritenersi che
a questo punto non si arrestasse la Rivoluzione, ma che, presentendo prossima l'ora
del riscatto, i Circoli, coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa, si
dessero a presentare petizioni per la cacciata dello stesso Principe dal suolo
toscano.
Nel concetto di
accoglierle,
così scrisse il Guerrazzi nel dì 8 febbraio 1849 (6 ore pom.) al Governatore
Pigli:
Il Ministro Inglese
assicura essere andato il Granduca con la sua famiglia a Portoferraio; si
faccia tornare il Giglio. Si mandino barche e navigli con Livornesi ed
uomini arrisicati a cacciarnelo. Leopoldo non merita ospitalità sopra il suolo
toscano, dopo che, con tanta ingratitudine e nera perfidia, ha corrisposto alla
fede del suo Popolo. - E la raccomanda il 9 al Governatore di Portoferraio
sotto minaccia di destituzione:
Può supporsi che sia diretto costà,
e già si trovi in cotesta Isola, Leopoldo Secondo. - Quando ciò fosse sicuro,
egli ha abbandonato la Toscana,
il Governo Provvisorio non può permettergli di rimanere in una parte di essa.
La sua presenza potrebbe divenire causa di perturbazione, e forse di guerra
civile. Ella perciò deve in quel caso invitarlo ad assentarsi anche da cotesta
Isola, e fare in modo che la presente disposizione abbia il suo pieno ed
immediato compimento. - A ciò mancando non potrebbe da lei evitarsi la
destituzione dallo impiego. -
Fallito il disegno di
cotesta Spedizione, e dietro notizia che il Principe era a Santo Stefano, si
rinnuovarono dal Guerrazzi al Pigli gli ordini per una seconda Spedizione
militare contro il Granduca, chiamando a soccorso le truppe e i talenti del
Generale D'Apice che vi si ricusò.» - Perchè, dice il Decreto del 7 gennaio,
fosse nelle ferme intenzioni della Rivoluzione procacciare ad ogni costo
la partenza del Principe dalla Toscana.
La lettera al Pigli è
così concepita: «Dalle annesse lettere che mi ritornerete, e che per
difetto di tempo mando nell'originale, vedrete il pericolo che ci minaccia.
Colla massima sollecitudine apparecchiate gente scelta che s'indirizzi verso
Santo Stefano per la via del Littorale, ma per paese amico, e per
ingrossarsi come palla di neve. D'Apice vi scriverà, e vi terrete ai suoi
consigli. - 14 febbraio 1849.»
La dichiarazione del
Generale D'Apice suona nel modo seguente: «Dirò con tutta verità, che
allorquando mi trovava in Empoli ricevei lettera per parte del signor
Guerrazzi, nella quale mi diceva lasciassi in Empoli porzione della truppa che
io aveva sotto i miei ordini, e con altra mi dirigessi in Maremma, e mi pare
precisamente a Grosseto. Ma poichè si trattava che cotesta Spedizione doveva
farsi contro il Granduca, che allora era in Maremma, io ricusai incaricarmene.»
E raccomandando io scriveva
al Paoli: «Scrivo a lei perchè capace d'intendere e di eseguire. Qui poco si
fa, molto si parla. Cornacchie, non uomini. Leopoldo austriaco sta in Santo
Stefano, organizza la reazione coll'empio pensiero di convertire Maremma in
Vandea. Bisogna fare due cose: riunire quanta più forza si può: parte offrirne
al Prefetto di Lucca, parte tenerne a disposizione del Governatore di
Livorno. La causa della Toscana, e forse della Italia, dipende da queste
misure, perchè da ogni buco può entrare acqua, cagione di naufragio. Rendete
ragguaglio, per Dio, di quello che fate. Il Potere centrale deve essere
informato di tutto.»
«Pigli (continua il
Decreto del 10 giugno) raduna gente di ogni arma. La Cecilia la conduce;
sparge proclami, ma non ottiene seguito, nè riunisce gente ai ribelli.
Questi apparecchi si
accelerano, ma rimangono interrotti per dirigere il tumultuario armamento a
Pietrasanta a comprimere un tentativo di restaurazione del Generale Laugier che
dicevasi avere rialzato a Massa la bandiera del Principato, senza però
abbandonare il disegno della cacciata del Principe.»
§ 1. Spedizione a
Portoferraio.
L'Accusa stessa, poichè
ha posto che i Circoli, coadiuvati dalle furiose declamazioni della stampa,
presero a presentare petizioni per la cacciata del Principe, perchè
m'imputa questi fatti? Perchè, come ha proceduto con altri meno di me
pressurati, non mi scusa per quello che non mi riuscì impedire, e non mi
ricompensa di una parola che non sia disprezzo per quanto operai? L'Accusa non può,
e non lo tenta, attenuare il carattere della forza rivoluzionaria, adesso che
nel pieno suo impeto punta sopra di me. La ritenga pertanto, com'ella medesima
la qualificava, audace, impronta, sprezzante di ogni autorità, che leva il
furore a virtù, la moderazione a delitto; la ritenga, com'ella stessa ce la
racconta, cospirante in Toscana, anzi per tutta Italia, a rovesciare
Monarchia e Statuto; in agguato di opportunità per invadere ogni cosa;
opportunità che le venne offerta nello allontanamento del Granduca da Siena;
la ritenga, come ella dice, ferocemente esultante per la strage di un
Ministro reputato contumace ai voleri del Popolo: e tanto, se giusta,
avrebbe dovuto bastarmi presso di lei.
Ma l'Atto di Accusa
trova che gli eccitamenti, le improntitudini e l'esigenze (e si guarda di
pronunziare violenze, perchè quando si volta a me la Fazione cangia natura)
furono adoperate, a coartarmi dopo l'8 febbraio, e, senza precisare il
tempo in cui ripresero, crede potere affermare in coscienza che non intervennero
nel giorno 8, nè durante lo spazio necessario a commettere gli atti che, a suo
parere, costituiscono il delitto di lesa maestà. In più parti di questa Memoria
a chiara prova dimostrai lo assurdo di siffatto supposto: aggiungansi nuovi
fatti e nuove considerazioni. L'Accusa stessa confessa che il Circolo, nel
giorno 8, si costituiva in permanenza armato: e se meglio avesse voluto
cercare pei Documenti da lei medesima raccolti, avrebbe trovato che il Circolo
fiorentino si era costituito in permanenza fino dal 5, ed aveva creato
una Commissione, per mantenersi in corrispondenza continua col Ministero260. È naturale pertanto che non se ne stesse con
le mani alla cintola; che, se non dormiva il 5, molto meno si addormentasse l'8
febbraio, ma sì attendesse alacre e ardente a conseguire lo estremo suo fine.
Ritenuto quello che dicono i Giudici del Decreto del 7 gennaio 1851, che fosse
nelle ferme intenzioni della Rivoluzione procacciare ad ogni costo la
partenza del Principe dalla Toscana, non può razionalmente negarsi che
questi conati urgessero più veementi al primo scoppio che dopo. - Io leggo
talora che mancano prove della coartazione; tale altra, che anzi la
coartazione è esclusa; finalmente che le prove ci sono, ma non
bastevoli. Questo linguaggio non solo perplesso, ma contradittorio, dei
Documenti dell'Accusa, mentre gli scredita tutti, mi toglie abilità di
conoscere lo stato della procedura; dacchè ognuno comprende che tra il provare
poco e lo escludere la contrarietà è grande, come fra la luce e le tenebre. Non
sarà privo di ammaestramento, e forse somministrerà subietto di amare
riflessioni, esaminare per lo appunto il progresso in peggio degli Atti della
Accusa.
Il Decreto del 10 giugno
1850 andante: «Attesochè, comunque il processo manifesti avere il
Guerrazzi fatto sforzo di contenere in questa parte le sfrenate voglie
della Demagogia (Processo a c. 69, 767, 2220, 2245, 2418.; Som. a c. 2498,
2510, 2513, 2615, 2761), ciò non pertanto, a perimere ogni elemento di civile
imputazione, converrebbe giungere a provare luminosamente che tutti
gli atti ostili, dei quali si fece autore, furono influenzati da una forza tale
da impedire il retto uso della ragione e della libertà, almeno riguardo alla
esecuzione dei malvagi disegni che inspiravano, e da coartarlo a non
abbandonare quella posizione che poteva strascinarlo al delitto, ec. ec. ec.»
Qui sembra che prove ve
ne sieno, ma non per tutti gli atti; come se la violenza politica che
nasce da un Popolo in rivoluzione, sempre in atto, o in potenza, presente, e
sempre delirante, sospettosa e furiosa, sia di natura transitoria, e
instantanea, uguale alla violenza ordinaria che può usarsi da uno o più
individui contro lo individuo; e come se non torni lo stesso aver la mano di un
uomo sul collo, o udire il ruggito delle moltitudini giù in piazza.
Il Decreto del 7 gennaio
1851 crescendo: «Considerando - che comunque il Processo dimostri che il
Guerrazzi, una volta salito al Supremo Potere, si adoperò, in qualche
circostanza, a distogliere le più accese voglie della Demagogia; -
ciò non pertanto il complesso degli atti autorizzava a ritenere che tutto
ciò egli facesse per tenere fermo nelle sue mani il Potere di che, per modi
riprovevoli, era giunto a impossessarsi; - e in ogni ipotesi, a perimere la
civile imputazione degli atti criminosi dei quali certamente fu autore,
dovrebbe esso provare luminosamente...» e segue come nel primo Decreto.
«Considerando che molti
sono i fatti allegati dal Guerrazzi per far sentire il predominio assoluto e
costante sopra di lui della Fazione; ma oltrechè questi fatti non sono
d'importanza da stabilire una violenza irresistibile e continuata, il
Processo somministra altri fatti, dai quali emerge la influenza personale su
le turbe tumultuanti! - essendosi notato ch'egli dichiarò non averne
timore! (pei Giudici di cotesto Decreto timore e paura sono tutta
una cosa!) ed essendo egli riuscito, come racconta, a contenerle e
comprimerle a vantaggio di privati cittadini....»
Qui i miei sforzi
spariscono, e, in certo modo, si neutralizzano in virtù dei prodigiosi
ragionamenti del Decreto.
Ora ecco l'Atto
dell'Accusa del 29 gennaio 1851 che dà la stretta: «Ma la violenza
coattiva, sia allo Individuo, sia al Collegio, non è provata, e resta anzi esclusa
in quei primi giorni, e da quei primi atti nei
quali e co' quali venne o consumarsi il delitto. Le posteriori
improntitudini, insistenze, esigenze ec.» - E qui non solo vi sono piccole
prove, non solo cessano o si neutralizzano le prove, ma vi sono prove in
contrario. Davvero in questo modo io non ho veduto giuocare nè anche agli
aliossi, non che con anime che pensano e sentono, e delle umane miserie
profondamente si contristano.
Ben
dovrebb'esser la tua man più pia,
Se state
fossimo anime di serpi.
Io ignoro il deposto dei
testimoni; vi furono, vi hanno ad essere, e mostreranno quanto singolare sia la
nuova infermità trovata dall'Accusa della intermittenza rivoluzionaria. Ridotto
ai miei soli ricordi, rammento che la Fazione dichiarò essersi arrogata il diritto di
vigilare «fino dal 5 febbraio ogni mia azione, d'interpellarmi con la stampa,
co' Circoli e co' petizionarii, di chiamarmi a severo rendimento di conto ogni
giorno, ogni ora, ogni minuto261.»
Il Circolo nella sua
protesta liberamente espose, che la decadenza del Principe e l'abolizione della
monarchia fino dall'8 febbraio era stata nel voto, e nel grido di tutti262. Dai Giornali si ricava, come nel giorno 13 il
Circolo mi mandasse una Deputazione per informarsi di quanto io sapeva, e di
quanto operava263. Il Governo è
dichiarato impotente a salvare il Popolo; s'egli non si muove alla cacciata del
Principe, il Popolo farà da sè264. Il Circolo fiorentino
propone spedire armati da tutta la
Toscana contro il Granduca: Firenze si dispone a mandare
1000 uomini265.
A tutto questo si
aggiungano uomini sempre al mio fianco armati, fino dal giorno otto febbraio,
nell'anticamera e pei corridoj, sicchè si rendeva difficile il passare; più spessi
nei primi giorni, che dopo; commissarii dalla città, commissarii
dalle Provincie266; individui
ancora, che con brusca cera, così nelle sale, come per le vie, senza
distinzione, di giorno o di notte mi fermavano, e m'interpellavano. Con gli
scarsi Documenti che ho per le mani, mostrai pocanzi, essere state rammentate
le deputazioni dei Circoli di Livorno, Arezzo, Prato e Pistoia: ho mostrato gli
eccitamenti alle Provincie di accorrere per coartare il Governo, ma prima
passassero nell'aula del Circolo fiorentino, per dare e ricevere conforto, per
concertare istruzioni; ho esposto le lagnanze amare, le minaccie e le accuse
contro il Governo, perchè per lo appuntino, e subito, non obbedisse; fu detto
delle trame contro di me, della dichiarazione di tradurmi in giudizio,
dell'aperta rampogna di traditore, della strage più e più volte minacciata.
Quello, che Popolo e soldati facessero nei primi giorni del febbraio,
esaminatelo nei Giornali del tempo.
E tutto questo pare poco
alla Accusa! Di triplice acciaio deve avere ricinto il petto l'Accusa! Cotesto
suo non è umano coraggio, o almeno di cotesti uomini antidiluviani, che
potevano dire: «Col leone lottai mentre era fanciullo, e sebbene scherzassi, egli
fuggì ruggendo dalle mie mani co' denti rotti267.»
Io trovo prova di quanto
affermo in certo tentativo avventurato dal signor Marmocchi, per allontanare da
sè il nugolo delle moleste deputazioni, e il nugolo più tristo degli
sciagurati, che o per malizia propria, o aizzati da altri, accorrevano delatori
di sospetti per istrascinare il Governo nelle vie rivoluzionarie, e porre le
mani addosso ai designati cittadini.
«Firenze, 28 febbraio
1849. - Il Ministro dello Interno rende noto, ch'egli non riceve deputazioni di
verun Circolo, od altro corpo morale, se non sono munite di speciale mandato in
iscritto, che indichi chi le spedisce, e l'oggetto della missione268.»
Imperciocchè gente
nefanda, nefande cose voleva; e, parve che ordinandole scritte, il pudore
dovesse trattenere da porle in discussione, e ridarle in iscrittura. L'Accusa
ha da essermi cortese di questo, che ordinando nel 28 febbraio cessassero, ciò
significa che avevano incominciato innanzi; e se il Circolo, anzi i Circoli
fino dall'8 febbraio si costituirono in permanenza per invigilare e
dominare il Governo, dica nella sua coscienza chi legge, con quale verità si
possano asserire queste tre cose a un punto, - che non ci sono prove, - che ve
ne sono, ma non bastevoli, - che ci sono prove che escludono l'allegata
violenza. Come queste tre cose possano stare insieme, non bisogna domandarlo a
me; a me tocca udirle, e commentarle co' mesti giorni di carcere troppo più che
bienne; e' vuolsi chiederne ai Magistrati, che le seppero accozzare insieme.
E come le referite cose
precederono il 28 febbraio 1849, così lo susseguirono, non essendo mai riuscito
di allontanare dal Governo le fervide istanze e i più fervidi petenti, per
conseguire lo scopo che stava in cima di ogni loro pensiero.
Nel giorno stesso, e nel
medesimo Monitore, il Ministro dello Interno rende noto pubblicamente:
«che i Rapporti di Polizia, che i privati cittadini si degnano trasmettere per
il pubblico bene, sieno inviati invece ai rispettivi Prefetti, ai quali
soltanto spetta questo incarico, perchè, mentre è compreso di gratitudine per
le premure che in tal modo i Cittadini mostrano pel Governo, non potrebbe
convenevolmente corrispondervi.»
Nè per questo cessarono
le denunzie segrete, e le intimazioni ad arrestare i cittadini sospetti, che io
con mille espedienti attesi ad eludere. I Rapporti di Polizia lo proveranno, e
verrà dichiarato chi sieno coloro, che mi devono libertà, sicurezza; forse
anche la vita. Di tanti mi basti allegarne uno, non per vana jattanza, molto meno
per rimprovero, ma perchè di questo fatto si hanno a trovare negli Archivii le
prove.
Spesse e insistenti
Deputazioni del Circolo pretendevano che l'attuale Presidente del Consiglio dei
Ministri signor Baldasseroni della pensione si privasse, e come cospiratore
contro il Governo si traducesse in carcere. Stretto da tanta pressura, risposi
stessero sicuri, avrei provveduto senz'altro. Rimasto solo col mio Segretario
sig. Chiarini, lo interrogai intorno alla sua opinione, che a me non conviene
riferire, perchè, trovandomi adesso ridotto in misero stato, parebbe viltà;
basti che io la seppi tale da dovere esclamare: «Non sarà mai detto che io dia
mano a perseguitare gente dabbene.» Però, onde oppormi con buon successo alla
Fazione, scrissi lettere particolari al Prefetto Martini, onde segretamente
s'informasse e con lealtà referisse. Di queste ricerche occorre traccia a pag.
501 dei Documenti dell'Accusa: «La persona spedita ieri a Usigliano di Palaia è
tornata. Riferisce, che Baldasseroni è con la famiglia in villa Bertolla, e
conduce vita ritirata, senza apparenza da ingerire sospetto di cospirazione.
Domani con la posta dirò qualche cosa di più in particolare.» Non piacquero le
notizie Martini; il Partito mandò suoi emissarii sul luogo a invigilare, è
comecchè non ricavassero costrutto, pure tornarono ad assalirmi; onde io di
nuovo mi rivolsi al Prefetto di Pisa; e questi sempre più confermando i suoi
Rapporti, io mi adoperai così efficacemente, che giunsi a rimuovere cotesti
arrabbiati dalla disonesta persecuzione. Le lettere responsive dell'ottimo
signor Martini, tutte di suo carattere, furono, se non erro, dal Segretario
Chiarini consegnate al Segretario Allegretti, affinchè le depositasse nello
Archivio. - Il signor Barone Bettino Ricasoli volevasi ad ogni costo arrestato
e processato; lui accusavano di cospirazione, eccitatore di sommosse,
ricoglitore nel suo castello di Broglio di moschetti, e perfino di cannoni269. Questo signore aveva provato avverso, e però
doveva essermi raccomandato maggiormente: almeno io penso, e sento così!....
Mandai persona a posta, fidata e discreta, e trovai che moschetti ne aveva, ma
per la Guardia Civica,
ed anche cannoni, ma di legno, innocente minaccia un giorno su i merli del
Castello, adesso confinati in cantina, come vediamo tutto giorno accadere anche
ad oggetti che cannoni di legno non sono, e lo hanno per bazza; e lui
inconsapevole difesi da fastidii, e forse da gravi pericoli. Detenuto nel Forte
San Giorgio per ordine della Commissione Governativa, di cui il Barone Ricasoli
faceva parte, io volli contestargli questo fatto: pare che poco, anzi punto lo
muovesse. Io ho reso bene per male, altri resero male per bene: certo i Signori
della Commissione mi hanno fatto perdere tutto.... tutto, tranne la fama: essi
poi non hanno perduto nulla!.... Ma io aveva promesso allegare uno esempio
solo, e ne ho citati due.... troppo si produrrebbe lunga la storia, e tanto mi
basti.
Rimane adesso ad
esaminare, che cosa potessero i Circoli in quei tempi. I Circoli, nientemeno,
si reputavano, ed erano padroni; il Governo aveva ad essere arnese passivo, ed
esecutore docilissimo; altrimenti, fuori; oppure avrebbero fatto da
loro. Avvi una testimonianza gravissima di quello che potesse allora il
Governo, ed è del Ministro Inglese. Se fossero pubblicati i Dispacci di Benoît
Champy Ministro di Francia, ne avremmo altra solenne conferma. Lord Hamilton
scrive a Lord Palmerston, con lo scrupolo di fidato mandatario e con
l'accortezza del diplomatico, affinchè il superiore si regoli nella sua politica.
- Tanto meglio voglionsi ritenere esatte coteste informazioni, in quanto che,
come ho avvertito, Sir Carlo Hamilton ne riferiva di vista. Ecco pertanto in
quali termini egli si esprimeva: «Il Governo Provvisorio è obbligato
però di sottomettersi a padrone supremamente dispotico, il quale ad ogni ora
gli rammenta le catene con le quali lo tiene stretto, cioè il potere
dei Circoli (clubs). queste
formidabili assemblee governano il governo. È impossibile esagerare il terrore
e la desolazione di questa bella città270.»
Il Ministro Hamilton,
comecchè così vedesse e sentisse, pure non rifiniva raccomandarmi: «resistete,
resistete; salvate il vostro Paese.» Benoît Champy dava simili conforti;
entrambi promettevano scrivere ai loro Governi lettere amplissime in lode degli
sforzi da me sostenuti; il primo anzi assunse di fare rettificare in certi
Giornali esteri, segnatamente nel Débats, gli erronei giudizii: entrambi
offerivano, in qualsivoglia evento, protezione dei loro Governi, asilo nelle
proprie dimore. In Toscana, Giudici miei concittadini, presenti, scienti forse
più degli Esteri Ministri, mi rampognano e mi accusano, e non solo mi accusano,
ma mi oltraggiano con insulti fabbricati nel 1800!
Un'altra persona
domiciliata qui a Firenze, scrivendo nell'8 marzo a certo suo amico di Parigi,
tale gli dava ragguaglio delle nostre condizioni: «I Ministri e il Comitato
esecutivo - tutti sono obbligati a sottomettersi alla tirannide di una mano di
Faziosi, che si fecero padroni di Firenze, quantunque la più parte non sia
neppure nativa del Paese. Firenze è fatta convegno di tutti i seminatori
di zizzanie della Penisola. Ridotti in Club, che porta nome di Circolo
del Popolo, dettano leggi, promulgano decreti, ai quali il Governo ha da sottomettersi
docilmente271.» Infatti il Giornale
del Circolo così con parole ingenue ne raccontava la importanza e lo istituto:
«Essi sono un vero
Magistrato (i Circoli) del Popolo, cui egli corre per tutti i suoi interessi,
per tutti i suoi reclami e lagnanze, e vi trova tutte le simpatie per ottenere
protezione. - (Popolano, 17 febbraio 1849.)
E quando in cotesto modo
scrivevano, ero pur giunto a impedire che i Circoli dominassero interi; e la
potenza loro scemava: si pensi un po' quanto potessero allora che mandavano
commissarii in Provincia, e sopra ogni canto gli Oratori loro con accese parole
aggiungevano legna al fuoco, le armi in pugno brandite tenevano.
Ora sotto la impressione
di questi fatti si prendano a considerare i Dispacci dell'8 febbraio. -
Il primo delle 2 e 1/2,
strappato a forza, porta seco evidentemente la prova della violenza immediata,
avvegnachè vi si legga perfino la dichiarazione della decadenza del
Principe, che sempre ho combattuta e impedita.
Nel secondo delle 5 e 10
minuti, è gittata la parola che accenna l'áncora di speranza, con la quale in
quei fortunosi frangenti immaginava salvare il Paese: «Si rammentino tutti,
che sarà proclamata presto la Costituente TOSCANA.»
Quando non occorressero
altre prove, per conoscere che il Dispaccio dell'8 febbraio 1849, ore 6 p. m.,
fu imposto dalla violenza della Fazione trionfante, basterebbe questa sola, ed
è che facendo scrivere il 14 febbraio 1849 (giorno della Spedizione a Santo
Stefano) al Governatore di Portoferraio, lo ammoniva: «Se il Principe è partito,
non è decaduto; lo Stato non è perciò venuto a mancare; le leggi non
sono abolite ec272.» Ma importa inoltre
riflettere alla inanità del medesimo. Generalmente, me non reputano stupido
affatto: però, se la condizione mia non fosse stata in quel punto pericolosa
così da farmi temere ogni obiettare fatale, se io avessi sperato, che tra i
furibondi schiamazzi dei comandatori la Spedizione di Portoferraio potesse avere luogo
consiglio, come non richiamarli a considerare «che ritenuta certa la
partenza del Principe per Portoferraio, di due cose dovevano ammetterne una, o
che il Principe vi fosse arrivato, o no? Se arrivato, o gli Elbani nol vogliono
accogliere, e allora qual forza possono aggiungere a loro cento o duecento persone?
Se lo hanno accolto, e quale urto mai vi augurate che facciano poche barche,
contro fortezze giudicate insuperabili, e difese da molte centinaia di cannoni
di grosso calibro? Non poche barche, ma intere armate male si avventurerebbero
sotto le batterie del Falcone e della Stella. Dove poi non fosse arrivato, come
si sosterranno le vostre barche, se venissero ad incontrarsi contro le fregate
a vapore il Porco-Spino e il Cane Mastino, rinforzate dalla
fregata a vela la Teti,
e il vascello di primo ordine il Bellerofonte273? Ma nè queste, nè altre, erano riflessioni da
potersi avventurare a quel tempo, nè alcuna. «A Portoferraio! a Portoferraio!»
urlava la turba infellonita, e bisognò darle aperto il Dispaccio, che vollero
portare alcuni di quella allo Ufficio del telegrafo. Come ci hanno testimoni i
quali attestano, che nella mattina dell'8 febbraio il Niccolini diceva: «Noi
siamo d'accordo, tranne col Guerrazzi... ma...», così non ne mancano altri co'
quali egli confidandosi, nei primi giorni di cotesto mese infaustissimo,
palesava: «andrebbe bene ogni cosa; solo resistere Francesco Domenico alle loro
mire, ma gli avrebbero messo il cervello a partito.»
La storia moderna mi
somministrerebbe esempii in copia per mostrare come in simili casi si comportassero
uomini incanutiti fra guerreschi pericoli. Vi rammentate il 17 marzo del 1848 a Milano? Quando i
deputati del Popolo lombardo si presentarono al conte O'Donell capo del
Governo, per esigere da lui la sanzione di atti ostili all'Austria, negava forse?
No; diceva: «Farò quello che voi volete, quello che voi volete. Sì, avete
ragione, giù polizia, giù tutto274!»
E fu appuntato perchè
non avesse resistito? Lo accusarono forse, perchè avesse acconsentito a buttare
giù tutto? Ed io tutto non dissi che gittassero, e mi adoperai
che ciò non facessero. Non incontrò tanto crudeli e poco assennati sindacatori,
imperciocchè la sua resistenza, come di certo esizio per lui, così non avrebbe
apportato profitto alcuno alla fortuna austriaca in quei giorni. Il sagrifizio
della persona allora è lodevole, che, come nello esempio del Cavaliere d'Assas,
gridando all'erta, ad onta della morte minacciata, si dà la sveglia al campo e
si preserva dalla sorpresa: altrimenti è giudicato follia.
La discretezza, di cui per
certo non mi dà norma l'Accusa, mi trattiene dallo esaminare la condizione di
tutti coloro che si dichiararono coartati, e dal confrontare se le scuse che
addussero e furono tenute buone, a paragone delle mie, dovessero più o meno
gravi considerarsi: forse lo dovrò fare più tardi; - mi basti per ora uno
esempio domestico.
Ferdinando Zannetti
procedè sempre zelante delle libertà costituzionali: nel 12 aprile, io penso
che più efficacemente degli altri alla restaurazione del Principato
Costituzionale desse opera; e fu dei primi, che il Decreto a questo scopo
tendente firmò: era Generale della Guardia Civica, e quindi stava in lui il
comando della forza capace a schermirsi; egli conosceva i pericoli della Unione
con Roma; egli sentiva quanto poco il Popolo, pure allora chiamato a libertà,
fosse disposto a reggimento repubblicano; assennato com'è, prevedeva eziandio
che il suo pronunziarsi per la
Repubblica avrebbe potuto strascinare irreparabilmente il
Governo; egli era stato testimone del mio rammarico espresso agli Ufficiali
della Guardia Civica per la partenza del Principe, e dell'aspra lotta da me
sostenuta perchè la
Repubblica a furia dai violenti non si pronunziasse; e
nondimeno, invitato dal Popolo, ebbe a gridare: Viva la Repubblica! Viva la Unione con Roma275! Quando il Popolo è preso da una passione, e i
più fervidi di quello ti fanno cerchio dintorno, e schiamazzano, e gridano, chi
mai resiste? Chi può resistere? Me poi il Popolo non calcava festoso, ma
torbido; non invitava, ma minacciava; non arrendevole trovava, ma in quanto mi
era dato con industria opponente. Gli arrabbiati della Fazione trionfante,
padroni nei primi giorni di tutto, non si muovono dalle mie stanze, notte e
giorno spiano gli atti, le parole e i pensieri.
E tutto questo sembra
poco all'Accusa; anzi, ella, proprio in coscienza, crede che, invece di
provare, escluda la prova della coartazione!
Io mi ricordo avere
letto nei Giornali dei tempi certo discorso, o lettera di Giuseppe Mazzini ai
suoi amici di Roma, nella quale gli ammoniva non volersi partire di Toscana,
prima di avere conseguíto il suo intento. Ora (e spero che l'Accusa non mi
vorrà smentire almeno in questo), io affermo che il concetto mazziniano fosse
repubblicano276. - L'Accusa avverte,
che la presenza del Principe in Toscana era pruno negli occhi ai Rivoluzionarii277. Qui dentro, Romani, che la Unione con Roma e la Repubblica agognavano;
qui Lombardi, che nella Repubblica vedevano l'unica via per ritornare alla
patria, ai domestici focolari, e alle gioie di famiglia; qui il lombardo signor
Maestri, Inviato straordinario romano, forte del soccorso del Circolo, il
quale, come il signor Rusconi si esprime, lottava quotidianamente per portare
via di assalto la Unione
con Roma. All'Accusa sembra che tutti questi elementi qui condensati escludano
perfino la possibilità, che io mi trovassi nei primi giorni costretto a
consentire quelle cose a cui non trovavo riparo, nè con la forza, nè con la
opinione, nè con lo ingegno.
Che Dio benedica
l'Accusa! Se si confronteranno i varii Dispacci scritti nel giorno 8 febbraio,
dalla forma stessa del linguaggio, chiunque imparziale consideri, argomenterà
la maggiore o minore coazione, che in quel momento pativo. Infatti nei Dispacci
telegrafici scritti a dettatura sotto la immediata pressione, tu leggi d'ingratitudine
e di nera perfidia: nel Dispaccio scritto al Governatore di Portoferraio
si dice, che il Governo non può permettere al Granduca di rimanere in
una parte della Toscana; che la sua presenza potrebbe causare
perturbazione, e forse guerra civile; la cacciata diventa invito
di assentarsi.
Qui per avventura si
obietterà: - e non potevate mandare contr'ordine segreto al Governatore di
Livorno? - In qual modo spedirlo perchè giungesse a tempo? Per telegrafo forse?
Allo Ufficio di Livorno era preposto tale, che prima di recapitare i Dispacci
al Governo ne faceva copia alla Fazione. Tentai rimuoverlo, ma il Popolo
tumultuante volle stesse fermo in Livorno; di vero egli serviva meglio lui, che
il Governo. - Potevate mandare le lettere per la posta. - E chi se ne fidava? -
Per messo particolare. - Non era agevole sottrarmi, nei primi giorni, alla
incessante sorveglianza; e avrei trovato chi avesse voluto incaricarsene? E
trovatolo, in quale estremo pericolo non avventurava lui con me stesso? Adesso
non doveva trattenermi il medesimo dubbio, che in buon punto mi persuase a
resistere alle sollecitazioni del Colonnello Reghini a Livorno? Più tardi, e
quando credei poterlo fare senza danno, mandai persona a Livorno a chiarire i
miei amici delle mie intenzioni, ma allora era impossibile. Pure via, tutto
questo doveva arrischiarsi in negozio sì grave; arrisichiamo.... perchè? Per
far pervenire il Dispaccio in mano di gente che lo avrebbero letto in piazza,
alla presenza del Popolo!
Intanto, è vero che una
frotta di furiosi intronava le orecchie gridando: «Bisogna cacciare il
Granduca; Portoferraio sta per diventare la Terceyra di Toscana; di là muoveranno trame, cospirazioni
e guerra civile: egli è evidente: qui non vi ha mestiero indugio; bisogna
provvedere, e subito; scrivasi al Governatore di Livorno, a quello di
Portoferraio; da tutta Toscana si muovano gente. Il Popolo comanda questo e
questo altro, e vuole essere obbedito, e subito: ora non hanno luogo discorsi,
e guai a chi esita.» Lo sguardo torvo, lo scrollare minatorio del capo, le
pugna percosse sopra la tavola non si rammentano; tacere allora, e obbedire, fu
la mia parte, senza potere nemmeno fare osservare la inanità degli ordini. Nè
meno insensata parevami la lettera, ch'ebbi a mostrare scritta, al Governatore
di Portoferraio, con minaccia di destituzione; avvegnadio se il Principe fosse
sbarcato, protetto da quattro legni da guerra, non il Granduca era in potestà
del Governatore, ma il Governatore del Granduca; e supposto che il Governatore
si mantenesse parziale al Principe, la minaccia di destituzione avrebbe destato
la sua ilarità278.
§ 2. Dimostrazione.
Aveva pensato in prima
di porre a piè di pagina a guisa di note, e per ordine di data, i fatti narrati
quotidianamente dai Giornali, onde confutare lo strano concetto dell'Accusa,
che la violenza dei Faziosi mi lasciasse libero di operare tutti gli atti nei
quali e pei quali venne a consumarsi la perduellione: ma considerando come
questo partito genererebbe confusione e stanchezza, mi è parso bene
raccoglierli tutti in un punto, affinchè servano come di Appendice al paragrafo
della Spedizione all'Elba, e d'Introduzione a quella di Porto Santo Stefano.
Però vuolsi avvertire una cosa, che molti fatti non occorrono rammentati dai
Giornali, avvegnadio le violenze, i soprusi e le soperchierie non si
raccontino; e rifletterne un'altra, che nei primi giorni i Faziosi, troppo più
occupati a operare che a scrivere, nè tempo avevano nè modo di registrare per
lo appuntino i gesti loro: sicchè operavano più, scrivevano meno. A questo, in
parte, devono avere supplito i testimoni uditi dall'Accusa, e meglio
suppliranno questi stessi più diligentemente ricercati, e i nuovi che saprà
addurre la Difesa.
Nel giorno 8 febbraio
abbiamo dai testimoni, ricercati dalla stessa Accusa, che il Niccolini,
eccitando la gente a unirsi a lui per mandare a fine i suoi disegni, affermava:
«ostare io solo.... ma!...» Ancora: che poco prima, o poco dopo di quel giorno
stesso, ad altro testimone Niccolini medesimo confidava: «trovare resistenza in
me.... ma che mi avrebbero messo giudizio.»
Ora dai Documenti
dell'Accusa resulta che il Circolo di Firenze stette in permanenza fino dal 5
febbraio 1849. (pag. 193.) E questa permanenza venne di nuovo decretata, e
con più rigore mantenuta nel giorno 8, nè il 20 febbraio era per anche
sospesa. «Il Circolo... sempre in permanenza fino dal dì 8 corrente.» -
(Popolano del 20 febbraio 1849.) - Che cosa potessero i Circoli non
importa ripetere.
Della sospettosa Polizia
del Circolo l'Accusa stessa raccolse prova, e la citerò più tardi; intanto
osservate come fino dal declinare del gennaio egli procedesse a investigare
sottilmente le cose, e le persone: «Il Circolo del Popolo nella sua seduta
ordinaria del 28 gennaio deliberò di stabilire una inchiesta su i fatti
avvenuti la notte del 27, e nominò una commissione composta di cinque membri
del Circolo, a cui dirittamente furono porti i più estesi e precisi ragguagli
intorno agli avvenimenti in discorso.» - (Frusta Repubblicana, 1
febbraio 1849.)
Quello che il Partito
trionfante faceva e ordinava al Governo che facesse, si ricava dalla Costituente
Italiana del 9 febbraio, organo, come sappiamo, della Emigrazione armata,
fra gli accesi accesissima a precipitare lo Stato a Repubblica, per le ragioni
chiarite in più parti di questa Apologia. «Non lasciate ricadere il Paese in un
fatale letargo, non lasciate ch'ei si addormenti. Agitatelo, tenetene sempre
desta e viva la vita! In ogni momento colla parola, colla presenza, cogli atti
mantenetevi innanzi alla sua attenzione, ponetevi con esso in continua,
incessante comunicazione di spiriti e di idee! Che da tutto e dovunque il
Popolo conosca ch'ei non versa nelle condizioni ordinarie, bensì tra vicende
agitate e pericolose, e anzichè cullarlo con facili lusinghe, gridategli
sempre: all'erta! all'erta! Rammentatevi l'artefice che ha bisogno di aver
sempre rovente il ferro per foggiarlo secondo la propria intenzione. Solo in
questa intimità tra il Popolo e voi, solo dentro a quest'aura di rivoluzione
e di entusiasmo sono possibili le forti cose, a operare le quali oggi voi foste
chiamati.» Padroni di tutto, è da credersi che non si rimanessero ai soli
consigli commessi alle pagine infiammate del loro Giornale, ma sì alle parole
aggiungessero lo esempio.
Se nel primo giorno il
Circolo fiorentino facesse forza, e poi, uditelo un po' dal Giornale che ne
registrava gli atti e i concetti: «Armi al Circolo del Popolo, legione sacra
che stette sempre al primo posto ogni qualvolta occorse combattere i nemici del
Paese, ogni qualvolta occorse spingere la bilancia delle nostre sorti che
pendeva incerta....279» I vecchi consigli di violentare
il Governo praticavansi. -
Voi desumete prova che
nei primi giorni non mi era dato oppormi apertamente in nulla, dal rimprovero
che mi muovono, il 15 febbraio, «di non volere dichiarare la Repubblica, perchè la Repubblica bandisce
decaduto Leopoldo, e di ostare alla Unione con Roma per amore della autonomia
toscana, della quale dieci giorni indietro vi mostravate poco curante.»
Il giorno 8 mostrarsi poco curante era tutto quel più, ed anche non senza molto
pericolo, che potesse farsi280.
«Voi non volete
dichiarare Repubblica, perchè la
Repubblica dichiara decaduto Leopoldo, e la decadenza di
Leopoldo porterebbe intervento, invasione, abbassamento di stemmi inglesi e
francesi, e tutte le diavolerie immaginabili.
Voi non volete per ora
l'Unione con Roma, perchè l'Unione con Roma ci toglie l'autonomia toscana, di
cui oggi vi mostrate tanto passionati, quando dieci giorni fa ve ne
mostravate non curanti; e la distruzione di autonomia importando infrazione
dei trattati di Vienna, importerebbe anch'essa intervento austriaco, invasione
straniera e tutta la solita litania. Ma dunque che cosa volete?» - (Frusta
repubblicana, 15 febbraio 1849)
Gli Emigrati Lombardi
amaramente mi rampognavano nel 14 febbraio, che da sei giorni io non
adémpia le grandi misure nè adoperi lo impeto di azione che mi avevano inculcato
dalla prima ora della mia chiamata al governo. Consigli di gente armata,
accesa di passione politica, smaniosa di ricuperare la Patria, convinta
profondamente che per altra via non vi si ritorni, che sieno, dacchè l'Accusa
non vuol capire, capite voi tutti che leggete queste pagine, e vedete con
quanta giustizia di me si faccia lo strazio disonesto.
«Sei giorni sono
trascorsi, e noi cercavamo indarno negli Atti del Governo quella coscienza
delle grandi misure, quello impeto di azione, che dalla prima ora della sua
esistenza gli avevamo inculcato.» - (Costituente Italiana del 16
febbraio 1849.)
E se l'Accusa volesse
sapere quali ammonimenti mi dessero i Settarii, e come facessero a fidanza, e
se mi lasciassero libero, altro non ha che fare, che leggere queste poche
righe: «Fino dall'8 febbraio abbiamo detto agli uomini che le speranze del
Popolo avevano inalzato al Governo: noi vi richiederemo conto strettissimo giorno
per giorno, ora per ora, della opera vostra, e un minuto sprecato, è una colpa;
e noi conteremo i vostri minuti281.» Vero è bene che chi
scriveva dichiarava essersene astenuto, e in quanto a sè forse non profferiva
bugia; però lo aveva fatto fare dalle Deputazioni incessanti dei Circoli, e
dagli Assembramenti popolari.
E se all'Accusa
prendesse così per genio vaghezza di conoscere quale potere i Giornali e i
Circoli si fossero arrogato sul Governo, può, a tempo avanzato, vederlo in
queste parole: «Noi però abbiamo conservato sopra tutti i vostri atti un
diritto e un dovere; il dovere di vegliare su di voi; il diritto
di provvedere a noi, se voi stessi nol fate282.»
Oda un po' l'Accusa che
cosa il Circolo del Popolo, onnipotente, allora, intendesse istituita fino dal
10 febbraio; e neghi che se io non ero, ella avrebbe veduto il Tribunale
rivoluzionario, e feroce, e insensato, e spietato, come.... come vediamo essere
tutti i Tribunali nei giorni dell'ira di Dio.
«Un Comitato
straordinario di Salute Pubblica sia immediatamente instituito. Sieno uomini
provati a libertà, ad energia di cuore e di mente; abbiano pieni i poteri; sia
rapido, estremo il giudizio: vigilino a vicenda il giorno e la notte;
dispongano sempre di forze determinate e sicure. Sia lor cura scuoprire le fila
intricate e lunghissime della reazione; e scoperte, con lo esempio della pena
prevengano colpe e pene ulteriori. Tutto ciò noi domandiamo al Governo
Provvisorio di Toscana, - lo domandiamo col linguaggio della necessità, con la
coscienza ferma del diritto, con la volontà irremovibile del Popolo libero.»
- (Popolano dell'11 febbraio 1849.)
E che la Unione con Roma, e per
conseguenza, la Monarchia
abolita, il Principe decaduto, la
Repubblica proclamata, fossero non pure desiderii o voti, ma ordini
imposti dalla Fazione trionfante, fino dal giorno otto febbraio, voi lo
vedete a prova. «La Unione
con Roma era per noi condizione della esistenza del Governo Provvisorio fino
dal giorno otto febbraio; fino dal giorno in cui il Popolo restituito
nel pieno possesso dei suoi diritti rovesciava per sempre un ordine di cose
impossibile ormai.» - (Alba, 25 febbraio 1849.)
«Ieri abbiam detto al
Governo Provvisorio di Toscana diritti e doveri. - Con franchezza gli abbiamo
accennati: diremo con franchezza se verranno compiti. - Una verità oggi
ripetiamo, una suprema verità: - il tempo preme, fate tesoro del tempo.
Abbiam detto ieri uniti
con Roma, - oggi diciamo immediatamente uniti. I bisogni vincano le forme.
- Cittadini! quando vi abbiamo affidati poteri assoluti, abbiamo ad essi posto
il suggello di una condizione: l'Unione con Roma: avete accettati gli
uni, avete dunque accettata l'altra; compitela.
Gli avvenimenti
mutarono. La
Repubblica Romana è proclamata. A voi incombe inviare tosto
un plenipotenziario che rechi il saluto e l'omaggio di Toscana alla gloriosa
sorella. A quest'ora l'avrete fatto: se no, perchè il ritardo?
L'Unione con Roma fu
decretata, acclamata dal Popolo: restano a stabilirla nodi di legalità:
stringeteli.
Trentasette Deputati
erano già destinati alla Costituente nazionale. Questi si raccolgano prima in
Costituente Toscana, - compiano la volontà del Popolo, sanzionino il patto di Unione,
costituiscano lo Stato della Italia Centrale. Poi vadano a Roma
rappresentanti nostri alla Costituente Italiana, e dal Campidoglio dettino a
noi i decreti, comunichino a noi le speranze e i bisogni.
Ciò vi domanda il
Popolo, - ciò vuole il Popolo. Poichè se dai bisogni, dalle speranze e
dai fatti fu il tempo prevenuto, l'opera deve eguagliarlo non solo, ma
superarlo eziandio. Meglio con l'opera d'oggi affrettare il domani. anzichè
affaticarci a ricostruire sui frantumi di ieri283.»
E badate, che nè soli,
nè più temibili erano i Lombardi, condotti in parte dallo stesso Ministero
Capponi, ma Napoletani, Romani, e Romagnuoli crescevano l'ansietà, e la paura.
Fino dall'8 febbraio la
Fazione organizzò una Legione Romana; nel 12
del medesimo mese ne apparecchiò un'altra; il Popolo anch'esso si armò: «Questa
sera una nuova Legione di Romani sta organizzandosi per offerire i suoi
servigi al Governo. Anche il Circolo del Popolo sta ordinandosi in legione
armata, per mettersi a disposizione delle autorità.» E mettersi a
disposizione del Governo significava: attendesse a fare a modo del Partito
Repubblicano; se no, guai!
Che cosa si proponesse
fino dall'8 febbraio 1849, e che cosa gridasse tutto il Circolo
del Popolo in permanenza, lo si legge nel N° 16 febbraio del Popolano:
«Nell'adunanza di ieri sera il Circolo del Popolo fu invitato da un socio a ripetere
con solenne dichiarazione quello che fino dal dì 8 febbraio era stato nel cuore
e nel grido di tutti: la decadenza del Despota, e l'abolizione della
Monarchia.»
«Qual bisogno ha oggi la Toscana di rimettere ad
una Assemblea la decisione di un voto, il quale fu già deciso dal Popolo?...
Il Popolo ha già deciso di essere unito con Roma, e Roma ha proclamato la Repubblica il giorno
stesso di tale decisione.» - (Popolano del 15 febbraio 1849.)
E fino da Roma venivano
le congratulazioni al Giornalismo toscano per avere insistito presso il
Governo Provvisorio affinchè indissolubilmente si unisse con Roma. Altrove
notammo, e qui giovi ripetere, Giornalismo di partito trionfante, che sia; e
che cosa importassero le parole e le insistenze della Emigrazione Lombarda
organizzata a corpo militare, e del Circolo armato.
Di buon grado
riproduciamo le seguenti osservazioni del Giornale romano l'Epoca
intorno alla pronta Unione della Toscana agli Stati Romani:
«Noi facciamo plauso al
Giornalismo liberale di Toscana, il quale fin dal giorno di partenza del
Granduca Leopoldo insistè presso il Governo Provvisorio, perchè si unisse
subitamente e indissolubilmente col Governo della Costituente Romana. E questo
fatto, se così vogliam chiamarlo, questo diritto, se meglio intendiamo di
esprimerlo, era implicito nel mandato consegnato dal Popolo ai tre
rappresentanti del Governo Provvisorio medesimo....
La Toscana in qual senso potrebbe ella adunare la
sua Costituente? O a meglio dire, cosa potrebbe decidere questa Costituente che
nel fatto non sia già deciso? O ella sceglie il Governo di Roma per effettuare
la sua Unione; ed allora una parola, un atto fraterno non basta nei momenti
attuali di tanta vitalità? O ella recede dalla Repubblica.... e in qual modo
tanto trionfo avrebbe ottenuto colà il principio democratico?
No, non è possibile
giammai. La Toscana
è democratica, è repubblicana, e non da adesso. Lo è per tradizioni, lo è per
sentimento. - Coraggio, uomini del potere! Tempo è di unione e di concordia una.
Affrettando la fusione dei popoli delle due famiglie, voi affretterete la Costituente
italiana e la Guerra.» - (La Costituente
Italiana, 19 febbraio 1849.)
In quel medesimo giorno
istituiscono Circoli parrocchiali per agire di concerto col Circolo generale:
«E per accendere lo spirito pubblico, fu notato non essere via migliore che
istituire subito, in ogni Parrocchia, Circoli parrocchiali da agire tutti di
concerto col Circolo generale del Popolo fiorentino284.» Sicchè nel giorno 10 poterono armarsi i
Faziosi in centurie per istimolarmi, dicevano essi; ma in fatti per
dominare tiranni. «La mattina di sabato (10) fu vero scopo d'eseguire
immediatamente la ordinata classazione in centurie e decurie, e di stimolare
il Governo a volere lo armamento dei patriotti italiani. Fin d'allora fu
aperto nel suo seno un corpo di guardia fisso, ove furono tenute esposte note
di soscrizione per tutti i patriotti che, nei pericoli della patria, volessero
impugnare le armi. Il sabato sera il Circolo era diviso in due parti: una
parte discuteva, l'altra era sotto le armi.... Il Circolo e il corpo di
guardia non si sono più chiusi. L'azione del Circolo ha dato un moto alla
popolazione, che oggi è accorsa in folla a sottoporsi alle armi per
sicurezza dell'ordine pubblico.... Tutti i Fiorentini in armonia hanno oggi
mostrato che il Popolo poteva sfidare qualunque pericolo285.»
La continua guardia, la
indefessa pressura si prova dai Documenti stessi dell'Accusa: «Fino dal 5
febbraio il Circolo fiorentino si è costituito in permanenza, ed ha creato
una Commissione perchè stia in continua corrispondenza col Ministero286.» - Gl'inquisitori non si staccavano mai dal
fianco, ordinavano, investigavano, riferivano, sospettosi sempre, pronti
all'accusa.
Dal Circolo armato la
città, in cotesti giorni, si perlustrava. «La perlustrazione della città non
era neppure trascurata287.» e coteste armi
sbigottimento e terrore nei cittadini incutevano, cosicchè al Governo,
smarriti, si raccomandavano esigendo misure che avrebbero precipitato alla
rovina, condizioni già piene di difficoltà, dalle quali, se prudenza e senno
non giovavano a salvare, niente altro poteva. Pretesto a parecchi, motivo vero
in molti di quel tremendo ribollire, era trovare modo efficace di combattere la
guerra italiana; perciò tanto più arduo contrastarli, quanto meglio ne appariva
lo scopo all'universale accettissimo; e nella seduta dell'11 febbraio, nel
Circolo Popolare si dichiarava che: «.... la divisione dell'Italia avendo fatto
finora il nostro infortunio, anche nell'ultima guerra di Lombardia contro gli
Austriaci, la sola unione di tutte le forze italiane in un solo Governo, può
scacciare il nemico straniero di seno alla patria. - I Principi non sono stati
da tanto. L'Italia unita sola il potrà. - Nè a ciò poter recare impedimento,
notavano alcuni degnissimi sacerdoti, le minaccianti scomuniche di Pio IX288.»
Nè il Circolo fiorentino
si contentava, fino dai primi giorni del febbraio, raccogliere le
proprie forze, ma eziandio riuniva quelle degli altri Circoli per difendere
l'ordine repubblicano; il che agevolmente s'intende per imporre la Repubblica. «Il
Circolo armato non potea fare a meno di ricercare agli altri Circoli, nel
presente stato di cose, il numero di quelli Italiani, che, socii o non socii,
fossero pronti a porgere il loro braccio alla difesa dell'ordine
repubblicano. Il perchè fu ordinato di tosto scrivere in proposito289.»
E grande fu e penoso lo
schermirsi dalle pretensioni di tôrre via i beni e i tesori sacri alle chiese,
sopprimere gli ordini cavallereschi, e incamerarne la sostanza. Di ciò tu trovi
traccia nei Giornali, fievolissimo eco di quanto a voce burbanzosamente
ordinavano: «Secolarizzati tutti i beni ecclesiastici. Il monacume è
tempo ormai che cessi da impinguarsi a spese della nazione.... Le chiese siano
private di tutto il superfluo. Li antichi credenti onoravano Dio con altari di
pietra e calici di legno, ec.
Soppressi tutti li
ordini cavallereschi,
ed incamerarne i tesori290.»
E vedete com'era libero
io, quando, tutto giorno, i rappresentanti della Emigrazione Lombarda
venivano a rammentarmi i loro proponimenti, e, le armi brandendo, mostravano
come intendessero sostenerli: «Noi ci troviamo in momenti di supremo pericolo;
non bisogna nè esitare nè oscillare sulla via che abbiamo eletta a percorrere,
poichè la nostra salute è sola nell'azione rapida e vigorosa. - Lo verremo
tutto giorno rammentando agli uomini a cui è fidato reggere i destini della
Patria.
La reazione tenta qua e
là sollevare la testa; non rifugge da nissuna arte feroce e sovversiva, da
nessuna passione, per quantunque bassa e antisociale, per giungere al suo scopo.
Ella ha deciso riconquistare il potere fuggitole di mano attraverso al caos
della anarchia, attraverso alla guerra civile: ella non rifuggirà dal
comparirvi innanzi come vanguardia ed alleata alla invasione straniera.
La reazione stimola i
ciechi istinti delle popolazioni più ignare della campagna, mette in atto la
molla segreta della superstizione, si rafforza della influenza dei vasti
possessi, della colleganza con un clero che abusa il facile dominio delle
coscienze.
Ella ha sospinto il
Granduca a Siena, lo ha consigliato alla fuga. Il Principe, docile alle sue
insinuazioni, ha assunto di rappresentare la sua parte nel dramma sanguinoso
della ricostruzione del dispotismo; ora tocca ai vecchi suoi sostenitori a
sottentrare alla riscossa ed adempire alla propria.
Ma noi siamo preparati a
riceverli e a rintuzzare convenientemente questa perfidia nuova, che lavora e
cospira nel secreto, che getta i germi della divisione nel momento in cui
l'Austriaco minaccia alle porte, che vuol renderci all'Austria, anzichè arrendersi
a questa forza rinnovatrice e irresistibile, che avvia l'Italia verso un
nuovo destino.
Stoltezza troppa ci
hanno supposta i nostri nemici, e semplicità inaudita, se credettero
persuaderci causa vera della fuga di Leopoldo essere state le paure della sua
timorata coscienza291.»
E già fino dal giorno dieci
febbraio 1849, se non adempio gli ordini imposti della fusione, mi si
minaccia la vita: «In qualunque Governo è sacramento, ma in un Governo che fu
decretato dal Popolo, e che solo per suo volere sussiste e comanda, è
condizione di vita, è necessità ineluttabile. Nè si dee, nè si può dire -
Domani - a chi oggi non ha da vivere. - Domani, o non sarebbe più vivo lui,
o nol sareste voi292.»
I soldati che
rifiutavano prendere il giuramento, comecchè da me lasciati liberissimi di
prestarlo o no, e di tornare, volendo, alle proprie case, sono vilipesi e
percossi; avviso ai renitenti: «I pochi soldati che stamani si rifiutavano di
prestare giuramento, uscendo di Fortezza, venivano accolti a fischi e
sassate dal Popolo: essi tornano tutti contriti a domandare di prestarlo;
ma non lo si concedeva loro, e, posti in luogo appartato, si dava loro agio di
riflettere affinchè il voto fosse spontaneo e non estorto dalla paura293.»
«Ieri, 12 stante, le
truppe prestarono giuramento al Governo Provvisorio toscano, salvo poche
eccezioni. Coloro che recalcitrarono furono respinti in fortezza a furia di
Popolo, ed i loro commilitoni ricusarono riceverli294.»
Avanti: perchè ogni uomo,
anche a me più fieramente avverso, si persuada come potessi operare spontaneo
io in mezzo al turbine rivoluzionario. E se si obiettasse che i Livornesi erano
chiamati a Firenze dal Governo, risponderei ch'è vero, ma che, innanzi di
partire da Livorno ammoniti come a Firenze si chiamassero contro i nemici
interni, non già per dimostrazione politica295, essi avrebbero
osservato il precetto, dove non fossero stati provocati dal Popolo e dal
Circolo accorrenti.
«Ogni discussione del
Circolo fu interrotta quando fu fatto il lietissimo annunzio del pronto arrivo
dei Livornesi per la strada ferrata, con cinque cannoni, sessanta artiglieri e
seicento uomini. Fra i clamorosi applausi fu scelta una deputazione per andare
ad attenderli. Erano le 9 1/4 di sera (11); ma ad un tratto altre voci
annunziarono un moto di Popolo che andava ad incontrarli; ed allora il
Circolo tutto, tranne gli obbligati al seggio e gli armati, con moto spontaneo,
si volse incontro ai Livornesi che furono salutati, in Borgo Ognissanti, col
sublime grido di unione, di Viva la Repubblica italiana, a cui i fieri Livornesi
non furono tardi a rispondere col medesimo grido. È indicibile la gioia di
questo minuto popolo fiorentino al nome di Repubblica! Ciò mostra come in
esso non si sieno mai spente le abitudini repubblicane, come dalle due infami
dinastie dei Medici e degli Austriaci non se ne sono potute distruggere, in tre
secoli, le memorie. E ciò porge la più salda speranza che in tutte le città
italiane, vissute a Repubblica, i medesimi spiriti repubblicani abbiano, con
egual forza e vigore, a risorgere. È però vero che se alcuno gridava
semplicemente: Viva la
Repubblica, non mancava chi subito avvertisse di
aggiungere un altro grido: Italiana. Ciò mostra che se noi Italiani
vogliamo la libertà municipale delle passate Repubbliche, fatti accorti che
l'Italia non può vivere di fronte ai grandi Stati europei se non è unita in un
solo Stato con Roma per sua metropoli, la Repubblica Italiana
deve regolare le libertà municipali. Allora ogni città sarà libera, e l'Italia
sarà un solo Stato con leggi a tutti gli Italiani comuni.
Nel suo passaggio in
Piazza del Popolo, di faccia alla linea, fu notato il grido: Abbasso li
Uffiziali codini, alludendo chiaramente a quelli che nelle Fortezze avevano
tentato di spingere alla diserzione i soldati e di sciogliere l'esercito; al
quale grido i nostri bravi italianissimi soldati prontamente risposero:
Abbasso296!»
Il Circolo fiorentino
fino dal giorno 11 febbraio 1849, col pretesto di avvantaggiare la opera
del Governo Provvisorio, tira a sè le milizie; così togliendogli ogni mezzo di
resistenza si apparecchia a proclamare la Unione con Roma e la Repubblica: «Fino dalla
mattina dell'11 il Circolo aveva mandato un proclama a stampa nelle due Fortezze,
da Basso e di Belvedere, per avvertire i soldati delle mene traditrici
di alcuni loro Uffiziali. Nè ciò fu senza effetto; perchè, nella sera, appena
il Circolo, adunato in permanenza e armato, aperse la ordinaria
discussione, molti militi, da bravi e buoni Italiani, sì dell'artiglieria che
della linea, presentarono al Circolo una dichiarazione firmata ove proclamavano
i loro patrii e italianissimi sensi, e la piena fede che avevano nel nuovo
Governo, mostrandosi pronti a spargere il loro sangue per l'amatissima patria,
l'Italia. Gli amplessi e i baci fraterni coronarono l'opera. Quindi fu fatto,
discusso e dato loro un altro Indirizzo da recarsi in Fortezza agli altri
fratelli della milizia, per sempre più riaffratellare tutti i cuori in un
desiderio comune: la salvezza d'Italia297.»
L'Accusa m'incolpa (e si
è veduto) di avere conferito impieghi ai rivoluzionarii; i rivoluzionarii fino
dal 12 febbraio mi rampognano all'opposto per non averli ricevuti. Chi di loro
ha torto, chi ragione? Ambedue torto, imperciocchè la passione ingombri la
mente, e alla pacata disquisizione del giudizio sostituisca l'astiosa agonia di
nuocere.
«Noi crediamo fermamente
e con religione professiamo la massima che il nuovo Governo sia per dovere
obbligato a collocare tutta l'autorità governativa e tutta l'autorità militare negli
uomini che hanno saputo fare la rivoluzione, perchè altronde la rivoluzione
repubblicana non è sicura. Tanto per loro massima298.»
L'Accusa sostiene, ch'e'
fu un nonnulla combattere quotidiana battaglia, e spesso quasi vinto tornare a
pertinace difesa, affinchè la
Toscana nella Unione romana non precipitasse, e il Popolo
prima intorno alle sue sorti, come padrone di sè, s'interrogasse, e decidesse.
Gli Esuli Lombardi all'opposto non la pensavano così; tengono essere questo
negozio supremo, e vi si affaticano intorno con tutti i nervi; di Assemblea non
vogliono sentire parlare; àncora di salute ultima la Unione con Roma, donde
uscirebbero la guerra, e le forze per poterla vincere. Quanto questo partito
potesse avvantaggiare i loro disegni, io non compresi allora, e nè anche adesso
giunsi a capirlo: non importa: essi lo pensavano, oltremisura smaniosi a
conseguirlo.
«Lasciate dormire in
pace le Assemblee Legislative; non evocatele adesso nel momento del pericolo,
alla vigilia della guerra. A che mai un'Assemblea convocata a 34 giorni
d'intervallo, un'Assemblea che dovrà precedere la Costituente, perchè
chiamata a sanzionare la legge? Fate tesoro del tempo, non rimettete la vita
del Paese a così lontana epoca; non date agio alla reazione di diffondere le
malvagie influenze, non fate disperdere con lunghi conflitti elettorali quella
forza che dovete tutta concentrare nella difesa dello Stato. Funesto esempio di
debolezza potrebbe essere questo procrastinare, questo invocare una remota
sanzione legale al potere, che il Popolo diede intero nelle vostre mani. Ben è
dritto che l'Unione della Toscana colla Romagna, che voi ora proclamerete
per impeto di volontà popolare, per suprema necessità di circostanza, abbia
a risultare, anche qual forma temporaria, voto legalmente espresso dal Popolo.
Ma in tal caso basterà promulgare all'atto dell'Unione la legge sulla
Costituente Italiana, fare eleggere i 37 Deputati, spedirli a Roma, e ottenere
dai Deputati Romani e Toscani insieme raccolti la prima sanzione di quella
forma, che poscia dovrà essere sottoposta al supremo giudizio della Costituente
di tutta Italia. E le elezioni devono essere compite in 10, in 8 giorni, in meno se
pur si può, giacchè il tempo urge, e per poco che aspettiamo, i registri
elettorali dovranno cambiarsi in ruoli di combattenti299.»
E poco più oltre sentite
con quali insistenze c'intronavano le orecchie, e ce le facevano
intronare dal Popolo; e nonostante, tutto questo parrà poco all'Accusa. Ma che
dico io, parrà poco? Sembrerà al contrario, che sia nulla, anzi che sia prova
di piena libertà, - se non superiore, almeno uguale a quella di cui nelle
appartate stanze godevano i Giudici alloraquando bastava loro il cuore per
dettare le pagine, che di me, della mia fama, e delle mie opere, fanno così
acerbo governo!
«Noi rammentiamo con
insistenza sempre più forte il debito che ha il Governo Provvisorio di
rispondere con alacrità, con energia, ai supremi bisogni del Paese. La patria è
in pericolo; questo è il grido che vogliamo risuoni continuamente alle orecchie
dei governanti, questo sia il pensiero consigliatore d'ogni loro provvedimento.
Gli avvenimenti incalzano, il tempo fugge rapidissimo; è d'uopo prevenire gli
uni, economizzare, moltiplicare l'altro. Le rivoluzioni si compiono solo per
virtù di ardimenti: osiamo, osiamo; affrettiamoci; l'avvenire è dei confidenti
e degli audaci.
Una potenza somma
d'attività è nel Popolo, l'entusiasmo. Non lasciamo che dorma inoperoso nei
cuori, risuscitiamolo, facciamo che alla prima sua ebbrezza sottentri il
coraggio dei forti propositi... è solo dalle intime fonti dell'anima commossa,
agitata, che si traggono le virtù che fanno le nazioni.
Osate, osate, noi
ripetiamo ai cittadini del Governo Provvisorio; siate quali il Popolo vi ha
fatto, dittatori nell'ora del pericolo; abbiate la coscienza di questa forza
ond'egli vi riveste e vi sorregge, non vi arrestate davanti alle temerità
consacrate dalle estreme circostanze. Ogni titubanza, ogni indugio può tornare
fatale, e la Patria
ve ne chiederà un giorno strettissimo conto... Siate veramente governo di
rivoluzione, organizzate a rivoluzione il Paese, non impedite con larve
pericolose di legalità la vostra azione, bisognosa di prontezza e di vigore.
Troppo furono finora funeste le lentezze ai poteri emanati dalle rivoluzioni;
vi giovi, per Dio! l'esempio degli errori passati ad evitarne la prova.
Il voto del Popolo, la
forza irresistibile delle cose, il bisogno di concentrazione e di potenza,
chiedono oggi imperiosamente l'Unione della Toscana colla Romagna. Lo chiede
1'Assemblea Romana... Non esitate, non indugiate a risolvere; Romagna e Toscana
non debbono da questo punto formare che uno Stato solo, nucleo della futura unità...
I Toscani vogliono essere uniti in un solo Stato co' Romani... Dite dunque la
solenne parola... È il Popolo che ve lo chiede; non temete d'usurpare sulla sua
sovranità...
Noi lo ripetiamo ancora
una volta ai cittadini del Governo Provvisorio: osate, osate; la salute della
Toscana sta tutta da queste parole: Unione con Roma e convocazione della
Costituente. L'istinto popolare, nel suo squisito buon senso, ha già precorso
il vostro giudizio, e domanda questa Unione. Voi avete udito le sue grida di gioia
e il suo saluto a quella Repubblica, nel cui nome ei vuol combattere e morire;
voi potete e dovete sanzionare quel saluto e quelle grida. In nome dell'Italia,
non esitate. L'ardimento vi renderà gloriosi; il dubbio potrebbe perdere la
patria300.
E non è tutto ancora:
nel 12 febbraio Popolo e Soldati invadono i cortili di Palazzo Vecchio e
urlano: Repubblica! Per l'Accusa questa pure è prova esclusiva di
coazione... Ma è di pietra, è di ferro, o di che cosa è mai cotesta Accusa?
Veramente ella in durezza disgrada le sfingi di granito dello antico Egitto;
non v'ha metallo, che possa rassomigliarsi a lei; io rimango sbalordito a tanta
sovrumana costanza... Solo mi rassicuro alquanto pensando, che ella tale
argomentava nel gennaio del 1851; posso io venirle senza tremore
innanzi, e domandarle se nel febbraio 1849 ella avrebbe voluto, o potuto
procedere come insegna nel gennaio del 1851? - No; ella non lo avrebbe
potuto, nè voluto, perchè se le fosse bastato il cuore avrebbe pensato sopra
tutto a salvare (in Dio confidando e nella sua coscienza) la Società che agonizzante le
stava abbandonata fra le braccia.
«Alle ore tre
pomeridiane, il Circolo accoglieva un numeroso drappello di militi d'ogni arma,
che venivano ad affratellarsi. Poco appresso, dopo le calde accoglienze e gli
applausi, il Circolo, con bandiere alla testa portate dai militi, moveva
incontro ad altra schiera di militi, che attendeva da Santa Maria Maggiore; e
tutti uniti al sublime grido di: Viva la Repubblica Italiana!
e sempre ingrossando, si sono condotti fino nei cortili del Palazzo della
Signoria, ad applaudire al Governo della nostra Repubblica. Poi sono andati con
grande ilarità a cantare il De profundis all'aborrita dinastia, innanzi
alla porta del Palazzo Pitti, fra le risa e gli applausi fino degli Anziani.
Tre soldati, arrampicatisi ad una finestra, vi hanno collocato una bandierina
rossa, fra le acclamazioni d'immenso Popolo. Quindi il corteggio ha salutato a
Santo Spirito i Livornesi301, poi si è recato fuori
di Porta San Frediano; e dal ponte di ferro e dalle Cascine è rientrato, per
Porta al Prato, in mezzo alle faci, in città, ove percorrendo Borgo Ognissanti,
Lung'Arno, Piazza del Popolo, Via Calzaioli e altre principali vie, si è, dopo
tre ore di gioia repubblicana, sciolto tranquillamente302.» -
Questi fatti, notati dai
Giornali nel giorno 13 febbraio, accadevano il 12; per la quale
cosa, irridendomi (e l'ho notato anche altrove) il Popolano intorno alla
mia lettera inserita nel Monitore gridava:
«La Toscana, e il suo Governo
Provvisorio, hanno sentito questa sera la voce del Popolo, fragorosa e
terribile come il tuono, empiere l'aria del grido: Viva la Repubblica! - La Toscana, e il suo Governo
Provvisorio, hanno veduto come il Popolo sia maturo per la libertà, e quanto
andassero errati coloro che lo dicevano ligio troppo ancora alle tradizioni del
principato (e fra questi eranvi ancora gli oracoli del Giornale officiale il Monitore).
- Toscana decida, e il Governo Provvisorio sanzioni tale decisione303.»
Vediamo adesso i fatti
successi nel 13, e raccontati il 14. - Una Deputazione di Circoli
fiorentini, ed un'altra di Popolo livornese, vengono tumultuariamente a impormi
la Repubblica;
io con le ragioni più efficaci che seppi mi schermiva, e li conforto ad
aspettare. I Giornali subito mi pongono segno al feroce sospettare del Popolo
commosso.
«Firenze, 13. - Una
deputazione dei Circoli e del Popolo livornese, recatasi a Firenze, si presentò
stamattina a Palazzo Vecchio, esponendo al Governo Provvisorio i desiderii di
tutta la popolazione: venisse cioè proclamata la Repubblica, e tosto si
unisse la Toscana
a Roma, atterrandosi tutti i segnali di separazione fra le due Repubbliche. La Deputazione venne
accolta dall'attuale Presidente del Governo, Guerrazzi, molto freddamente, e
non potè ricavarne parola di promessa, essendo a suo dire da aspettarsi
l'Assemblea, che viene convocata pel 15 marzo304.»
Il Circolo fiorentino
manda Deputazioni al Governo, per essere ragguagliato intorno alle condizioni
delle cose; intanto spedisce uomini armati di sua autorità contro
Empoli.
«... Riferirono notizie
che spinsero ad inviare deputazioni al Governo. Intanto fu reso pubblico, come
una piccola spedizione del Circolo, composta di soli 20 uomini, guidati dal socio
Spinazzi, avesse la prima e sola avuto l'ardire, frammezzo le voci minacciose
che si spargevano, di spingersi verso Empoli.... La Deputazione ottenne
dal Governo conferma delle cose già note, e migliori speranze pel dì seguente305.»
Inviando la seguente
circolare a tutti i Circoli della Toscana, l'Alba apparecchia la
rivoluzione repubblicana; il Popolano si leva con l'Alba, e la
promuove caldamente.
«A voi che vi siete
addossata una sì nobile missione nel regolare e manifestare i desiderii del
Popolo da voi rappresentato, a voi spetta una generosa iniziativa in questi
momenti, nei quali la patria nostra attende ansiosamente la salute invocata. A
voi, giovani e forti creature del Popolo, sostenitori de' suoi dritti,
ammaestratori de' suoi doveri, a voi il compiere al più presto l'opera di
rigenerazione che incominciaste sì bene. Sollecitate lo invio delle Deputazioni
vostre a Firenze. Tutte abbiano uno scopo solo, una voce sola: Unione
immediata con Roma. - A questo patto sta il Governo Provvisorio in Toscana.
Il Popolo appose questa condizione, la consacrarono nell'Assemblea i
Rappresentanti di tutta Toscana con unanime voto; altro non grida, altro non
domanda Firenze: Unione con Roma. Questa è la calda preghiera, la
volontà irremovibile di quanti amano Italia e lei vogliono prima che Toscana e
Romagna e Sardegna, nomi di un tempo. - Voi, o membri dei Circoli Toscani,
questo dovete ripetere, con la energia di uomini maturi a libertà, al Governo
Provvisorio che accettaste con noi. - Questo unicamente voi dovete ripetere. -
E le invocate legalità, che non basterebbero a salvarci dalla possibile e
probabile invasione dell'Austria, cadano davanti all'urgenza del pericolo, alla
volontà del Popolo toscano, al fremito che irrompe dal cuore di quanti vogliono
che Italia sia. - Roma ci ha chiamati con una suprema parola, con una
parola di fede schietta, d'amore ineffabile. - Toscani! Come vorrete rispondere
a Roma? Le direte voi: per renderti lo addio, per stringerci a te, noi
aspettiamo il 15 marzo? Ed allora quale sarà il giorno che attenderete voi, o
Toscani, per assistere alla Costituente nazionale? - Deh, correte, o
Rappresentanti dei Circoli, correte in nome di Dio! e presto, a Firenze! - Noi
vi attendiamo con ansia indicibile, con inenarrabile affetto; noi vi apriremo
le braccia, noi vostri confratelli nel sostenere pubblicamente i diritti del
Popolo. E vi accoglieremo col giubbilo, con la riconoscenza di chi vede
rifiorire una cara vita e minacciata e soffrente306.»
E per ben tre volte
questo Proclama mandavasi per tutta Toscana, e con tali comenti lo
accompagnavano:
«Questo indirizzo noi
ripetiamo anche quest'oggi, e lo ripeteremo sempre finchè ne sia mestieri. -
Preghiamo i Circoli Toscani a fare noto all'Uffizio dell'Alba lo invio delle loro deputazioni, o di
spedirci copia dei loro Indirizzi al Governo Provvisorio in proposito della
Unione con Roma. Noi li pubblicheremo immediatamente, ed avremo uno
incoraggiamento di più a non ismettere in quella perseveranza, che, se ci
suscita le velleità dei pochi, ci frutta d'altronde la simpatia di ogni buono
Italiano, e il soddisfacimento della nostra propria coscienza307.»
Così un Governo fuori
del Governo avevano creato i Settarii, e tutti infiammati in quei loro smaniosi
spiriti, per venire a capo dei concepiti disegni, non badavano con accuse di
ogni maniera, ed insinuazioni di tradimento a mettermi in mala voce del Popolo,
ed anche, poichè docile benchè nelle mani loro non mi trovarono, a farmi
capitare sinistramente.
I Comitati di pubblica sicurezza
eletti dal Governo, screditati:
«Creansi Comitati di
pubblica sicurezza, ma si compongono di elementi eterogenei, impossibili; ove
al buono fa contrasto insormontabile il tristo, l'inerte allo energico, al liberale
repubblicano il codino-tricolore308.»
Accusano il Governo, e
perchè? Perchè la decadenza della Casa di Lorena non dichiara, un sospettoso
timore per la Repubblica
diffonde; perchè il Granduca e la sua famiglia lasciò fuggirsi dalle mani,
e mandò a Empoli un uomo egregio, di temperato consiglio, ad assettare le cose.
La maggiore colpa è per Empoli per avere tumultuato, il restante per
noi per non avere spento il tumulto nel sangue. Il Popolo deve reprimere da
sè gli eccessi del Popolo malvagio (e questo mena diritto allo scannare
per le piazze); ma al Governo corre obbligo di mostrarsi rivoluzionario rovinando
innanzi a suon di cannonate e moschettate. A mente riposata, e in tempi
tranquilli, coteste più che vane jattanze sarebbero festevoli smargiasserie, ma
non era così quando servivano a gittare olio e zolfo sur un fuoco che
minacciava divorarne tutti.
«Ma il democratico
Ministero, ma il Provvisorio Governo, volendo contentar tutti, non
contenteranno nessuno: volendo salvar tutto, non salveranno nulla.
Non sono questi i tempi,
nè sono i governi rivoluzionarii, i governi a Popolo, che permettere debbono
alle fazioni politiche di avvalorarsi, di diffondersi col mezzo della impunità,
e di far causa comune coi ladri e coi briganti. - Non è più la stagione di
lasciare pazientemente perorare la causa della Dinastia Sabauda ad un Massimo
D'Azeglio a Lucca, ad altri in altri luoghi.
Non vi basta, o
uomini del Governo Provvisorio, non vi basta non volere proclamata la
decadenza della Dinastia di Lorena, non vi basta lo insinuare un sospettoso
timore per la parola Repubblica, non vi basta lo esservi lasciato sfuggire di
mano l'ostaggio prezioso del Reale Arciduca e della sua famiglia che voleva
oggi prestar mano, non ispegnendola in tempo, ad accendere la reazione?
Quando a voi si presentò
una Deputazione empolese per invocare l'assistenza vostra contro l'impeto di
una turba di masnadieri, che cosa faceste voi?... Inviaste uno dei più
tiepidi fra gli amici vostri, il Manganaro, ottimo conciliatore di cose
conciliabili, ma inetto a far marciare ad un passo disordine e tranquillità,
moderazione di gastigo ed esorbitanza di colpa.
E il tumulto divenne
aperta rivolta; la masnada, esercito; il danno che lieve saria stato riparare,
divenne danno difficilmente riparabile.
A Empoli la maggior
copia della colpa; - a voi il restante; giacchè se il vero Popolo deve
sapere, occorrendo, da per sè stesso reprimere gli eccessi del Popolo malvagio,
un Governo che vuol nome di democratico non deve aborrire da quello di rivoluzionario;
e le rivoluzioni, per Dio, non si fanno a furia di sermoncini in piazza, ma coi
fucili e coi cannoni309.»
Si mandano Deputazioni
in Fortezza per giustificare i soldati che non erano comparsi allo appello; e ciò
per onore della disciplina! E agli ufficiali trasognati, per cotesti
singolari onori renduti alla soldatesca disciplina, invece di cacciare la gente
contumace in prigione, toccava a farle di berretta e a dirle: brava! Nuovo
argomento della forza che a quei giorni esercitavano i Circoli, e della
necessità di obbedirli. Nel Circolo si parla della mia opposizione allo
inalzamento dell'Albero; coteste brevi parole somigliano la nuvola nera pregna
del fulmine: «Nella pubblica discussione di ieri sera (13) fu risoluto di spedire,
per espresso desiderio dei militi e per onore della disciplina, una
Deputazione ai comandanti delle due Fortezze di Firenze, perchè fossero
giustificati tutti quei militi i quali non poterono rispondere all'appello
serale per far parte delle pubbliche dimostrazioni in favore della libertà e
della unità italiana, che occuparono il Popolo fiorentino nella giornata.
Dipoi, per la tanta
affluenza di Popolo, convenne trasferire il Circolo negli ampii corridori del
Convento di Santa Trinita. - Il soggetto che più trattenne la discussione fu
l'Unione da farsi con Roma. Su di che non poteva esservi pensiero discorde.
Solo parlossi di varii modi, ed ogni conclusione fu differita.
Fu ragionato ancora
della erezione di un Albero della Libertà che nella sera era stato portato in
Piazza del Popolo per piantarvelo. Fu udito come il Guerrazzi avesse dissuaso
il Popolo310.»
Il Circolo tratta
comporre una schiera repubblicana di 1,000 uomini, seguita da un tribunale, per
iscorrere il Paese e giudicare i colpevoli; se ne rimane, per ora, a
cagione dei tumulti empolesi repressi. Voi da ciò lo vedete; il Circolo si
affatica a procedere come Governo separato: sola via a trattenerlo, e sventare
le insidie per farmi segno ai sospetti e alle ire popolari, sta nel preoccupargli
il passo su quanto egli minaccia imprendere fra mezzo agli orrori
rivoluzionarii. «Visti i presenti casi della Patria, il Circolo si occupò della
formazione intanto di una schiera di 1000 uomini eletti, di puro sangue
repubblicano, da percorrere in tutti i sensi il Paese ovunque si
manifestassero accidentalmente macchinazioni tedesche; schiera seguita da un
tribunale per giudicare i colpevoli. Ma l'ultimazione dei ladronecci e
degli scandali d'Empoli ne fece respingere, almeno per ora, la proposta311.»
Comecchè dei fatti che
seguono occorra traccia nei Giornali posteriori al 14 febbraio, io gli riporto
perchè appartengono ad epoca anteriore. Il Circolo fiorentino, avvisando i modi
di cacciare il Granduca da Porto Santo Stefano, delibera: «Quindi fu trattato
dei mezzi di scacciare il Despota dall'ultimo suo nido di Santo Stefano, e di
avviare spedizioni popolari da tutte le città del presente Stato provvisorio, a
fare una crociata verso quel punto, e percorrere il Paese affine d'infiammarlo e
muoverlo tutto per la santa causa; e fu proposto che Firenze desse
cominciamento a queste patrie spedizioni coll'inviare intanto 1000 uomini a
Siena, italiani e repubblicani312.»
I Lombardi, uomini
intendenti assai delle faccende politiche, a quanto il Governo in quei giorni
operava costretto, non si acquietavano punto; non pareva loro che ei desse
sicurezza di compimento finale; nulla per essi era fatto, se con la decadenza
del Principe e la proclamata Repubblica non si varcava il Rubicone; appunto
come adesso per l'Accusa è nulla non averlo passato, ed avere impedito che
altri lo passasse! Ma la Emigrazione Lombarda, è da credersi che dei suoi
interessi intendesse meglio nel febbraio del 1849 che non l'Accusa nel gennaio
del 1851; quindi, mentre questa reputa lo accaduto fra l'8 e il 14
febbraio completo elemento di colpa, quella rampogna non lo contare niente,
e dai sei giorni, cioè dal 9 febbraio in poi, cercare invano negli atti
del Governo eseguito quanto essa era venuta ordinando. Finora dunque stetti in
mano a Faziosi? - E ardite giudicare voi? Guardi tutto il Paese, e consideri se
sono io, o se sono i miei Giudici quelli che devono essere giudicati.
«Questa è la condotta.
questa è la missione che vi è tracciata, o cittadini del Governo Provvisorio?
Adempitela, adempitela, per Dio! prima che i giorni fuggano, e con essi
l'occasione e l'entusiasmo e la forza. Non siam noi sorti nel nome della
Italiana Costituente, nel nome del dogma della sovranità nazionale?
L'agitazione lunga non fu desiderio di unità, sforzo a ravvicinarsi delle
diverse membra della Italia divisa?
Ebbene, che più tardare
si doveva ad attuare questo principio di legalità incontestata, a convocare i
Rappresentanti della Toscana alla nazionale Assemblea di Roma, e dichiararci solidarii
e indivisibili della nuova vita proclamata dal Campidoglio? Perchè se tutte le
fatiche della nostra Rivoluzione han per fine ultimo la compenetrazione ed
unificazione assoluta di tutto il Paese che Appennin parte e l'Alpe e il mare
circonda, perchè forti di questa missione salvatrice e italiana che vi fu
confidata, non realizzare, non tradurre voi medesimi in fatto questo voto
infallibile e universale? Ora che la legge d'oggi ha proclamato il principio
della unità italiana, consacrandolo nella convocazione dei Deputati alla
Costituente, perchè non lo iniziate e preparate nel fatto, proclamando l'Unione
con Roma?
La legittimità del
mandato da accordarsi ai rappresentanti italiani non avea bisogno della
giustificazione di nessun atto precedente di provinciale pretesa sovranità. I
Governi delle diverse provincie non hanno altro incarico che, proclamato il
principio, assicurarne l'esercizio nella libertà e verità più intera: i Governi
non possono che pubblicare una legge elettorale, la quale emana dal potere
esecutivo ad essi provvisoriamente delegato. Imperocchè non fa d'uopo di
nessuna legge per decretare il diritto che ha l'Italia di essere sovrana di sè
stessa.
Voi dunque siete nella
più stretta legalità, o cittadini del Governo Provvisorio, promulgando voi
stessi la legge che chiami il Popolo a nominare i suoi mandatarii alla
Costituente Italiana. E voi dovevate farlo, noi ne abbiamo ferma convinzione,
voi lo dovevate sotto pena di apparire fiacchi e derisi in faccia a tutti
coloro che vi hanno sfidato all'attuazione della vostra dottrina, in faccia a
tutti quelli che, credenti in essa, vi hanno promesso il concorso della propria
opera e delle proprie simpatie. Voi lo dovevate, perchè tra Leopoldo e l'Italia
non è possibile l'alternativa, e la decisione s'impone invincibile da sè
stessa.
Il Popolo, nel suo
desiderio, si spinge innanzi alle lente e tranquille deliberazioni; esso
attesta altamente le sue simpatie, vuol rompere le barriere municipali che lo
dividono, e domanda con grido irresistibile universale: Unione con Roma.
L'entusiasmo cresce e si propaga come generosa manifestazione del nuovo spirito
italiano; questo voto incarnato nella convinzione di tutti, diventa istintivo,
urgente bisogno. L'Unione con Roma è già in tutti i cuori, è già un
fatto compiuto, una rivoluzione vittoriosa; al Governo Provvisorio di Toscana
forse non resta che consacrare questo fatto, e, accettandolo, farsi interprete
del pensiero comune. Ma al di sopra di questo movimento inconsapevole delle
masse vi ha l'intelligente e sovrana Rappresentanza Nazionale. L'Unione con
Roma, l'obbietto di questa commozione viva ed infiammata, non può essere
che espressione temporanea del voto dei Popoli toscani, che essi sommettono
docili e reverenti alla sentenza della Italiana Assemblea.
Sei giorni sono
trascorsi dacchè Leopoldo è fuggito, la Toscana libera, il Governo investito della
suprema dittatura.... L'entusiasmo, cagion prima ed unica dei miracoli, si
diffondeva, affratellando gli animi, preparando la forza.... sei giorni sono
trascorsi, e noi cercavamo indarno negli atti del Governo quella coscienza
delle grandi misure, quell'impeto d'azione che dalla prima ora della sua
esistenza gli avevamo inculcato313.»
Le mura di Firenze, nei
giorni 14 e 15 febbraio, andavano coperte di questo avviso, che i
Circoli bolognesi mandavano ai Toscani:
«Fratelli
Toscani!
Il senno, l'ordine e
l'energia che nel momento il più difficile della vita de' popoli voi
dimostraste, ci hanno compresi di tanta maraviglia ed in uno di tanto
entusiasmo, che non potemmo frenare più a lungo l'impeto dei nostri affetti, e
palesarvi quanta sia la stima e quanto l'amore che a voi possentemente ci
legano.
Fratelli! Se Leopoldo di
Lorena vi abbandonava vilmente, il Dio, proteggitore de' Popoli, vi rimaneva e
rimane a tutela; e, senza dubbio, un Nume misericordioso è coll'Italia nostra,
perocchè è piuttosto unico che singolare l'esempio di genti, a cui tolto ogni
freno di governo, siensi nullameno comportate con così alta sapienza da
esterrefare perfino i più avversi e increduli al loro valore, al loro
progresso.
Roma e Firenze subirono
le medesime crisi; Roma e Firenze le attraversarono del pari impavide; Roma e
Firenze si stringono fraternamente la mano associandosi ad un medesimo destino:
adunque onore a Roma, onore a Firenze!
Fratelli! concordia e
perseveranza, speme nel futuro, attività e non avventatezza, e trionferemo de'
nostri nemici.
Prepariamoci alla pugna;
e il primo nostro pensiero sia il riscatto delle misere terre lombardo-venete
che piovono sangue, e della infelice Napoli che risuona lugubre di gemiti e di
catene.
Già le Aquile latine
dispiegano i loro vanni sul Campidoglio; già la spada di Ferruccio ruota sul
capo dei tiranni: il Dio delle vendette sarà colla Italia nel giorno della lotta
finale, ed Italia si erigerà alla perfine in Nazione.
La Costituente Italiana giudichi del nostro
futuro. Viva la
Costituente Italiana314!»
Eccitamento a muovere
contro il Granduca: «Guardatevi un po' in seno. Il male più grave, quello che
per ora fa d'uopo estirpare, per ora sta lì, e non altrove. Lì sta Leopoldo
d'Austria, e finchè esso sta in Toscana non vi può stare ordine, nè regime, nè
libertà stabile e vera.
Che mi parlate voi
d'austriaco intervento ai confini, quando l'intervento austriaco è sempre in
casa?...315»
Nella citazione che
segue leggiamo cose che male ci basterebbe l'animo compendiare; solo io prego
chi legge ad avvertire la favella ebbra di superbia e di minaccia, foriera
della rivoluzione, che già si spera trionfante, e la urgenza dei provvedimenti
proposti da mandarsi ad esecuzione. Il Popolo in armi aveva ad ordinare, il
Governo ad obbedire. Ecco, il dado è tratto; adesso staremo a vedere se meco si
salva la civiltà, o se, me sopraffatto, la Rivoluzione allaga con
la sua barbarie. - O voi, uomini di ordine, nudriti sempre dallo Stato,
promossi alle cariche, insigniti di onori, voi osate domandarmi perchè io non
fuggiva? Rispondete piuttosto a vostra posta voi: Perchè non vi stringevate
animosi intorno a me per salvare la
Patria e per impedire la decadenza del Principe? Perchè,
dite, me lasciaste solo a lottare contro tanto sforzo rivoluzionario? Amici del
Principe voi? Ah! voi lo abbandonaste allora; e voi adesso, con persecuzione
che egli non vi comanda, che invano sperate gli possa essere accetta, senza
verità, senza convinzione, senza coscienza, non dettando carte, ma tendendo
agguati, con gelato furore, con l'astio della ingratitudine, con passioni
malnate, che enumerare è ribrezzo, avventandovi contro cui dovreste rispettare,
voi, - se dipendesse da voi, - lo rendereste odioso e crudele.... Ah! la
pazienza ha un confine, e perdonate, o miei compatriotti, questo sfogo a chi si
sente da ventotto mesi avvelenare il sangue più puro del suo cuore dai morsi di
schifosi scorpioni.
«Salviamo la Patria, cittadini del
Governo Provvisorio!... E per salvarla incominciamo dal proclamare in diritto,
dal consumare in fatto la decadenza della Famiglia di Lorena dal trono di
Toscana. Questa decadenza, questo diritto, questo fatto, se ne persuadano i
Toscani, non è ancora consumato.
Cittadini del Governo
Provvisorio, grande errore voi commetteste nel trascurare di proclamare il
regime repubblicano e la Unione
immediata con Roma il giorno stesso in che saliste al Potere. Cotesta
vostra diffidenza nel senno e nella virtù del Popolo vi ha ora reso
impotenti a salvarlo, giacchè ora a lui fa d'uopo salvarsi da sè stesso,
proclamando ciò che voi, per ritegno o per paura, trascuraste di
proclamare.
E il Popolo si salverà,
il Popolo salverà la Patria!
Senza attendere la
convocazione di troppo remota e lontana della toscana Assemblea Costituente, i
rappresentanti di tutti i Circoli toscani, quelli dei principali Municipii,
quelli della Guardia Cittadina e di qualunque altro corpo morale e politico
toscano, accorreranno solleciti in Firenze allo invito che loro sarà mosso dal
Circolo del Popolo. Quivi essi faranno di gran cuore ciò che voi non
faceste, e il Circolo del Popolo avrà la gloria di avere, per la
seconda volta, salvato la
Patria pericolante....
Il Popolo provveda alla
salute della Patria, scacciando il tiranno.
Il Governo provveda per
parte sua, a riparare in parte al grave fallo commesso, richiamando
nella Capitale sotto severe comminatorie tutti li aristocratici che se ne
allontanarono allo allontanarsene di Leopoldo: - e ove essi ricusino, a
gravi imposte sieno condannati, le quali, sparse nel Popolo bisognoso, lo
riconfortino e lo aiutino a durare nella quiete e nell'ordine necessario in sì
gravi momenti. Sia dal Popolo cacciata dall'ultimo suo nido la
belva boema, e così appaia manifesta la volontà popolare anche in questo: e
tutti i pretesti vengano rimossi ad una restaurazione principesca, che sarebbe
distruzione di ogni conquista della democrazia.
Cacciata di Leopoldo
d'Austria, per opera del Popolo.
Unione immediata con
Roma, e promulgazione della Repubblica per opera dei suoi rappresentanti.
Questi sono i
provvedimenti, cui è indispensabile il compiere entro il giro di poche ore.
Governo, all'opera! Popolo,
alle armi316!»
Io ripeto, e lo ripeterò
dieci volte e cento, che sono privo di Documenti officiali: pare a me, e parrà
a tutti coloro che hanno senso di giustizia, atrocissima cosa essere, che mi si
domandi conto dell'operato e mi si neghi la via di mostrare le ragioni
dell'operato; e tanto più empirà il rifiuto di ribrezzo, quante volte si pensi
che l'Accusa con mille occhi e con mille mani ha svolto, letto e riletto negli
Archivii del Governo, per ricavarne argomento al suo assunto; e a me, ridotto
ai miei soli occhi infermi, si ricusi desumerne quel tanto che valga a
giustificarmi: e poi con serena fronte ardiscono dirmi: - difenditi! - E
confidano, che altri creda la difesa concessa liberissima!
Non pertanto ridotto in
tali angustie, ecco io ho spigolato, in campo che non è mio, prove che bastano
per ismentire l'Accusa. Signore! ma perchè muovermi addosso con tante arti per
farmi comparire colpevole? O come potè affermare l'Accusa, che non occorrono
prove di coartazione nei primi giorni successivi all'infausto otto febbraio?
Come sostenere, che all'opposto si trovano prove che ogni violenza escludono?
Come la mano le resse scrivere, che alla decadenza del Principe, e alla
proclamazione della Repubblica io non mi opposi, tranne che dopo la notizia
della disfatta di Novara? Perchè l'Accusa dei testimoni cita quelli, che reputa
dannosi, e scarta i favorevoli ricercati dalla Procedura? O a che mira
l'Accusa? A qual mai fine tende? Per conto di cui ella lavora? Pel Principe
no... dunque per cui? - Io tremo investigare... io raccapriccio indovinare per
conto di chi lavora l'Accusa. - Certo questo pervertimento nello ufficio del
Custode della Legge svela una infermità profonda nel corpo sociale,
conciossiachè i Magistrati oggimai nulla più abbiano ad invidiare ai Sacerdoti
di Teute.
Importa poi intorno alle
allegazioni di questa parte dell'Apologia avvertire, che alcune narrano fatti i
quali non si possono revocare in dubbio, corrette in qua e in là di qualche
inesattezza; altre parlano di dottrine, d'impulsi, e di provvidenze da
prendersi. In quanto esse emanano dalla Costituente o dai Circoli,
facilmente s'intende che equivalevano ad ordini da eseguirsi senza fiatare,
però che venissero appoggiate con le armi da gente accesissima e disposta al
mettere a sbaraglio la vita, pure di riconquistare la patria, e le paterne
case, e tutto quanto all'uomo è più dolce quaggiù: in quanto si partono poi da
altri Giornali, si consideri che se non coartavano direttamente, tanto più
comparivano terribili suscitando sospetti, infiammando ire, e spingendo la
plebe cieca a disfarsi con qualunque mezzi, e i violenti accettatissimi, del
Governo costituito. Un po' più tardi mostrerò a prova come io fossi in grido di
traditore, posto segno alla rabbia del Popolo.
§ 3. Spedizione al
Porto Santo Stefano.
Delle cose fin qui
discorse sommerò unicamente quelle che allo scopo di questo paragrafo si
riferiscono. Nei giorni antecedenti al quattordici febbraio fu chiarito come
due cose si facessero: 1a eccitamenti urgentissimi al Popolo
e al Governo; 2a coazione a quest'ultimo, affinchè intorno al
dimorare del Principe nel Porto Santo Stefano senza indugio alcuno provvedesse.
Accusavasi il Governo ora di non avere seguíto il Granduca a Siena; ora di
esserselo lasciato fuggire dalle mani; per ultimo, il Governo nemico
espresso del Popolo predicavano, e fu qualificato perfino uguale a quelli
con cui allora tenevamo guerra: nemici in Toscana, non fuori, dicevano,
dovevansi cercare, finchè ci fermava stanza il Principe. Ma quello che mi
pareva troppo più grave era lo eccitamento quotidiano, o piuttosto continuo,
impresso al Popolo per ispingersi in massa contro Porto Santo Stefano; erano
gli apparecchi dei Circoli a chiara prova raccolti non pure fuori del
Governo, ma contro il Governo. Ben poco intendimento ci vuole a
conoscere la opera indefessa dei Circoli per usurpare l'autorità e adoperarla
in concetti diversi ai governativi, anzi in danno manifesto di quelli.
Proseguendo a trattare
il doloroso tema, esporrò altre prove speciali in proposito, che sono venuto
estraendo dai Documenti stessi dell'Accusa.... prugnole acerbe e scarse date
dalle spine della siepe! - E qui si consideri la mia miseria, e si giudichi se
è cosa non dico consentanea a giustizia, ma ai sentimenti primi di umanità, che
dalla officina del nemico io abbia a prendere quelle sole armi ch'ella crede
potermi concedere della difesa. - Le difese si compongono di fatti; ma se mi
togliete il mezzo di poterli rintracciare, ordinare e accompagnare dei
necessarii commenti, si rende manifesto che la difesa è negata. Le cose sono
come elle sono, non quali si vorrebbero fare apparire, quantunque verso me
neanche le apparenze si abbia voluto adoperare: avvilire e opprimere fu il
truce programma di chi mi perseguita; miserabili furono i conati nell'uno
intento e nell'altro; ma il secondo sta in loro potere, il primo no. Intanto
rimarrà, e me ne dolgo, come uno sfregio in faccia alla civiltà toscana la
memoria dello avermi posto senza pudore a canto di assassini e di ladri.... Ma
io ho bisogno di mantenermi pacato; quindi, tronca a mezzo ogni amara
considerazione, riprendo lo interrotto lavoro.
Nel Corriere
Livornese del 12 febbraio trovo un documento in data dell'8-9-10 febbraio,
dal quale si ricava che il Circolo Grossetano «adunatosi per urgenza, inviò una
Commissione all'Alberese per invitare il Granduca a ridursi in Grosseto, nel
caso si fosse allontanato da Siena per timore di Partiti, dove avrebbe goduto
perfetta tranquillità, e consigliarlo al tempo stesso a tornare alla Capitale. La Commissione giunse
all'Alberese dopo la partenza di S. A. per Santo Stefano, e allora colà si
diresse. La Commissione
di ritorno a Grosseto dichiara non avere potuto rilevare la intenzione del
Principe di restare o di partire, e non sapere se a quella ora si fosse o no
imbarcato. Il Circolo avvertito che si trattava di fuga, manda
sollecitamente al Comitato di pubblica sicurezza di Grosseto due petizioni,
richiedendo con la prima una continua vigilanza della persona del Principe,
onde sapere se partiva, per dove, e con quali intenzioni; - con la seconda
venisse stabilita una continua corrispondenza col Governo centrale di Firenze.
- Il Circolo popolare avendo fondati sospetti che nei reali Presidii si tenti
uno sbarco per una reazione, e verificato che tutto il littorale, non che i
Forti di Porto Ercole, Santo Stefano e Palmanuova, sieno sprovvisti della
guarnigione necessaria, - fu stabilito dirigersi al Comitato di pubblica
sicurezza, affinchè di concerto con le Autorità governative stabilisca il
pronto armamento del littorale, e dei Forti dei reali Presidii.»
Nel giorno dieci
febbraio troppo più fiera notizia mi perviene da Livorno: i Deputati
Grossetani essersi collegati con quei di Orbetello, Porto Ercole, Magliano,
Talamone, e di altri luoghi, e tutti insieme avere deliberato, il Principe non potesse
nè dovesse partire, al Vapore di prendere il largo s'intimasse, la reale
famiglia a Monte Filippo si sostenesse317.
Alle ore 3 del giorno 11
febbraio, da Grosseto scrivono a Livorno: «L'attitudine di Grosseto è imponente
per reprimere qualunque reazione da chiunque e da qualunque parte si
manifestasse. Il voto dei patriotti, che tanti ne albergano qui, quanti in una
grande città, è la indipendenza d'Italia. Il già Principe trovasi a Santo
Stefano; tenta il vile di fare suscitare la guerra civile: è impossibile. La Maremma non sarà la Vandea, nè l'antica Valdichiana.
La Maremma, e
specialmente Grosseto, darà esempio luminosissimo di amore per la Italia: lo vedrete. Si attendono
truppe per terra e per mare all'oggetto di snidare quel covo di uccelli rapaci
dal Porto Santo Stefano318.»
E quattro ore prima,
dallo stesso Porto Santo Stefano, mandavano: «Questo codardo Principe
ex-Granduca di Toscana ha impedito al Pretore di pubblicare i Proclami del
Governo Provvisorio, ed ha minacciato il paese con dire, che ha a sua
disposizione cento pezzi di cannone. Egli tenta di far nascere la reazione, ma
non ci riuscirà, per Dio! Questo è il tempo di fargli conoscere qual destino
serbi la Italia
ai Principi traditori come lui.... Noi confidiamo nel soccorso dei nostri
fratelli di Grosseto, e nel Governo Provvisorio319.»
Intorno alle
disposizioni delle genti maremmane, possiamo ricavarne conoscenza dalla lettera
pubblicata dall'Accusa a pagine 833: «Gli animi sono ardenti, e vogliono
finirla una volta per sempre con un ex-Principe traditore320;» e dall'altra pubblicata a cura dell'Accusa
medesima a pagine 835 del volume citato: «Presto presto la Maremma si leverà come un
solo uomo contro chi ha vilmente tradito la Italia.»
I Giornali andavano
propagando: «Leopoldo d'Austria non ebbe vergogna di dire alla Deputazione del
Circolo popolare di Grosseto - che Egli in questi ultimi tempi aveva
ricevuto molti dispiaceri dai Grossetani. Quando la Commissione in
adunanza solenne riferiva tali parole, il Popolo fremeva d'indignazione, e
decretava fino d'allora che lo ex-Granduca era uno dei membri della Camarilla
di Gaeta321.»
Dal Porto Santo Stefano,
asilo periglioso del Granduca, ai Circoli corrispondenti scrivevano: «Sarebbe
necessario, che il Governo adottasse pronta ed energica risoluzione, tentando
un colpo ardito in quel nido di reali vipere, onde cacciarle lungi dalle nostre
terre.322»
E perchè alla richiesta
tenesse dietro lo effetto, muovevansi da Grosseto Deputazioni a Firenze, le
quali ingrossate da quanti Faziosi stanziavano qui, armate di prepotenza e di
audacia in virtù degli erudimenti del Circolo fiorentino, venivano a
costringermi con ineluttabile pressura. Chi sia, che revochi al pensiero quale
e quanta fosse la veemenza dei partigiani a cotesti giorni, e la Toscana fin dentro le
viscere commossa da speranza, da terrore, e da furore di mettere le mani nel
sangue, non reputerà esagerate le tinte colle quali ce li dipinge il Decreto
del 10 giugno 1850.
Narrava taluno di
Grosseto, il 16 febbraio, come: «La deputazione inviata al Governo
Provvisorio...... fosse tornata con le più liete assicurazioni per parte del
Governo, che la Maremma
sarebbe coadiuvata nei suoi generosi sforzi di patriottismo con tutti i
mezzi. - Molti egregi Maremmani si uniranno al D'Apice, e lo seguiranno
nella sua importante missione323.» Ed altra
testimonianza di queste Deputazioni ce la porge il Corriere Livornese
del 23 febbraio: «Il Circolo popolare (di Grosseto) ha tenuto la sua
seduta straordinaria per udire la relazione dei Deputati cittadini.... di
ritorno dall'Assemblea tenuta dal Circolo Popolare di Firenze il 18!....»
Già fu chiarito a prova,
i Circoli fatti omai governo distinto, e aspirando a diventare il solo,
corrispondere inquieti e sospettosi fra loro; non pertanto occorre traccia nei
Giornali del tempo come in questa occasione più operosi che mai si
restringessero a operare.
Il Circolo di Orbetello,
l'altro di Grosseto, corrispondono non pure col Circolo centrale di Firenze, ma
con quello ancora di Livorno.
A comprendere la
tremenda attività del Partito, che urgeva stringentissimo a prendere immediati
provvedimenti, importa riferire parte della corrispondenza dei Circoli. Nessun
Governo mai si auguri trovarsi tanto bene servito come i Circoli erano: io poi
sovente all'oscuro di tutto; sicchè venendo a me i più impronti faccendieri di
quello, smaniosi per notizie più fresche, e trovatomi ignaro perfino di quelle
ch'essi sapevano, trascorrevano in rampogne acerbe di colpevole negligenza, e
di peggio.
Da Santo Stefano, nel
giorno 8 febbraio, all'Alba e agli altri Giornali mandano: a
ore 2 p. m., l'arrivo del Granduca con parte della sua famiglia, e dei
signori Sproni e Conticelli, su di una barca peschereccia partita da Talamone a
mezzogiorno.
A ore 4 e 1/2, arrivo della
Granduchessa col resto della famiglia. Albergo in casa Sordini,
magazziniere del sale e tabacco. Sospetti di fuga.
Ore 8 e 9 p. m., arrivo di due staffette
con dispacci.
9 febbraio, 9 ore p. m., arrivo della fregata
inglese.
Da altra corrispondenza
pervennero ai Circoli i minimi particolari, come: L'aspirante inglese posto a
guardia del Granduca; la tristezza dei membri componenti la R. Famiglia; il
cibarsi di S. A. di alcune gallette navigando da Talamone; l'arrivo di
carrozze, equipaggi, segretarii e servi.
13 febbraio 1849. Il Granduca è sempre
in Santo Stefano. Sparge danaro. Grossetani hanno rotto la strada che
conduce a Santo Stefano. Le popolazioni maremmane tutte in armi, avverse al
Granduca.
15 febbraio 1849, ore 12 m. Partenza del Ministro
inglese. - Il Virgilio va a Ponente con due compagni di Sir Carlo
Hamilton.
Ore 3 p. m. Istruttore dei
Principini s'imbarca per l'isola del Giglio o per Gaeta, come
sembra, per fissare un palazzo di dimora.
Ore 4 p. m. Visita delle LL. AA. al
Can Mastino; voce che sieno partite, ma tornano a terra; pure si
accerta, che poco più si trattengano.
16 febbraio, ore 7 a. m. Nella notte è arrivato dall'Alberese
un Bestiaio con dispaccio pel Granduca.
Ore 9 a. m. Arrivo dell'Agente
dall'Alberese con venti starne e un capriolo.
Ore 2 p. m. Fregata mette segnali.
Ore 4 p. m. Il Granduca va a bordo
della Fregata Teti in compagnia del Comandante.
Ore 5 p. m. Arrivo di un espresso
a spron battuto con dispacci pel Principe.
17 febbraio, ore 6 1/2
a. m.
Leopoldo è sempre in Santo Stefano.
Ore 7 a. m. Arrivo del Porcospino.
Ore 6 p. m. Sembra che
il Granduca voglia partire. Imbarca sul Can Mastino bauli, valigie ec. Ore
10 p. m. Seguita lo imbarco.
18 febbraio, ore 12 1/2
di mattina.
Arrivano i Ministri di Francia e Spagna. Sono presenti quelli di Piemonte,
Roma, Svezia, Prussia: si attende il Russo. - Stanno ancorati in porto Teti,
Porcospino, Can Mastino. Sordini e Lambardi al fianco del Granduca. - Prete
Baldacconi mandato a Siena per motivo segreto. Dama Palagi sviene alla
lettura di certa lettera. Frequente convocare del Corpo Diplomatico. Imbarco
e disbarco di arnesi. Incertezza di atti. Paese tranquillo.
Da altra corrispondenza:
Porto Santo Stefano, 14
febbraio. Porco-Spino parte per Napoli col carico dei danari l'11; torna il 12 col Can
Mastino.
Staffette in questo
giorno non sono arrivate.
Ore 6 p. m. Sul Virgilio arriva il Ministro Sardo.
Servitore supposto del Ministro Inglese, è napoletano. Bellerofonte
dicesi navigare per questi paraggi.
15 febbraio, ore 7 a. m. La notte senza
staffette.
Altrove si troverà più completa
e continua questa corrispondenza, dalla quale risulta quanto grandi fossero il
sospetto della Fazione, ed anche la paura generatrice di partiti disperati; e
quindi la vigilanza mantenuta su tutti e su tutto, alla quale riusciva
impossibile che potessi sottrarmi io.
Ciò posto, ricerchiamo
prima quali potevano essere, e quali di fatti erano le mie apprensioni, e poi
esamineremo il contegno tenuto.
Primieramente, io
opinava che S. A. avesse in animo di partire aspettando il benefizio del tempo,
il quale, come dimostrerò a suo luogo, doveva riuscirgli favorevole, e
somministrava l'unica via per conseguire lo intento in quella guisa ch'egli
pure desiderava; mi confortavano a credere così le informazioni ricevute, di
cui trovasi testimonianza nel Dispaccio diretto da lord Hamilton a lord
Palmerston in data del 7 febbraio 1849: «Il Granduca.... mi chiede, che
io voglia ordinare ad uno dei Vapori di S. M. di essere nel Porto di Santo
Stefano domani sera, per ricevere esso e la sua famiglia sul bordo....
Non conosco se la intenzione del Granduca sia andare alla Elba, o no.» -
(Collezione di Documenti citata). - Il Piroscafo tardò un giorno; invece della
sera dell'8 arrivò in quella del 9. - Opinione universale fu che l'A. S. in
Inghilterra o a Gaeta riparasse. Lo imbarco e lo sbarco delle masserizie
dimostra l'animo perplesso a stare o a partire. Il Porto Santo Stefano poi non
poteva essere lungamente stanza pel Principe e la sua R. Famiglia, atteso i
disagi del luogo; i cariaggi, mancando locali capaci a ricettarli, stettero al
sereno; nè casa Sordini era atta a tanti ospiti.
Nella notte dell'8
febbraio pervennero al Principe due staffette, in virtù delle quali io
pensai che egli fosse consigliato a restare, nel presagio che la Toscana commossa con
universale dimostrazione, Governo Provvisorio e Costituente rovesciando, lo
richiamasse al trono.
In quanto ai disegni
della Fazione, non vi era dubbio da accogliere; ad uno di questi due scopi ella
tendeva con tutte le forze, o cacciare il Principe, o impadronirsene. L'animo
mio ondeggiava combattuto da pensieri angosciosi. - Nonostante io esitava, e
vinto dalla gravità dei casi rimanevami inerte. Ma quando da un lato i Circoli,
le Deputazioni e il Popolo frementi d'ira, vennero ad accusarmi dicendo: «Che
avete voi fatto da sei giorni a questa parte? Nulla. Voi ve la intendete co'
nostri nemici; voi la rovina del Paese preparate e la vostra;» e dall'altro
udivo: «Il Popolo farà da sè, il Governo è ormai impotente a salvarlo:
egli nulla vuole conoscere, nulla sapere: si manderanno frattanto mille uomini
armati a Siena; il Popolo sorgerà come un uomo solo: presto la Maremma sarà tutta in
armi; gli animi ribollono ardenti e vogliono finirla....» con le altre più
cose, che prego i lettori di rammentare, e dispensarmi dal travaglio di
riferire da capo; coartato allora in guisa, che nessuno io penso abbia patito
violenza pari alla mia, nel curvarmi sotto il giogo provvedo ai fieri eventi
che presagivo probabili; e tale fu il mio consiglio: dissuadere i Popoli
Maremmani da muoversi senza ordine del Governo, e indurli a sottoporsi al
comando del Generale D'Apice; nel mentre che la imposta leva in massa sembro
assentire, prescrivere che si adunasse gente eletta, usa alla disciplina, e
sempre al Generale D'Apice nei suoi moti si sottomettesse; raccolta così una
colonna di milizie ordinate, contenere le Popolazioni nei moti impetuosi, e
impedire che la Fazione
senza o contra il Governo si agitasse; intanto fare comprendere a S. A. che
lasciasse tempo al tempo, e in altra parte attendesse quello che pure stava in
cima dei suoi pensieri, ritornare senza spargimento di sangue a reggere mite
popoli miti; in qualunque caso tenere apparecchiata una forza per tutelare la
persona del Principe, e la sua famiglia, dal minacciato attentato d'impadronirsi
di loro. Rammentisi che le Deputazioni maremmane non intendevano già coadiuvare,
bensì essere coadiuvate; la quale cosa importa, che i Maremmani volevano
formare la parte principale della impresa; rammentisi la strada grossetana
tronca, e l'accusa di essermi lasciato sfuggire il Granduca dalle mani, e la
deliberazione presa di ridurlo a Monte Filippo: rammentisi eziandio le
popolazioni in arme avverse al Granduca, e la notizia che si leverebbero in
breve come un uomo solo, e l'ardore di cui si mostravano prese, e il
proponimento di finirla una volta per sempre con lui... E ritenuto tutto
questo, ed altro ancora che non ricordo, domando s'egli era bene lasciare che
cotesto assembramento di uomini esaltati si operasse? - I miei Giudici dunque
non avrebbero pensato ad alcuna provvidenza al fine d'impedirne o reggerne i
moti? Hanno mai avvertito i miei Giudici alle sventure, che dovevano temersi
possibili dal mescersi di tante generazioni di uomini senza freno, e senza
guida? - Balenò mai loro alla mente il fiero caso, ch'esse giungessero a
impedire la partenza del Principe.... e quello, che è anche a imaginarsi più
orribile, che lo sostenessero?
Accusa, Giudici, - che
fin qui non mi avete giudicato, ma calunniato, - non parlo a voi. Voi irridete
le mie parole, e a mezza voce mormorate il ritornello:
Lustre, mostre, ed arti
per parere;
arti solite di chi doppio ha il cuore, con quello che
seguita: - io parlo al Paese, che mi sarà più pio.
Consideriamo il
Dispaccio al Governatore di Livorno: la sua data è del 14 febbraio; - dunque
molto tempo dopo le coartazioni e le minaccie perigliose della stampa, dei
Faziosi, del Circolo fiorentino e delle Deputazioni maremmane. Il Dispaccio
parla di lettere che mi vengono poste sotto gli occhi; dalle quali
espressioni si ricava, che una gente estranea, desumendone necessità di misure
immediate, non mi lasciava neanche tempo a copiarle, onde senza dilazione si
spedissero gli ordini. Dall'8 al 14 febbraio corre pure un
bel tratto! Sei giorni: quanti appunto mi rinfacciavano essermi rimasto
inerte. Nei tempi di rivoluzione sei giorni paiono, e veramente sono, una
eternità. La stanza del Granduca al Porto Santo Stefano si conobbe presto; dunque
finchè non mi violentarono, io stetti inoperoso. Anche qui occorre il caso,
che parrebbe a un punto miserabile e festoso, ove non si conoscesse come tutti
i Partiti giudichino con le mani su gli orecchi, e la benda su gli occhi: che i
Repubblicani mi riprendono da una parte di non fare; l'Accusa dall'altra
mi rimbrotta di aver fatto. Per questo i primi mi avrebbero tolta la
libertà; la seconda mi mantiene prigione! Il Dispaccio del 14
febbraio trascrive, come quello dell'8 febbraio, taluna delle parole
stesse che i Faziosi venuti ad estorcerlo vedemmo avere già adoperate: si
apparecchi gente da ingrossarsi per via; ma però avverto che sia scelta; il quale avviso fu introdotto
con intenzione di far comprendere che la gente buona fosse, e ad obbedire
disposta. La frase però più meritevole di essere specialmente notata è la
seguente, posta con cautela, come mi era concesso in quelle strette: D'Apice
scriverà, e attenetevi ai consigli di lui; e questo importa: nessuno si
muova senza ordine del Generale. - Lasciate, di grazia, lo inviluppo delle
parole, che la temperie del giorno rendeva necessario, oppure ritenetele tutte,
ma sotto la scorza ricercate il vero, e troverete prudente consiglio, non
potendo fare a meno, essere stato quello di apprestare buona e cappata gente,
che sotto gli ordini di Domenico D'Apice (soldato a cui per la sua temperanza
nemmeno rifiuta lode l'Accusa) si tenesse pronta a fare riparo ai temuti
infortunii.
E mio concetto fu,
qualora il presagito assembramento si avverasse, spingere D'Apice a presidiare
Grosseto, e quivi, recatasi in mano la somma del comando, reprimere le masse
popolari dal trascorrere contro Porto Santo Stefano, e tenere fermo il Paese
fino alla pronunzia del voto dell'Assemblea toscana.
Il Generale D'Apice,
oppone l'Accusa, dichiara avere ricevuto lettera di mio, onde con parte della
truppa si dirigesse a Grosseto; «ma poichè, egli aggiunge, si
trattava che cotesta Spedizione doveva farsi contro il Granduca, che allora era
in Maremma, io ricusai incaricarmene.» - A vero dire, richiamando la mia
memoria su questo punto, posso affermare risolutamente senza timore di essere
smentito, che tale non fu il dubbio esternato a me dall'onorevole Generale;
sibbene la ripugnanza di trovarsi con poca truppa e male ordinata fra Popoli
tumultuanti. Questo però non toglie punto, che dentro l'animo suo accogliesse anche
l'altro che accenna; solo dico che si astenne da parteciparmelo; e dov'egli mi
avesse aperto l'animo suo, conoscendo la fede dell'uomo, lo avrei chiarito del
congetturare suo falso; per tutela, non per offesa del Principe, volerlo io
incamminare a Grosseto, e commettergli in quella città si fermasse, ogni
aggressione contro Porto Santo Stefano sventasse, i moti tumultuarii
prevenisse, il Paese quieto fino alla pronunzia dell'Assemblea toscana, che
malgrado le opposizioni intendevo convocare, mantenesse.
Dell'ordine dato, e
della raccomandazione che nessuno senza comando del Generale si avesse a
muovere, oltre al Dispaccio mandato il 14 febbraio al Governatore di
Livorno; oltre alle parole della Deputazione Grossetana, che la gente si
sarebbe aggiunta seguitando il D'Apice; oltre alla dichiarazione, che
per muoversi attendevano le milizie ordinate, ne fanno aperta
testimonianza questi Documenti che ricavo dal Volume stampato dall'Accusa: ex
ore leonis, come Sansone, il mele. -
«Al Governatore di
Livorno - Petracchi.
La mia colonna è
sottoposta al Generale D'Apice, nè posso muovermi senza suo ordine.» -
Pontedera, 13 febbraio 1849324.
Il medesimo al medesimo:
«Ieri sera circa le ore
11 arrivai a Pontedera, donde avvisai il Generale D'Apice del nostro arrivo,
avvertendolo che sarei partito col treno delle 12 di questa mattina. Ero con la
colonna sotto la
Stazione pronto a partire quando un Dispaccio del
Generale D'Apice mi ordinava di restare
quaggiù.» - Pontedera, 14 febbraio 1849325.
Dove gli ordini per la Spedizione del Porto
Santo Stefano fossero stati spontanei, io non avrei certo aspettato dal giorno 9
febbraio, in cui seppi l'arrivo di S. A. in quel Porto, al diciassettesimo
a sopportare mossa la colonna Guarducci per Rosignano. Gli ostacoli
frapposti perchè non fosse mandato ad esecuzione quanto i Faziosi imponevano,
appariscono evidenti da questo: la colonna Guarducci nel 16 febbraio si
trovava in Empoli326: «La colonna Guarducci
era già partita prima del mio arrivo a Empoli.» Il giorno 17, rimandata
a Livorno, s'incamminava per la via littorale verso Maremma; e non ha guari ho
detto: io non l'avrei sopportata mossa il 17 febbraio; imperciocchè
senza ordine del Generale D'Apice, a cui era sottoposta, nè mio, nè di veruno
altro Membro del Governo Provvisorio, si fosse posta in marcia. Il Popolano,
che da sè stesso s'intitolava Monitore del Circolo Fiorentino327, ed era informatissimo di quanto accadeva,
annunzia la partenza del battaglione Guarducci per Maremma, ma non sa avvertire
per comando di cui, nè a qual fine328. Riscontro sicuro che
Guarducci non ebbe comando nè dal Generale nè da me, è questo: che da Empoli
non lo avremmo respinto a Livorno, ma sì da Pisa su per la Via Emilia incamminato
a Grosseto. - Altra prova che di arbitrio del Governatore era lo invio del
Maggiore Guarducci in Maremma, è considerare come questi non trasmetta i suoi
rapporti al Generale D'Apice o al Governo superiore, ma renda ragguaglio
dell'operato unicamente al Governatore329. Ancora: il Governo non
poteva intendere col Dispaccio del 14 al Governatore di Livorno, che questi
spedisse il Battaglione Guarducci, però che lo avrebbe fatto direttamente da
sè. Con questo ho voluto dimostrare che, per me, il Battaglione fu trattenuto
fino al 17 febbraio; che da noi non fu comandato di marciare alla volta
di Maremma; e che il Governo di Livorno, il quale volle, seppe eziandio
incamminarlo immediatamente là dove il Governo superiore non lo incamminava.
Altra prova che eravamo andati trattenendo la gente dallo accorrere in Maremma,
è l'ordine trasmesso il 14 stesso, al Battaglione Petracchi, di stare
fermo a Pontedera, ed incontrarvelo sempre nel 17 febbraio. In cotesto
giorno il suo Comandante non corrisponde più col Generale come gli correva
obbligo, bensì col Governatore di Livorno, a cui manifesta il suo pensiero
di partire il giorno appresso per Maremma, non già in virtù di ordine ricevuto330; il Governatore di Livorno, usurpando le
funzioni del Generale D'Apice, comanda senza superiore concerto, e di sua
autorità, il ritorno del Battaglione Petracchi331.
Dunque rimane provato
che D'Apice non mosse
per Maremma, anzi rifiutò muoversi; che il Battaglione Guarducci,
trattenuto fino al 17
in Empoli, e nel giorno stesso rimandato a Livorno, si
avviò per Maremma non pure senza ordine del Governo, ma contro la
volontà del Governo; e finalmente che il Battaglione Petracchi tenuto da noi
fermo fino al 17 in
Pontedera è richiamato a Livorno dal Governatore, che ormai si arroga autorità
a disporre le cose a suo senno.
Altro riscontro di
consigliato impedimento occorre confrontando la seguente corrispondenza. Il
Governatore Pigli domanda con Dispaccio telegrafico del 17 febbraio 1849,
ore 11, m.
5 pom., al Maggiore Petracchi: «Per ordine del Governo Superiore domattina
circa le 11» (e non era punto vero) «deve essere eseguita una spedizione di
Militi cittadini per oggetto importante. Se ella, senza nuocere alla missione
che l'è meritamente affidata, credesse far parte con la sua colonna di detta
spedizione, o di mandarne almeno porzione, la prego prevenirmi col mezzo del
telegrafo nel caso affermativo.»
Parmi pressochè inutile
notare come, se il Governo avesse voluto servirsi di questa forza, avrebbe
trasmesso direttamente gli ordini, non già pel mezzo del Governatore: infatti,
se non per altro, per economia di tempo, era ragionevole che il Dispaccio
restasse a Pontedera, e non si spingesse a Livorno per ritornare poi a
Pontedera: parmi del pari superfluo ricordare come per avviarsi verso Grosseto
il Petracchi da Pontedera non avesse mestieri di condursi a Livorno: finalmente
nemmeno mi tratterrò ad avvertire una cosa, che, come troppo ovvia, salta agli
occhi dei più idioti; ed è, che avendo voluto spingere gente in Maremma, poco
importava la condotta del Generale D'Apice, dacchè più tardi il Governatore
Pigli, quando ebbe sotto la sua potestà il Battaglione Guarducci, ve lo
diresse.
Solo mi giovi richiamare
l'attenzione di chi legge su questo, che nel fine di rendere frustraneo
l'ordine estorto, nei giorni 14 e 15 febbraio, come dimostrano
gli stessi Documenti dell'Accusa332, fu comandato al
Petracchi di non si muovere senza ordine del Generale D'Apice, e, otto
ore dopo lo invito a lui fatto dal Governatore Pigli, io sospettando di qualche
trama, fui cauto di richiamarlo a Firenze. «Il Presidente del Governo
Provvisorio al Comandante Antonio Petracchi. - Firenze, 15 febbraio 1849, ore 8 a. m. - Venga subito a
Firenze. Prenda una carrozza. Risposta subito333.»
Sicchè, ritenuti nelle nostre mani i battaglioni Petracchi e Guarducci, il
primo a Pontedera, il secondo a Empoli, di gente scelta e disciplinata, o che
presentasse almeno simulacro di disciplina, donde e chi potesse raccogliere il
Governatore di Livorno, in verità non si comprende.
L'Accusa insiste
allegando lo invio dei 12 Municipali a Grosseto, e degli Artiglieri nazionali
e di linea, i quali dalla lettera del Prefetto Massei, riportata nei
Documenti dell'Accusa a pag. 321, ricaviamo sommare a 14, e così in
tutti a 26! - Ma io non ho trovato ordine alcuno da me, nè da altri,
trasmesso al Governatore Pigli perchè muovesse di arbitrio neppure una persona;
e questo Governatore molte cose faceva a modo suo, più molte si accingeva a
farne; e moltissime poi ne dava ad intendere. Poco sopra avete osservato come
egli avvisasse Petracchi della Spedizione che doveva essere eseguita la mattina
del giorno 15, prima delle ore 11, e non fu vero; nella
lettera del 14, riportata in nota qui sotto, annunzia al Prefetto di Grosseto
lo invio dei 26 uomini; aggiunge, che nel veniente giorno partirebbero da
Livorno due compagnie di Guardie Nazionali, e non fu vero; nello stesso
giorno 15 afferma altre forze militari provenienti da Firenze capitanate dal
Generale D'Apice costà sarebbonsi dirette, e non fu vero: da Firenze per
lo contrario partì l'ordine che stessero ferme334.
Il disegno di formare in
Livorno un centro di Governo Repubblicano, nello intento di rovesciare il Governo
Provvisorio, vedremo farsi mano a mano più chiaro che c'inoltreremo a discutere
le imputazioni dell'Accusa. Essa dice: ma voi impediste le corrispondenze al
Principe, e mandaste persone armate a Cecina per intraprenderle. Io nulla
impedii. Il Circolo Grossetano ricorrendo co' suoi emissarii al Governatore di
Livorno, presso cui trovava più facile ascolto, insisteva per questo
provvedimento. Il Governatore, sempre più emancipandosi, prende le misure che
reputa convenienti, e poi ne avvisa il Governo:
«Signor Ministro.
Persone autorevoli di questa città mi hanno fiduciariamente fatto supporre che
dal Fitto della Cecina, villaggio posto sopra la strada maremmana, transitino
di frequente degl'individui diretti a Porto Santo Stefano, i quali, per la loro
indole sospetta, sarebbero meritevoli di tutta la sorveglianza governativa.
Essendomi sembrata cosa di somma importanza lo attivare senza indugio questa
sorveglianza, la quale può condurci ad utilissimi resultati, sono sceso nella
determinazione di fare la
Spedizione per quella località di venti cittadini armati, i
quali, di fatti, nelle ore pomeridiane di oggi partono a quella volta
capitanati e diretti dal nominato Giovanni Scotto. L'ufficio che eglino debbono
esercitare quello si è di vigilare e tenere di occhio le persone transitanti
per detta ubicazione, spingendo le loro indagini, nei casi di dubbio e
sospetto, fino alla perquisizione, ed effettuandone, occorrendo, anche
l'arresto. Per fare fronte alle spese necessarie al mantenimento dei componenti
la detta Spedizione, è stata, per mio ordine, prelevata dalla Cassa di questa
Dogana la somma di L. 500, su le quali ho fatto una anticipazione di zecchini
12 al rammentato Giovanni Scotto. Affrettandomi a renderle conto, signor
Ministro, di questa misura, che ho creduto dover prendere per urgenza, starò in
attenzione delle sue istruzioni in proposito ec. - 13 febbraio 1849. - C. Pigli.»
Dall'altra parte il
Prefetto di Grosseto avvisava il Circolo di Grosseto, avere deliberato di
operare in guisa che i Dispacci attinenti alla Corte Granducale si fermassero.
In simili angustie ai signori Marmocchi e Allegretti non era dato disfare,
senza manifesto pericolo, quello che ormai aveva il Governatore compíto; e per
altra parte, considerando le sciagure a cui sarebbero andate sottoposte le
persone partecipi della corrispondenza se le lettere fossero pervenute in mano
degli arrabbiati, mi sembra che dirittamente si consigliasse dai predetti
Signori, ordinando al Prefetto di Grosseto procedere con prudenza e saviezza
per l'adozione delle misure necessarie ad assicurare la esecuzione del divisato
progetto335.
E che tale dovesse
essere la intenzione dei signori Marmocchi e Allegretti nessuno potrà negare, e
forse, se interrogato, lo avrà già detto il signor Segretario Allegretti
compilatore dei Dispacci allegati. A me giovi affermare che io, non pure non
concorsi a impedire la libera corrispondenza a S. A., ma all'opposto, per
quanto stette in me, gliela schiusi. A Sir Carlo Hamilton, che me ne fece
istanza, detti carta amplissima perchè lo lasciassero passare liberamente; e
non solo questa carta io gli affidai, ma consenso espresso a quanto intendeva
proporre.
Ed ecco quanto egli
aveva in mente proporre, e mi affermò avere proposto. Spontaneo, o, come credo
piuttosto, di concerto con personaggi cospicui della città nostra, egli
restringendosi meco mi confessava volere tentare l'animo dell'A. S. a deporre i
fastidii del molesto Governo, rassegnandolo al suo reale Primogenito; e mi
ricercava, nel caso che il suo consiglio venisse accolto, se avrebbe potuto
ripromettersi la mia adesione. Io risposi quello che ora non dubito
manifestare: parermi il Popolo troppo acceso adesso; essere di mestieri
liberarlo prima dagli stimoli urgenti e incessanti; poi dargli tempo a riaversi
dal delirio; per questi argomenti egli sarebbe tornato per certo alla devozione
antica; in quanto a me, tranne la momentanea esaltazione, crederlo, anzi
saperlo bene affetto al Principato; la più parte dei Toscani desiderare le
libertà costituzionali, e di queste chiamarsi contenta; per siffatta mia
convinzione, confermata dai Rapporti officiali e da particolari notizie, potere
egli ritenere per fermo, che avrei di buon grado aderito a tutto quanto
tornasse di vantaggio al Paese, onorevole per me. Sir Carlo tornando mi
riferiva bene avere del suo proponimento tenuto motto a S. A., ma, rinvenuto il
terreno poco arrendevole, essersi trattenuto dallo insistervi sopra. Motivi di
convenienza, che anche in mezzo ai pericoli e alle provocazioni della
intemperantissima Accusa reputai mio dovere osservare, mi persuasero ad
astenermi da esporre questi fatti, finchè Lord Giorgio Hamilton visse, e Sir
Carlo dimorò in Firenze. Adesso poi che il Signore ha richiamato alla sua pace
l'onorevole ed egregio Lord Giorgio, e Sir Carlo si condusse altrove, penso
potere, senza offesa della delicatezza, manifestare simili trattati, e prego
con fervorosa istanza il nobile Baronetto, dovunque si trovi, se mai gli
perverranno nelle mani queste dolenti pagine, a rendere pubblica testimonianza
in faccia della Europa se sieno i miei labbri mendaci, o se anche in questa
parte esprimano la verità336.
Altro esempio, che il
Governatore Pigli faceva da sè, lo troviamo nello avere pagato lire diecimila
al Petracchi per la
Spedizione a Portoferraio, senza ordine del Governo, anzi
senza pure avvisarlo. Di vero, agevole cosa è comprendere come cotesta
Spedizione per diffalta di danaro non avrebbe avuto luogo, e il Governatore per
certo doveva avvertire, che non gli essendo provvisti i mezzi necessarii, non
poteva mandarla ad esecuzione, nè le facoltà sue estendersi a disporre dei
pubblici danari; e questo per lui potevasi avvertire subito per telegrafo, non
già aspettare al 10 febbraio quando le cose erano fatte. - Così tra il mandare
Dispacci, e rispondervi, sarebbe scorso tempo sufficiente a sedare gli spiriti
accesi, persuaderli della inanità di cotesto moto, e indurli forse a desistere337.
Altro esempio dello
arbitrario operare del Governatore Pigli ci viene offerto dalla Spedizione
fatta dal medesimo, fino dall'11 febbraio, alla Isola del Giglio, della
Spronara, per vigilare persone sospette, e pubblicare Proclami, della quale
avvisa il Governo unicamente nel giorno tredici successivo338; e sì, che anche su questo, se per via
telegrafica non poteva informarci intorno ai particolari delle cose, gli era
agevole notificarcene la somma. Nel maggiore uopo ci lasciava per taluni giorni
senza avviso delle operazioni che gl'importava palesarci ormai compíte,
comecchè di altre per minuto ci ragguagliasse; ed egli medesimo il confessa:
«La rapida e incessante successione degli eventi, e le cure che ne
conseguitano, assorbono così il mio tempo da non lasciarmi agio a
quell'ordinato e quotidiano ragguaglio che avevo impreso, e che riannoderò come
prima mi sia concesso, limitandomi di presente a darle conto dei casi più
gravi, e delle più importanti misure339.»
Il Rapporto del 14
febbraio incomincia con la protesta medesima: «Neppure oggi mi è dato
riprendere la interrotta narrazione degli avvenimenti attuali, bastandomi
appena il tempo e le forze di accennare di volo i più notevoli ed importanti340.»
L'Accusa sostiene che,
ricusato dal Generale D'Apice il comando della Spedizione pel Porto Santo
Stefano, il Governo lo confidava al Pigli, il quale tosto incamminò La Cecilia per la Maremma verso Porto Santo
Stefano. Contradizioni, e peggio: nè l'una cosa, nè l'altra. La Cecilia per ordine del
Governatore di Livorno, non già spedito dal Governo o da me, precede la Colonna Livornese,
e va per mettersi a capo delle Guardie Nazionali della Maremma; poi fa una
giravolta, pubblica Proclami, nessuno gli dà retta, e torna maledicendo ai
Maremmani. Il Governatore non ebbe mai altra commissione, tranne quella di
adunare gente scelta, e dipendere dagli ordini del Generale D'Apice. A D'Apice
fu proposto il comando delle forze nel caso che si avesse dovuto spedirle a
Grosseto; egli non accettò lo incarico, e a nessuno altro venne conferito
giammai. Chi sostiene diversamente, a chiare note si sappia ch'ei calunnia,
all'atroce intento di nuocere contro la verità manifesta. Infatti, quando ebbe
questo ordine il Pigli, che l'Accusa fabbrica nella sua officina? prima, o dopo
il 14 febbraio? Prima no, conciossiachè pel Dispaccio incriminato del 14
la gente scelta doveva apparecchiarsi, e dipendere dal Generale D'Apice,
e per le prove superiormente addotte ne dipendeva; dopo nemmeno, dacchè, oltre
il Dispaccio del 14, per frugare che abbia fatto, l'Accusa non ha potuto
rinvenirne altro. Qui dunque si tratta, io lo ripeto, di calunnia, non già di
accusa341.
Ma la presente materia
merita di essere più sottilmente considerata, onde si faccia luce maggiore
nella ragione degli uomini e dei tempi. Coloro che volevano strascinare il
Paese al compimento della rivoluzione, sfiduciati d'incontrare nel Governo
arrendevolezza, si volsero a quelli che meglio parvero disposti a secondarli; e
fra questi venne lor fatto incontrare, più accesi degli altri, Carlo Pigli e La Cecilia; noi li vedremo
collegati avversare il Governo, tentare ogni via di usurpare il Potere per
promuovere la Repubblica,
e per altra parte noteremo indirizzarsi a loro uomini perversi con orribili
proposte. Alfine l'uno è deposto dall'ufficio, l'altro avviato fuori del Paese.
La Cecilia crebbe avverso a me: delle sue qualità
morali non parlo, chè a me nulla è noto che onorevole non gli sia; favello
dell'uomo politico. Io presto ebbi a conoscerlo irrequieto e dominato, più che
da altro, da certo spirito torbido che lo agitava a fare e a disfare342. I Livornesi, i quali, più che altri non
estima, aborrono i commuovimenti inani o pericolosi, spesso venivano o
mandavano a lamentarsi meco di lui, e mi pregavano trovare modo ad accomiatarlo
onestamente. La corrispondenza officiale ha da porgere di questo piena
testimonianza; in suo difetto, ne occorre traccia nel mio Dispaccio
telegrafico al Governatore di Livorno del 19 novembre 1848: «I reclami contro La Cecilia crescono di
momento in momento. Invitisi venire a Firenze per conferire col Ministero.»
Egli prima mi tenne caro; quando poi mi conobbe avverso alla Repubblica, prese
a inimicarmi con molta acerbezza nel Corriere Livornese che tolse a
dirigere: però nel 7 marzo stampa su l'Alba, Giornale devoto a
parte repubblicana, essersi ritirato da cotesta Direzione per la stupida
servilità dei tipografi proprietarii del Giornale. I tipografi gli
rispondevano: «Non essersi già ritirato, ma averlo essi licenziato, e averne
avuto motivo non dalla stupida servilità loro, ma dalle sue continue
incoerenze, avendo fatto subire in breve tempo al Giornale cento variazioni e
colori diversi: ora adulando il Governo in cose che nessuno lodò, anzi biasimò
(come nel Discorso della Corona per l'apertura delle Camere!), ora facendogli
una opposizione alla quale la opinione pubblica ripugnava343.» Mandato a Roma da Montanelli come Console
toscano, in breve renunzia e torna in Livorno. Qui domina Pigli, e lo governa a
suo senno: va, viene, capovolge ogni cosa; si accompagna a tutti i conati per
istrascinare il Governo a proclamare la Repubblica, ed unirsi, senza indugio, con Roma.
Quando mi verranno consegnate le carte della mia amministrazione, confido
potere ordire più completa storia; - costretto a valermi delle carte
dell'Accusa, a nuocere copiose, a salvare parche, mi si presenta nel
primo di marzo 1849 un Dispaccio, dal quale si argomenta come La Cecilia si affaticasse a
conseguire qualche grado superiore nello esercito, ed io rispondo: «Gli
ufficiali delle milizie sono destinati, e La Cecilia guasterebbe ogni cosa. A Pistoia lo
Ufficiale superiore sarà Melani colonnello, a San Marcello Razzetti maggiore; non
facciamo confusione. Riguardo ai mezzi, bisogna regolare le cose in maniera
che lo impiego della fortuna pubblica si faccia rigorosamente, e possa
darsene sempre esatto conto. Entrerà nelle previsioni del Governo mandare un
quartier-mastro pagatore.» Pigli risponde: La Cecilia non essere eletto a
comandare truppe, solo a precederle fino a Lucca, onde provvedere ai bisogni
delle nostre colonne, e averlo inviato i Maggiori Guarducci e Petracchi;
stasera o domattina aspettarsi reduce in Livorno344. All'opposto ricaviamo dai Documenti che La Cecilia il Generale
comandante le Milizie toscane non cura, molto meno il Governo, bensì col
Governatore di Livorno unicamente corrisponde; in quel giorno stesso egli lo
avvisa non avere trovato cavalli da treno, e fra le altre cose, che alle due
partirà per Lucca. Un poco più tardi: avere passato in rivista la compagnia
di Pisa, e, dopo altre notizie, domanda l'approvazione del Governatore.
Barli, comandante di
Piazza a Pisa, per telegrafo avverte: essersi presentato il signor Colonnello La Cecilia con una
Circolare del Governatore di Livorno, che lo autorizza a presentarsi alle
Autorità Civili e Militari, per essere assistito in ogni sua operazione a
reclutare Volontarii, e cavalli per l'artiglieria nazionale; avergli
domandato quanta cavalleria fosse disponibile in questa Piazza; domandare
istruzioni per non intralciare le operazioni di cotesto Dipartimento345.
Sicchè quanto fosse
vero, che Petracchi e Guarducci avessero inviato la Cecilia, e non il
Governatore, di qui apparisce espresso. Per queste notizie accorgendomi come
ormai volesse stabilirsi un Governo di fatto Repubblicano a Livorno, di cui
Pigli avesse ad essere la mente, e La Cecilia la spada, mando al Governatore:
«Lo invio del La Cecilia è uno dei soliti
spropositi; domanda artiglieria, cavalleria, e altro da Pisa. Tu hai azione
dentro il tuo Dipartimento, fuori no; non puoi farlo senza
mandare sottosopra ogni cosa. Per Dio, così rovina la impresa. Dite il vostro
bisogno. Dite come potete provvedere per voi, e come deve aiutarvi il Governo
centrale. - Manderemo ufficiali a posta. Il Comandante di Pisa, come è
naturale, non sa che fare. Si richiami La Cecilia con bel garbo346.
Pigli per gratificarsi i
Volontarii livornesi, promette di propria autorità venti crazie al giorno di
paga. Avverto, che questo negozio sconvolge da cima in fondo lo esercito,
imperciocchè tutti pretendono paga uguale; per rimediare, suggerisco far
credere che la differenza della paga ricevano dal Municipio; scongiuro non
prendano misure senza concerto nostro; altrimenti, quando più la disciplina
e la organizzazione abbisognano, ci casca addosso il caos347. La
Cecilia, apprendendo che l'ordine del Pigli intorno alla
cavalleria non verrà eseguito, gli scrive parole concitate contro il Governo
superiore348. Pigli risponde
insistendo non avere egli inviato La Cecilia... «Che debbo farci?» egli aggiungeva:
«gl'imbarazzi sono molti349!» Questa parevami, ed
era, duplicità manifesta. Da lunga pezza io era informato delle disposizioni di
Carlo Pigli ostili al Governo, dello studio posto da lui a radunare un partito
gagliardo in Livorno, della sua professione nuovamente repubblicana, del suo
accontarsi co' più ardenti di cotesta parte, non meno che dello agitarsi
perpetuo del La
Cecilia. Certo mio parente, che di me, troppo spesso
fiducioso più che non conviene, prendeva amorevole cura, sorprende e mi reca
lettere, inviate da un Frugoni di Lerici, capitano di mare, e proprietario di
bastimenti, a La Cecilia,
con le quali gli proponeva alla ricisa di ammazzarmi come traditore, e
surrogare lui a me, Pigli a Mazzoni come uomo inetto; si lasciasse Montanelli,
finchè non si trovasse meglio. Dai Documenti raccolti per opera dell'Accusa
resultano le prove di questi fatti, i quali vengono per altri riscontri
confermati in processo. Spedito Marmocchi a Livorno a investigare le cose, così
riferisce nel 5 marzo: «Non ho scritto fino ad ora, perchè ora solamente ho un
concetto preciso delle cose in questa città. Ho sentito molte persone di
opinione diversa. Vado per la diagonale e vado bene. La cosa principale per la
quale sono qua è una ridicolezza. Pigli è lo stesso amico di prima, sincero e
ardente. La differenza è nella salute, perchè io l'ho trovato veramente
decaduto. Si regge mercè lo spirito, e considererebbe siccome gran favore la
sua licenza, o almeno una gita di riposo nel suo paese per un mese. Bisogna
dare un collocamento conveniente a La Cecilia. In tutti i modi, subito. Non ha il
seguito che credete, no, ma manca l'antica amicizia, e di gran cuore se
ne andrebbe. Quel di Lerici è un fatuo; non è nulla; vorrebbe vendere al
Governo Provvisorio alcuni bastimenti, ecco la chiave di tutto. Il Popolo
livornese è sempre eroico e grande; è anche moderato. La Repubblica
non è proclamata. Siamo qui come a Firenze su questo proposito, con la
differenza, che Firenze è una selva di alberi, e qui non ve ne sono che tre
o quattro soli. Volete si tolgano di Piazza, e si portino in Chiesa fino al
giorno che l'Assemblea decreti definitivamente la Repubblica? Livorno
aderisce, e Firenze non sarebbe così docile. Vedete dunque che cosa è Livorno350.»
Il Rapporto del
Marmocchi non poteva persuadermi: comunque vogliasi tenere in poco conto la
vita, pure sentirti dire, che il disegno di ammazzarti è cosa da nulla, non
garba ad un tratto; e il successo venne dimostrando, che Marmocchi per
soverchio di dolcezza neanche nelle altre cose si era apposto al vero. Ad ogni
modo risposi: non potere offerire altro ufficio, che di secondo segretario a
Parigi; però poco dopo aggiungevo, che se l'uomo meritava congedo, non
capivo perchè si avesse a impiegare; ed avvertisse che la mansuetudine, quando
è troppa, rovina351. Marmocchi replica: La Cecilia accettare; egli
essermi ancora molto amico, ma disgraziato; non potere dirmi tutto per
telegrafo; venire La Cecilia
a Firenze: pregarmi riceverlo, in considerazione della lunga amicizia; nessuno
credere a tradimento; quel di Lerici essere fatuo come lo scrittore della
Frusta repubblicana; la passata intrinsechezza con La Cecilia avrebbe fatto
vedere con dolore la presente severità; esultare gli amici ch'egli partisse, ma
non derelitto da me; bene altri nemici avere il Governo; trovarsi chi
traendo argomento dalla miseria corrompe la plebe; mi manderebbe nella notte
uno di questi facinorosi incatenato a Firenze352.
Qualche ora più tardi nello stesso giorno, aggiungeva avere veduto il
Gonfaloniere, il quale si rallegrava col Governo per la misura presa
relativamente a La Cecilia,
e la opinione pubblica commendarla353.
Nonostante scrissi per
via telegrafica: «desiderare non vederlo; fosse trattenuto, potendo, in
Livorno354;» pure egli venne, ed
io lo accolsi con volto sereno e mente pacata; e dopo avergli posta davanti gli
occhi la lettera del Frugoni, lo interrogai, che cosa avrebbe fatto nel caso mio.
Rispose non essere in sua potestà impedire allo stolto che favellasse
secondo la sua stoltezza; e siccome questa mi parve convenevole scusa,
tacqui; non ugualmente bene poteva scolparsi intorno alla guerra mossa contro
il Governo per istrascinarlo di viva forza alla Unione con Roma, e a proclamare
la Repubblica,
o rovesciarlo. «Orsù via, partiti di Toscana,» gli dissi. «e tutto è posto in
oblio.» Partì per Livorno menando a lungo la partenza, finchè crescendo le
manifestazioni di anarchia, aombrate dal pretesto della Repubblica nel 14
marzo, contemporaneamente al richiamo del Governatore a Firenze per via
telegrafica, scrissi a Livorno: «S'inviti La Cecilia a partire subito, anche per terra,
per Genova, donde recarsi al suo destino. Qualora non volesse appagare
questi nostri desiderii, noi l'avremmo per tradita amicizia. Gli si partecipi
il Dispaccio355.» Allora si condusse a
Genova; e quivi si andò indugiando sotto vario colore, finchè i successi della
guerra gli dettero campo di presentarsi come utile alla difesa del Paese.
Da Genova nel 27 marzo
mi scrisse La Cecilia
la lettera che leggiamo a pagine 222 dei Documenti dell'Accusa; in questa ei
parla di errori commessi dai Comandanti piemontesi nella battaglia di Novara;
poi propone due mezzi di difesa, di cui il primo sarebbe stato plausibile per
quello che in tempi antichi e moderni ne hanno scritto peritissimi uomini di
guerra; il secondo avventuroso e impossibile. Di questa lettera giova riportare
la frase che accenna al pertinace proposito di fare sempre a suo modo: «Insomma
se nulla si conclude qui tra oggi e domani, io torno; mi metterai in prigione,
ma devo, ma voglio dividere le vostre sorti.»
Non
tali auxilio, nec defensoribus istis
Tempus
eget! -
La Cecilia non era uomo da dire le cose e non
farle; piuttosto prima le compiva, poi le diceva. Di vero il giorno seguente
eccolo a Massa, donde m'invia la lettera in data del 28 marzo 1849, nella quale
si propongono tre progetti: il 1° contenuto in altra lettera, che io non
ricordo, ove non fosse taluno degl'indicati nella lettera del 27; il 2° di
seppellirci tutti sotto le rovine delle nostre città; il 3° di fare offrire la
corona al figlio del Granduca; questo ultimo mezzo repugna di molto,
egli scrive, ma il Paese vorrà difendersi? E tanto basti per dimostrare
come io provassi contrario La
Cecilia nel periodo del Governo Provvisorio, da quando mi
mostrai reluttante ad appagare i desiderii di parte repubblicana.
Ora continuo esponendo i
fatti attinenti a Carlo Pigli Governatore di Livorno; diventato, più che
capitano, mancipio della Fazione demagogica, ormai egli non ha più potenza di
fare il bene e d'impedire il male. Cotesta egregia Patria di cima in fondo
compariva guasta. Il Governo, assentendo ai consigli del signor Marmocchi,
pensa scambiare la
Guardia Municipale di Livorno con quella di Firenze; e
chiamata qui la prima, purgarla e spartirla in altre compagnie. Inoltre, ai
suggerimenti del Ministro della Guerra Tommi compiacendo, accorda che il primo
Battaglione di Linea si spedisca a Livorno, e quivi si riordini mediante un
campo da stabilirsi nelle campagne littorane356. Annunziando io queste
provvidenze a Livorno, aggiungo: «Il Popolo attenda vigilante le disposizioni
del Governo ormai disposto a procedere con severa giustizia contro tutti i
perturbatori, e nemici delle libertà, sia civili che militari357.» Queste parole ai caporali della Fazione erano
savor di forte agrume; nell'anarchia confidando, per soverchiare il
Governo, ecco s'industriano a lavorarlo di straforo, mettendo male biette tra
il Popolo. «Badate, dicevano, a non lasciare partire la Guardia Municipale
Livornese, e sostituirla dalla Fiorentina, però che questa sia qua mandata per
opprimere la libertà358.» In quanto al
Battaglione di Linea avviato a Livorno, si guardassero dal Colonnello Reghini,
a cui avevano commesso di trarre a palla sul Popolo, come già aveva fatto sul
Popolo pistoiese359. Il Popolo si commuove,
e circondato il Palazzo del Governatore in numero di 4,000 persone, domanda a
morte il Colonnello; altri urlano che si cacci in carcere. «Il Governatore,
narra il signor Reghini nel suo Rapporto, si addimostrò sgomento, varii dei
suoi spaventati, perchè circuito il Palazzo, e l'anticamera invasa da turbe,
che esaltate chiedevano la mia persona in loro possesso, e i moderati
gridavano venissi posto alle segrete360. Ed io, ben contento di
secondare la volontà del Popolo indignato (non so perchè), esortai ad essere
dal Popolo stesso condotto in segrete, dove giunsi molto a stento: ma
coadiuvato dai buoni che mi fecero corona, mi restò lontano lo stiletto, nè si
ottenne di gettarmi a terra.» Io rimasi fieramente percosso per tanto
vituperio, imperciocchè il Governatore dovesse nel suo Palazzo, come in asilo
inviolabile, custodirlo, nè mai consentire, se non che calpestando il proprio
petto, cotesti furibondi giungessero al petto del Colonnello. Avvertito per
telegrafo, adoperando la destrezza persuasa dalla gravità dello accidente,
senza intermissione rispondo: «Importa grandemente sia fatto il processo ai
soldati di cotesto reggimento che si ribellarono. A ciò è necessario il
Rapporto del Reghini. Bisogna mettere il Reghini in libertà onde faccia cotesto
Rapporto. Non accendasi il Popolo già acceso. Si lasci fare al Governo;
ha i suoi fini, e vuole essere libero per il bene della libertà. Dicasi al
Reghini, che il Governo penserà a lui. Si risponda subito361.» Il giorno seguente, soccorrendo al mal
capitato Colonnello, insisto: «Esatte informazioni ci persuadono a conservare
Costa-Reghini; però non si vorrebbe urtare la Popolazione. Il
Governo vorrebbe formare un campo in prossimità di Livorno, e quindi riordinare
il reggimento. Reghini rimarrebbe a riorganizzarlo, e sembra essere
adattatissimo per questo. Procuri che la Popolazione applauda a
questo progetto, e ci renda intesi dello effetto delle sue premure. Comprende
la necessità della prestezza.362»
Ancora nel medesimo
giorno 10 marzo: «Intorno al Reghini, sarà collocato. Del reggimento sarà fatto
un campo. Forza, tranquillità, coraggio e gravità; - e forse riusciremo....
forse, perchè i tempi ingrossano; e disfacendo tutto, nulla si fabbrica363.»
Il Generale D'Apice,
giunto a Firenze, scriveva al Governo Provvisorio la seguente lettera, la quale
non abbisogna di comento:
«Ieri al mio arrivo in
questa città, seppi che il signor Costa-Reghini Colonnello del 1° Reggimento
Infanteria di Linea, fu immeritamente insultato dal Popolo di Livorno, e poi
vilmente abbandonato ai suoi persecutori, dalla prima Autorità costituita in
quella città, dal Governatore, presso cui il detto signor Colonnello si era
rifugiato. - Un tal fatto è talmente grave, che io lo considero come una vera
offesa fatta allo esercito, che ho in questo momento l'onore di comandare. Come
capo dunque di questo esercito, e nell'interesse del servizio, credo mio
stretto dovere dirigermi alla giustizia del Governo, perchè un'ampia e pubblica
soddisfazione sia data allo esercito, e al signor Colonnello Costa-Reghini,
elevando questo al posto di Generale di Brigata, e dimettendo dal suo posto il
signor Governatore di Livorno. Qualora il Governo non credesse a proposito di
accedere alla mia richiesta, lo prego in risposta di volere degnarsi spedirmi
la mia dimissione dal servizio364.»
In tutto questo negozio
io procedeva d'accordo col Generale, parendomi fosse pur giunta occasione di
potere alla fine allontanare Carlo Pigli da Livorno, e precidere i disegni di
coloro che agognavano alla estrema demagogia. - Invano il Colonnello Reghini scrive,
averlo voluto libero il Popolo livornese, e accompagnato dal Governatore, e da
parecchi Uffiziali della Guardia Nazionale, fra plausi e banda essere stato
condotto al Palazzo Governativo; invano dichiara, per questo modo adempirsi
l'ordine del Governo che lo voleva fino da ieri l'altro posto in libertà,
ordine non ancora eseguito per timore di collisioni, non tutti i Circoli
andando d'accordo nella mia liberazione365; invano informa per via
telegrafica il Ministro della guerra: «Sono in libertà per acclamazione
popolare e generalissima. La mia confusione è grande: vorrei dimostrare al
Popolo la mia gratitudine, al Governo la mia devozione; supplico la di lei
ministeriale autorità, essermi interpetre, come lo è stato, a mio sommo
vantaggio, il signor Governatore Pigli366.»
Io ben conobbi cotesta
essere mala toppa allo strappato, e conoscevo a prova di che cosa sapessero
cotesti Dispacci imposti dai presenti, e da loro prima letti, e poi mandati;
però nel 13 marzo 1849, allo intento di superare le resistenze, conforto il
Generale D'Apice a tenere il fermo nel domandato congedo: finalmente nel
Consiglio le provvidenze da me proposte si mettono a partito, e si vincono;
allora senza porre tempo fra mezzo, nel giorno 13 marzo, alla ora prima pomeridiana,
mando per telegrafo a Livorno: «Il Governo invita il Governatore di Livorno a
venire in giornata a Firenze, per conferire insieme su cose importantissime367.» Arrivato a Firenze alle 7 pomeridiane,
alle 9 si ordina al Colonnello Costa-Reghini: «È pregato a portarsi domani col
primo treno a Firenze. Il Generale D'Apice lo vedrà appena arrivato368;» e alquante ore trascorse, di nuovo, alle 3
antimeridiane del giorno 14 marzo, intímo a La Cecilia la partenza
immediata, sotto minaccia, che avremmo lo indugio per tradita amicizia, come
già in altro luogo opportuno fu debitamente notato.
A ben comprendere quanta
industria fosse posta da me per indebolire la parte che strascinava il Paese
alla demagogia, e quanta difficoltà incontrassi nella perigliosa impresa,
prezzo della opera è sospendere alquanto questo racconto, e continuare quello
che spetta alla Guardia Municipale.
La Guardia Municipale corrotta e governata da
taluni che trovavano il proprio conto a mostrarsi smaniosi libertini, mercè la
diligenza fatta, viene a Firenze, ed è stanziata a Santa Maria Novella. Qui noi
attendevamo a mandare ad esecuzione il disegno di cui già tenni proposito,
allorchè, avendolo i più audaci subodorato, si ribellano con minaccie di morte:
ordinai si trasportassero due cannoni, e al Quartiere, intimati prima i
pacifici a separarsi dai rivoltosi, si appuntassero. Però essi non ne
aspettarono la vista, e più che di passo trassero alla Porta San Frediano
incamminandosi verso Livorno, dove tolleravansi o di leggieri erano scusati. Il
Dispaccio del 10 marzo così ammonisce il Governatore: «Accade un fatto
gravissimo che dev'essere ad ogni costo, intenda bene, ad ogni costo represso. Una
parte della Municipale di Livorno si è ribellata. Prima, nel Convento di Santa
Maria Novella, aveva fatto mostra di difendersi; poi è uscita da Porta San
Frediano, e non si sa dove siasi diretta. Verrà forse a Livorno. Prenda, con la
massima segretezza e con vigore, le misure onde venga arrestata. Si concerti
con Frisiani e con altri Ufficiali di testa. L'avviso a tempo, onde a
tempo provveda. Non intende il Governo mezzi termini nè pietà. Se mostriamo
mollezza per la
Guardia Municipale, è finita: invece di difensori avremo
un branco di assassini369.» Il Maggiore Frisiani
raggiunge le Guardie ribellate a Pisa, con ordine di tradurle da capo a Firenze
sotto scorta; si sottomettono, ma implorano andare a Livorno, e non tornare
alla Capitale presso il Governo Provvisorio. Frisiani non si reputando
facultato (come invero non era) ad arbitrare, viene per ordini370.Le Guardie promettono aspettarne arrestate il
ritorno; i Maggiori Frisiani e Magagnini mallevano per loro; fa lo stesso
Mastacchi; se non che le Guardie, mutato consiglio, dai Quartieri di San
Martino si recano, nella sera del giorno 12 marzo, alla Stazione della strada
ferrata, e quivi per amore o per forza intendono volere essere trasportate a
Livorno371. Il Governo, sentinella
perduta dell'ordine, alacremente commette al Governatore: «L'arrivo dei
Municipali a Livorno è fatto gravissimo, e tale da cimentare la pubblica
sicurezza. Se forza non rimane alla Legge, il Governo è d'uopo che si
dimetta, e con esso cadano tutti i funzionarii pubblici per dare luogo ad
uomini facinorosi che condurrebbero a irreparabile ruina il Paese372. È necessario pertanto che cotesti ribelli
sieno per forza o per arte arrestati e disarmati. Procurate con ogni mezzo che
ciò si ottenga. il Governo penserà in giornata a darvi le istruzioni in
proposito. Se in un corpo, che tutto deve imporre con la forza morale, si
lasciano introdurre germi d'immorale dissoluzione, io non so più qual forza
resti al Governo per fare eseguire le Leggi; qual tutela resti al Popolo della
propria sicurezza. Uno esempio è necessario. I cinquanta militi municipali
venuti costà non appartengono più al corpo. Restituite con un atto di coraggio
la fiducia che deesi avere dal Popolo nella Guardia Municipale, e che le
mancherebbe, qualora questi sciagurati, indegni di appartenervi, andassero anche
questa volta impuniti. I Maggiori Magagnini, il Frisiani, e il Mastacchi hanno
cimentato la loro parola in questo affare. Agiscano; chè altrimenti ne va del
loro onore. Ogni buon Livornese deve vergognarsi di convivere nelle stesse
cerchia e di chiamarsi concittadino di uomini così indisciplinati e ribelli
come sono cotesti Municipali373.» La pubblica
indignazione levandosi a danno loro, altri non potè assumerne le parti di
protettore e avvocato; figli di predilezione erano essi, ma sul momento fu
mestieri abbandonarli, bensì con fiducia poterli restaurare dello smacco
largamente ed in breve. Il Governatore, verso le ore due pomeridiane del giorno
13, annunzia i Municipali disarmati essere stati tradotti in Fortezza;
«chiedere intanto essere autorizzato a inviarli a Pisa per essere ivi custoditi
e giudicati; implora molta indulgenza e sollecita, non senza però il più
ampio apparato di Giustizia374.» Fu il richiamarlo
risposta. La Fazione
sentendosi percossa, prorompe in aperte minaccie; Pigli torna a Livorno; una
parte del Popolo tumultua, e intende impedirne la partenza375; ma egli ormai privato del comando, increscioso
a molti per le sue avventate parole, a parecchi ancora dei suoi partigiani
caduto novellamente in fastidio pel non degno abbandono del Colonnello Reghini,
comprende essere migliore partito per lui abbandonare Livorno riducendosi a
Firenze: quello che vi venisse a fare lo dichiarano i Documenti officiali
dell'Accusa; egli venne a osteggiare il Governo, nelle Assemblee e fuori,
istando ardentissimo perchè la
Repubblica e la
Unione con Roma si proclamassero.
Nel giorno 14 marzo
stavano radunati nella mia stanza i signori Montanelli, Mazzoni, Pigli,
Reghini, e D'Apice, a cui Reghini su la prima giunta aveva esposto per filo e
per segno com'erano andate le cose. Io invitai il Colonnello a contestarle in
presenza al Governatore; ma egli, si peritasse per gentilezza, o per altro
motivo, si andava tuttavia schermendo: allora lo confortai a favellare senza
ritegno; poichè la sua sentenza adesso suonava diversa dalla manifestata
testè.... nella stessa mattina al suo Superiore. Egli, fattosi animo,
confessava essere stato abbandonato pur troppo alla furia popolare dal signor
Pigli, e nel venire tratto giù per le scale avere creduto arrivata la estrema
ora per lui. Il Pigli si scusava affermando avere adempito a quanto era in
potestà sua di fare. Congedati il Generale e il Colonnello, gli palesai aperto
non lo potere più oltre conservare in Livorno; e siccome i miei Colleghi assentivano
al detto, egli si piegò a dimettersi ponendo innanzi certe sue pretensioni di
pecunia, le quali lasciai che altri regolasse con lui, contento ch'egli dal
governo di Livorno ad ogni modo cessasse.
La Guardia Municipale ebbe a venire in
Firenze e sottomettersi; a Livorno proposi una Commissione governativa composta
dei signori Fabbri, Pappudoff, e Manganaro376. Certo, Luigi Fabbri fu
soldato prestantissimo, e dei primi della guerra della Indipendenza; e spesso
(chè spessissime volte col fine di bene inculcarlo nella mente degl'ignavi
ascoltatori ei lo disse) con l'orgoglio che ogni concittadino sente in cuore
pei forti detti e pei generosi gesti dei suoi compatriotti, lo udii, e ben
mille altri meco lo udirono ripetere le parole con le quali, tutto infiammato,
usciva nella Seduta del 23 gennaio 1849: «Tra questi v'è un uomo, e sono io,
che, all'istante nel quale fu dichiarata la guerra, prese le armi, e, senza
diffondersi in vane parole o in semplici grida sulle pubbliche piazze, o in
esagerati concetti per istrappare l'applauso dal sentire generoso del Popolo,
ha pugnato nella guerra della Indipendenza, ed ha affrontato la morte; e non
solo ha affrontato la morte lasciando teneri figli ed amata consorte, ma adesso
dichiara, in presenza a tutto questo onorevole Consesso, che ritornando le armi
nostre su i campi lombardi, sarà pronto di nuovo a cingere la spada377.» - Ma non per questo nè allora nè poi fu
Repubblicano il Fabbri, e, se ne avesse bisogno, gliene potrei far fede; e il
signor Pappudoff nemmeno, comecchè amico delle oneste libertà. In quanto a
Giorgio Manganaro, basti dirne questo: che la parte faziosa lo ebbe ad
oltraggiare con la brutta minaccia: «Devi fare come il Pigli, o ti butteremo
dalla finestra378.»
Tutte queste cose io
volli dire seguitatamente, affinchè si comprendesse come, amici Pigli e La Cecilia una volta, meco
una volta concordi per sostenere e promuovere gl'interessi del Principato
Costituzionale toscano379, poco oltre l'8
febbraio, acconsentendo ad altre persuasioni, gli avessi prima segreti, poi
alla scoperta avversarii. Da Firenze in prima si estorcono commissioni onde al
Governatore di Livorno sia fatta abilità di eseguire, con nome e credito
governativi, ufficii contrarii alla mente del Governo; a suo arbitrio
estenderli; a norma degli ordini di tale che in quei giorni troppo più di me
poteva, ed era obbedito, applicarli; indi a breve, nemmeno gli ordini si
aspettano o si cercano; e già in Livorno spunta costituito il Governo, che,
passandomi sul corpo, si augura la Repubblica, la Unione con Roma, e la Decadenza del Principe
proclamate. Così vedremo con quanta diligenza e pertinace volere da una parte,
difficoltà e pericolo dall'altra, pervenni di mano in mano a contenere la Setta, che dello intero Popolo
toscano piccola parte, ma prepotente di audacia e di gagliardía, mentre attende
cupidissima a sospingere il Paese nella Repubblica, non si accorge precipitarlo
fra gli orrori rivoluzionarii nell'anarchia.
Secondo l'ordine
dell'Accusa succede la lettera scritta nello stesso giorno 14 febbraio a
Tommaso Paoli, consigliere della Prefettura di Pisa, la quale, comecchè dettata
nelle condizioni medesime di tempo e di luogo, forza è che si giustifichi con
le ragioni addotte in proposito del Dispaccio al Governatore Carlo Pigli. E
dove si ricerchi argutamente la materia, tu vedi in cotesta lettera espressa la
traccia di pressura attuale. Invero, ricordisi quanto nel § della Dimostrazione
provai con la testimonianza dei Giornali, voglio dire le Deputazioni dei
Circoli una succedentesi all'altra nel giorno 13 febbraio, e con quanta
mansuetudine oggimai è manifesto, per essere ragguagliate di quanto sapeva e
operava; e allora si comprenderà come, per ischermirmi dall'accusa di
negligenza (e insinuavasi tradimento), rimproverato, rimprovero di essere
lasciato privo di novità. Ancora: il linguaggio che correva su per le bocche
degli uomini in quei tempi, ed usavasi nelle scritture, nelle petizioni dei
Circoli, ed in quel punto si favellava dalle persone che mi stavano al fianco,
forza è che trapassi nel Dispaccio, siccome nel Dispaccio dell'8 febbraio
fecero passaggio le parole: «il Principe è decaduto;» e oggimai per mille
documenti è provato com'io questa decadenza conflittassi e impedissi.
Finalmente, quantunque commosso dalla presenta perturbazione, bene ordino
radunarsi uomini, ma parte inviarsi a Lucca, e parte tenerne a disposizione
del Governatore di Livorno, il quale a sua volta aveva a dipendere dal Generale
D'Apice, come fu dimostrato di sopra.
Ora l'Accusa (ma di
siffatti studii non si occupano le Accuse) se avesse desiderato chiarirsi,
poteva mettere a parallelo degli atti che incolpa, altri atti che pure ella
raccolse nel suo Volume, e confrontando avrebbe acquistato la conferma (dove
facesse mestieri) della patita coazione. E innanzi tratto io pongo il Dispaccio
mandato allo stesso Consigliere Paoli, dove lo avviso della infermità
sopraggiuntami, ed in bel modo lo conforto a procedere prudentemente e con
temperanza grandissima, a impedire ingiurie ed offese, a rendere amabile la
libertà proteggendo tutti, e conservando il diritto ordine fecondatore del
vivere civile380. - Di molto maggiore
importanza apparisce l'altro Dispaccio del pari indirizzato al Consigliere
Paoli:
«A buono intenditore poche parole. - Armatevi - armatevi -
armatevi. - Esaltate i soldati; - non
abbiamo bisogno del giuramento, - ma pure se lo prestano meglio che mai.
Bisogna che diate forza
al Partito democratico di Lucca.
Non
si precipiti nulla in quanto a Repubblica.
1° Perchè tutta Toscana
ha da esprimere il suo voto.
2° Perchè Francia e
Inghilterra, stando così, proteggono da invasione straniera; - se no, abbassano le
armi, e abbandonano il Paese: giudizio dunque. Partecipi agli amici, non che
al Prefetto, se crede.»
E sapete voi quando io
dettava cotesto Dispaccio? Il 13 febbraio
1849 nelle ore pomeridiane, e per tal modo poco tempo innanzi che per me si
scrivesse il Dispaccio incriminato. Voi lo vedete adunque: intorno al
giuramento non metto sollecitazione veruna, anzi dichiaro non averne bisogno;
raccomando impedirsi la
Repubblica; ammonisco intorno ai pericoli non mica
transeunti, bensì permanenti, e tali da non iscomparire da un giorno all'altro
dove sconsigliatamente si proclamasse; tra siffatte disposizioni dell'animo mio
manifestate nel 13 febbraio, ponete le strette e le violenze, che in
parte vennero raccolte nel § della Dimostrazione; e si abbiano anche i
più diffidenti prova non dubbia della sofferta pressura. Le discrepanze, o
meglio le contradizioni fra il Dispaccio del 13 e l'altro del 14
febbraio, somministrerebbero di leggieri materia a lungo discorso: io però amo
il lettore di per sè stesso le senta, piuttosto che andargliele ad una ad una
enumerando partitamente io.
Per quanto in queste angustie
mi è dato, ricorderò alcuni pochi atti, onde il paragone sempre più riesca
convincente. Nel giorno 8 di febbraio 1849, instituisco una Commissione,
perchè provveda alla custodia dei mobili tutti appartenenti al Granduca,
ond'egli (se la fama mi porge il vero) ebbe a dire a Sir Carlo Hamilton, delle
cose sue non avere perduto la più piccola; nel 9, alla domanda (ed era
minaccia): «nasce dubbio nel Pubblico, che la proclamazione del Governo
Provvisorio Toscano abbia fatto cessare le attribuzioni dei pubblici
funzionarii,» rispondo sollecito dopo pochi minuti: «il dubbio non è
fondato; stieno al posto; chè il mandato dura finchè non sia revocato381.» Chiunque attende a mutare forma di Governo,
non ne conserva la organizzazione e gli ufficiali; ma quella immediatamente
disfa, questi licenzia. Nel 10, riavutomi alcun poco dallo
sbigottimento, malgrado la decadenza del Principe proclamata dal Popolo l'8
febbraio, e malgrado che io pure fossi costretto a scrivere quella parola
in quel giorno, annunzio:
«Cittadini. -
Abbandonato il Paese a sè stesso, noi fummo dal Parlamento toscano e dal Popolo
eletti custodi della pubblica sicurezza. Fermo proponimento nostro è
mantenerla, e difenderla. I Cittadini cui preme la Patria si stringano intorno
a noi. Chiunque con fatti o detti attenta alla salute pubblica, commette
scandali, ed eccita la guerra civile, sarà considerato traditore della Patria,
e come tale punito. - Firenze, 10 febbraio 1849.»
Il giorno seguente,
osando di più, il Governo dichiara: suo primo dovere consistere nel mantenere
la pubblica sicurezza; in quanto alle sorti toscane, aversi queste a decidere
dalla intera Nazione col mezzo dei suoi Deputati; rispetterebbe allora il
Governo le volontà del Popolo sovrano: - con le quali sentenze davo ad
intendere senza ambage, che tutto quanto era stato deliberato da parte del
Popolo a Firenze io riteneva per irrito, e come a cosa di nessun valore
ricusavo sottopormi: la universa Toscana, debitamente interrogata, disponesse
di sè:
«Dopo che la Toscana fu priva di uno
dei tre Poteri dello Stato, fu eletto dal Popolo, e confermato dal libero voto
delle Assemblee, un Governo Provvisorio. Primo ed ultimo dei doveri di questo
doveva essere la tutela dell'ordine pubblico. A tanto dovere non mancherà mai
questo Governo, finchè gli bastino tutte le sue cure, e tutto sè stesso.
Ai Toscani poi tutto il
diritto, e il dovere insieme di decretare la forma che ha da prendere lo Stato.
Quando i Deputati eletti liberamente per universale suffragio avranno
espresso la volontà loro, il Governo Provvisorio darà primo lo esempio della
più perfetta obbedienza ai voleri del Popolo Sovrano. - Firenze 11
febbraio382.»
Finalmente il giorno 14
di febbraio, il giorno stesso del Dispaccio incriminato, faceva scrivere
dal Segretario Marmocchi al Governatore di Portoferraio: «sa peraltro che se il Principe è partito, non
è decaduto383.»
Nel giorno 10
febbraio, considerando la miseria a cui la partenza del Principe riduceva i
suoi familiari, e compiacendo ai desiderii di lui, decreto:
«Tutti i Cittadini che
fin qui appartenevano al servizio del Principe, riceveranno provvisoriamente la
loro pensione a carico della Depositeria Generale, finchè il Governo non abbia
trovato il modo di sistemarli convenientemente.»
Nel giorno 11
febbraio, così imponendo i proconsolari ordini della Setta, decreto, che il
regio Palazzo della Crocetta sia destinato ad ospedale degl'Invalidi; più
tardi, si è veduto, i novelli Municipali vanno di proprio arbitrio a rinnuovare
ai Custodi la minaccia dei veterani di Augusto ai possessori degli agri
italici: veteres migrate coloni; ma segretamente dispongo non s'innuovi384. Nel giorno 11 febbraio, ricercato il
Governo dal Governatore di Livorno, se i soldati mossi da quella città per
Firenze avessero a proclamare la
Repubblica, risponde: chiamarsi pel mantenimento dell'ordine,
non già per dimostrazioni politiche, le quali dovevano all'opposto con ogni
studio prevenirsi385. E qui mi sia concesso
notare, onde si conosca quanta sia stata la umanità mia, e la cura indefessa,
perchè nefande discordie tra la famiglia toscana non insorgessero, o insorte
appena posassero, la esortazione rivolta nel medesimo giorno al Governatore
Pigli: «Si raccomanda la buona condotta passando per Empoli. Si rammentino, che
gli Empolesi, momentaneamente traviati, sono fratelli386.»
Nè, quantunque poco
faccia alla materia in questo punto discorsa, io mi asterrò da riportare un
Dispaccio telegrafico da me dettato il 16 febbraio, relativo ai Veliti.
- O voi non degni soldati di questo corpo onorevole, e da me onorato, che
veniste a inacerbirmi il carcere di San Giorgio dicendomi improperii sotto le
cieche finestre, o minacciando traverso le porte, io non voglio rammentarvi,
che per me, assentendo ai desiderii vostri, dagl'ingratissimi ufficii di
Polizia foste rilevati; e neppure, che sopra ogni altra milizia Toscana
otteneste prerogative, e soldo; queste cose accennerebbero, per avventura, a
provocare la vostra riconoscenza; ed io ve ne dispenso. Leggete, vi scongiuro,
più che con gli occhi col cuore, il mio Dispaccio del 16 febbraio, ed
imparate che cosa sieno amore di cittadino e carità di Cristiano. - Avvertito,
da Pontedera, come alcuni Veliti per timore di minaccia fuggissero via, così
gravemente ammoniva:
«Invece di accomodare,
arruffate. Qui i Livornesi hanno fatto pace co' Veliti; a Pontedera gli
minacciano; sicchè questi fuggono. I Veliti sono il miglior corpo che abbiamo.
Bisogna che voi gli richiamiate, e subito fate pace, e sincera. Con questi modi
prevedo guai grandi. Siamo tutti fratelli; se non l'amore, ci stringa il
pericolo comune387.»
Quando lo insulto si
posa sopra le labbra del soldato, il valore leva le tende dall'anima sua.
Correva il giorno 12
febbraio, quando una moltitudine di Popolo, traendo a furia su la Piazza del Granduca, si
accinse a piantare l'Albero della Libertà, e con infiniti schiamazzi chiedeva
il Governo, affinchè l'atto approvasse, e lodasse. Mi presentai solo, e solo mi
attentai a contrastarlo, e lo chiamai prepotenza diretta a costringere gli
altri Toscani, i quali forse lo avrebbero consentito, ma non erano
presenti per farlo: appartenere al libero voto di tutto il Popolo toscano,
radunato in Assemblea il 15 del futuro marzo, decidere su la forma del
Governo388. - Quale concepisse
rancore la Fazione
assai dimostrammo, e più dimostreremo, se Dio ci aiuta; però nonostante le mie
parole, tornava più tardi, e lo volle piantato sotto i miei occhi, quasi in
dispregio di me. Siete chiariti adesso, che nè sempre, nè tutto quello che
desiderava non fatto, mi riusciva impedire? L'Accusa impenitente sussurra: lustre
per parere; opere volpine per istare apparecchiato ai successi futuri. Sta
bene; ma egli è forza convenire, che mentre provvedevo alle probabilità future,
correvo temerario il pericolo di rimanere oppresso nelle contenzioni presenti:
e questo io non vorrei rinfacciare l'Accusa per non avere fatto, ma vorrei, che
un cotal poco più onesta ella fosse nel darmi merito per averlo fatto io.
Nè meno importa allegare
in mia difesa il Decreto dei Commissarii da inviarsi nelle Provincie, che
compilato dal sig. Mordini, firmai il 14 febbraio, avvegnachè in esso
non si faccia pur motto di Repubblica, nè di altro attenente a forma di
Governo, bensì di risvegliare i sensi generosi della Nazione, mettere a
profitto i mezzi sparsi in tutto il Paese, facilitare il fornimento delle
Guardie Nazionali, lo scriversi dei Volontarii alla milizia; raccogliere
insomma in uomini, in bestie, in danari, e in arnesi, quel più che la diligenza
loro avesse potuto ottenere dai Municipii toscani.
Ora tutte queste paionmi
prove evidentissime della mia reluttanza a operare cosa che tornasse ostile al
Principato Costituzionale, però che da me pendesse unicamente consumarne l'abolizione;
e se questa allora e poi contrastai, stupido concetto è pretendere, che al
punto stesso io la provocassi e volessi.
Nè
pentere e volere insieme puossi,
Per la
contraddizion che nol consente. (Dante,
Purg., III.)
Lo dice anche il Diavolo, ch'è pure il
Procuratore Regio nell'altro mondo!
Appartiene, per ordine
di data, a questa sede del nostro discorso la lettera che l'Accusa senza altro
impaccio afferma da me spedita al conte Del Medico; ne favellerò in altra
parte: intanto importa fino d'ora avvertire, ch'ella non è punto una lettera
mandata, bensì semplice nota posta sotto la missiva di cotesto Delegato: il che
suona troppo diverso. E qui pure, se non per ragione di data, per connessità di
materia, dovrei esporre i motivi delle note, che si afferma di mio carattere
scritto sotto le lettere del 12 e 17 febbraio 1849, la prima del Consigliere di
Prefettura, la seconda del Prefetto di Grosseto; ma poichè esse vengono
governate da altra serie di fatti, io penso con migliore consiglio favellarne là
dove di questi fatti terrò ragionamento. Chiuderò piuttosto, prima di passare
ad altro, col proseguire la storia dei sospetti e degli eccitamenti contro la
mia persona, mossi dalla Fazione dei demagoghi dai primordii del Governo
Provvisorio fino a questi tempi, e poi purgandomi dall'accusa della
persecuzione esercitata contro i Sacerdoti.
Nel 9 febbraio, a nome
della Fazione, intimasi il Governo a spogliare gli abbienti del superfluo,
e a distribuirlo fra il Popolo; ai colligiani, alle femmine, agl'impiegati
tolga le pensioni mal date e peggio ricevute, e subito, perchè già in qualunque
Governo sarebbe sacramentale dovere, ma in quello che regge, dura, vive e
respira per volontà di Popolo, è condizione di vita, necessità. Nè dica domani,
no: domani potreste non essere più vivi...389
Della inquieta polizia
dei Circoli somministrano prova i Documenti dell'Accusa in data dell'11
febbraio, con l'ordine di vigilare i palazzi, e la taberna di alcuni cittadini390.
Nel giorno 13
febbraio, la
Emigrazione Lombarda minaccia prossima l'accusa davanti il
Popolo, per la colpevole inerzia con la quale avevo poltroneggiato fin lì391.
Nel 14 il Monitore
del Circolo, me e i miei colleghi bandisce Governo austriaco, se,
dubitando, indugiamo più oltre a proclamare la decadenza del Principe392.
Nel giorno stesso, pel
medesimo Monitore rimango avvertito che il mio mal sonno di tre
giorni (la
Emigrazione Lombarda vedemmo, che lo calcola di sei)
mi tornerebbe fatale, avvegnachè io giuocassi della mia testa393.
La mia opposizione al
piantare l'Albero è denunziata al Circolo, da quello con parole crucciose
avvertita, e minacciosamente dal suo Monitore propalata394.
Con pari cruccio, e
pericolo anche maggiore, la Emigrazione Lombarda avvisa il collegio
repubblicano essere stata da me freddamente accolta la Deputazione venuta a
instare, affinchè la
Repubblica senz'altro indugio si proclamasse395.
Scellerata cagione di
sangue, me furibondi designano alla pubblica vendetta, perchè relutto a
dichiarare la Repubblica,
la decadenza del Principe, e la
Unione con Roma396.
Questi, ed altri tali,
erano dardi avventati ad hominem, dacchè, bene o male che il credessero,
demagoghi e Repubblicani pensavano essere io impedimento unico a conseguire il
termine estremo degli sforzi loro397, senza il quale, assai
più esperti dell'Accusa, tenevano non avere conquistato nulla, e riposta ogni
cosa in compromesso. L'Accusa, tetragona ai colpi di paura, scriveva, dentro la
sua stanza, nel gennaio del 1851,
a canto al fuoco, gli usci diligentemente serrati: -
lievi prove di coazione sono coteste, anzi non sono prove, e, meglio
meditandovi sopra, piuttosto sono prove escludenti qualsivoglia violenza! - Ma,
Dio eterno, che cosa pretenderebbe l'Accusa? che io, in prova della violenza
patita, le portassi davanti la mia testa mozza come Beltramo da Bornio398? Atroce patto ella pone alla sua fede, se non
si contenta di altro che di gole squarciate, e di cuori fessi! L'Accusa non
tace che alla prova del cataletto...
Le manifestazioni di
animosità della parte repubblicana, a me particolari, sono venuto con prove
espresse raccontando durante il mio Ministero, e nei primi giorni del Governo
Provvisorio; vedremo a mano a mano crescere in breve, e prorompere alfine in
manifesta accusa di traditore.
Da me altri non aspetta
(e non mi sento tale da farne) proteste di devozione serotina: io parlo
piuttosto con la coscienza del testimone, che con lo zelo del difensore. Però,
innanzi tratto, dichiaro, ch'eletto a tutela della pubblica sicurezza, io non
solo non mi reputerei colpevole di avere adoperato contro i Sacerdoti, secondo
i meriti loro, ma all'opposto mi terrei colpevole per essermene astenuto. Forse
i Sacerdoti presumono esercitare il privilegio del delitto? Chi questo crede,
gl'insulta. La santità del carattere e lo istituto sublime impongono loro
augumento di carichi, ed essi lo sanno, non già dagli assunti doveri gli
assolvono. Nè Cristo senza sacrilegio può essere tolto a segnacolo di fazioni
contrarie; egli sente misericordia di tutti; per chi piange, ed anche per chi
fa piangere. Monsignore D'Affre, inclito martire della fede cristiana, quando
si avventurò tra i furori della battaglia cittadina, non andava già a
rafforzare questa parte o quella; finchè cristiani uomini gli uni contro gli
altri combatterono, egli gridò: - «forsennati! forsennati!» e li conteneva;
quando cadevano, egli gemè: - «infelici!» e gli andava soccorrendo; quando fu
piagato di mortale ferita, ei li chiamò: - «figliuoli!» e li benedicea. - Chi
davanti a Sacerdoti siffatti non s'inchina? - I Sacerdoti commettitori di
scandali e di risse, già più Sacerdoti non sono; la Chiesa, pel carattere che
rivestono, bene domanda sia proceduto contro loro con certi riguardi, ma essa
prima e più severa di tutti acerbamente gli accusa. Ciò premesso, io dichiaro,
non avere mai dato ordine che si arrestassero Sacerdoti. Mentre fui Ministro
dello Interno, feci chiamare, come altrove ho notato, alcuni Preti ed alcuni
Frati, e gli ripresi del poco amore che portavano alla Patria, del costume
pessimo, e dello sviarsi dietro a cose umane che non ispettavano loro, con
iscapito grande delle divine a cui erano unicamente commessi; non però gli
arrestai, nè in altro li volli mortificati. Durante il Governo Provvisorio non
adoprai modi diversi; anzi, ricordo come certa volta presentatisi avanti il
Ministro dello Interno alcuni Sacerdoti, udii riprenderli, perchè si
mostrassero avversi alla Costituente, e andassero dissuadendo la difesa del
Paese; e dico averli uditi riprendere, dacchè non erano stati punto chiamati
per ordine mio, e nello ufficio del Ministro io penetrava a caso. Senza
profferire parole, in disparte ascoltai le discolpe loro; poi fattomi presso ad
uno che al sembiante mi parve più giovane degli altri: - «Io non so, Reverendo,
incominciai ponendogli la mano destra sul braccio, io non so, Reverendo, perchè
voi non dobbiate amare la
Patria; anzi non so perchè voi non la dobbiate amare più di
noi.» E il degno Sacerdote con atti e parole vivaci rispose: «Io amo il mio
Paese al pari di ogni altro. Rispetto alla Costituente Italiana, la mia
coscienza mi vieta aderirvi; ma in quanto a difendere la mia Terra dalle
invasioni straniere, da Sacerdote le affermo, che prenderei l'arme, e verrei a
farlo io stesso.» - Allora gli strinsi la mano, e conchiusi: «E tanto basta,
mio degno Sacerdote,... tanto basta.» - Quando mi verrà concesso esaminare gli
Archivii, ritroverò il nome e la condizione del Prete399. -
Superiormente alla
tristizia dei tempi, trovarono in me i Sacerdoti continua ed efficace tutela.
Di ciò provare mi porge abilità la cortesia dell'Arcivescovo di Firenze, il
quale, da me richiesto, mi rimetteva la copia autentica della lettera che io
gl'indirizzava il 2 aprile 1849:
«Monsignore.
Io vorrei pregarla,
Monsignore, ad avere la compiacenza di significarmi se V. S. Rev.ma
intende per le imminenti solennità celebrare in Firenze.
Nel mentre che io vado
persuaso che V. S. Rev.ma si penetrerà di quanta pace e di quanta
consolazione sarebbe la sua presenza in mezzo al suo ovile, mi permetterei
aggiungere le mie preghiere caldissime onde ciò abbia effetto.
So bene che V. S. Rev.ma
non si tratterrebbe punto nello esercizio delle sue sacre funzioni per sospetto
che potesse concepire; pure vada convinto, che finchè duri nello arduo uffizio
che mi fu confidato, saprò e vorrò mantenere severamente la reverenza che si
deve a tutti gli Ecclesiastici in generale, e in particolare alla sua degna
persona.
Di Lei, Mons.re
Reverend.mo
(L. S.) Li 2 aprile
1849.»
Devot.mo
Guerrazzi.»
E già io gli aveva
dirette altre due lettere in risposta alle sue, con le quali mi domandava protezione
per lo esercizio delle sue episcopali prerogative. Quantunque egli abbia
smarriti gli originali, non ha mancato il degno Arcivescovo, con esempio di
rettitudine generoso, non per anche imitato da tutti quelli nei quali io
maggiormente confidava, di sovvenirmi nelle dure strette in cui mi trovo
con lo aiuto delle sue reminiscenze, come si conosce dal seguente attestato:
«Attesto per la pura
verità, che nel tempo da me trascorso alla Badia di Passignano, dopo le tristi
vicende che mi costrinsero ad abbandonare questa Capitale, oltre una terza
lettera già da me rilasciata dietro richiesta delle Autorità Giudiciarie, io ne
ricevei pure altre due direttemi dallo stesso signor Avv. F. D. Guerrazzi, in
allora Capo di quel Governo Toscano, nelle quali, con espressioni le più
ossequiose e rispettose, mi diceva ch'egli approvava pienamente le misure da me
prese di relegare all'Alvernia i due Sacerdoti *** *** come propagandisti di
dottrine eterodosse, e mi protestava che sarebbe stato sempre deferente all'Autorità
Episcopale, promettendo, fintantochè egli fosse stato a capo del Governo,
favore, protezione e sostegno pel libero esercizio della medesima.
Non avendo io tenuto
conto di dette due lettere, e venendomi esse richieste dallo stesso signor Avv.
F. D. Guerrazzi per interesse della sua difesa, ho stimato mio dovere di
manifestarne il sentimento, e rilasciarne il presente certificato.
In fede ec.
Dal Palazzo
Arcivescovile di Firenze,
(L. S.) Li 11 marzo
1851.
Ferdinando Arcivescovo di
Firenze.»
E queste sono nobili
parole: in prigione non posso nè devo fare più lungo sermone. Allora la lode è
turpe per cui la profferisce, e senza onore per cui la riceve, quando possa
sospettarsi che muova da viltà o da paura. Miseria non ultima del carcere, dove
il biasimo ti viene ascritto a furore, la lode ad abiezione. La virtù nella
comune estimativa del mondo sta abbracciata con la fortuna.
E, non diverso
dall'Arcivescovo di Firenze, il Vescovo di Milto Ordinario a Livorno, con
lodevole premura porgeva anch'egli testimonianza di averlo io sostenuto,
affinchè in negozio dilicato l'autorità sua fosse obbedita.
«I Signori *** ***
presentandosi come incaricati del signor Avvocato F.-D. Guerrazzi mi richiedono
di uno attestato, che stia a constatare qualmente il medesimo mentre dirigeva
il Ministero dello Interno si prestò ad appoggiare la mia Autorità di Ordinario
in emergente dilicato, interessante la moralità e la coscienza, ed io non posso
ricusare un tale attestato, in quanto che è vero, che in circostanza come sopra
fui dal suddetto signor Guerrazzi utilmente coadiuvato. Ed in fede
(L. S.) Livorno, 26
luglio 1851.
Girolamo, Vescovo di Milto.»
Nè già si creda, che
senza mio sommo pericolo fossero i soccorsi, che, secondo l'obbligo mio, dava allo
Episcopato per lo esercizio delle sue legittime prerogative, e la preghiera al
fiorentino Arcivescovo, che con la presenza e i riti la religione commossa
confermasse. Un cartello infame fu affisso nel giorno terzo o quarto di aprile
all'Albero della Libertà, piantato in Piazza del Duomo, e fatto remuovere vi
ricomparve più volte, il quale diceva così: «Due traditori (il primo era io, il
secondo Monsignore Arcivescovo) si sono dati la mano per tradire il Paese; si
muova il Popolo, e si dia la meritata pena, prima che gli scellerati disegni
sieno compiti.» A vero dire io non ebbi mai l'onore di favellare con lo
Arcivescovo; ma non importa; noi cospiravamo insieme per tradire il Paese. In
quanto al soggetto cui accenna l'attestato di Monsignore Vescovo di Milto, mi
dichiarò mortalissima guerra; scriveva lettere ortatorie perchè mi si
spingessero contro come a un verro di macchia, perchè traditore della Patria,
venduto ai tiranni, col corredo delle consuete ribalderie, che i ribaldi
costumano. La Polizia
sorprese una di queste lettere, e svelò come anch'egli partecipasse alle trame
del Frugoni di cui ho parlato a pag. 369 di questa Apologia. Longanime come è
mia natura, non uso a tremare, e per paura offendere, tardo a muovermi quanto
più in grado di accompagnare il baleno del volere col fulmine del fare, io mi
restrinsi a spedire la lettera intrapresa del tristo Prete a Manganaro,
ordinandogli di depositarla negli Archivii della Polizia, e sorvegliare, e
sfrattare il Frugoni400.
Ma tornava al benevolo
disegno della Accusa raccontare di Preti imprigionati e di Arcivescovo offeso,
me annuente o impotente. Ciò non pensava il Vescovo di Livorno, e molto meno lo
Arcivescovo di Firenze, che a me ricorrevano per protezione in tempi anche più
torbidi, e la ebbero, però che io con tutti i nervi mi vi adoperassi. Ma che
importa questo? Ciò che si dimostra lo Arcivescovo non avere mai pensato, pensa
l'Accusa; e non solo lo pensa, ma lo rimprovera, e ne forma subietto
d'imputazione.
L'Accusa fonda il
rimprovero: 1° sopra taluni ordini spediti l'8 febbraio 1849, dove leggonsi
l'espressioni: «Si vuole ovunque mantenuta la pubblica tranquillità, ed
energicamente represso ogni tentativo reazionario contro lo attuale
ordinamento, se vi fosse tanta stoltezza da tentarlo. I Parrochi in
ispecie, e Preti in generale, debbono rigorosamente guardarsi, e ove costoro, o
chiunque altro, si cogliessero in fallo, sieno irremissibilmente carcerati e
processati;» 2° sopra una lettera del 19 febbraio che dice: «Se trova Preti
renitenti o traditori, è tempo finirla; si arrestino questi indegnissimi figli
della Patria e di Cristo, e si mandino legati a Firenze. Non ammettiamo
esitanza, dubbio, od osservazione in contrario: sotto la responsabilità sua, si
leghino e mandino in Firenze.»
Mi rifarò dal documento
secondo. Le osservazioni, che questa lettera ignoravasi 1° a cui fosse mandata;
2° se spedita; 3° da cui scritta; 4° e da cui firmata, - conciossiachè le firme
del signor Montanelli e mia non appaiono di nostro carattere, e il corpo della
lettera neppure, come neanche di persone addette alle Segreterie, nè di
familiari nostri; tutte queste osservazioni, almeno per quello che sembra,
hanno persuaso l'Accusa a dubitare un tantinetto intorno alla autenticità di
cotesto documento: però io mi stringerò a dichiarare in istil breve e
succinto, che di questa carta io non devo dire nulla. Per qual motivo poi,
con mille altre di pari natura, l'abbiano stampata nel Volume, pende il
giudizio incerto. Alcuni sostengono, che la Istruzione dapprima si avvisasse
apparecchiare il caos, onde i Giudici poi, quasi divini, dicessero: «si faccia
luce,» e luce si facesse; - altri opinano, che ella intendesse fornire un
saggio della intelligenza e della prestanza di taluni impiegati toscani; e si
maravigliarono perchè il Volume dei Documenti non fosse spedito, con
tante altre rarità, alla Esposizione di Londra.... ma, spicciandosi, sarebbero
sempre a tempo; - altri, altra cosa dichiarano. Intanto stampano lo Indice,
ottima giunta alla buona derrata, perchè accuratamente compilato, con diligenza
elzeviriana corretto, sicuro nelle indicazioni; per sugosi sommarii, e
soprattutto precisi, veramente esemplare;... questa opera inclita in ogni parte
armonizza401! - Favelliamo di altro.
E quanto espressi sul documento secondo dovrebbe giovarmi anche pel documento
primo, dacchè non sia scritto nè firmato da me, sibbene dal solo Segretario
signor Allegretti. Ma il Segretario Allegretti, ricercato con lettera intorno
alle ragioni del Dispaccio, risponde per lettera quello, che già abbiamo letto
a pag. 289 di questa Apologia. Quando il signor Segretario sarà richiamato,
come diritto vuole, non dubito punto nella rettitudine sua, ch'egli vorrà
rammentarsi come mostrando nel volto dolore, gli domandassi che avesse, ed avendomi
manifestato la repugnanza sua a scrivere disposizione siffatta intorno ai
Parrochi, io gli rispondessi: «ed ella non la metta.» Se non che altri
intervenne, e disse con impeto: «che importa a lei? Faccia il suo dovere, e
obbedisca.» Ma queste cose non importa sapere all'Accusa.
Il Manifesto alla Europa
afferma che il Governo non mandò armati a cacciare S. A. da Porto Santo
Stefano, e, tranne alcuni pochi Municipali, nessuno; e dichiarò eziandio non
essere mai stato instaurato in Toscana il Governo Repubblicano. Questo trovammo
a prova essere vero esattamente, se ai Municipali aggiungi i quattordici
artiglieri, quantunque rispetto a me non sapessi degli uni nè degli altri. Però
non vuolsi revocare in dubbio che le voci corressero diverse dal vero, siccome
vediamo per ordinario accadere; se per forte mano vogliasi intendere la
colonna Guarducci, nè ella, come chiarii, era spedita da me, nè da altri del
Governo, e veniva nel giorno 18 richiamata a Livorno, e rivolta verso il
contado lucchese; se per capi stranieri D'Apice e La Cecilia, il primo non si
mosse da Empoli, e ricusò il comando; a La Cecilia non fu commesso dal Governo ufficio di
sorta, nè leggo avere operato cosa alcuna, tranne bandire proclami, proporsi di
capitanare le milizie civiche della Maremma, e, non rinvenuto il terreno molle,
data una gira-volta, tornarsi a Livorno prima del 20 febbraio. Il cannone di
Orbetello bene salutò la
Repubblica, ma la Repubblica in Toscana non era; per la quale cosa
il Manifesto alla Europa non ismentendo (come inesattamente scrive il
Procuratore Regio del Tribunale di Prima Istanza di Firenze, a pag. 23 della
sua Requisitoria) le cannonate di Orbetello, disse a ragione erroneo il
supposto, che la Toscana,
decretata la decadenza del suo Principe, si fosse costituita a reggimento
repubblicano.
E perchè si conosca a
prova quanto il mal genio dello errore abbia presieduto a questa opera infelice
della Magistratura toscana, noterò come il Regio Procuratore rammentato adduca
a conferma di un fatto vero una prova falsa. Veri gli spari di cannone ad
Orbetello il giorno 20 di febbraio; non vero, che ne faccia fede il Dispaccio,
allegato dalla Requisitoria, di Carlo Pigli; ed è evidente. Il Dispaccio del
Pigli apparisce dettato il 22 febbraio a ore 5, m. 45 pom., e dice: «ieri
a Grosseto e a Orbetello fu grandemente festeggiata la Repubblica con sparo di
artiglierie ec.;» lo ieri del 22 pare quasi sicuro (a meno, che
non lo voglia contrastare il signore Paoli) che sia il 21: però, stando
a questa prova, il Procuratore Regio del Tribunale di Prima Istanza di Firenze
ci vorrebbe dare ad intendere, che S. A. sentisse nel 20 febbraio i
colpi di cannone sparati il 21!!! Ma queste le sono baie.
Verum
ubi plura nitent in carmine, non ego paucis
Offendar
maculis.....
Nonostante, quando si
agita del sangue e della fama di un uomo, uno scrupolo più di coscienza non
parrebbe che potesse guastare la ricetta.
Onde sieno completi gli
schiarimenti sul Manifesto alla Europa, dirò che fu composto sul principiare
del marzo. Ora, mantenendo viva (come sarà provato fra poco) la Legge Stataria in
Firenze per prevenire uno sconvolgimento in senso repubblicano, chi scrisse
cotesta carta, la quale comparisce vergata da mano non mia, per certo
reputò nella sua prudenza necessario, e lo era, insinuarvi qualche parola vaga
la quale trattenesse gli arrabbiati da darsi alla disperazione; imperciocchè i
disperati tutti sieno temibili; i politici poi, tremendi: e questo vedemmo, e
tutto giorno vediamo. Niccolò nostro lasciò ai Partiti un buono insegnamento,
di cui, se volessero seguitarlo, questi potrebbono avvantaggiarsi non poco; ed
è: - che bisogna contentarci del vincere, e schivare lo stravincere. - Nè io
avrei potuto contrastare coteste frasi senza venire ad aperta rottura coi
Colleghi, mettendo da capo a repentaglio ogni cosa; molto più se si avverta,
che il Partito Repubblicano durava sempre abbastanza gagliardo da consigliare
il mantenimento della Legge Stataria per contenerlo; e dall'altra parte, che
incominciando a stringere il tempo della convocazione dell'Assemblea, urgeva
per me tentare il provvedimento supremo di riporre in mani toscane la sorte
della Toscana; il quale con buona fortuna (altri dirà, se con senno ed ardire)
mi venne fatto operare col Decreto del 6 marzo. Io non mi sentiva uomo,
per poche parole senza costrutto, mettermi in avventura di sconciare le cose.
Come poi devansi giudicare la parole espresse in simili angustie, vedremo nella
ultima parte di questa Apologia, dove riporterò la opinione di uomini di Stato,
e di Storici reputatissimi, intorno a casi non pure somiglievoli, ma quasi
identici.
Più tardi della
Spedizione di Lucca: - frattanto importa notare come la colonna Guarducci, la
quale non oltrepassò Rosignano, fosse richiamata, e celeremente spedita verso
il contado lucchese. Nè si opponga, come l'Accusa fa, ciò non essere stato
spontaneo, bensì per ovviare a maggiore pericolo; no: dicasi piuttosto, che
dopo avere in cento modi attraversate le Spedizioni maremmane, io colsi il
primo pretesto per mandarle a vuoto. So bene, e a mie spese, che con le Accuse
non si fa a fidanza; però intendo dimostrare quanto dico. - La commissione di
apparecchiare gente scelta per Maremma, io dava sforzato il 14 febbraio,
e la colonna Guarducci senza ordine o avviso del generale D'Apice, nè mio, potè
incamminarsi per Rosignano il giorno 17 di febbraio; ma per tornare e
volgersi verso il contado lucchese, non le si concede mettere tempo fra mezzo;
richiamata il 18 a
Livorno, da Livorno nel 18 parte402. Ancora: - io dai
Volontarii indisciplinati aborrivo, e precisamente in questa occasione, così
scrivevo nel 22 febbraio da Lucca al signor Mazzoni, presidente di settimana:
«Volontarii, non importa; se prendono ingaggio, va bene, perchè allora si
disciplinano, e possono partire; sciolti da qualunque freno, mandano sottosopra
ogni cosa403, e lo vedo a prova.»
Sicchè di loro, così com'erano indisciplinati, non sapeva che farmi. Infatti,
parte furono inviati in Val di Serchio, perchè lungo il littorale giungessero a
Viareggio; parte, senza ordine, sceso il Colle di Chiesa, si spinsero fino al
ponte del Macellarino, con presentissimo pericolo di rimanere tagliati fuori404; finalmente, con ispreto degli ordini del
Generale, vollero trascorrere fino a Pietrasanta; sicchè D'Apice protestò, che
se non indietreggiavano essi, egli non avanzava, per la quale cosa mi
avventurai solo fino costà, ingegnandomi con parole ora di preghiera, ora di
rimprovero, a farli retrocedere405. I Volontarii che
vogliono operare a modo loro, sono impedimento, non forza; le popolazioni li
temono ed odiano; le milizie ordinate li disprezzano, ed essi rendono a tutti
pan per focaccia, con ingiurie e soprusi. Però di Volontarii a Lucca non vi era
bisogno; e se fu detto, e' si fece per istornarli dalla Maremma; il maggiore
uopo di forze, almeno per testimonianza di persona autorevole, era colà, e non
altrove; dacchè, partito il Principe, cessava il pretesto di agitarsi in suo
nome. Infatti Cesare Laugier, malgrado che il Granduca sul partire da Porto
Santo Stefano lo nominasse suo Commissario in Toscana, a cagione della sua
partenza, ritenne cotesto Decreto di nessun valore; e le parole contenute nel
chirografo, che nel 22 febbraio 1849 egli mi dirigeva da Massa, lo dichiarano
espresso: «La partenza del Principe in terra straniera sciolse il Laugier da
ogni scrupolo. Credutosi svincolato dal giuramento, pensò il miglior mezzo, per
evitare lo spargimento di sangue, retrocedere nelle posizioni da cui era
partito.»
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