XXV.
Spedizione di
Lucca.
§ 1. Dimostrazione
storica.
Dove io indirizzassi la
parola ai benevoli soltanto, mi sarebbe avviso procedere a modo di storico,
risparmiando loro il tedio di leggere una serie di allegazioni non sempre
piacenti, qualche volta tristissime; ma essendo io accusato, e favellando ad
uomini che meco certo non vogliono fare a fidanza, è pur mestieri che io vada
piuttosto compilando documenti, che dettando storie. Per ora mi aiuto con le
notizie che mi somministrano taluni libri e giornali e qualche persona dabbene
a cui duole questo mio strazio, e il Volume dell'Accusa a cui questo mio
strazio punto non duole; anzi le piace. Quando mi saranno consegnati gli
Archivii, potrò confermare lo esposto ed ampliarlo a maggiore edificazione dei
cultori della giustizia; nonostante, anche quello che mi è venuto fatto
raccogliere basterà al mio assunto presso gli onesti: e forse, o io erro a
partito, ce ne sarà di avanzo.
Continuando pertanto la Dimostrazione
storica impresa nelle precedenti pagine, metterò prima di tutto un Proclama che
fu diffuso a migliaia di esemplari. Di questa sorta pubblicazioni avrebbe
potuto adunare l'Accusa copia bene altramente abbondevole; contentiamoci di
quello che ci dà. A caval donato non riguardiamo in bocca. Dallo stile e dai
modi parmi fattura lombarda; in molte guise, e, per la temperie, efficacissime,
egli intende provocare la
Unione della Toscana allo Stato Romano:
«Popoli
di Toscana!
Nella lunga e
travagliata vita delle Nazioni Dio suscita un pensiero che debbe rinnovarle;
quei Popoli che non l'intendono e lasciano trascorrere il tempo prefisso,
soscrivono di per sè la loro sentenza di morte politica e civile.
Toscani! Ora noi ci
troviamo in questa condizione. Colui che per molti anni tenemmo a Principe, l'uomo
che la intera Toscana a furia di affettuose dimostranze s'ingegnò di persuadere
a farsi iniziatore della nostra nazionalità, è fuggito; fuggito non per
lasciare una terra che ne lo cacciava, ma sì per farsi simulacro di guerra
civile, per infiammare tutte le malvagie passioni che il senno del Popolo aveva
saputo spengere; fuggito per disgregare gli animi, sperando, a cotesto modo, di
sostituire alla suprema guerra di principio la guerra de' fratelli.
E fuggendo, esso ha
fronte di scrivere che in ciò obbediva alla sua coscienza. Questa gli
acconsentiva pure di sottoscrivere liberamente al Programma del Ministero
Guerrazzi-Montanelli e alla Legge fondamentale per la Costituente; lo
raffreddava in altri tempi, allorchè la intera Toscana, credendo alla possibile
colleganza fra i suoi interessi e quelli del Principe, chiedeva la Guardia Nazionale,
e con la sola forza dell'affetto lo poneva sulla via di fortificare il suo
potere. Ma allorchè le libere istituzioni, per la logica conseguenza, gli
mostrarono come bisognasse romper guerra allo straniero, allorchè, per
comunione di dolori, Italia chiese di tornar Nazione, la coscienza di
quest'uomo si ribellava, gli permetteva di dire e disdire, ed anzi gl'imponeva
di farsi segnacolo di dissidii civili. Dal Porto di Santo Stefano cotesta sua
coscienza attende che batta l'ora della nostra sventura.
Toscani! Facciamo per
modo che esso attenda invano. Il nostro maraviglioso passato, il nostro senno,
la nostra dignità c'ispirino; maestri di civiltà in altri tempi, mostriamo
all'Europa che le libere tradizioni vivono intiere negli animi nostri, che in
noi non vi ha ira di parte, ma sì febbre di riscatto nazionale, e che se fummo
infelici e divisi per le congiurate previsioni di Principi, liberi ora, sapremo
volere e tornar grandi. Considerate di qual sorte sia la coscienza di
quest'uomo. Essa gl'impone ora di lasciare così gli amici come i nemici in
balía della incertezza; lo forza di aderirsi allo scomunicatore di Gaeta e di
assistere dalla lunga alle soffiate vampe di Empoli; lo mette d'accordo coi
consigli dell'Austria che ne concertava la fuga, e lo fa rinnegare il proprio
Popolo, la propria parola. Circondato da arme, e vinto da interessi stranieri,
quest'uomo si confida di seminar paure, di suscitare stragi e rapine nel suo
nome. Disperato per la prevalenza d'un principio, esso si appiglia ad una
fazione ingannata, specola sulla ignoranza dei Popoli della campagna, e pone
così il suggello al proprio decadimento. Nell'ora della fuga i Principi tutti
si somigliano, e interamente si palesano: e questa è opera di Dio.
Cacciato non da noi, ma
dalle sue fallaci promesse e dai fatti arcani e dai vincoli di sangue che
l'uniscono all'Austriaco, Leopoldo di Lorena non intende il Popolo nè l'Italia.
Toscani, mostriamo ad esso che la
Libertà, l'Ordine, le Leggi non s'incarnano in un uomo, non
riposano sopra una volontà. Il Principe può andarsene, ma il Popolo rimane, e
con esso il sentimento della propria dignità e de' suoi diritti. Col Principe
adunque gli errori del passato, con noi le salde speranze di un riposato
futuro, la gloria del combattuto presente.
I Martiri di Curtatone,
il fiore più eletto della giovine Toscana non debbono essere caduti indarno. Se
non giovarono alla causa dei Principi, essi tuttavia rimangono sacri a quella
più schietta de' Popoli. Percossi in terra tornata a servitù, attendono che la Toscana con sapiente
ardimento raccolga il frutto del loro sacrifizio. Fortifichiamo i nostri liberi
ordinamenti politici, acciocchè l'Europa li rispetti e vegga in essi la unanime
volontà di un Popolo al quale tutte le classi hanno diritto e debito di
appartenere, il saldo proposito di una Nazione ridesta. Imperocchè le Potenze
non si attentano di combattere i Popoli che vegliano concordi, ma sì quelli
che, divisi in fazioni, guastano il concetto nazionale. Ricordiamo che la
guerra civile è il più valido aiuto alla oppressione straniera, che i Potenti
la soffiano, che i Principi la incitano. Essa è la loro arma, quindi non può
esser mai quella dei Popoli.
E poichè la veneranda
Roma, scossa la vergogna secolare, impaura i nostri eterni nemici col supremo
grido di libertà, e li fa maravigliare del suo senno; adoperiamoci per metterci
in grado di partecipare all'ineffabile amplesso. Affrettiamo senza esorbitanza
l'adempimento delle nostre promesse; smessa ogni gara di Municipio, le città
sorelle della Toscana aiutino la impresa, e stretti in una benedetta comunanza
d'interessi e d'intendimenti, vegga il nimico d'Italia che i Popoli non si
vincono quando fra essi riescono ad intendersi.
Firenze
15 febbraio 1849.»
Il Governo Provvisorio
attendeva a chiamare la gioventù alle armi; i Circoli, nello scopo di
soverchiare il Governo, ecco si recano in mano questo mezzo di forza per
adoperarlo contro me, o piuttosto a vantaggio dei loro disegni. Una cosa essi
promettono, un'altra ne fanno: danno ad intendere, a cui ci voleva credere,
avere decretato spedire in Provincia Commissarii onde prestare opera
vantaggiosa al Governo in questo negozio, per cui ottengono che il Ministro
dello Interno lasci stampare sul Giornale Ufficiale una specie di avviso
concepito così: «Il Circolo del Popolo di Firenze, nelle gravi circostanze
nelle quali è costituita la
Patria, ha decretato inviarsi in tutte le Provincie dei
Commissarii muniti di apposita credenziale per organizzare Circoli, per
eccitare lo spirito pubblico, per promuovere il più generale armamento delle
popolazioni in difesa della Patria. Restano perciò invitati tutti i buoni
cittadini di accoglierli ed aiutarli nella sacra loro missione.» - (Monitore,
17 febbraio 1849.)
E per inspirare maggiore
fiducia al Governo scopertamente si affaticano a questo ufficio: «Ieri
il Circolo del Popolo teneva una pubblica seduta in Piazza, sotto alla Loggia
de' Lanzi, ad oggetto di eccitare questa popolazione ad accorrere in gran
numero alla difesa della Patria, facendosi inscrivere nei ruoli dei Volontarii
aperti a quest'uopo dal Governo Provvisorio toscano. Un numero
considerevole di cittadini assisteva all'adunanza ec.» - (Supplem. al Nazionale,
17 febbraio 1849.)
Ma il Giornale che si
annunziava Monitore del Circolo di Firenze, se poi gradito banditore o
mal gradito io non so, il segreto fine subito dopo palesava: «La pronta Unione
con Roma fu argomento principale, anche ieri sera, alla discussione nel Circolo.
E questa volta fu coronato da un voto. Il Circolo decise, a unanimità, di
spedire 25 Commissarii, cinque per compartimento dello Stato Provvisorio, per
invitare tutti i Circoli, corpi morali e Guardie Nazionali ad esprimere i voti,
o mandare deputati a Firenze, per chiedere al Governo Provvisorio la solenne
dichiarazione di unirsi a Roma.» - (Popolano, 17 febbraio 1849.)
Per questi indizii, e
più per gli avvisi tanto ufficiali come amichevoli, io ottimamente comprendeva
quale bufera stesse per iscoppiare. Con molta industria, di lunga mano, si
erano indettati i Circoli provinciali col Circolo fiorentino d'inviare a
Firenze, pel giorno 18 di febbraio, gente più accesa in forma di Deputazioni,
affinchè forzassero il Governo a dichiarare la Repubblica.
«Circolo
politico popolare di Barga.
Cittadino.
Con deliberazione di
questo Circolo nell'adunanza straordinaria del 16 corrente fu creata, alla
unanimità ed acclamazione, una Commissione nei cittadini Avv. C. B., Avv. D.
C., Dott. A. M., affinchè nel giorno di domenica, 18 stante, si presenti a
cotesto Circolo del Popolo, e, di concerto con quello, domandi, a nome del
Popolo di Barga, al Governo Provvisorio toscano la immediata unificazione e
fusione con la
Repubblica Romana, senza attendere l'apertura delle Camere.
Ha fiducia questo
Circolo che accetterete di buon grado un tale incarico, essendo ben noti i
vostri sentimenti politici, democratici, italiani.
Salute e fratellanza.
Dalla residenza del
Circolo Popolare, li 16 febbraio 1849.
Al
Cittadino Avv. C. B., Firenze.
Il Vice-Presidente.»406
Da Lucca il Prefetto
avverte il Governo nel 17 febbraio:
«Il
Prefetto di Lucca al Ministro dello Interno.
Alle ore tre e mezzo
pomeridiane, dal Circolo politico di questa città è stata inviata al Governo Provvisorio
una Deputazione il di cui mandato si è di manifestargli il desiderio della
unificazione dello Stato Toscano a quello di Roma. La Deputazione è composta
degli appresso cittadini. (Seguono i nomi.)
Il Prefetto Landi.»407
Il Governatore di
Livorno, il medesimo giorno, manda:
«Poco fa ha avuto luogo
una dimostrazione numerosissima, con cartelli e bandiere, per chiedere la
pronta Unione con Roma. Sono stato costretto a parlare. Ho promesso d'informare
il Governo, e, senza promettere niente, mi sono limitato a lodare la Repubblica Romana.
Credo di sapere che domani si portino costà deputazioni di tutti i Circoli per
chiedere quanto sopra.
17 febbraio 1849.
Pigli.»408
E quando mai l'Accusa
desiderasse imparare se manifestazioni siffatte avessero o no potenza per
costringere, può considerarlo da sè stessa, leggendone il racconto nel Corriere
Livornese del 17 febbraio 1849: «Al mezzogiorno il Popolo, muovendo da
tutte le Associazioni Parrocchiali con bandiere e cartelli esprimenti i suoi alti
desiderj, si è diretto sulla Piazza del Popolo, da dove con le bande musicali
ha poi mosso verso il Palazzo del Municipio. Immensa era la folla; e le grida
di viva la
Repubblica Italiana, viva l'immediata Unione con Roma, viva
la guerra, riempivano l'aria; giunta la moltitudine in Piazza Grande, ha
fatto sosta presso la
Comunità, ove si è recata una Deputazione. Il Gonfaloniere
ha esternato ai deputati, confortanti e ragionate parole, le quali poi ha
ripetute al Popolo festante dalla terrazza, ricambiate coi più fragorosi evviva.
La folla ha voluto poi salutare l'egregio cittadino Governatore, che ha dette
al Popolo calde e generose parole. Quindi la moltitudine pacificamente si è
sciolta, nel pensiero di riunirsi dimani alla Capitale coi fratelli di tutta la Provincia Toscana
e concorrere uniti a compiere un atto, al quale oggi sono più che mai rivolti
tutti i nostri pensieri, come àncora della salvezza d'Italia.
La sera, nel Teatro
Rossini, vi fu adunanza del Circolo Nazionale e di tutte le Associazioni Parrocchiali
della città. Il concorso fu straordinario; la platea, i palchi, l'orchestra ed
il palco scenico rigurgitavano di Popolo. Fu discusso intorno allo inviare
domenica (dimani) al Governo Provvisorio una Deputazione di tutti i Circoli,
del Municipio, della Guardia Nazionale e di Popolo, per dimandargli la
immediata unificazione della Toscana con la Repubblica Romana;
e la deliberazione in proposito avvenne tra le assordanti ripetute e generali
grida di viva la
Repubblica, viva l'Unione immediata con Roma repubblicana.
Fu deliberata pure per
l'indomani una solenne dimostrazione al nostro Municipio, onde invitarlo a
concorrere per parte sua ad appoggiare le dimande del Popolo.»
Io riporto, senza farvi
osservazioni, le storie dei Partigiani della Repubblica; in breve ne rileverò
gli errori, che artatamente essi v'insinuavano. Venne il giorno 18; e quale
egli fosse, uditelo ora descritto dalla Costituente Italiana, Giornale
compilato da scrittori lombardi, i quali, per adoperare la penna, posavano un
momento la spada: «Ogni giorno, ogni ora il Popolo chiede sollecito al Governo
la parola che sanzioni e che compia la sua rivoluzione, che dia un significato
a questa agitazione perenne, la quale è desiderio, bisogno di vita
italiana: esso sventola innanzi al viso dei suoi rappresentanti la bandiera
della patria, e mostra loro la nappa di unione, onde scrivasi il patto
fraterno, si tolgano i confini segnati colla spada, si decretino i nostri
destini. - E quest'oggi anche Livorno, Pisa, Lucca e altre città toscane
avevano inviate le loro Deputazioni, affinchè il Governo, rafforzato innanzi ad
una Rappresentanza Toscana, potesse coscienziosamente rispondere ai voti
comuni, e il Paese passasse nella tranquillità di una determinata situazione.
Un programma del generale
Laugier
palesava vie più la necessità della Unione immediata. Vedevasi, per esso, come
Leopoldo restasse ancora a Porto Santo Stefano con una speranza nel cuore, con
un pensiero alla bella Firenze e al magnifico Pitti, con un piè sulla nave che
lo tragga lungi dai popoli che lo sdegnano, e l'altro sulla terra ove fu re. -
Vedevasi come, esso Laugier, nel di lui nome, innalzasse il vessillo della
ribellione, e si preparasse a marciare su Palazzo Vecchio, Zucchi del Granduca,
spacciandosi avanguardia di 20 mila Piemontesi, Spagnuoli della Toscana; quindi
maggiore la necessità di gettare un fatto compiuto in faccia a queste speranze,
di opporre a questi tentativi una forte posizione militare.
Recavansi le Deputazioni
accennate, unitamente a una rappresentanza fiorentina, unitamente ai Volontarii
accorsi all'appello della Patria, per presentare un'altra volta al Governo
la volontà del Paese. Chiedeva tempo il Governo a rispondere, fino dopo il
banchetto che imbandivasi dal Circolo del Popolo alle Deputazioni delle
Provincie e ai Volontarii, fra le Loggie del Palazzo degli Ufizii. - Bello ed
utile pensiero degli uomini del Circolo di adunare questi prodi al desco
fraterno, di mostrare ai cittadini i primogeniti della Patria, di offrir loro
questo tributo di affetto e di riconoscenza, questo plauso universale. - Era
uno spettacolo gaio, commovente, questo convito modesto, ove officiali e
soldati si alternavano i bicchieri, ove ai Viva la Repubblica
succedevano i cantici della libertà, ove, nella fratellanza della città
repubblicana, si iniziava l'intima domestichezza del campo! - E Francesco
Ferruccio impalmava la bandiera tricolore, e portava il berretto frigio
sul capo;» - (Ah! Francesco Ferruccio si copriva il capo di celata di ferro,
non già di berretto frigio; e quando minacciava il nemico, beveva un sorso di
vino in piedi, ed anche Dio glielo annacquava409!)
- «era il connubio della Repubblica del Savonarola colla moderna Repubblica
nell'ultimo martire repubblicano caduto sul campo.
Finito il banchetto
presentavansi sotto la Loggia
dell'Orgagna il presidente del Circolo del Popolo, del Comitato Italiano, e Giuseppe
Mazzini venerato apostolo di libertà. - Parlava Mazzini; e provato come le
nazioni nei momenti supremi non si salvino che per audacia ed abnegazione,
chiedeva se volessero proclamare l'Unione con Roma e la Repubblica, e votarsi
tutti alla difesa delle frontiere. Un grido di approvazione copriva la voce
dell'oratore, e le bandiere di tutta Toscana ondeggiavano salutando la Repubblica Italiana.
Allora leggevasi una formula di Decreto col quale era stabilita l'Unione a
Roma; era proclamata la
Repubblica; nominando frattanto un Comitato di difesa
composto di Guerrazzi, Montanelli e Zannetti, coll'aggiunta di una
Commissione di altri benemeriti cittadini, dichiarando definitivamente
decaduto Leopoldo Austriaco, e traditore della patria il generale Laugier.
Ad ogni parola interminate acclamazioni, ovazioni sincere, ed in fine la
richiesta che tutto subito si presentasse all'accettazione del Governo
Provvisorio. - Il Governo ricevette con giubilo le attestazioni di
fiducia, dichiarò che la voce del Popolo interpretava il cuore anche de' suoi
rappresentanti, e ch'esso aderiva ai voti e alla volontà sì costantemente e
generalmente manifestati; che però la proclamazione definitiva dell'Unione
Repubblicana rimetterla all'indomani, affinchè avesse luogo con quella
solennità e in quell'apparato di forza che esige un atto nazionale.» -
(Questo era falso, ma la menzogna è necessità nei Faziosi.) - «L'ebbrezza del
Popolo fu quale l'abbiamo conosciuta nei primi giorni di questa rivoluzione; a
un tratto s'illuminarono le vie, suonarono a festa le campane, e Firenze
echeggiò dei canti di guerra. Il Popolo volle innalzato l'Albero della
giovine Libertà, a simbolo di quella libertà che palpita nei nostri petti, a
promessa di quella libertà che pianteremo nelle nostre istituzioni410.»
Il Popolano, fidus
Achates, del pari nel foglio del 20 febbraio 1849: «A ore 2 pomeridiane i Volontarii,
già riuniti presso il Circolo, mossero con bandiere e tamburi, unitamente a
molti socj, Deputazioni e gran folla di Popolo ec.
Finite le mense fra la
letizia e i cantici, cominciossi a gridare: La Repubblica; e
poi, convenuta la maggior parte del Popolo sulla Piazza del Popolo, gli
oratori, fra' quali primeggiò Giuseppe Mazzini, cominciarono ad
arringarlo. Ivi, innanzi al grande uditorio del Popolo, quanto la gran piazza
ne poteva capire, fu proclamata la Repubblica e la riunione con Roma, e lette
varie risoluzioni che il Popolo approvò. Tutto ciò in risposta e dopo
pubblica lettura del bugiardo proclama di Cesare De Laugier. Non mancò chi
promise di subito pubblicare la biografia di tanto infame, degno imitatore di
Zucchi. Quindi da una Deputazione furono portate le risoluzioni al Governo
Provvisorio, come esprimenti il desiderio di tante migliaia di Popolo e di
tante Deputazioni. Il Governo Provvisorio gridò, come sempre, i voti del
Popolo, confermò la ridicola ribellione del Lorenese Laugier, e disse che il
Popolo mostrasse di volere difendere la Repubblica con dare 2,000 reclute per la mattina
seguente.
Nella serata, in mezzo
al generale tripudio fu innalzato l'Albero della Libertà con bandiera in cima,
sulla Piazza del Popolo, tutto all'intorno illuminata dalla gioia dei
cittadini.»
E già nel foglio
antecedente del 19 febbraio 1849, per meglio imprimere la memoria del fatto
nella mente del Popolo, aveva raccontato: «18-19 febbraio. - Ieri aveva luogo
sotto le Loggie degli Ufizii un grande banchetto pei Volontarii ascrittisi nei
ruoli aperti nel Palazzo dei Priori e al Circolo del Popolo.
Più di 1,000 erano i
banchettanti. E il Popolo tutto prese parte al convito.
Intanto giungevano
le Deputazioni dei Circoli di Livorno, di Lucca e di altre principali città
toscane.
Udivasi la nuova della
defezione del generale De Laugier, ed unanime fremito suscitavasi in ognuno,
unanime imprecazione contro il traditore della Patria.
Il Circolo del Popolo di
Firenze decretava una sentenza di cui più oltre diamo il contesto411.
Intanto lo spirito
pubblico animavasi ognor più: gran numero di Livornesi, uniti al Popolo
fiorentino, al Circolo del Popolo ed agli altri Circoli, convenivano nel
concetto esser venuto il giorno del solenne riscatto, nè potersi più oltre
indugiare l'atto formale di Unione alla Repubblica di Roma.
La Repubblica veniva così proclamata
e di diritto e di fatto in Toscana.
Fino da ieri sera, l'Albero
della Libertà era piantato sulla Piazza del Popolo e salutato da rumorose salve
di applausi e dal suono di tutte le campane di Firenze. Grandi processioni
di Popolo festeggiante, con faci e cantici patriottici, percorsero per tutta
notte la città.
Invitavansi intanto i
Volontarii inscritti a recarsi, alle 8, nella mattina del 19, sulla Piazza del
Popolo per partire immediatamente alla volta dei confini.»
Il Nazionale, non
amico mio, pure narrando i casi della giornata del 18, sovveniva allo sforzo
del Governo:
«Oggi fino a ora tarda
della sera, Firenze ha risuonato di suoni e canti, e sulla piazza che
ora si chiama del Popolo ha stazionato continuamente un folto gruppo di persone
a udire discorsi e proposizioni che si facevano dalla Loggia dell'Orgagna. - Fu
letto un Proclama del generale Laugier, comandante la truppa ai confini di
Massa e Carrara. - Il Proclama in nome del Granduca esortava i Toscani a
tornare all'obbedienza; prometteva amnistia generale, quelli eccettuati che
prendessero le armi dopo la promulgazione del Proclama. - A grida generali
si dichiara il Laugier traditore della patria. - Sulla sera in faccia al
Palazzo Vecchio era piantato l'Albero della Libertà. - Noi siamo avversi
a ogni sorta di violenza, da qualunque parte si eserciti. - Noi c'inchiniamo
alla sovranità del Popolo tuttoquanto chiamato a libere elezioni; da sè medesimo
crei la sua rappresentanza, alla quale confidi le sue volontà, e la cura di
provvedere allo eseguimento412.»
E meglio ancora nel
numero del 19:
«Il principio di
autorità fu rappresentato sinora dalla dinastia; la dinastia lo ha abbandonato;
il Popolo deve raccoglierlo e con la sua libera volontà ricostruirlo. Ma noi,
rispettando sempre i suoi decreti, non lo loderemmo se lasciasse forzarsi la
mano, e si acquietasse a premature determinazioni uscite dai clamori incomposti
della piazza: non lo loderemmo se tornasse ad affidare le sue sorti alle
dinastie, che sono un fatto transitorio e perituro, senza prima circondarsi di
forti e inespugnabili guarentigie. - Il Popolo sappia con ordine e dignità
esercitare la libertà, che gli tornò piena ed intera, ec.»
Intanto che cosa faceva
il Conciliatore? Appesa l'arpa al salice super flumina Babilonis
piangeva; e nello incendio, che consumava il Paese, salilo in pulpito
gravemente ammoniva i Popoli dicendo: il fuoco scotta; e se sarete bruciati, io
non so proprio che farci.
«Ai tempi che corrono,
il cercare rimedj adeguati alla gravità del male, sarebbe impresa soverchiante
le forze umane. Pio IX forse lo poteva, iniziando i nuovi moti pubblici col
principio religioso. Ma oggi sventuratamente anche questo salutare freno è
tolto, e la corrente straripa a sua posta, secondo gl'impeti delle acque che
già ruppero ogni argine. - Però noi contempliamo dolenti questo crescere
continuo di rovine, questo stravolgimento d'intelligenze ognora più terrìbile413.»
Ben fastidiosa prefica è
quella che imprende a cantare l'esequie all'uomo che non è anche morto! Il
giorno dopo questo Giornale, riavutosi, raccomanda al Governo la sicurezza dei
cittadini, l'ordine della città; ma considerando la desolazione predicata nel giorno
diciotto, non si sa come avesse il coraggio di farlo da vero; molto più che con
rugiadosa insinuazione andava sussurrando, che il Governo non aveva preso parte
ostensibile negli avvenimenti del 18 febbraio, tirando per così dire l'orecchio
al sospetto, affinchè dubitasse che egli forse ve l'aveva presa segreta facendo
fuoco nell'orcio. Il qual contegno quanto in sì estremo pericolo fosse, non
dirò onesto, ma savio, lascerò che altri consideri.
«Ieri mattina giunse in
Firenze una numerosa Deputazione dei Circoli di Livorno, con bandiere, cartelli
e berretto rosso. Alle ore due ebbe luogo un banchetto pubblico sotto gli
Ufizii, dato dal Circolo popolare ai Livornesi, ed ai Volontarii che sono
inscritti per difendere la
Patria. Alle ore sei, il Niccolini di Roma, Presidente del
Circolo popolare, proclamò la
Repubblica sotto la
Loggia dell'Orgagna a nome del Popolo Fiorentino. Sulla sera
fu piantato l'Albero della Libertà sulla Piazza del Popolo. - Nella sera
suonavano a distesa tutte le campane delle chiese, e si sparavano fucili in
segno di gioia. - Il Governo Provvisorio non ha preso parte alcuna, almeno
ostensibilmente, a questi diversi atti. - In tanta incertezza di
avvenimenti ed in tanto pericolo, noi non possiamo far altro che raccomandare a
chi tiene il Governo di provvedere alla sicurezza pubblica, ed a tutti gli
onesti cittadini di adoperarsi per mantenere l'ordine nella città414.»
Il Popolano del 19
febbraio accusa il Governo di frode, quasi le promesse fatte ieri non
volesse più mantenere oggi:
«Oggi noi pubblichiamo
un documento e un articolo intorno ad un fatto che forse, fra qualche anno, a
chi non ha la chiave che schiude i misteri di Stato, apparirà enigma
indecifrabile.
L'articolo che togliamo
dalla Costituente Italiana è lo esatto ragguaglio di quanto ieri
accadeva sulla Piazza del Popolo di Firenze e dentro il Palazzo della Signoria.
Il documento è un
Proclama che va sfornito di taluni adempimenti di voti nostri e del Popolo, di
cui cotesti fatti eran promessa, di cui le misure iniziate dal Governo eran
garanzia, ma va per altro arricchito da una grata e lieta novella, cosicchè lo
acquisto per l'una parte compensa la mancanza che appare dall'altro lato.
Mancanza è, e per la Costituente (giornale)
e per noi, la proclamazione definitiva della Unione Repubblicana, che il
Governo aveva detto di rimettere allo indomani (cioè oggi), affinchè avesse
luogo con quella solennità e in quello apparato di forza che esige un atto
nazionale.» (Sono parole della Costituente.)
«Acquisto prezioso si è
la certezza pervenuta nel corso della notte al Governo, che stolta e infame
invenzione del traditore De Laugier era la nuova starsi pronti 20,000
Piemontesi ad invader la
Toscana, per riporre l'ultimo Leopoldo sopra un trono cui volontariamente
egli aveva rinunciato fuggendo e lasciando senza timone la nave sdrucita dello
Stato.
I Piemontesi
protestavano solennemente contro la taccia che dar gli voleva l'uomo del 29
maggio di satelliti di tirannia, di degeneri Italiani, di uomini che per
passività di obbedienza fosser pronti a mostrarsi fratricidi; e insanguinare la
sacra terra d'Italia di italiano sangue. I Piemontesi protestavano, giammai
voler porre ostacolo al riordinamento della Toscana, e intendere lasciarla
libera di reggersi secondo la forma politica che più fosse per piacerle:
volerci Toscani fratelli e compagni nella guerra contro il comune nemico -
l'Austriaco: ma giammai volerci nemici e combattenti sovra limiti di provincia
che un dì o l'altro debbono esser totalmente remossi, per dar luogo ad un solo
e potente Stato: - la
Italia Una e Repubblicana.
Ed altra notizia, ella
pure aggraditissima e inaspettata, era lo appoggio e l'amicizia di una grande e
formidabile potenza, alla cui ombra è oggi lecito alla Repubblica della Italia
Centrale il metter salde radici e con minor precipitazione che non li
avvenimenti minacciati dall'imminente avvenire ci facessero ieri parere
indispensabile.
In grazia di tali
rassicuranti novelle, noi consentiamo a subire in santa pace quella specie (ci
si perdoni la inconvenienza della espressione) di giuoco di bussolotti accaduto
fra ieri ed oggi nel Palazzo della Signoria.
Ad onta di tutto ciò, ad
onta di sentirci coll'animo più libero, e colla mente meno angustiata da
funesti pensieri, noi non cessiamo però, nè cesseremo giammai, dal deplorare i
danni del provvisorio, dallo invocarne il pronto e definitivo termine.
Noi non cessiamo nè cesseremo di deplorare, come una perpetua e feconda
sorgente di discordia e di guerra civile, la presenza di Leopoldo di Austria in
Toscana.»
L'aria dintorno diventa
densa, e infuocata; già si scrivono e già si leggono parole somiglievoli alle
grosse goccie di pioggia precorritrici della tempesta; e tempesta di sangue
temevasi: nel Popolano del 21 febbraio si dichiara, che la seguente scrittura
era dettata fino dal giorno 19:
«La grande tela ordita
dai Principi è compiuta. Tocca ora ai Popoli il metterla in brani colla punta
delle loro baionette e colla mitraglia dei loro cannoni.
La condotta dei Regnanti
Italiani si svela oggimai ed apparisce nella sua piena luce.
Pio IX, Carlo Alberto,
Re Bomba e Leopoldo d'Austria van perfettamente d'accordo, e congiurano ad un
sol fine, ad operare dietro un solo impulso, in un medesimo momento.
Se sulla infamia e sul
tradimento di tutti costoro restasse alcun dubbio in qualche credula mente,
basterebbe a dissiparlo il vedere, il riflettere come contemporaneamente
Radetzky occupi Ferrara, Re Bomba ingrossi le sue truppe ai confini romani,
Carlo Alberto le sue spedisca in gran furia a quei di Toscana, e Pio IX,
senz'armi e senza eserciti, per far qualcosa, fulmini nuove proteste colla
affiochita sua voce dalle spiaggie di Gaeta.
Noi siamo lieti,
grandemente lieti di questa potente congiura, perocchè essa è il segnale del
definitivo scioglimento della grande questione italiana.
Noi siamo lieti,
grandemente lieti nello udire che i Tedeschi sono vicini; e a noi par quasi
sentire il nitrito dei loro feroci destrieri, già ci par vedere lo sperpero
delle campagne e la fuga de' nobili signori ch'eransi iti a rintanare nei loro
aristocratici covi per congiurare contro la patria e contro la libertà.
Nobili infami!... A che
cosa vi sarà valso il congiurare, e il seminare reazioni, divisioni, disordini?
il far gridare: Viva il Tedesco, Viva Leopoldo II?
Oh vedrete, vedrete,
insensati quanto iniqui, se il vostro Leopoldo II vi salverà lo scrigno
dall'artiglio croato; vedrete, vedrete, codardi, se vi varrà plaudirne lo
arrivo per risparmiare le vostre figlie all'oltraggio, i vostri campi e le
vostre ville al saccheggio, le vostre fortune al forzato tributo!...
Noi siamo lieti,
grandemente lieti, che l'ora della strage, l'ora del sangue sia venuta: ora
vedremo, per Dio, quanti siamo d'Italiani in Italia, ora ci conteremo tutti, e
il sangue dei traditori bagnerà, insiem con quello del Tedesco, le nostre vie
che han d'uopo di un battesimo di sangue acciò lavarne l'onta delle passate
ignominie per i corsi romorosi, per le sciocche dimostrazioni, per le festose
processioni; per avere, insomma, sostenuto tanti e tanti anni i passi oziosi e
lenti di tanti e tanti cittadini inerti, baloccheggianti, perduti dietro
puerili vaneggiamenti, immersi in discussioni ozjose, parolaj senza fatti e
senza azioni.
Si fondano in cannoni le
campane, si spoglino le chiese dei vani ori e dei male spesi argenti: si
reclutino, marcino, combattano e frati e monaci e preti, come in altri paesi fu
fatto; si costringa i contadini a marciare per la difesa comune, e i
recalcitranti si pongano dinanzi ai cannoni o ci servano di mitraglia ai
nemici: ogni pezzo di ferro, ogni pezzo di bastone sia messo a profitto: ai
pali si aggiunga una ferrea punta, e servano ad armar lancieri: si riempiano
pure le carceri, purchè si vuoti di nemici lo interno dello Stato. In quanto a
noi, ne facciamo sacramento a Dio ed alla Patria, appena la campana del Popolo
suonerà a stormo, getteremo a terra la penna, e, impugnando il fucile,
sdegneremo riprenderla finchè l'ultimo dei Tedeschi non abbia sgombrato
l'Italia, - finchè l'Italia non sia più un nome, ma una nazione libera e
vincitrice.
E se questo momento sarà
domani, i lettori nostri si tengano per avvertiti, - il nostro Giornale non
apparirà che col riapparire del vittorioso vessillo repubblicano fralle mura
della redenta Firenze.
Queste nostre parole
erano scritte 24 ore innanzi degli avvenimenti di ieri sera.»
Più cauta in parole, ma
di partiti violenti punto meno bramosa, la Costituente del
21 febbraio predicava:
«Cittadini del Governo
Provvisorio di Toscana. - Il Paese è minacciato, l'Italia ci domanda soccorso;
voi pure avete un debito da adempire, un debito grave e solenne verso la gran
madre comune. Gridammo armi ed armati, gridammo denari, energia, impeto di
rivoluzione, e di patria carità ardente ed efficace; or come fummo ascoltati?
Battete a dritta ed a
manca, sospingete, sforzate. Le risorse vi sono, la buona volontà vi
corrisponda; l'ardimento dei più vi sorregge; camminate adunque, camminate
adunque, camminate liberi e forti. I ricchi paghino il proprio debito di oro,
come il Popolo generoso offre il proprio sangue; non ismarritevi
nell'inestricabile labirinto di minute preoccupazioni, ma seguite la via larga
delle misure vaste e risolute. I giorni passano, i giorni sono preziosi e
numerati; - che non trascorrano più lungamente senza frutto! -
. . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Debbe (il Governo) agire
fortemente a reprimere qualunque rinnovazione di minaccie così inique,
qualunque possibilità e principio di tumulti. Versiamo in circostanze
straordinarie, in mezzo a pericoli supremi; - si adoprino misure straordinarie,
mezzi supremi. - L'esempio di Romagna non è da disprezzarsi: si proclami la Legge Eccezionale;
essa emana dalla legge normale della salute della patria.
Debbe agire fortemente,
per raccogliere denaro, subito e molto. Prenderlo dov'è, senza troppa
esitanza, poichè ogni altra trafila finanziera non corrisponde alla
gravezza istantanea del bisogno. Ori e argenti di tutti, prestito forzato. I
Croati a Ferrara, mentre porgono l'esempio, danno stimolo a tutti a concorrere
per non subire con vergogna e paura una simile sorte.
E soldati, per Dio!
soldati vogliamo. La
Guardia Nazionale riorganizzata si offre, anela forse a una
mobilizzazione. Ma per questo ha bisogno di esser educata, di avere quel
corredo di istituzioni e di armi speciali che possano farla entrare in
campagna; si provveda a tutto questo, - si incominci almeno a provvedere. Poi
fa d'uopo anche pensare alle armi, di cui vi ha visibile scarsezza. Noi siam
ben lontani dall'avere in pronto i mezzi per l'armamento universale del Popolo,
qual è nella nostra mente, e qual è forse nel pensiero dello stesso
Governo; si procurino dunque le armi, e possibilmente da Venezia, o altrove,
nel minore spazio di tempo che può essere concesso. Armi, soldati e danaro:
è la nostra parola d'ordine, il nostro grido giornaliero, il ritornello
incessante a cui siamo legati per coscienza. Armi, soldati, danaro; Unione
con Roma di diritto e di fatto immediata, è il nostro programma, il codice
della nostra politica nelle circostanze presenti. Noi lo verremo sempre
ripetendo e insegnando, ec.415»
Per questi successi ed
eccitamenti, Toscana agitavasi tutta. Il Governatore- Pigli, non curata la
condizione apposta dal Governo al proclama della Repubblica, la bandisce assolutamente:
«La Repubblica è
proclamata. Il Popolo è Re. - Guai a chi tentasse strapparti lo scettro pagato
per lunghi secoli con le lacrime, e il sangue, e le opere della più sublime
virtù, della quale ti conserverai, ne sono certo, indefettibil campione.
Popolo, compi i tuoi
gloriosi destini! Pensa, che la tua capitale è Roma, che la tua patria è la Italia; chi ti conferisce
lo imperio è il tuo diritto! Chi ti consacra è Dio. Viva l'Italia. Viva la Repubblica.
Livorno, 19 febbraio
1849.
C.
Pigli.»
E senza neppure
consultare il Governo. nella ebbrezza del trionfo, ed ormai considerandosi dei
Capi, o prossimo a diventarlo, della bandita Repubblica, ecco istituire un
giorno di feriato, con tutte le sue sequele; al quale scopo è necessaria una
legge, che per certo non istà nelle attribuzioni di un Governatore promulgare.
«Cittadini!
Per festeggiare il
presente memorabile giorno, viene disposto che il medesimo a tutti gli effetti
di ragione debba considerarsi come feriato solenne, e che non si possa quindi
procedere al protesto delle cambiali, ed altri recapiti mercantili.
Livorno, 19 febbraio
1849.
C.
Pigli.»
E in altro Proclama
affermava:
«La Repubblica è stata
proclamata ieri in Firenze con l'adesione del Governo, il quale ha bensì
impegnato quella città a dare in questo stesso giorno 2000 uomini416.»
Questo non era vero. Il
Governo aveva mandato: «La
Repubblica è stata proclamata. Il Governo l'ha accettata a
patto, che il Popolo fiorentino dia per domani 2000 uomini armati417.»
Ma al Pigli, ed ai suoi
nuovi amici, importava far credere diversamente. Su l'ora della mezzanotte le
Deputazioni, forse unite in gran parte, e certo indettate con i partigiani
di Firenze, piuttosto stizzite che vinte, volendo sgarare chela Repubblica
andasse innanzi ad ogni modo, con bande, gridi e schiamazzo infinito, destano
la città, e abbindolati i cittadini piantano l'Albero della Libertà, e
proclamano la Repubblica.
«Tutto era calma e
tranquillità per la fiducia degli uomini che reggevano il Governo: quando alla
mezza notte il ritorno improvviso delle Deputazioni da Firenze spargeva la
lieta novella della proclamazione della Repubblica in Toscana, dell'adesione di
quei Tribuni generosi alle volontà manifeste di un Popolo ivi raccolto da tutte
le Provincie. Livorno sebbene a quell'ora tarda prendeva immediatamente un
aspetto festivo: bande musicali percorrevano le vie, ed il Popolo acclamava con
mille evviva a quell'atto solenne d'italiana rigenerazione. Un Albero della
Libertà contornato di bandiere tricolori era piantato come per incanto nel
mezzo della piazza, fra il suono a festa di tutte le campane e le grida alla
Repubblica, a Roma, a Venezia, a Sicilia, a tutti i fratelli d'Italia: il nuovo
sole sorgeva ad illuminare il più gran fatto nel nostro risorgimento418.»
Il Governatore di
Livorno intanto, come colui che guarda per vedere se il tiro ha colto nel
segno, scrive a ore tre pomeridiane del 19 febbraio al Ministro dello Interno:
«Qui è stata fatta una
solenne manifestazione per festeggiare la Repubblica Toscana.
Oggi alle quattro si canterà il Te Deum. È necessario bensì smentire
immediatamente una voce, che comincia a circolare intorno la dimissione del
Guerrazzi e del Montanelli, e la istallazione al Governo di soggetti che
non sarebbero graditi. È di assoluta necessità pronta risposta419.»
Che cosa fu risposto?
L'Accusa dagli Archivii Governativi ha tolto quello che le piacque, poi
chiudendoli si è posta la chiave in tasca, e ha detto a me che li voleva
esaminare per conto mio: «Concedertelo non dipende da me, figliuolo; e quando
dipendesse da me, tu devi indovinare prima, o rammentare quello che contengono,
ed esporne il contenuto: allora giudicherò io quali delle carte possono fare al
caso tuo, e quali no; lasciati governare da me, rimettiti nelle mie braccia:
vieni, addormentati sul mio seno; se le mie mammelle contenessero latte, te le
porgerei a poppare. Ad ogni modo, avendo me per tutrice, sto per dire che tu
se' nato vestito, io provvedo a tutto, e credi che lo todo lo que hazo, lo hazo
per to bien.» Tenerissima Accusa!
Da Pisa il Prefetto
Martini, a ore 1 pomeridiana, avvisa il Ministro dello Interno, per via
telegrafica:
«Il Popolo è adunato
numeroso volendo proclamare la
Repubblica, sia vera o falsa la notizia che lo
stesso è avvenuto a Firenze. Molti cittadini s'interesseranno per trattenere
questo atto, ma ormai pare inevitabile. Batte la generale. Si dice fatto
altrettanto a Livorno, quindi la mossa di Pisa420.»
Il tenore di questo
Dispaccio dimostra chiaro, che il Prefetto Martini, corrispondendo alle
istruzioni del Governo, s'ingegnava con altri a parare quel colpo, ma che
disperava venirne a capo.
A Siena già nel giorno
20 febbraio, erano tutti Repubblicani per convinzione o per paura421.
Grosseto nel 20 febbraio
bandiva anch'essa la
Repubblica, e piantava l'Albero422.
Partito appena S. A. da Porto Santo Stefano, fu nel giorno 22 di febbraio
salutata la Repubblica423.
Intanto in Firenze si
agitava segreta la cospirazione, che scoppiò nella notte del 21 febbraio 1849;
infaustissima fu quella notte, ma più infausto giorno le poteva tenere dietro.
Il Monitore ne dava ragguaglio nella guisa che già fu detto a pagine
279-282 di questa Apologia.
Ho esposto altrove, e
con documenti provato, come Giuseppe Montanelli facesse opera veramente
cristiana salvando dal furore del Popolo la gente arrestata, e come in tanto
stremo il Governo con provvido consiglio ricorresse al Circolo medesimo,
impegnandolo a mandare taluno dei suoi concionatori tanto efficaci a
rimescolare le moltitudini, perchè inspirasse loro sensi di carità e di
mansuetudine. Se poi mi domandassero perchè io affermi essere stato cotesto
savio consiglio, mi parrebbe dovere rispondere, che gli uomini i quali non
sieno del tutto perduti ordinariamente s'ingegnano mostrarsi meritevoli della
fiducia, che in essi viene riposta, e quantunque ai giorni nostri i traditori
non sieno appesi, e molto meno s'impicchino da sè, pure quel brutto nome di
Scariotte a nessuno accomoda. Così Lamartine condotto dal medesimo concetto,
che animò (ne sono convinto) i miei Colleghi, creava la Guardia mobile
a Parigi togliendo al disordine le forze per conservare l'ordine: egli se ne
loda, e credo, che in questa parte abbia ragione424.
E qui faccio tregua con
le citazioni, osservando, che se lo edifizio non riuscì come avrei desiderato
completo, non è mia la colpa; però desiderando, piuttosto che sperando, non
essere tratto a compirlo, basterà quello che fu detto per somministrare notizia
dei tempi; imperciocchè
Ogni erba
si conosce per lo seme.
Ora io voglio un poco
confrontare questi nostri successi con altri, i quali, a un punto più celebri e
più terribili, hanno dato al mondo una lezione di spavento.
§ 2. Confronto
storico.
Nel 1792 erano in
Francia uomini infiammati nei cerebri dai vapori delle speculazioni astratte, i
quali reputando, che il male degli uomini derivasse non già dalle ree passioni
che gli agitano, bensì dalla forma della Società, come se non fossero essi e le
opere loro che gli hanno ridotti nello stato in cui sono, drizzarono la mente a
capovolgerla di cima in fondo. Però non tutti accordavano su i fini, nè penso,
come allora, in futuro saranno per accordarsi giammai; e questo è sommo bene.
Alcuni di loro intendevano, mercè le riforme politiche, arrivare alle sociali;
altri alla rovescia, nè tutti volevano trascorrere fino al punto di abolire la
fede di Dio; e quelli che pur volevano cassato Dio, più che altro sembravano
Titani ciechi brancolanti in cerca di scogli per avventarli contro il cielo; e
negli scritti e nei ragionamenti loro manifestavano piuttosto la convulsione
della rabbia, che un discorso considerato della mente. Spettava ai giorni
nostri sopportare la vista di uomini, che lontani dai ravvolgimenti politici,
con la pacatezza del filosofo, e la soavità dell'uomo dabbene, si affaticano a
dimostrarti per filo e per segno, che tu non sarai felice mai là dove tutta
questa macchina morale, civile, religiosa e politica, non vada in fascio.
Certo, chi dette simile impulso ai moti rivoluzionarii del tempo, sortì grande
la potenza dello ingegno. Lo spirito del male lo deve avere baciato proprio su
la fronte dicendogli: tu sei il figliuolo della mia predilezione. La grande
maggiorità dei diseredati, che forma la base della piramide sociale,
gl'infiniti figliuoli della Natura, che dalla madre loro credono essere stati
benedetti con uno schiaffo, poco si commuovono per Repubblica o per Monarchia;
imbestiati dal miserabile costume i grossolani appetiti è forza gratificare
dapprima; più tardi verranno i bisogni dello spirito, e il desiderio di
razionale reggimento, tanto più duraturo quanto meglio gli uomini saranno ad
apprezzarlo capaci. Lasciamo che questo avviso assai si rassomigli a quello di
dar fuoco alla casa, nella speranza che ci venga rifabbricata più bella; egli è
certo che per isconvolgere la
Società non si poteva inventare leva più pericolosa, nè più
sicura di questa. - Noi vediamo ordinariamente i Partiti intenti a distruggere,
venire a capo dei concetti disegni per due precipui motivi: primo, perchè su le
mosse vanno di accordo, quantunque più tardi pieghino chi a destra, e chi a
sinistra, chi di loro vuole trascorrere, e chi stare fermo; tuttavolta siffatte
discrepanze lo Stato già sconvolto rendono infermissimo: secondo, perchè
l'assalto procede sempre più fervido della difesa, nè lo assalito può in un
punto da tante parti salvarsi, e l'assalto gli sopraggiunge addosso continuo,
impreveduto, e difficilmente prevedibile. Un rimedio ci è, o almeno, se non
basta questo, agli altri è inutile pensare; ma lo vedo respinto, però che come
tutti i farmachi sappia un po' di ostico a cui ha il gusto avvezzato a malsani
dolciumi. Gli umori rivoluzionarii tengono della natura di quelle infermità,
che, per ispogliarle del maligno, bisogna inocularle. Il reggimento
costituzionale, da senno praticato, sarebbe la vaccina salutare; ma tanto è, le
vecchie balie non ne vogliono sapere, e gli armano contro tutti gli errori per
questa volta non popolari, ma signorili; intanto il male cova, e a tempo debito
se non ucciderà il fanciullo, te lo lascerà concio, che Dio ve lo dica per me.
Le grandi Assemblee di
rado trascendono ad enormezze, o, se pure irrompono in quelle, durano poco; e
là dove per istituto si ragiona, se qualche volta la passione accieca, anche a
tastoni, la via diritta smarrita io ho veduto ritrovare sempre; però i
Rivoluzionarii di professione le Assemblee e i Poteri costituiti detestano, o
se gli sopportano, vogliono ad ogni patto dominarli. I Rivoluzionarii in
Francia avevano, a vero dire, seguito grande nell'Assemblea legislativa in
virtù dei Deputati che per sedere sopra i più eccelsi scanni si chiamavano
Montanari, e per la pressione delle conventicole; e nonostante questo, non
pareva loro essere sicuri a bastanza, ove del tutto non la riducevano in
servitù. Se l'Assemblea voleva vivere, doveva rassegnarsi, ed essere nelle
costoro mani quasi un suggello, per legalizzare le immanità che si accingevano
a commettere. Così, per siffatto disegno, la Comune accanto all'Assemblea a poco a poco
diventò Governo; in seguito più che Governo. Nel Palazzo Municipale si
radunarono i più violenti; di là spaventarono, quivi usurparono, là ordirono in
segreto quanto in palese non avrebbero mai osato, non che fare, dire.
Qui fra noi mancava
l'Assemblea. La eletta con l'antica legge elettorale, oltre all'essere stata
disciolta per volere del Popolo, nè si sarebbe attentata di adunarsi, e se
adunata, avrebbe fornito materia allo infuriare della moltitudine, che pure si
voleva attutire. Ora io ho veduto che per placare il toro, non gli si agita
mica davanti gli occhi la bandiera vermiglia che odia, e trema; ed è eziandio
così da avvertirsi, come da evitarsi che le prime offese chiamino le seconde;
imperciocchè la vittoria insuperbisca, e quello che ti riesce ottenere dalla
paura, che poca o molta accompagna sempre la prima esperienza della forza,
invano chiederai dopo la prova riuscita prosperosa per coloro che intendi
reprimere. Però di questo a suo luogo più copiosamente. Intanto reggeva il
Governo Provvisorio; per sua natura debole; sostenitore degli ufficiali
governativi piuttosto, che sostenuto da quelli. A questo gli ufficiali tutti, a
questo i cittadini, amorevoli o no, pongano mente, poichè all'Accusa non preme
badarvi: che il Governo Provvisorio potè salvare uomini e cose, fondato appunto
sul transitorio, che gli serviva di pretesto a non imprendere mutamenti; -
uscendo nel definitivo per impeto di passioni rivoluzionarie, pensate un po'
voi dove vi avrebbe balestrato cotesto turbine. La Fazione violenta riusciva
a sforzarmi in molte cose, non in tutte, nè nella suprema in ispecie, presso
cui le altre erano nulla: di qui l'agonia di volere ad ogni patto imposta la Repubblica a tumulto, e
di qui, trovatomi oppositore e custode dei diritti dell'universo Popolo, il
proponimento palese in molti, segreto in taluno, di sostituire al Governo
Provvisorio un Governo che la desiderata Repubblica proclamasse.
In Francia la stampa
della Opposizione, spaventata, tace; dei tipi e dei torchj si spoglia, e ai
propagatori delle opinioni rivoluzionarie si donano: qui pure alla stampa,
nemica della violenza, voleva imporsi silenzio.
In Francia i
Rivoluzionarii intendono impadronirsi di quella facoltà, la quale mentre dura
la tempesta degli sconvolgimenti politici non merita più essere chiamata
Giustizia, e neppure diritto di punire, ma sì piuttosto potenza di mal fare,
conciossiachè, ottimamente avverte il Thiers425, arrestare e
perseguitare i supposti nemici formi per i Faziosi principalissima e
ambitissima libidine. - Quale e quanta poi sia la tristizia e la rabbia delle
persecuzioni politiche, non importa discorrere! - Donde nascesse la prima
radice dei Tribunali rivoluzionarii di Francia, insieme con gli altri Storici
lo dichiara Luigi Blanc: «La mollezza e la esitanza dei Poteri governativi da
una parte, e dall'altra il sospetto e la paura fanno nascere la prima idea del
Tribunale rivoluzionario. Dupont di Nemours fu che il propose; e per questo
modo dalle mani di un Consigliere di Parlamento furono poste le basi del
Tribunale rivoluzionario426.»
La
Storia,
non senza che le tremi nella destra lo stilo, registra nelle sue tavole, come a
sbramare le rabbie della scapigliata licenza e del bilioso assolutismo non
fecero mai difetto uomini tristi; i quali comecchè vestissero toga nè nome di
Magistrati meritarono, nè Magistrati furono; come per vetro traverso a loro si
vedeva il carnefice. E che cosa importarono quei luridi scartafacci
curialeschi, martirio della ragione umana, e scuola di calunnia? Chi
ingannarono? Dio forse, o la coscienza propria, o gli uomini? Ah! nessuno,
nessuno ingannarono; avrebbero operato più presto e più lealmente, a prendere
una pietra e mettersi ad affilare il taglio della mannaia. Deve essere profonda
davvero la satanica voluttà di abbracciare il male, e dirgli: «Tu sei il mio
bene!» se la vendetta umana spesso, e la divina sempre, il disprezzo presente,
la esecrazione dei posteri, e le visioni della notte e i terrori del giorno,
non bastarono a rattenere dal truce mestiere. Ahimè! Che importa che
Fouquier-Tinville, giudice carnefice della tirannide libertina, muoia come Ciro
nel sangue che ha versato? Che giova che Jefferies, giudice carnefice della
tirannide regia, spiri ammaccato dai colpi come un lupo? La morte loro non
richiamerà dal sepolcro l'illustre Bailly, la egregia Madama Roland, le pie
Granut e Lady Lisle, e Cornish innocentissimo. Io non ardisco interrogarlo, -
ma è ben profondo, ben soverchiante la ragione nostra, il consiglio - per cui
vedemmo per le Storie la nequissima stirpe di cotesti due togati carnefici
rinnovellarsi copiosa, mentre fu scarsa quella di Papiniano che osò guardare in
volto Caracalla, e dirgli: «essere più facile commettere il fratricidio che
scusarlo.»
E qui non pure tra noi si
pretendeva che il Governo instituisse Tribunali rivoluzionarii; ma i Faziosi,
già già diventati Governo da per sè stessi, siffatti Tribunali creavano, i loro
Giudici carnefici eleggevano, uno esercito di mille cagnotti ad accompagnarli
disegnavano. Il Governo Provvisorio queste infamie impediva, e, fingendo
adempire egli alle sformate voglie della Fazione, mutava in comune salvezza
quello che nelle mani altrui sarebbe stato esizio universale. Lo impugnate voi?
Su, vengano innanzi le vedove che abbiamo fatto, escano fuori gli orfani per
causa nostra, e ci pongano accusa. La pena più lunga, che fu applicata dal
Romanelli, questo nuovo Carrier del contado aretino, non arriva al terzo della
nostra carcere di custodia!
In Francia, a Parigi
segnatamente, spaventavano le persone, solite a trovarsi in tutte le Capitali,
per costume depravate, d'istinto feroci, per abitudine di trambusto fatte
convulse, perpetuamente oscillanti fra lo ergastolo e la taverna; tanto più
rese terribili adesso, che sciagurati predicatori le ammaestravano a colorire
le inique passioni con la politica. - Fra noi terribili erano gli scherani
nostri, e non pochi, ma non sì, che, come in numero, in ferocia non venissero
superati da quelli che ci mandava la vicina Romagna, cui pure adesso con molta
fatica contiene grossa mano di armati, vigilanti ai confini.
Vedete in Francia uomini
improvidi del domani, non aborrire accendere oggi uno incendio, che non
sapranno più spegnere, e dal quale eglino stessi rimarranno a posta loro
distrutti; e Cammillo Desmoulins, stracciando lo ingegno bellissimo, gittarne i
brani al Popolo feroce, per vie più inferocirlo. «Abbiamo uno esercito, egli
diceva, latente sì, ma ordinato e in procinto. Nè causa al mondo fu della
nostra più sacra per combattere; nè premio maggiore destinato alla vittoria.
Quarantamila palazzi, case, castelli, due quinti delle terre di Francia, ecco
il bottino di guerra. Chi presumeva conquistare sarà conquistato, chi vincere
vinto. Il Popolo andrà mondato dagli stranieri, e dai mali cittadini; e tutti
quelli che il bene proprio al bene comune preferiscono, saranno sterminati.»
E qui tra noi si urlava:
«I danari si piglino dove si trovano, le Chiese dei sacri arredi si
saccheggino, a viva forza i signori si spoglino, e le spoglie si dividano fra
il Popolo, caparra e saggio di più abbondante raccolta.» E' furono giorni pieni
di pericolo cotesti; e chiunque comprende quanto efficace maestro sia il
bisogno, e quanto la cupidigia docile scolara, ne andrà persuaso di leggieri. I
miei Colleghi furono stretti a mettere una Legge nel 22 febbraio, con la quale
fu ordinato ai benestanti ripatriassero; dove no, sarebbero multati: ma nessuno
fu multato, e vagarono quanto seppero e vollero; - testimone Don Tommaso
Corsini. Questi eccitamenti non avendo trovato in Francia nel Governo quei
supremi contrasti che in Firenze trovarono, bensì plauso ed istigazioni, ecco
in breve spazio di tempo in quali fatali rovine fu visto precipitare quel
nobilissimo Stato. - Parte di Popolo ardeva i castelli, ne decapitava i padroni;
le mozze teste fitte sopra le picche, trionfo infame, portava in processione
per le strade; dai braccioli di ferro dei lampioni pendevano cittadini
impiccati; e l'altra parte del Popolo plaudiva e urlava; qualche volta ancora,
tratto argomento di arguzia dalla nefanda tragedia, rideva. Desmoulins, furente
di rabbia rivoluzionaria, assumeva il titolo di Procuratore Generale del
Lampione.
Oppressione antica nel
reame di Francia, governativi errori, insolenze patrizie e abusi universali, di
lunga mano apparecchiarono il bisogno di riforme; peregrini intelletti
somministrarono argomenti e favella al gemere lungo del Popolo; forse il
Principe cedeva, ma i Privilegiati non vollero, meno teneri della Monarchia che
di sè stessi, ed invidiosi che questa, sviluppandosi da loro, senza loro
durasse. Tutto lo edifizio monarchico e feudale doveva salvarsi o perire, e ciò
parve amore, e veramente fu astio; ma così amano sempre i Partiti: - próstrati
a terra, e adorami; io ti darò i regni della terra. - Satani sempre, e a tutti;
anche a Gesù! - Di qui ebbero origine, da un canto, le trappolerie, gl'inganni,
e le slealtà, poi le mene segrete, al fine le scoperte opposizioni; e
dall'altro, rancori, rabbie, pretensioni quotidianamente crescenti, e il
subentrare continuo dello impeto della passione ai nobili discorsi del
pensiero; poi, aumentando lo scambievole odio, si venne alle ingiurie; il
trapasso all'offesa fu breve; quegli ebbero ricorso alle forze ordinate del
dispotismo, questi alle forze scomposte dell'anarchia; i primi, se avessero
vinto, avrebbero ucciso la
Libertà stringendole il collo; i secondi, vincendo, la
condussero a morte aprendole le vene. Il sospetto non chiuse più occhio, e la
vigilia infiammò il sangue del Popolo; e siccome quanti più scalini scendiamo
per la scala della ingiustizia, sempre più copiosi troviamo i motivi di
offendere, al sospetto, alla miseria, alla cupidità, al furore ecco
accompagnarsi la paura; fra i cattivi consiglieri, pessimo: - la paura, Ciclope
acciecato, che di tutto teme, anche dei camposanti, però che il vento che
zufola per le croci le metta spavento; onde impreca alle croci, e vorrebbe
anch'esse sepolte. Pareva che ormai la ferocia degli uomini avesse toccato il
fondo del suo inferno, e non era niente; l'ultima furia e la più truce di tutte
dormiva sempre. Negli ultimi giorni di agosto 1792, si sparge la voce in
Parigi, i Prussiani, espugnato Longwy, accostarsi a Verdun. Male davvero
conosce la natura delle rivoluzioni chi pensa che siffatte novelle giovino ad
abbattere gli animi esaltati; la rabbia vedemmo allora diventare delirio, e
destarsi e stendere le braccia insanguinate la furia delle vendette. Il
sospetto cerca le cospirazioni pronte a scoppiare, spesso le immagina, qualche
volta le trova, la paura l'esagera, e nella propria sua ombra teme il sicario;
la minaccia esterna inasprisce, facendo, per così dire, rientrare nella massa
del sangue la infiammazione della cute, e un grido sussurrato di orecchio in
orecchio a voce sommessa, come si costuma ai funerali, dice: «Siamo traditi, il
pericolo delle armi sta lontano, e non è quello che ci stringa più
urgente; il pericolo sta qui nei nemici che abbiamo in casa. I Generali
alla frontiera badano ai Prussiani, noi qui dentro dobbiamo badare agli
aristocratici cospiranti sempre contro la Libertà427. La causa della
rivoluzione potrà salvarsi, se accorriamo tutti ai confini; ma lasciandoci
dietro le nostre famiglie abbandonate, i nostri nemici le trucideranno; dunque
è necessità mettere mano al sangue: forse la causa della rivoluzione
soccomberà, dunque vendichiamoci anticipatamente della temuta disfatta sopra
questi aborriti, che dispererebbero la nostra agonia con gl'insulti del
trionfo; sia che vinciamo, sia che perdiamo, bisogna far sangue.»
Riandate col pensiero le
citazioni allegate nelle pagine precedenti, anzi aggiungetevi anche questa:
«Per combattere il nemico straniero bisogna non temere che il nemico interno
c'insidii e ci minacci alle spalle. La Fazione, non c'inganniamo, è numerosa, e potente.
La coscienza della causa dà il debito, e il diritto della vittoria: questo
fa legittimo, e sacro ogni mezzo428;» e vedete se la mossa
del Laugier partoriva in Firenze i medesimi furori. Lascio la decadenza del
Principe gridata a furia; lascio la Repubblica proclamata per gittare, come
dicevano, un fatto compíto davanti ai suoi nemici; non ricordo il bando
di traditore posto addosso dalle turbe invelenite; ma, con ribrezzo, mi trovo
costretto a rammentare la empia gioia della vicina strage, gli eccitamenti
orribili a purgare con battesimo di sangue le strade della nostra città: e qui
mi taccio, perchè nel ravvolgermi per queste memorie mi prende al cuore una
tristezza infinita, che poco è più morte.
Confrontate il
linguaggio, che qui si udiva, in Toscana, con quello, che costumavasi in
Francia, e ditemi poi se i giorni del terrore vi paressero imminenti! «I motivi
sono eglino puri? Il fine approfitta la Rivoluzione? Giova o no alla causa della libertà?
- Ciò basta... Si deve parlare della Rivoluzione con rispetto, e dei
provvedimenti rivoluzionarii co' riguardi che meritano. La Libertà è una vergine di
cui è colpa sollevare il velo429.» Vedete se qui come in
Francia proclamavasi la sentenza, ai Rivoluzionarii non pure spettare il
diritto, ma incumbere il dovere di fare di ogni erba fascio per salvarsi:
«empia massima e atroce, che somministra ai minacciati il diritto di combattere
con armi pari, e distrugge lo Stato Sociale per surrogarvi la guerra430.»
Siffatti eccitamenti condussero
in Francia le giornate del settembre. Che cosa pagherebbe mai la Francia per potere
strappare coteste pagine dal volume della sua storia? Forse quelle che narrano
dei gesti del Condé; e se non bastassero, ci aggiungerebbe le altre che parlano
del Turena; e, se più si volesse, anche quelle di Napoleone; e finalmente
quante altre mai favellano di gloria, purchè cotesto vituperio cessasse. Nè
dovrebbe reputarsi troppo caro il riscatto, conciossiachè i Popoli s'infamino
peggio pei fatti scellerati, che non si esaltino pei gloriosi.
Coloro che quelle
immanità ordinarono non ne sentirono rimorso, almeno sul momento; all'opposto,
le confessarono come provvidenza necessaria di Stato; e questo avviene quante
volte, pervertito ogni senso morale, il cervello guasto dai sofismi pesa sul
cuore come una lapide di sepolcro: quelli poi che l'eseguirono n'ebbero orrore;
ed anche questo è ragione, perchè il Popolo traviato dalla passione chiude le
orecchie alla voce della coscienza, ma per via di cavilli non sa strozzarla.
E avvertite, che non per
ordine dell'Assemblea, ma in onta sua, fu commessa la strage. I violenti
l'avevano soverchiata instituendo Governo fuori del Governo, per quei tempi
onnipotente quanto feroce. La
Francia spaventata imparò lo eccidio del settembre per via di
questa Circolare spedita dal Comitato di Salute Pubblica col sigillo del
Ministro della Giustizia:
«Prevenuto che torme di
Barbari si avanzavano contro la
Francia, la
Comune di Parigi usa diligenza ad informare i fratelli di
tutti i Compartimenti come una parte degl'iniqui cospiratori detenuti nelle
prigioni è rimasta spenta per virtù del Popolo. Comparve necessario questo atto
di giustizia» (e sempre giustizia rammentasi da coloro che meno
vogliono e sanno adoperarla) «per contenere con la paura le legioni dei
traditori chiuse dentro le mura, mentre stavamo in procinto di muovere contro
il nemico; e il Comitato non dubita che il Popolo di Francia, dopo la serie dei
tradimenti lunghissima la quale lo spinse su l'orlo dello abisso, si studierà
imitare questo partito tanto vantaggioso quanto necessario, e dirà come il
Parigino: - Noi correndo contro al nemico non lasceremo dietro a noi scellerati
che scannino le nostre mogli ed i nostri figliuoli...!»
I posteri incolpano
meritamente la memoria del Danton, come partecipe ed eccitatore di cotesti
misfatti; ed è da credere che dove risolutamente vi si fosse opposto, forse gli
sarebbe venuto fatto stornare tanta sciagura dalla Francia, tanta infamia dal
suo capo; però che la voce del Magistrato sia autorevole a dissuadere le turbe
da promiscue stragi, come da qualsivoglia altro atto di efferata barbarie,
dalla quale per religione, per educazione e per naturale istinto esse
repugnino: e bene ammonisce il signor De Barante nei frammenti citati, che il
Danton, stimolando la plebe a insanguinarsi, non fece affatto prova di audacia,
bensì di codardia, solita nei capi di parte, che, per mantenersi in favore
dei proprii soldati, alle voglie loro, quantunque disordinate, sempre
vilissimamente acconsentono.
E di vero il Danton
invece di trattenere, ecco come spingeva la plebe: «Il dieci agosto ci ha
divisi in Repubblicani e in Realisti: poco numerosi sono i primi, molto i
secondi. In questa debolezza noi ci troviamo esposti a due fuochi; a quello dei
nemici fuori, e all'altro dei realisti dentro,» e concludeva col truce
attraversare della mano su la gola, e colle più truci parole: «Bisogna
atterrire i realisti431!»
Così procedono i fomentatori
della Rivoluzione, e non la trattengono, nè il proprio corpo in mezzo alla
strada attraversano, affinchè il carro sanguinoso si arresti.
La sentenza gravissima
del signor De Barante, da noi riportata poco anzi, ci porge occasione,
confrontandola con certe parole dell'Accusa, a dimostrarne la manifesta
stupidità. Costretta l'Accusa a confessare con amarezza inestimabile com'io mi
fossi valoroso oppositore delle più accese voglie della Demagogia,
subito dopo, per cancellarne il merito, aggiunge che questo feci per conservare
nelle mie mani il male acquistato potere.
Innanzi tratto la mia
autorità, per sua natura transitoria, non poteva prorogarsi che per ispazio
brevissimo di tempo, sia che l'Assemblea deliberasse la Repubblica, sia
piuttosto che il Principato costituzionale restituisse; nel primo caso, è da
credersi che non avrebbero scelto a governare la Repubblica, tale che
accusavano averla contrariata; nel secondo, di questa pasta non si fanno
Principi, e penso che non ci bisogni dimostrazione. Ancora: non qui in Toscana,
ma a Roma, il Potere Esecutivo e i Ministri sarebbersi dovuti eleggere; onde se
in me fosse stata vaghezza di durare al governo con la Repubblica, e
commettermi alle sue fortune, insensata opera faceva travagliandomi ad avversarla
in Toscana: lasciato quaggiù, come suol dirsi, sacco e radicchio, avrei dovuto
prendere le mosse verso Roma, dove supremo seggio, più volte, mi avevano
offerto, e l'ho provato altrove. - Per durare al potere, in virtù del
beneplacito della moltitudine, signora assoluta delle cose, nuova arte
c'insegna l'Accusa. - La Storia
ci mostra come i vogliosi di dominare abbiano sempre piaggiato, non contrastato
il Popolo; ma che cosa cale all'Accusa di Storia? Ella sa di dire sempre bene.
Anche Cromvello e Napoleone, che furono così assoluti e si sentivano gagliardi
su le armi, si gratificarono i Popoli con ogni maniera di lusingheria. Perpetuo
aborrimento loro erano i corpi deliberativi; sicchè quando vollero dominare
signori, Cromvello nell'aprile del 1653, invaso il Parlamento co' suoi soldati,
ne cacciava a vituperio i Deputati, e chiusa la sala se ne ripose la chiave in
tasca, ordinando che vi appiccassero un cartello che dicesse: «Stanze da
appigionare432.» Buonaparte, nel
novembre del 1799, faceva saltare, a San Clodio, dalle finestre i Membri del
Consiglio dei Cinquecento433. Io convocai
l'Assemblea Costituente toscana, perchè delle sorti toscane statuisse nello
spazio di tempo che mi fu dato più breve.
Adesso come, - esclamerà
l'Accusa levando le mani al cielo, - con paziente animo può sopportarsi in
bocca di questo bagnato e cimato prevenuto sì superbo vanto! Possono eglino
questi agnelli toscani paragonarsi co' lupi parigini del 1792? Dove il
coraggio, dove le mani sariensi trovate per far sangue? A diversis non fit illatio. Abbassa le mani, Accusa,
e ascolta: già non sono io che queste cose penso essere state possibilissime
qui; ma tu, che descrivi la
Fazione con tali orribili colori, che se fosse stata composta
di tanti diavoli scatenati dallo Inferno, non avresti saputo e forse nè anche
voluto fare peggio.
Ma io metto, che fosse
mansueta quanto una vergine, eppure anche di questa il buon Parini
filosoficamente poetando insegnò:
«Ahi da
lontana origine
Che
occultamente noce
Anco la
molle vergine
Può
divenir feroce...»
Oppure tu pretendi, o Accusa, la Fazione pusillanime e
codarda? E per questo appunto la si doveva temere spietata. La virtù, che si
esercita gagliardamente contro la resistenza, si arresta dinanzi al nemico
supplichevole di mercede: ma la pusillanimità, per vantarsi, che anch'essa fu
della festa, non potendo mostrarsi nella prima opera, si prende per sua parte
la seconda, che è di sangue, e di strage. I macelli dopo le vittorie
ordinariamente commettonsi dai bagaglioni, e dai saccardi, e la cagione delle
immanità inaudite, per le quali le guerre civili diventano infami, consiste
appunto in questo, che la plebe imbelle gavazza nel tuffare le braccia fino ai
gomiti nel sangue e nel cincischiare un cadavere steso ai suoi piedi, sentendosi
affatto di prodezza incapace:
Et lupus, et turpes instant morientibus ursi,
Et quæcumque minor nobilitate fera est.
Narrano le Storie che Alessandro crudelissimo
tiranno di Fere, mentre si deliziava a ordinare i veri strazii di tante infelici
vittime, non poteva soffrire i finti di Andromaca e di Ecuba rappresentati
sopra i teatri. L'Imperatore Maurizio essendo avvertito in sogno e per altri
prognostici, che un Foca soldato in allora sconosciuto lo avrebbe messo a
morte, interrogò il suo cognato Filippico intorno ai costumi, alla indole, e
alle azioni dell'uomo, ed intendendo com'ei si fosse pauroso e codardo, ne
concluse subito, ch'egli doveva essere ancora omicida e crudele434.
Leggi, Accusa, il grave
De Barante, e t'insegnerà come anche in Francia la sete del sangue a poco a
poco si sparse, e a poco a poco crebbe; saprai che nello esordio della strage
dei prigioni della Badía gli ammazzatori se giungevano ai cinquanta non li
passavano; vedrai come alieni molti di costoro da così immani delitti, al
cessare del delirio che gli aveva invasi, presi da malinconia, agitati da
visioni notturne, diventassero matti; udrai come uno armaiolo, detenuto nel
carcere della Conciergerie, al quale i sicarii fecero patto salvargli la
vita se gli aiutava a scannare, accettasse, ma, dato il primo colpo, gittasse
via il ferro micidiale, e gridato con quanta voce aveva in gola: «Uccidetemi;
io eleggo essere piuttosto vittima che carnefice!» cadesse trafitto martire
della sua umanità435; e se ne avrai voglia,
apprenderai «come dato una volta il segno, e prevalsa la idea che bisogna
sacrificare vite per la salute dello Stato, tutto si disponga a questo atroce
fine con incredibile agevolezza. Ognuno opera senza repugnanza, e senza
rimorso; la gente vi si abitua nel modo stesso che il magistrato a condannare,
il chirurgo a vedere gl'infermi patire sotto i suoi arnesi, il generale a
spingere ventimila uomini alla morte. Viene composto un fiero linguaggio
corrispondente alle opere; e perfino si trovano motteggi e lepidezze per
esprimere idee di sangue. Ciascuno corre strascinato, intronato dal moto
universale; e furono visti uomini, i quali nel giorno innanzi si occupavano
pacifici di arti o di commercio, trattenersi con la medesima facilità di distruzione
e di morte436.» Sicchè per queste e
per altre notizie, tu, se ne avrai talento, potrai, o Accusa, conoscere come un
Popolo lieto, giocondo, amabile, ai sensi di carità di leggieri inchinevole,
religioso così che mediamente ebbe nome di cristianissimo, mutato, in breve
giro di tempo, genio e costume, vincesse d'immanità assai le più feroci belve,
e rinnegasse non solo i riti religiosi, non solo lo Dio dei suoi Padri, ma
tutto Dio, e facendo l'anima morta col corpo, operasse da bruto. Veramente ogni
Popolo presenta una sua speciale fisonomia; però andrebbe errato di molto colui
che presumesse in queste nostre parti occidentali tanto un Popolo dall'altro
diverso che, sottoposti entrambi al medesimo impulso, uno dall'altro, agendo,
differisse; questo starebbe contro il naturale ordine delle cose e contro la
esperienza quotidiana. Nelle medesime condizioni di civiltà tanto più si
livellano i pensieri, gli appetiti e gl'impeti, che anche in condizioni
differenti gli abbiamo veduti procedere a un di presso uguali. Così, a modo di
esempio, nella peste di Milano del 1630 il Popolo ebbe fede alla presenza degli
untori, e furono processati e morti, imperciocchè quale infamia, qual tirannide
e quale errore patirono penuria di Giudici per sentenziare, di Carnefici
per giustiziare? E nella moría del Cholera chi di noi non rammenta avere
udito gente, e non mica di piccola levatura, bensì di ordinario discorso
dotata, affermare che uomini perversi, toccando con arnesi imbrattati, il
mortale morbo trasfondevano? - E mentre questi successi accadevano sotto i miei
occhi a Livorno, non leggevamo di cittadini dabbene precipitati dalla credula
plebe parigina nei pozzi, perchè temuti manipolatori di veleni cholerici?
Qui, come in Francia,
sconfortate le moltitudini e indifferenti, e ce lo racconta la stessa Accusa437; qui la forza pubblica inerte; qui sciolti i
vincoli politici, rilassati i religiosi; qui insomma poteva a buon diritto
ripetersi quello che Garat Ministro dello Interno diceva all'Assemblea:
«Enormezze incomportabili in Parigi quotidianamente commettonsi, e temesi
peggio. La forza pubblica rimane spettatrice inoperosa, e si scusa adducendo
difetto di ordini: intanto, prima che gli ordini arrivino, i perversi ragunano
il Popolo, lo infiammano, lo strascinano, e il male cresce irrimediabile.»
No, - senza supremo di
Dio benefizio, a cui prima dobbiamo grazie infinite, e l'opera di me, fatto
segno di vituperevole guerra, Toscana piangerebbe adesso giorni funesti quanto
quelli che nel 1792 successero in Francia438. Questa è la mia
gloria, e nessuno me la può tôrre. Se in secolo meno tristo io fossi nato, se
fra gente più generosa vivessi, tradotto innanzi al Tribunale avrei detto: «in
questo giorno, e in questa ora le furie rivoluzionarie invadevano la Patria nostra, traendo seco
i mali, che fanno piangere un secolo. Dio aiutando, a me fu dato salvare la Patria. Popolo e
Giudici, che facciamo noi qui? Andiamo in Chiesa a rendere grazie a Dio pel
ricevuto benefizio.»
Queste sono reminiscenze
pagane; oggi i cristiani più civili farebbero condurre Cicerone alle Murate, a
starsi in compagnia con Cetego e con Lentulo.
§ 3. Stato in che mi
trovo ridotto nei giorni 18, 19, 20.
Vedevo imminente formarsi
la tempesta, e attendendo fra tanto pericolo a preservarne lo Stato, il quale
era da temersi che ne andasse sommerso, pensai in primo luogo occupare le menti
col rumore dello apparecchio delle armi, poi nel negozio delle elezioni.
Consideravo così tra me, che scemando i motivi dello ardore, e frastagliandolo
in tanti scopi diversi, poteva sperarsi che quel fattizio impeto per la Repubblica quietasse.
In simile intento nel giorno 17 febbraio, con data del 16, era bandito questo
Proclama, e col Proclama provvedimenti relativi allo scopo del Proclama
consentivo, e ordinavo.
«Toscani!
La nostra bella contrada
si disfà, se quanti hanno cuore italiano non sorgono animosi a salvarla.
Bande di facinorosi col
pretesto della fuga di Leopoldo II, ed anche senza pretesto irrompono al
saccheggio e allo incendio. Il Governo ha represso gli scellerati, e saranno
puniti.
Alcuni soldati figli di
questa terra a noi dilettissima, abbandonavano le bandiere, e con sacrilegio
maggiore disertavano i confini alla fede del sacramento loro affidati. Una cosa
sola conforta l'animo travaglialo, ed è questa, che i più, pentiti, sono
ritornati. Possa in breve un battesimo di fuoco reintegrarli nella pienezza
dell'onore, che non doveva mai rimanere offeso.
Ora corre il momento
solenne. Momento di eterna infamia o di eterno onore. Non sapremo noi spargere
altro che lamenti codardi, e lacrime vane? Vorremo noi offrire di nuovo lo
spettacolo allo straniero di una emigrazione troppo spesso derisa?
No, i mali sono grandi,
ma non minori alla costanza del buon Cittadino. Non è mai lecito disperare
della salute della Patria.
Coraggio! La Legge intorno ai Volontarii
fu pubblicata; breve lo ingaggio, di un anno e un giorno; la ricompensa giusta,
l'onore grandissimo.
Non più parole, ma
fatti. Se trentamila Toscani volontarii non corrono alle armi, chi è quaggiù
che ardirà parlare di Libertà? Se il Popolo sarà pari alle sue promesse, il
Governo non mancherà al suo dovere.
Egli saprà vincere
l'anarchia interna, egli si difenderà aggredito dalle invasioni straniere: farà
quanto Dio e la coscienza gli impongono.
Rammentinsi i tepidi e
gl'infingardi e gl'inerti, che a tale siamo noi che restare è peggiore che
andare, e che il partito più fecondo di mali sta nel non far nulla.
Voi vi ritirate nelle
vostre case, sciagurati! Chi ve le salverà dallo incendio? Voi nascondete il
vostro denaro e lo negate alla voce della Patria! Chi vi difenderà se lo avrete
a dare sotto al bastone croato? Voi pervertite il cuore dei campagnuoli e li
dissuadete dalla guerra! Chi preserverà i colti dalle scorrerie dei cavalli
nemici?
Non ci credete? Guardate
la Lombardia,
e vedrete se questa è verità.
Firenze, li 16 febbraio
1849.»
Mirava ad attirare le
menti commosse verso l'elezioni la
Circolare ai Prefetti, pubblicata nello stesso giorno 17
febbraio.
«Circolare del
Governo Provvisorio Toscano ai Gonfalonieri.
Signor
Gonfaloniere.
Il primo pensiero del
Governo Provvisorio, appena si trovò chiamato ad assumere in momenti così supremi
le redini dello Stato, fu quello di circondarsi di un'Assemblea Nazionale, onde
la volontà del Popolo avesse tutto il suo peso nel Governo del Paese.
Così fosse stato
nell'umana potenza, come era nel desiderio dei Cittadini che governano,
improvvisare all'istante un'Assemblea Nazionale! Ma volendo far tutto che era
umanamente possibile per affrettarne la convocazione, fu dettato un Regolamento
nel quale, piuttosto che a giorni, ad ore, vennero misurate le operazioni
elettorali.
Infatti per la preparazione,
formazione, correzione e pubblicazione delle liste, fu imposta una
sollecitudine per la quale si richiede tanta alacrità nei Parrochi e nelle
Autorità Municipali, che solo la gravità dei tempi fa sperare secondata da
tutti. Le ulteriori operazioni fino alla convocazione delle Assemblee
Elettorali, e le successive, fino alla proclamazione dei Deputati di che parla
l'Articolo 39 del Regolamento de' 13 corrente, sono così compendiate nel tempo
che il Governo le ordinò, non senza tema che fossero giudicate impraticabili.
Non si ebbe riguardo a sacrificare il ricorso, che in tempi ordinarii non
avrebbe potuto negarsi, contro le risoluzioni dei Prefetti in domande di
rettificazione di liste; e per le trasmissioni di carte da luogo a luogo, si
fece conto che le Autorità interessate non avrebbero profittato dei modi di
ordinaria corrispondenza comunque spedita, ma avrebbero, come debbono usare,
mezzi al tutto straordinarii di più celere comunicazione.
Signor Gonfaloniere!
all'Autorità Comunale, a Voi, è specialmente affidata l'esecuzione del Decreto
Elettorale: da Voi specialmente dipende che il 15 marzo tutti gli Eletti del
Popolo sieno in solenne convegno attorno al Governo Provvisorio. Gli indugi
toscani non sieno più che una memoria. Pensate che il Paese vi guarda ed
attende. Studiate in precedenza tutto il meccanismo del Regolamento, onde non
vi sorprenda dubbio nel momento dell'azione: e quando sentiate bisogno di
alcuna dilucidazione, chiedetene per tempo ai Prefetti, a Noi.
Le operazioni elettorali
sono una catena. Se un anello non corrisponde, la macchina si ferma. E la
macchina deve andare a ogni costo.
Li 16 febbraio 1849.»
Sembra che il sospetto
di trovarsi prevenuti, consigliasse i Congiurati ad anticipare, non aspettando
che da tutti i paesi, come avevano disegnato, giungessero genti a Firenze.
Verso le ore sei pomeridiane del 17 febbraio, ecco arrivarmi da Livorno questo
Dispaccio.
«Pigli a Guerrazzi.
Poco fa ha avuto luogo una
dimostrazione numerosissima con cartelli e bandiere, per chiedere la pronta
Unione con Roma. Sono stato costretto a parlare. Ho promesso informare il
Governo senza promettere niente; mi sono limitato a lodare la Repubblica Romana.
Credo sapere che domani si porteranno costà Deputazioni di tutti i
Circoli, per chiedere quanto sopra439.»
Accorto da qual parte
spirava il vento, e avendo oggimai conosciuto, che del Governatore non mi
poteva fidare, spedisco senza mettere tempo fra mezzo il mio familiare Roberto
Ulacco, e credo averlo fatto accompagnare da Emilio Torelli con lettere
urgentissime pel signor Dottore Antonio Mangini, persona a me aderente, e
preposta ai miei negozii in Livorno; con queste lettere gli commetteva, che col
Gonfaloniere si accontasse, e palesatogli il mio concetto, facessero opera
insieme presso gli amici, affinchè il disegno dei partigiani della Repubblica
non avesse seguito. Spediti i messaggeri, per mezzo del telegrafo ammoniva il
Gonfaloniere in questa sentenza:
«Il Presidente del
Governo Provvisorio al Gonfaloniere di Livorno.
Il Dottore Mangini a
questa ora deve avere una nota del concetto del Governo. Dovrebbe fare un
Proclama. Se non lo ha fatto, sollecitalo. La condizione nostra è piena di
pericolo. Il Paese sta sopra un filo di rasoio. Quello che importa, è, che
corrano alle armi. L'anno e un giorno è una formula; assicura che lo ingaggio
sarà per un anno fisso. Qua abbiamo mille Volontarii, - domani speransi
duemila. Livorno sarà minore di Firenze. Vergogna, vergogna.
«Febbraio 17, ore 10,
min. 20 pom.440»
Questo pericolo nostro,
o piuttosto mio, consisteva nel presagio d'impotenza a resistere allo sforzo
repubblicano; l'oscillazione del Paese sul filo del rasoio riguardava la quasi
sicurezza, che, attesa la inerzia dei più, sarebbe stato stravolto dalla
Fazione audacissima. Consultato adesso da me il signore Mangini intorno ai
fatti di cui fu parte, risponde nella guisa che sarà esposta fra poco. Importa
intanto considerare, come, dalle carte raccolte nel Volume dell'Accusa
resultando la notizia data al signor Dottore Mangini del mio concetto intorno
ai successi del tempo, il suo possesso di una mia nota per compilarvi sopra un
Proclama, e la raccomandata conferenza in proposito col signor Gonfaloniere di
Livorno, nè l'uno nè l'altro sia stato su questo punto ricercato; però se
importava considerarlo, non deve recare maraviglia alcuna, dopo averlo
considerato. L'Accusa, che nel suo ufficio ravvisa un duello da combattere,
s'ingegna con tutte le arti a facilitarsi e ad assicurarsi la vittoria.
La gran bontà dei
cavalieri antiqui
stava bene appunto fra i cavalieri antiqui; gli Accusatori di siffatte cortesie
non sanno o non curano; e' vogliono sgarire ad ogni modo; e a questo scopo
intendendo essi, quanto offende raccolgono, da quanto difende aborriscono.
Non racconto novelle, ma
cose che io stesso vidi. Fu già un uomo di cervello balzano, a cui venne in
testa di fare raccolta di cornici; empito che n'ebbe un magazzino, cangiata
voglia, si dette a comprare quadri e ad accomodarli dentro di quelle. Ora
accadeva sovente che i quadri non capissero nelle cornici, di che il buono uomo
punto si turbava, ma tagliato quel tanto che sopravanzava ce li faceva entrare
di santa ragione. Così tagliò fin quasi ai ginocchi un quadro giudicato di
Rubens, che rappresentava il caso della coppa di Giuseppe rinvenuta nel sacco
di Beniamino, il quale, rimasto nella mia Patria, rende perpetua testimonianza
della barbarie dell'uomo. L'Accusa, non so se abbia comprata da altri, o se
abbia fabbricata con le sue mani una cornice; fatto sta, che ha preso
testimonianze e documenti, e ce gli ha provati; quei, che a parere suo
c'incastravano, ella ve gli aggiustò con amore; a quelli che non v'incastravano
ha tagliato inesorabilmente le gambe ribelli.
Ecco come scrive il
Dottore Antonio Mangini: «Nel giorno successivo all'Adunanza del 16 febbraio,
per mezzo di Roberto Ulacco, da lei specialmente ed appositamente inviato,
ricevei una lettera urgentissima, nella quale accludendomi un lungo scritto
tendente a dimostrare la inopportunità della Unione con Roma, e della
proclamazione della Repubblica, mi commetteva lo pubblicassi a modo di
Proclama, e per tal modo ne rendessi convinti i Circoli, e il Popolo di
Livorno. Comunicai questo scritto al Dottore Mugnaini, a cui restò. Questo
Proclama era intempestivo, perchè veniva dietro la deliberazione presa. Non
ostante questo, il Dottore Mugnaini voleva servirsene nel miglior modo
possibile. Immantinente conferii col Gonfaloniere Fabbri, il quale conobbe essere
impossibile arrestare la opinione prevalente. Nulladimeno, mi promise
intervenire la sera al Circolo, dove dovevano essere eletti i Membri componenti
la Deputazione
del Circolo Politico, che doveva partire per Firenze la domenica mattina
successiva. Infatti il Fabbri intervenne al Circolo, ma indarno: non prese
parola, perchè non vi fu discussione, essendo partito già preso; e indarno il
Dottore Mugnaini volle opporsi, e con esso altri pochi. La domenica a Firenze
avvenne quello che a tutti è noto. Interpellato oggi il Dottore Mugnaini per
lettera, ha convenuto essere rimasto a lui quel Proclama, ma dichiara non
averlo più trovato, e probabilmente essersi perduto fra moltissimi altri suoi
fogli. Questi sono i fatti di cui sicuramente mi ricordo.»
Mentre ingrossano senza
riparo le turbe nella Capitale per proclamare la Repubblica, e mentre
qui stanno tali, di cui Europa armata anche adesso paventa, per condurle, ecco
cadere, non come favilla no, ma come folgore sopra le polveri incendevoli, la
notizia: il Generale De Laugier essersi dichiarato contro al Governo
Provvisorio; abbandonata la custodia delle frontiere, muovere contro la Capitale; avere sostenuto
il Delegato Regio Conte Staffetti; minacciare fucilazioni e stato di assedio;
percorrere le vie con sembianti terribili, e finalmente avere pubblicato il
seguente Proclama:
«Toscani!
Il nostro amato Sovrano
Costituzionale Leopoldo Secondo si degna avvertirmi:
I. Non avere mai
abbandonato la Toscana,
perchè rimasto sempre in questi pochi giorni a Santo Stefano con Guardie
d'onore inglesi.
II. Nell'allontanarsi
da Siena aver nominato un Governo Provvisorio.
III. Aver proibito
alle Truppe di sciogliersi dal Giuramento.
IV. Essere Egli sempre l'ardente
amatore della Libertà e dell'Indipendenza Italiana.
V. Ordinarmi quindi
richiamar tutti alla fedeltà e al dovere, ripristinare l'ordine e la quiete.
Le Truppe Piemontesi, in
numero di 20,000 uomini, passare adesso le frontiere per sostenerlo.
VI. Essere conservati i
gradi nella Milizia stanziale.
VII. Perdono ed oblio
per tutti, meno per quelli, che dopo questo Proclama tentassero di fare
spargere una sol goccia di sangue cittadino.
In Massa, li 17 febbraio
1849.
Viva
Leopoldo II Principe Costituzionale.
Viva la Libertà.
Viva la Indipendenza Italiana.
Il Generale - De Laugier.»
Altre voci succedono
mescolate, siccome avviene, di vero e di falso, esagerate dalla fama, dalla
rabbia e dalla paura: il Generale levare di Lunigiana artiglierie e milizie; abbandonare
la frontiera indifesa alle invasioni nemiche; avere stracciato gli avvisi del
Governo Provvisorio, posta Pietrasanta in istato di assedio441.
Concionatori su le
piazze crescevano legna al fuoco; era da per tutto tremendo anelito e delirio
furente; immensi urli gridavano traditore De Laugier, Repubblica, morte ai
nemici del Popolo; i sospetti si arrestino, le porte chiudansi, le case si
perquisiscano; se il Governo vuol fare queste cose lo soccorreranno, se si
rifiuta lo metteranno in pezzi, e faranno da sè; e questo sarebbe il meglio,
perchè ormai, e si era visto a prova, il Governo non sa camminare con passi
rivoluzionarii, verso i nemici della Patria procede con indulgenza colpevole,
tepido poi si mostra e incapace degli estremi partiti; e questi abbisognare
adesso, e questi ad ogni modo volere. Più che mai ardenti e minacciosi
tornavano ai rimproveri avventati contro me fino dai primi giorni di febbraio442.
In quel giorno i
Settarii andavano insinuando malignamente parole mortali contro il Governo
Provvisorio, o piuttosto contro di me: «già la calunnia investe i nomi
rispettabili dei componenti il Governo Provvisorio; già i reazionisti esitanti
fino all'ultimo momento a mostrarsi a visiera alzata, susurrano iniquamente gli
uomini del Governo nostro temporeggiare per concerti fraudolenti col despota
piemontese, insinuano volere essi conservare lo Stato allo austriaco
Leopoldo, e, senza compromettere sè stessi, lasciare che il loro Partito si
comprometta, e si perda443. Così fingevano
compiangere i mali, che eglino stessi seminavano: lacrime di coccodrillo erano
coteste. Ed in quel giorno G. B. Niccolini strillante come uccello del malo
augurio, più spesso che mai avesse fatto, andava urlando dintorno: «Giù il
Guerrazzi dalle finestre, e chiunque si oppone!» Incominciava per costui a
diventare idea fissa quel mandarmi capovolto dai balconi del Palazzo;
nonostante questa ed altre tali tenerezze, l'Accusa ritiene, che il Niccolini
«continuò a godere, almeno per certo tempo, come in avanti, della confidenza e
intimità dei Triumviri, non escluso il Guerrazzi!»
La fiumana, rotti gli
argini, allaga; la
Repubblica in mezzo a fremiti è bandita, il Principe si urla
decaduto, chiamato a morte De Laugier, l'Albero... ma che parlo io di Albero?
una foresta di Alberi sorge su per le piazze e pei crocicchi di Firenze; e non
solo la Repubblica,
la Decadenza
del Granduca, la Unione
immediata con Roma, e la morte del Generale De Laugier si urlano, ma si
riducono in Plebisciti.
Dall'alto dei balconi
del Palazzo Vecchio vedevamo quel mareggiare di teste in burrasca, e udivamo
cotesto inferno di gridi, Sir Carlo Hamilton ed io; e lo interrogava dicendo:
«Ora come potrò resistere? Ah! fui gittato come uno schiavo alle fiere.»
Ed egli, fieramente turbato: «Cedete su tutto, ma salvate la vita e le sostanze
dei cittadini.»
Quando il Popolo irruppe
allagando camere e sale, ed io solo nel vano di una finestra (al salto
periglioso eravamo vicini, e il caso di Baldaccio dell'Anguillara mi traversava
la mente), con ragioni, con preghiere, con rimproveri, e finalmente con arguzia
potei schermirmi da cotesti furiosi, dovevano venirmi a canto i Giudici. Allora
avrebbero veduto e sentito se incitai i Popoli, o se con pertinace resistenza,
che a Dio piacque benedire, li contenni. Allora avrebbero inteso quali fieri
accenti scambiassi con Giuseppe Mazzini, che delle parole dette a Livorno
non voleva più sapere, e la
Repubblica pretendeva, e subito s'instituisse; i quali,
comecchè pronunziati nello impeto della passione, non è bello nè onesto
riferire. Se in quel giorno i Giudici e gli Accusatori che fin qui mi stettero
schierati di contro fossero stati fra i difensori dell'ordine al fianco mio, il
giorno 18 febbraio così si sarebbe loro scolpito nel cuore, che forse avrebbero
sentito vergogna di affermare, che alla proclamazione della Repubblica mi
opposi soltanto dopo la disfatta di Novara. Ma dei miei Giudici e dei miei
Accusatori fin qui non fu istituto difendere, bensì offendere; e
tutto il mondo, non dubitino, di ciò si è accorto da buona pezza di tempo.
Però, se cotesti Giudici e cotesti Accusatori non vi erano, vi ero io, e vidi
intorno a me, soldati dell'ordine, il Gonfaloniere Peruzzi, il Generale
Zannetti e quello Adami che osarono processare, e Romanelli e Franchini che
ardirono accusare, ed altri parecchi cittadini onoratissimi i quali con la
vista e con la voce mi confortavano a durare cotesta lotta mortale.
L'Accusa, cui sembra
poca cosa differire, può intanto conoscere che per essere state differite in
quel giorno la decadenza del Principe e la proclamazione della Repubblica, nè
allora nè poi furono atti compíti cotesti.
Sentiamo adesso come ha
coraggio incolpare l'Accusa. Il Decreto del 10 giugno, e con poche varianti sul
medesimo tema il Decreto del 7 gennaio, e l'Atto di Accusa del 29 gennaio 1851,
sostengono, la Spedizione
armata volta verso Lucca essere in gran parte composta della gente
straniera, la quale allora infestava il Paese: guidandola io, avere
incusso da per tutto paura d'incendio e di saccheggio alle campagne che la
impresa del Laugier e la causa del Principe si fossero attentate a favorire:
Laugier da me con Decreto messo fuori della Legge, e da me costretto
a rifuggirsi, quasi solo, in Piemonte, abbandonato dalle sue milizie per
opera nostra spaventate e corrotte.
A Cesare De Laugier mi
legava amicizia antica; e veramente la meritava, come quello che dell'onore
italiano si mostrò tenerissimo sempre. Di questo fanno fede le opere che, con
lungo studio, dettò sopra i gesti degli Italiani in Ispagna e in Russia (dove i
nostri soldati combatterono per le glorie di un Popolo, a cui, almeno per ora,
non piacque porre la gratitudine nel novero delle virtù che gli fanno corona),
e il desiderio di accendere dalle scene, scuola vecchia di vizio e di viltà,
con drammi guerreschi la mente dei giovani alla milizia. Egli procurò rendere
popolare in Toscana la storia dei fatti di arme pei quali suonò onorato il nome
degli esuli italiani su le remote spiaggie di Montevideo; e primo scrisse
erudimenti per la milizia cittadina, ahimè! staccata acerba dall'albero dove
avrebbe maturato rigogliosa e salutare. Per queste e per altre cagioni erami
caro Laugier: egli pertanto scrivendomi, con lodi che mi parvero troppe,
intorno al Decreto del 9 febbraio sul giuramento delle milizie, ammoniva mal
consiglio essere stato quello di sciogliere le milizie dal giuramento, però
che, già troppo inferme, per lo sciogliersi anche di cotesto vincolo sarebbonsi
per avventura sbandate; i soldati avere già balenato con pessimi segni, più
tardi avrebbe saputo ridurli al fine commessogli; lasciassi fare a lui, che
egli gli avrebbe col tempo ridotti. Così egli scriveva a me; quello che al
Ministro della Guerra scrivesse, ignoro; questo chiariranno gli Archivii del
Ministero. Io gli rispondeva dandogli ragione, ed esponendogli come il Decreto
fosse stato impresso nel Monitore senza la mia firma, anzi contro il mio
consenso. Potrei io invitare Cesare De Laugier, a nome della verità, di
ritornarmi, almeno in copia certificata conforme, la mia lettera? Diligente
conservatore delle sue carte io so il Generale, ed egli in parte la citò nella
sua relazione da Sarzana: giustizia vuole si conosca intera.
Della improvvisa mossa
del Generale De Laugier tanto maggiormente io mi ebbi a restare sorpreso, in
quanto che nel giorno stesso in cui egli muoveva con le sue forze contro lo
interno del Paese, nel 17 febbraio, mandava al Ministro della Guerra: «Tenere
bene le frontiere guardate; dove occorresse, farebbe il suo dovere di soldato444.»
Ora questa amicizia con
Cesare De Laugier mi tornava funesta; tale non gli fu, nè gli sarebbe mai stata
la mia; i miei avversarii cominciarono a susurrare prima, e poi dire alla
scoperta al Popolo febbricitante: «Ora vi siete chiariti? Non vel presagivamo
noi? Sotto i governativi languori non covava la trama? Guerrazzi del traditore
Laugier è amico antico; in ogni occasione tolse sempre le sue parti, così a
Livorno come qui a Firenze, e sempre; seco lui tiene corrispondenza segreta;
per certo di questa infamia egli era a parte, forse macchinata e condotta da
lui. Quest'uomo non si mostrò propenso alla Repubblica mai; ed ora chi è che
l'avversa? Forse non egli solo? Perchè, con quale intento le insorge egli
contro? Chi non è con me, è contro me; e questo, io vo' che sappiate, ha detto
tale che non può fallare. Che cosa significa questa tenerezza di conservare
intatti i regii ostelli? Ha paura che noi li guastiamo? E di ciò a lui che ha
da calere? Quali pensieri del Rosso sono questi suoi? Non sono eglino roba nostra?
e se li guastiamo, dovrà egli risarcirli a sue spese? Inoltre, noi sappiamo, e
ve ne abbiamo avvertito le mille volte, che il Guerrazzi se la intende di lunga
mano col Ministro Gioberti per farci venire i Piemontesi in casa. Quel
benedetto Montanelli, piuttosto che chiamare intorno a sè il Guerrazzi, faceva
meglio a mettersi l'esca accesa negli orecchi. Ancora, udite, e questa è prova
espressa contro la quale non ci è da ripetere; noi sappiamo il Guerrazzi avere
mandato tutti i suoi bauli a Livorno, e con essi la famiglia, tranne il nipote
e un familiare rimasto ammalato; ora che cosa significa fare bauli? - Significa
che l'uomo si apparecchia a viaggiare: egli dunque tenta fuggire; egli fugge;
egli è traditore.»
Deh! Non fate le
meraviglie se il Popolo armeggiasse in siffatta guisa; per avventura abbaca con
miglior senno o con più coscienza la gente che tira salario a posta per
ragionare? Almeno il Popolo dice le sue sciocchezze gratis.
E badate, queste voci,
comecchè triste, pure avevano in sè qualche fondamento di vero, consistendo
appunto la calunnia nell'arte di mescere il vero col falso. Vera la relazione
antica col De Laugier; vero il mio pronto sostenerlo in parecchie occasioni
tanto in Livorno che in Firenze; a Livorno, in ispecie, quando nelle feste del
settembre 1847 la milizia uscì fuori armata, mentre, per quanto si asseriva,
egli aveva promesso mandarla fuori senz'armi, e non era vero; a Firenze, quando
mi mandò un suo segretario affinchè mi adoperassi a fare approvare la sua
condotta al Consiglio Generale, la quale venne amplissimamente approvata; vero
lo invio delle valigie e di tutta la famiglia a Livorno, tranne il nipote che
meco venne a Massa; vero che, temendo prossimi i tempi, dai quali la mia anima
rifugge, avrei preferito morire nel tentativo di fuga, che vivere in terra
insanguinata445. Stampavasi in
Piemonte, e pubblicamente dicevasi, avere io domandato lo intervento delle
milizie piemontesi a Vincenzo Gioberti; ed era vero all'opposto avergli
scritto, a mediazione dell'amico Pasquale Berghini, lettere ortatorie onde nol
consentisse: nonostante per siffatto modo si dilatò la voce, che io ebbi a
smentirla nel Monitore del 13 marzo 1849: «Brevi parole e schiette. Da
Torino mi giungono notizie che il signor Vincenzo Gioberti va susurrando avere
io domandato lo intervento piemontese. Dove ciò fosse vero, dovrei dichiarare
il signor Gioberti mentitore, e gli raccomanderei a rammentarsi che gli uomini
pubblici devono cadere con dignità. Però, in questi tempi copiosi di vani
romori, spero che le notizie pervenutemi ritengano appunto siffatta natura.
Nonostante giovi ad ogni buon fine questa mia dichiarazione,»
Nel Messaggere
Torinese del 14 marzo si leggeva: «Vediamo con piacere le imprecazioni (del
Gioberti contro di me), perchè i nuovi fautori del Gioberti si affannavano in
Piemonte a sparger voce che il toscano intervento fosse concertato col
Guerrazzi, voce che, per quanto combattuta dagli amici del prigioniero di
Portoferraio, andava acquistandosi qualche credito.»
Nè già si creda che
fossero nuove queste notizie; al contrario, esse avevano incominciato a
circolare fino dal novembre 1848, come occorre nel N° 30 novembre del Monitore:
«Nel Corriere Mercantile del 28, sotto la rubrica di Genova 27 novembre,
si legge, che in quella mattina partirono sul Vapore San Giorgio 350
soldati delle riserve piemontesi chiamati in Toscana, a quanto si dice, dal
Ministro Guerrazzi.»
E fu smentito; ma la
calunnia è un'acqua torba, che, per chiarire che si faccia, lascia sempre la
posatura in fondo; almeno così insegna Don Basilio, nell'arte del calunniare
professore solenne.
Alla fine il Popolo
sconvolto si avventò con le sue ondate contro i gradini del Palazzo Vecchio,
fremendo ed urlando: «Il Guerrazzi fugge - è fuggito - è traditore.»
Hanno mai provato i miei
Giudici il Popolo quando viene in siffatto arnese a visitarvi a casa? - Se lo
avessero provato, se anche veduto, o se almeno fattoselo raccontare, io quasi
quasi mi persuado che non avrebbero scritto la coazione poca, o nulla, o
esclusa dai primi atti co' quali, e ne' quali, ec., come in altra parte
fu detto.
E gli urli mi percossero
nella mia stanza, dove stavo di corpo infermo, e della mente peggio, però che
quel contendere ogni momento la fama e la vita, è tale martirio che logora viscere
di bronzo. Qui non vi era tempo da perdere. Se il Popolo tornava imperversando
nell'ostello già violato, mi lacerava di certo; risolvei, per subita
ispirazione, andare contro lui. Presi (nè so bene il perchè, non potendo l'uomo
negl'improvvisi moti dell'animo rendere ragione a sè stesso dell'operato) uno
squadrone, e correndo giù per le scale mi presentai al Popolo dicendo: «Chi è
che mi accusa di tradimento? Io non fuggo, chi ha cuore mi seguiti446.»
Il Popolo brontolando si
acquietò alquanto; ed ecco come mi trovai sospinto a partire per Lucca. Così i
Francesi sospetti, nella prima Rivoluzione, riparavano al campo per sottrarre
il capo alle parigine stragi.
E avvertite che appena
uscito da Firenze, o sia che per le relazioni dello Inquisitore, che mi
avevano messo al fianco, della mia fede dubitassero, o sia che per sospetto
spontaneo le consuete ubbie riassumessero; fatto sta, che allo improvviso mi
giunse dietro per staffetta il richiamo: al quale, non senza sdegno,
rispondendo io per via telegrafica da Lucca il 22 febbraio 1849 diceva: «Non
posso partire di qua senza vergogna, e senza
che mi si dicano le ragioni della chiamata447.» L'Accusa fra i suoi Documenti riporta un
conto dell'oste Bordò pel Niccolini, e da cotesto conto appunto si conosce
ch'egli meco non venisse, nè io meco lo conducessi, imperciocchè se fosse stato
del mio seguito nei miei quartieri e non altrove avrebbe albergato, alla mia
mensa, e non a quella dell'oste, seduto448. L'Accusa, inoltre,
cita ricavandone motivo a mio danno l'espressioni contenute nel Dispaccio
spedito da Massa il 23 febbraio 1849, le quali dichiarano: «Ho servito
fedelmente, e lo dico con franchezza, il Principe Costituzionale: servirò con
uguale fedeltà il Popolo, non ne dubitate449.» Queste parole
testimoniano aperto com'io venuto in sospetto m'ingegnassi inspirare la fede
che meritavo; come ai miei stessi Colleghi, che di me, non pur gli atti, i
pensieri conoscevano, la mia devozione religiosa agli interessi del Principato
Costituzionale contestassi, e finalmente, e di ciò mi onoro, che con zelo e
sagrifizio pari mi sarei, siccome invero mi sono, consacrato agl'interessi del
Popolo, per liberarlo a un punto dagli scellerati furori degli anarchici, e dei
reazionarii.
Ma i Giudici appongono:
tutto questo è nulla; il Guerrazzi aveva detto non avere paura, dunque non la
doveva avere, e poteva resistere al Popolo in tutto e per tutto.... A simili
opposizioni, le quali riesce giudicare impossibile se patiscano maggiore il
difetto di discernimento, o quello della riconoscenza, comecchè grandissimi
entrambi questi mancamenti appariscano, io mi sono confessato e mi confesso
stremo di difesa.
Oltre le ragioni a me
speciali, stranissima (e potrei dire stupida) cosa è supporre che uomini di
carne avessero potenza di resistere a tutto, in mezzo a così orribile
trambusto, e rifiutare la sanzione al Plebiscito, che Laugier traditore della
Patria dichiarava, mentre io riusciva a evitare l'altro relativo alla decadenza
del Principe, e al bando della Repubblica. Stranissima e stupidissima cosa è
supporre, che il Governo potesse astenersi da ordinare una Spedizione, che
Popolo armato, e gente accorsa da più parti, non che di Toscana, d'Italia,
imperiosamente imponevano. Qui non sovveniva ripiego di sorta; non si potevano
opporre qui le teorie dai Repubblicani predicate, nè le promesse dai medesimi
fatte poco anzi; non giovava addurre la necessità di consultare il Popolo;
bisognava ed era prudente obbedire, avvegnachè, se per una maggiore resistenza
avessero rotto l'ultimo freno, che cosa mai sarebbe accaduto di me? Dichiarato
traditore, sarei stato messo in brani a furia di Popolo. - Questo c'importa
poco, avvertiranno i miei Accusatori; ed io dirò: in fede di Dio voi parlate
discretamente, perchè davvero trovarmi straziato dal Popolo, o da voi, potrebbe
parere lo stesso, dove non pensassi che il Popolo si ravvede sempre, e piange,
e voi non vi ravvedete, nè piangete mai; ma se non per pietà altrui, per voi
medesimi almeno avrebbe dovuto premervi, che il Paese non venisse in balía di
chi esaltava per santo qualunque partito, per istrascinare il Paese alla
Repubblica, e danari dov'erano voleva arraffare, e dei sacri argenti spogliare
le Chiese, e tribunali rivoluzionarii istituire, e rivoluzionarii eserciti
disegnare, e impiegati sospetti e traditori non pure destituire, ma ammazzare450: avrebbe dovuto, sciagurati, premervi che lo
Stato non cadesse nelle mani di chi esultava nella prossima strage, il
sangue con aperte narici quasi bestia feroce fiutava, le strade con un
battesimo di sangue cittadino intendeva purificare. E sì, e sì, che queste cose
con le proprie mani avete raccolto, e co' vostri occhi avete letto come i
Faziosi cospirassero a imporre silenzio perpetuo agli avversarii loro; e
sì che avete provato, come già voi stessi di contumelie e improperii
vituperassero, e con più disonesto attentato manomettessero. Ora io vi domando,
perchè dal nuovo pericolo percossi vi rivolgeste a noi, e ci chiedeste
protezione? Se voi estimaste che la mala turba fosse aizzata per noi, o con
qual senno o consiglio a noi vi raccomandaste? Voi mi credeste custode allora
della civiltà toscana; e voi credeste, che avrei voluto e potuto difenderla.
Ditemi, non vi difendemmo noi? Si tacque forse la nostra voce? A procurare
tostano castigo dei colpevoli non fummo solleciti noi? Noi dalla rivoluzione vi
difendemmo; come mi avete difeso voi dalla reazione? Io non parlo di altri;
parlo di voi, i nomi dei quali ho letto sotto i Decreti e le Requisitorie
compilate fin qui; e a voi rivolgendomi dico, che per onore vostro avreste
dovuto continuare a credere oggi come credeste allora, e che me in voi stessi
avreste dovuto rispettare.
§ 4. L'Accusa non sa
leggere.
Il Decreto della Camera di
Accuse del 7 gennaio 1851, firmato da Giuseppe Orsini, Giovan
Battista Aiazzi e Luigi Pieri, il quale ne fu relatore o compilatore,
come si abbia a chiamare, a pag. 88, § 32, dice in questa maniera:
«Il De Laugier con
Decreto del giorno successivo (18 febbraio 1849), firmato dal Guerrazzi e
dal Mordini, fu posto fuori della Legge come Traditore della Patria, e
vennero dichiarati ribelli i soldati che l'obbedivano.»
Nel Volume che serve di
fondamento all'Accusa, a pag. 838, cotesto Decreto occorre riportato, e dice in
quest'altra:
«Il Governo Provvisorio
toscano
Considerando, che il
Conte De Laugier col suo Proclama del 17 corrente si è fatto eccitatore della
guerra civile;
Considerando, che il
Governo Provvisorio toscano legittimamente costituito dal Popolo mancherebbe a
sè stesso, e al debito che egli ha di tutelare la vita e gli averi dei
cittadini, se non facesse alla colpa succedere immediatamente la pena; ha
decretato e decreta:
Art. 1. Il Conte De
Laugier è dichiarato traditore della Patria, e come tale posto fuori della
legge.
Art. 2. I soldati
tumultuanti sono dichiarati ribelli.
Art. 3. I bassi
uffiziali, che rimarranno fedeli terranno il posto immediatamente superiore a
loro, occupato dagli uffiziali traditori.
Il Ministro Segretario
di Stato pel Dipartimento della Guerra è incaricato della esecuzione del
presente Decreto.
Dato in Firenze questo
dì diciotto febbraio milleottocento quarantanove.
G.
Mazzoni
Presidente del Governo
Provvisorio toscano.
Per il Ministro Segretario
di Stato pel Dipartimento della Guerra,
Il Ministro Segretario
di Stato
pel Dipartimento degli
Affari Esteri,
A.
Mordini."
Fui indiscreto io, se a
giudicare di me pretesi Giudici che sapessero leggere? - Tremendi diritti mi
somministrerebbe la Difesa,
ma carità di Patria mi prega che io chiuda in cuore il giustissimo sdegno, e mi
taccia.
§ 5. Della lettera
del 19 febbraio 1849 indirizzata al Pretore del Porto Santo Stefano.
La Requisitoria del
Regio Procuratore generale, a pag. 126, afferma essere stata questa lettera dal
signor Marmocchi composta sopra minuta o appunto del Guerrazzi.
Il Decreto della Camera di Accuse, a pag. 87, aggiunge, che per essa lettera non
si deponeva punto il pensiero della cacciata del Principe. Ecco la lettera:
«Cittadino
Prefetto.
I provvedimenti da voi
adottati, dopo le notizie delle quali avete informato questo Ministero col
foglio vostro in data del 17 stante, non possono non rimanere pienamente
approvati. - Noi corriamo alla frontiera dalla parte di Massa. Colà urge il
pericolo. Leopoldo penso che attenda a fuggire. Voi intanto mandate a
Orbetello, Massa, S. Filippo, e Rocca S. Caterina. Il Pretore di San Stefano si
porti dal Granduca, e gli dica, che il Governo, eletto dalla Assemblea e dal
Popolo, gli partecipa che la reazione non può avere luogo; che la sua presenza
ecciterà, come ha eccitato, qualche facinoroso al delitto; che è indegno di
Principe cospirare a turbare l'ordine, che dice raccomandare.
La Nazione
giudicherà di Lui come Sovrano. Il Pretore faccia il suo dovere; se non può
farlo, protesti all'Ammiraglio, che con la minaccia dei cannoni inglesi
s'impedisce il Magistrato ad eseguire gli ordini del Governo. E vi saluto.
Li 19 febbraio
1849."
Prima di tutto, come
possa da uomo di mente sana conservarsi il concetto di cacciare via tale,
ch'ei pensa in procinto di partire, è per vero dire uno dei tanti
prodigi di ragionamento, che l'Accusa ci abituò ad ammirare senza insegnarci,
almeno per ora, ad intendere. Io poi ho serbata a questa sede del discorso la
lettera del 19 febbraio, perchè l'attenzione del lettore si fermi a
considerare il tempo e lo stato delle cose in cui fu dettata.
Ora è da sapersi come il
signor Gustavo Mancini con Dispaccio del 12 febbraio 1849, in assenza del Prefetto di Grosseto, domandasse le
istruzioni, e come dopo cinque giorni il Prefetto medesimo, non le
vedendo comparire, per averle insistesse. Dunque da ciò si rende manifesto,
come io da ben sette giorni mi andassi indugiando a rispondere intorno
al Granduca, però che scrivere spontaneo cosa che gli tornasse spiacente io non
voleva, e cosa che a me e ad altrui nuocesse io non poteva. Giunto a Firenze
nel giorno 18 febbraio il Dispaccio nel 17 mandato da Grosseto,
che instava, affinchè al Pretore del Porto San Stefano le istruzioni domandate
fino dal 12 del mese stesso si mandassero, il signor Marmocchi, il quale
esercitava allora l'ufficio di Ministro dello Interno, meco per certo ne avrà
conferito, e con altrui. Nel Volume dei Documenti occorrono di mio carattere
due scritti relativi a questa lettera: il primo veramente è appunto come per
ordinario ponevo nel margine dei Dispacci, contenente il concetto della
risposta, che si doveva fare; il secondo è copia precisa della lettera mandata.
Lo appunto dichiara:
"Le istruzioni furono date. Se S. A. ama, come dice, il Paese, repugna
alla dignità e lealtà sue rimanere in parte ove serve di bandiera alla guerra
civile. Rammenti, che la situazione attuale del Paese fu creata da lui, non già
dal suo Popolo innocentissimo451."
La copia della lettera
del 19 febbraio suona in diversa guisa: "Approvansi i suoi
provvedimenti. Noi corriamo alla frontiera dalla parte di Massa. Colà urge il
pericolo. Leopoldo penso che attenda a fuggire. Mandi a Orbetello, a Massa, San
Filippo, e Rocca Santa Caterina. Il Pretore di Santo Stefano si porti dal
Granduca, e gli dica, che il Governo, eletto dalle Assemblee e dal Popolo, gli
partecipa che la reazione non può avere luogo; che la sua presenza ecciterà,
come ha eccitato, qualche facinoroso al delitto; che è indegno di Principe
cospirare a turbare l'ordine, che dice raccomandare. La nazione giudicherà di
lui come Sovrano. Il Pretore faccia il suo dovere; se non può farlo protesti all'Ammiraglio,
che con la minaccia dei cannoni inglesi s'impedisce il Magistrato ad eseguire
gli ordini del Governo452."
Ora parmi chiaro, che
meco conferendo e con altri il Ministro dello Interno ricevesse commissione di
comporre il Dispaccio dietro le traccie dello appunto trascritto sopra la
lettera del signor Mancini del 12. Questo naturalmente successe nelle
prime ore del giorno 18, dopo lo arrivo della posta. I casi avvenuti in
cotesta fiera giornata, le ardenti accuse mosse contro il Governo di avere con
negligenza colpevole somministrato motivo alla guerra civile, e la necessità di
difenderci all'uopo da persone, che si erano arrogate il diritto di sorvegliare
i nostri atti, i nostri moti di ora in ora, e perfino di minuto in minuto,
persuasero di certo alla svegliata prudenza del signor Marmocchi di mettere nel
Dispaccio parole più colorite, e provvedimenti, che nè allora seppi, e neppure
adesso so che cosa mai potessero importare. Lascio, come anche ora che scrivo,
frugando nella mia mente, Rocca Santa Caterina che sia, del pari ignoro; bensì
chiunque abbia intelletto di stile, di leggieri comprende, che la copia della
lettera del 19 non è mio dettato453. Interrogato il Ministro
circa il Dispaccio trasmesso, io, secondo ch'egli mi veniva dicendo, scrissi su
i margini della lettera del signor Prefetto, onde potere mostrare ai miei Inquisitori
come le istruzioni fossero date, e quali: molto più, che difetto nel mandarle
vi era, ed aveva mestieri schermirmi da giusto rimprovero d'inerzia.
Arrogi quello che
soventi volte ho dichiarato, non correre nè potere correre allora stagione
opportuna a restaurare il Principato Costituzionale pochi giorni dopo che egli
lasciava il campo, senza fare neppure le viste di resistere a parte
repubblicana. Ella è follia espressa pretendere quiete il giorno seguente alla
rivoluzione. La
Inghilterra, che stette ferma all'urto della rivoluzione
francese del 1830, pure, a giudizio di Lord Melbourne, durò per bene quattro
anni a tentennare454. Nè questo è tutto:
distraendo in altra parte le forze che tenevo apparecchiate col Generale
D'Apice per impedire tumultuarie aggressioni contro Porto Santo Stefano, molte
e gravi fortune potevano accadere alle quali importava grandemente ovviare.
Come le terre di Maremma ardessero tutte, abbiamo veduto; certo La Cecilia le descrive
diverse, ma altri dissente da lui; varii i giudizii secondo le impressioni;
bensì il fatto dimostra che meglio i secondi opinassero, dacchè per le città e
terre di Maremma, non annuente il Governo, vollero proclamare la Repubblica, e la
proclamarono; e al Porto Santo Stefano eziandio, appena ebbe quinci rimossi i
piedi il Granduca.
Pertanto considerando
maturamente la qualità dei successi, i tempi fortunosi, i pericoli, la inanità,
anzi il danno espresso di rimontare contro pelo la corrente quando strascina
più rapida, e la sicurezza di riuscire dando tempo al tempo, e modo di riaversi
con la quiete consigliera di giusti partiti ai Toscani tutti, costituzionali ed
anche esaltati, io per me, se avessi tuttavia seduto nei Consigli della Corona,
le avrei detto:
"Altezza.
L'autorità che, debole e disarmata, non senza sforzo reggeva all'urto della
Fazione avversa al Principato, impossibile parmi che possa ricuperarsi adesso
per forza, adesso che di propria mano ha schiuso la porta ai suoi nemici. Che la Toscana per la massima
parte, e gli uomini di senno pressochè tutti, sieno del costituzionale
reggimento tenerissimi, V. A. lo sa, lo ha veduto, senza timore d'inganno lo ha
detto più volte, ed è vero così. Si danno epoche per la umanità, che io
volentieri chiamerei di contagio politico; e la presente è fra quelle:
testimone la Europa.
Quali argomenti si adoperano contro il contagio? Giova talvolta
sostenerne imperturbati lo assalto, e, senza lasciarsi sbigottire, far prova di
vincerlo col valore e con l'arte; tale altra parve più utile scansarsi,
aspettare che la malignità dell'aere cessasse per tornare poi nelle purificate
dimore. Praticare in un punto questi due partiti è impossibile. Del presente
stato male s'incolperebbe tale o tale altro uomo, tale o tale altro Popolo.
Stupidezze di menti meccaniche sono queste. Siffatte perturbazioni politiche
non dirò che sopraggiungano alla sprovvista per tutti, bensì sempre ai Governi
fatali, generate di lunga mano, per molti umori disposte, come sarebbero
appunto le pestilenze ed altre maniere di perturbazioni fisiche. Ora poichè dei
due partiti fu scelto quello di scansarci, scansiamoci, e provochiamo da questo
i frutti che ne dobbiamo raccogliere, i quali, a senno mio, matureranno presto,
e felici se lasceremo gli esaltati a straccarsi nello inane tumulto, se torremo
loro prudentemente dinanzi gli argomenti i quali, gittandoli a disperate
risoluzioni, chiuderebbero loro al rinsavire ogni via; in qualunque Stato che
muti forma di reggimento con sicurezza di durata, il trapasso dal vecchio al
nuovo noi vedemmo sempre doloroso per necessarii subugli; immaginiamo ora se
accadrà di quieto questa trasformazione priva di potenza vitale. Voi vedrete i
neghittosi diventare prodi per lo spavento della prossima anarchia. Tutto il
male sarà attribuito alla Rivoluzione; ogni speranza di pace riposta nella
restaurazione del Principato Costituzionale; dalla speranza al desiderio, dal
desiderio al bisogno di ristabilirlo è brevissimo il tratto, se pure tratto ci
corre; il moto poi riuscirà irresistibile, imperciocchè gli avversarii non pure
troverete avviliti negli sforzi infecondi, ma vinti dal sentimento della
propria impotenza, ed è questa fortuna suprema nelle faccende politiche dove la
forza doma, ed anche per poco, - non vince; i traviati troverete all'abituale
devozione ricondotti, gli ignavi, scottati dall'acqua calda, solleciti ora a
guardarsi anche dalla fredda; riassicurati i timidi; tutti acclamanti; gli
amici vostri, non della vostra fortuna, esulteranno e procederanno modesti; gli
amici della vostra fortuna, e non di voi, si mostreranno insolenti, e voi con
la prudenza e gravità vostre ne saprete tenere corti gli ugnoli. Fra pochi mesi
V. A., tornando chiamato dal voto universale della Nazione, esclamerà: io ne
vado sicuro, come Carlo II reduce a Londra, che suo fu il torto di andarsene o
di non essere tornato più presto fra Popoli amatissimi e amantissimi455. Ogni altro consiglio, Altezza, come pernicioso
a Voi, esiziale alla autorità che importa ricostruire, nemico al Popolo, deh!
vi scongiuro, rifiutate. Ricondotto dalle armi, e sieno pure piemontesi,
aprirete nel cuore delle genti una ferita che per tempo non sana, e gli esempii
del secolo ce lo hanno fatto vedere456. Confidando nei moti
interni, adesso che la febbre dura, avverto, che per lo meno insorgeranno
contrasti, e questo è ciò che ho dimostrato doversi prudentemente evitare,
conciossiachè l'uomo, animale di contradizione, soglia, per contrasto,
ostinarsi, e, per offesa, nello errore confermarsi. Nè sono a temersi contrasti
ed offese individuali soltanto, ma nascerà, e già è nata la guerra civile, di
cui V. A. ha meritamente ribrezzo: l'anarchia stenderà, e già ha cominciato a
stendere, le mani ladre, e, orribile a dirsi, alza l'augusto vostro nome a
bandiera! Altezza, se orrore di sanguinosi conflitti l'animo vostro mansueto
persuase ad allontanarvi da Siena, deh! considerate che, a cagione della
presenza vostra a Santo Stefano, questi conflitti.... per ora.... non
cessano.... ma crescono; - dacchè, durando le cause che in questo momento li
provocano, anzi essendo diventate maggiori, la distanza di poche miglia non può
avere virtù di spegnerli. Sceglieste il partito di dare tempo al tempo; io lo
avrei combattuto con tutte le forze prima che voi, Altezza, lo aveste
preferito; ora che lo sceglieste, giova seguirlo; se non m'inganno, ormai è
quello che vi ricondurrà con pace nell'onorato seggio: mite foste, mite
mantenetevi; gli altri consigli rigettate, però che se per essi (cosa che
adesso subito parmi ad accadere difficile) vi fosse restituito lo scettro....
V. A. lo rigetterebbe da sè perchè sarebbe insanguinato."
Così con non savie forse,
ma affettuose parole, io avrei favellato a Leopoldo II, se mi fosse stato
concesso recarmi a Santo Stefano; e questo era il concetto che in nota succinta
registrava il 18 febbraio 1849 sul Dispaccio inviato al Governo dal Consigliere
di Prefettura di Grosseto il 12 di quel mese457.
§ 6. Motivi per
muovermi contro il Generale Laugier.
Ora si voglia supporre
per un momento, che stesse in facoltà del Governo astenersi dalla Spedizione a
Massa. Innanzi tratto, io vorrei domandare se i Giudici credono davvero che
quando un soldato alza una bandiera, sia pure in nome del suo Sovrano, devano
tutti sotto pena di ribellione prestargli fede, e seguitarlo. Badino, che
quello che dicono, come pare, è veramente enorme, e potrebbe tirare grandemente
a male.
Per buona sorte servendo
l'Accusa alla sua passione ha rinnegato la scienza, ed ha commesso gli errori
deplorabili, di cui, invocata la dottrina dei pubblicisti, la incolpa
l'Avvocato Adriano Mari nella Difesa che presentò alla Cassazione per Leonardo
Romanelli.
Il terreno che io ho da
percorrere brucia: scerrò quello che scotta meno; e dirò soltanto, che più
meditava il Proclama del 17 febbraio del Generale Laugier, meno mi riusciva
intenderlo. Per nessun segno io poteva ritenerlo sincero.
Infatti il Proclama
dichiara, che il Granduca nello allontanarsi da Siena aveva nominato un Governo
Provvisorio: ora questo era patentemente falso, nè conosciuto in quel tempo, nè
mai; anzi contradittorio con la lettera e con lo spirito delle dichiarazioni
granducali del 7 febbraio: con la lettera, perchè nulla contenessero
espressamente in proposito; - con lo spirito, perchè raccomandando a noi i
regii servi (e non invano), cosiffatta raccomandazione a privati non si poteva
indirizzare; e se il Principe avesse eletto un Governo Provvisorio, noi privati
cittadini ridivenivamo: inoltre pensava, che se il Principe avesse lasciato
qualcheduno a rappresentarlo, sarebbe stato un Luogotenente, non un Governo
Provvisorio. L'affermazione del Proclama accennava a due cose: prima, a una
menzogna; seconda, ad uno errore commesso, o fatto commettere, perchè il Paese
versasse nell'anarchia. Sosteneva inoltre avere vietato alle truppe di
sciogliersi dal giuramento, ed anche di questo non era comparsa notizia. -
Della Commissione conferita al De Laugier, nessuno fu avvertito dal Principe in
modo autentico; in quanto a me, dopo l'ultima lettera particolare del signor
Commendatore Bitthauser da Siena, nella quale mi si prometteva prossimo il
ritorno del Principe, e intanto a suo nome mi si raccomandava la quiete della
città, non ebbi avviso di sorta, neppure verbale. Nè anche Sir Carlo Hamilton
mi riportò invito, ordine, raccomandazione, o che altro, da Santo Stefano. Al
Governo, eccetto la lettera e la dichiarazione del 7 febbraio, non pervenne
altro atto dalla Corona direttamente nè indirettamente. Ma non soli noi; non il
Senato, non la Camera
dei Deputati, non il Municipio, nessuno insomma ricevè avviso, che appo loro
accreditasse il contegno del Generale Laugier.
Ingrate materie io
tratto, e con ingrato animo; ma se dei generosi non è spento il seme,
ricorderanno, che io mi difendo da capitale accusa, e deploreranno con me chi
mi ha ridotto in questo non giusto stato. - Sopra tutto mi faceva andare
pensoso la chiamata dei 20,000 Piemontesi. Gli uomini che presiedevano allora
ai consigli del Re Carlo Alberto si erano mostrati, non dirò poco benevoli, ma
con mio sommo rammarico avversi alla Toscana. In altra parte di questa Apologia
ho favellato delle quistioni col Governo di Piemonte poi confini; fu visto che
per comporre coteste faccende era stata proposta al Ministro Pareto una
commissione mista di Piemontesi e Toscani; accolto il partito, riceveva un
principio di esecuzione. Avenza (come ognuno conosce) fa parte di Carrara:
occupata prima dai Piemontesi, dopo l'armistizio Salasco la sgombrarono:
allora, gli Avenzini imploranti, presero a presidiarla i Toscani. Il Piemonte a
un tratto, sopportando ciò molestamente, c'impone la uscita non senza
aggiungere minaccie. A questo punto, salito al Ministero io, trovai la
quistione. Proposi allora alla Corona saggiare un po' di quali frutti sarebbe
stata portatrice la
Costituente, fino dal 12 Maggio 1848 da lei bandita fra
cotesti Popoli, opposta come mezzo di difesa al Piemonte; e piaciuto il consiglio
sfidai in certo modo il Governo Sardo a rimettercene al voto universale. Il
Piemonte aderiva: proseguendo nelle trattative, fu convenuto una forza mista di
milizie piemontesi e toscane, fino al giorno della votazione, presidiasse
Avenza; in quel giorno si ritirasse; due commissarii, uno per parte, alla
votazione assistessero. I Sardi, presentendo sfavorevole lo esito del negozio,
adesso si danno a mettere in campo cavilli: opposi a tenacità tenacità; il
convenuto solennemente ebbe ad adempirsi, ed è cosa degna di considerazione,
come due soli voti ottenessero i Piemontesi. Con voglie prontissime gli
Avenzini confondevansi alla famiglia toscana458. Ottimo esperimento era
cotesto, e pegno felice a bene sperare della Costituente quando le vicende
politiche ci avessero persuaso o costretto di ricorrere a lei. Piemonte,
mal soddisfatto, metteva innanzi non so quali irregolarità di votazione, e
mandava di nuovo Carabinieri ad Avenza per tenervi lo ufficio. Inestimabile, e
l'ho detto, fu la contentezza della Corona per l'esito di questo suffragio
universale. Pareva a lei, come a chiunque altro, che procurare alla Toscana
confini naturali fosse un bello acquisto, - e più ne letiziava il cimento
prosperoso del voto.
Nel decembre i
Piemontesi tentano torci Panicale, per la qual cosa il Regio Commissario conte
Del Medico si risentiva gagliardamente scrivendo al Delegato di Sarzana:
"Devo significarle
il dispiacere e la sorpresa che ho provato nel ricevere dal signor Sabatini, R.
Delegato di Pontremoli, la notizia che a Panicale si fossero avvisati di
procedere ad una votazione assistita soltanto da alcuni Sarzanesi, senza la
presenza di verun Toscano, e, dirò di più, accompagnata da minaccie e da
violenze. - Come non sentirne dispiacere? Oltrechè quei modi non sono civili nè
onesti (non parlo della legalità la quale niuno vorrà per certo affacciare),
non si addicono poi a popoli di amiche Potenze, e molto meno ad Italiani del
nostro tempo."
Più tardi (referisco le
parole del Monitore), correndo il 12 decembre, il villaggio di Parana fu
preso da alquante milizie piemontesi, che ne cacciarono fuori le toscane459; tennero dietro i dissidii per Mulazzo, Calice,
Pallerone, e terre altre parecchie, su di che vedi il Monitore del 3,
12, 27 decembre 1848, e 6 febbraio 1849, e le corrispondenze officiali, quando
me le daranno.
Per queste tribolazioni
sarde assai si turbava la
Corona, e penso non dilungarmi troppo dalla verità, se
confermo, che principalissimo motivo a renderle accetta la Costituente fu quello
di potere opporla quando il bisogno stringesse alle tendenze corrosive sarde,
che lievi adesso, ma tenaci, davano a pensare del futuro assai. Meschina
contesa fu quella, per non dire di peggio; intorno alla quale una
considerazione mi conforta, ed è questa, che la si deve attribuire unicamente a
colpa degli zelanti, flagello dimenticato dal Profeta Natan, e fatale a
qualunque Governo, il quale comunque per ordinario diligente venga
distratto da cure supreme.
Con simili premesse,
come io dovea credere che di punto in bianco dal sospetto si traboccasse nella
sconfinata fiducia? E come supporre vero, che, mutata di subito politica, la Corona si gittasse a occhi
bendati in braccio al Piemonte? Non era mica indovino io; e badate, se anche
avessi indovinato, non per questo mi sarei trovato meno deluso, conciossiachè
se la Corona,
cedendo a improvvidi consigli, chiamò un giorno il soccorso sardo, il giorno
veniente lo disdisse: però io avevo buon fondamento a ritenere il soccorso
sardo non vero, perchè non verosimile460.
E qui ripeto, che
l'obbligo di soccorrere quei Popoli alla nostra fede commessi ci correva
grandissimo, dacchè pareva duro, dopo averli alienati dai Piemontesi, esporli
adesso al loro risentimento, che pur talvolta provano anche i generosi quando
si vedono disprezzati. Ad ogni modo il nostro dovere era cotesto, perchè, se i
fati non ci vogliono uniti nel grembo di una stessa famiglia, la gente apuana
serbi almeno per noi stima di probi, amore di fratelli.
Quando conobbero
menzogna lo intervento piemontese, cotesti Popoli mostraronsi a viso aperto
contrarii al Generale Laugier, e con lettere pressantissime e messaggi
dicevano: "Ci affrettassimo a liberarli dalla insopportabile molestia. Non
essersi dati alla Toscana per patire le stravaganze di un soldato, che non
adempiva al dovere, voltando la faccia colà dove non erano nemici461."
La chiamata dei Sardi
con volontà della Corona, a cagione delle cose esposte, mi pareva incredibile;
pure il Generale De Laugier bandiva in quel punto 20,000 Piemontesi passare la
frontiera, sicchè malgrado avvisi in contrario era a dubitarsi che fosse così.
Io pensai che Cesare De Laugier italianissimo come perpetuamente vantava,
preso da vaghezza di lode presente, e più dalla cupidità di fama futura, avesse
di repente abbracciato il partito di unire la Toscana al Piemonte: non
era strano, nè forte, supporre in lui il disegno, che intendesse collegare il
suo Paese ai destini di un grande Stato italiano forte in su le armi, invece di
lasciarlo andare in balía della cieca ed avventurosa unificazione con
Roma. In questa opinione confermavami la notizia di un Partito piemontese
agitantesi da tempo remoto in Toscana; la permanenza di Piemontesi di gran
seguito quaggiù, a cui mettevano capo con molta ostentazione tutti coloro, che
si reputavano od erano parziali al Piemonte, e il Generale Laugier, non dico
che fosse, ma si riteneva fra questi462; la riunione di
parecchi personaggi al Golfo della Spezia per macchinare nuovità; e finalmente
la natura stessa del Generale De Laugier, uomo della prestanza militare del
quale non è da dubitarsi, però non sempre seco, per quanto parve, pienamente
concorde. Nè questo agitarsi non dei Piemontesi, ma pei Piemontesi, a Lucca,
era solo; temevansi eziandio le mene, provocate da cui non voglio dire, a
favore di Carlo Ludovico, che, incominciate da parecchi mesi indietro463, furono rinvenute vitali dalla procedura
conclusa col Decreto della Camera di Accuse della Corte Regia di Lucca in causa
Santarlasci e consorti, da me citata a pag. 459-460 di questa Apologia.
Ed oltre ai moti
politici, da tempo antico covavano nel contado lucchese, e vi si erano
manifestate, enormezze in senso di anarchia.
"Il Prefetto di
Pisa al Ministro dello Interno. - Oggi alle 4 circa, vetturini ed altri paesani
lucchesi hanno rotto 4 o 5 verghe della strada ferrata a due miglia da Lucca,
verso Pisa, e si sono opposti alle riparazioni che i lavoranti della strada volevano
subito fare ecc. - 31 decembre 1848."
Parevami (e ciò sia
detto, s'egli è mai possibile, senza inasprire gli animi che pur troppo
dureranno inacerbiti), parevami eziandio che in tale impresa, dove più che nelle
armi era da farsi capitale nella benevolenza dei Popoli, non fosse da
preferirsi il Generale Laugier, essendo noto a tutti quanto da lui repugnassero
e Lucca e Pisa e Livorno, nè troppo gli procedessero benevoli neppure in
Firenze: colpa, io voglio credere, non sua, bensì dei mutabili umori del
Popolo, a cui per rendersi accetto egli non omise argomento di sorta. Ma,
insomma, quando vogliamo conciliarci il Popolo per via di blandizie, è pur
mestieri non prenderlo a contro pelo nelle sue affezioni, ed anche nelle sue
fantasie.
E avvertite, che non fui
mica il solo a credere che il Generale Laugier mancasse di mandato a operare
come faceva. In certa sua Apologia, datata da Sarzana il 1° marzo 1849, e
impressa nel Risorgimento, egli medesimo ne informa: "Non vedendosi
comparire i Piemontesi, gli animi abbatteronsi: si suppose mia invenzione
lo intervento, e perfino la lettera del Granduca."
Pensoso, e gravemente
pensoso del pericolo che minacciava la città per la estrema esasperazione,
solita accompagnare la paura del pericolo e la violenza rivoluzionaria,
intendendo al disegno di distrarre la mente accesa delle turbe cittadine dalla
Spedizione di Porto Santo Stefano, e dal proclamare a tumulto la Repubblica, mi parve
operare prudentemente, prima col Dispaccio del 18 febbraio a volgere i corpi
volontarii armati, senza dilazione, verso Lucca, e più tardi a vuotare Firenze,
se mi venisse fatto, di quanta più gente armata potessi: quantunque (e si noti
con prudente discernimento) nel medesimo giorno alle ore 6 pomeridiane io
sapessi, che i Piemontesi non sarebbero entrati464,
e su le prime ore del giorno 19
mi giungesse la conferma di questa notizia per la parte
del Delegato Regio di Massa465. Ho detto, che anche un
pensiero di personale sicurezza mi spinse; della mia persona niente importa
all'Accusa, e troppo bene lo dimostra in ogni suo atto; ma se un cotal poco di
me a me premesse, vorrà ella per questo incolparmi di criminlese? In marcia i
soldati non attendono ad agitazioni politiche, nè i cittadini stanno loro alle
orecchie per sobillarli. Di questo mi rampogna l'Accusa, ma davvero anche qui
ella si è affrettata troppo, però che io deva confessare avere sortito il mio
concetto meno che mezzo. I soldati non toscani formarono piccolissima parte
della colonna spedita a Lucca, ed è agevole riscontrarlo negli Ufficii del
Ministro della Guerra. Vennero alcune compagnie lombarde da molto tempo
condotte ai nostri stipendii466: la massima parte erano
Toscani; con loro partii; in mezzo a loro io stetti inerme. Mi circondavano i
soldati medesimi che avevo trovato tumultuanti in Fortezza di S. Giovanni
Battista. Le genti in mezzo alle quali io passava, nel vedermi circondato di
ufficiali al nome italiano poco, ed a torto, creduti amorevoli, mormoravano. Ai
soldati e agli Ufficiali toscani poi nemmeno mancava chi insinuasse condurli
D'Apice ed io per tradirli nelle mani dei Piemontesi. Così nei tempi torbidi la
perfidia mesce mostruose novelle, e così facile le accoglie l'armento degli
uomini467.
§ 7. Di una lettera
del R. Delegato di Massa e Carrara.
Ho voluto differire a
ragionare in questo luogo della lettera del Delegato Regio di Massa e Carrara
del 13 febbraio. Il Decreto della Camera delle Accuse del 7 gennaio così
dichiara alla pagina 84:
"Al Prefetto
Staffetti il quale faceva noto al Guerrazzi con lettera del 13 febbraio, come
le truppe acquartierate ai confini ricusassero di prestare giuramento e si
sbandassero, il Guerrazzi con lettera privata rispondeva che calunniasse
e screditasse il Granduca nell'animo di Laugier, onde indurlo a seguitare il
nuovo Governo."
Importa, come sempre,
prima di tutto rettificare il fatto. Il Regio Delegato di Massa e Carrara
queste cose mandava: 1° la milizia toscana a Pontremoli, negato il giuramento,
sbandarsi, e verso la
Capitale incamminarsi; 2° d'accordo col comando generale egli
spedire Ufficiali a incontrarla per ricondurla al dovere; 3° ancora inviare
parte della Guardia Civica a Fosdinovo per agire secondo i casi; 4° a Massa
avere temporeggiato a deferire il giuramento alle milizie; 5° mancata la truppa
di Linea, difficilissimo mantenere l'ordine nel Paese468; 6° doversi organizzare 5 o 6 compagnie di
bersaglieri; 7° da Fivizzano indirizzare una Deputazione in cerca di truppa
piemontese temendo invasione nemica.
Se ciò sia vero si
conoscerà leggendo la lettera stessa del Delegato, stampata a pag. 208-209 dei
Documenti:
"In questo momento
giunge avviso al Comando generale da Pontremoli che la truppa non ha voluto
prestare giuramento, che ha incominciato a sbandarsi, dichiarando incamminarsi
verso la Capitale.
Di accordo col Comando
generale, si spediscono alcuni Ufficiali per incontrarla verso Fosdinovo e
procurare di ricondurla al dovere. Nel tempo stesso io parto per Carrara, per
mobilizzare una parte di quella Guardia Civica, e la invio egualmente a
Fosdinovo per agire a seconda delle circostanze. Vi è colà una compagnia di
truppa di Linea, colla quale si vorrebbe impedire il contatto di questi
traviati.
Qui, conoscendo le
difficoltà d'indurre immediatamente come si voleva la truppa a prestare nuovo
giuramento, si è temporeggiato, predicando la necessità di mantenere l'ordine,
e procurando di disporla a poco per volta al giuramento stesso; ma le notizie
sopracitate, unite ad altre che sono giunte di Lucca ed altri paesi, non so
quale effetto potranno produrre.
Se manca la truppa di
Linea non so cosa potrà accadere in questi paesi. Io faccio e farò
risolutamente quanto sarà in mio potere per il mantenimento dell'ordine, ma
questa volta l'affare è serio davvero.
Mandami subito il
Capitano Franzoni che ti diressi con lettera pochi giorni sono, e manda qui a
chi credi l'incarico di organizzare 5 o 6 compagnie di Bersaglieri, le quali
potranno essere utilissime. Io non mi ricuso di fare quanto possa essere utile.
Addio.
Massa, 13 febbraio 1849.
Tuo affez.
Del
Medico Staffetti.
Notizie del momento.
Da Fivizzano è stata
mandata una Deputazione a Sarzana per cercare la truppa piemontese temendo di
una invasione nemica. - Manderò staffette ogni qualvolta sia necessario.»
La minuta, o appunto
della risposta, dichiara in questa maniera:
«Prefetto
ed Amico,
Tieni forte: fa quanto
credi; arma Bersaglieri: difendi i confini: lusinga, loda ed eccita l'onore del
Laugier; senta nel profondo che Leopoldo II, senza pretesti, senza plausibile
motivo, lasciò il Paese all'anarchia e all'invasione. Portò seco quant'oro
potè; e sull'estremo lito, con un piede in terra e un piede sopra un naviglio
inglese, sta speculando la guerra civile. Creeremo un'armata, troveremo denaro;
e quando nulla potrem fare, anderemo all'aria.»
Tieni forte, riguarda la difesa
dell'ordine: fa quanto credi, si riferisce al mettere in moto la Guardia Civica: arma
i Bersaglieri, considera la difesa dei confini: le altre parole sono
dirette a indurre il Generale ad operare gagliardamente in pro della Patria, e
in benefizio di cotesti paesi. Quanto fosse in noi l'obbligo e lo interesse di
difenderli, ho esposto altrove; se fosse necessario confermare in qual conto da
noi Toscani meritamente si tenessero, io non avrei a fare altro che allegare le
istruzioni dal Ministero Capponi conferite nel 22 settembre 1848 al Marchese
Ridolfi inviato straordinario e ministro plenipotenziario del Granduca di Toscana
alle conferenze di Brusselle, in quella parte in cui queste provincie gli si
raccomandano:
«.... Ciò che il Governo
granducale chiede, e lo chiede opinando di avere molti titoli per ottenerlo, è la
conservazione dei suoi attuali confini, quali furono determinati dall'atto di
accettazione del 12 maggio 1848. La perdita di questi territorii nuovamente
aggregati alla Toscana sarebbe per essa cagione di vivissimo rammarico; e ciò
non tanto per la diminuzione che essa soffrirebbe del suo territorio o per
altro fine di proprio e particolare interesse, ma perchè il Governo granducale
è sinceramente convinto che i popoli della Lunigiana e della Garfagnana,
recentemente aggregati, siano toscani e per geografica posizione e per rapporti
commerciali e per affetto, e che la prosperità, che ai medesimi può derivare
dal far parte della famiglia toscana, non sia per essi possibile di trovare
nella unione con qualsivoglia altro Stato. I voti e l'affetto di queste popolazioni,
la lealtà costantemente dimostrata dal Governo di S. A. R. nella questione
italiana, i sacrifizii da esso fatti per la causa nazionale costituiscono
altrettanti titoli degnissimi di considerazione, per i quali questo desiderio
della Toscana non potrebbe senza ingiustizia non appagarsi....469»
Certo le parole
contenute nella estrema parte di cotesto mio appunto, dimostrerebbero animo mal
disposto pel Principe là dove spontanee mi fossero uscite dalla penna. Ma
quando furono esse vergate? Vogliasi rammentare: nel giorno 14 febbraio 1849, in quel giorno
stesso nel quale, come confido avere dimostrato nelle pagine precedenti, la
prepotenza della Fazione mi costringeva a spedire al Governatore di Livorno
l'ordine di apparecchiare gente onde essere poi inviata per la Maremma. Agl'Inquisitori
e' fu mestieri fare copia della lettera del Regio Delegato; accesi quindi gli
avvisi e i comandi; coteste espressioni contengono l'eco di quanto stampavasi
pubblicamente, e predicavasi; ed io scrissi lo appunto in discorso per
acquietare cotesti arrabbiati; ma la ricerca, che doveva proporsi l'Accusa, e
sopra la quale avrebbe potuto fondarsi, allorchè fosse stata quella scrittura
spontanea, consisteva nel conoscere se il foglio fu spedito, se ricevuto dal Conte;
se, adoperando gli argomenti indicati, ei si era fatto a scrollare la fede del
generale Laugier.
Ora tutto questo non
prova l'Accusa, e non fu. Perchè non interrogò ella i miei Segretarii, tanto
gli eletti quanto i reprobi, voglio dire tanto i mantenuti in
carica, quanto i congedati, se compilarono Dispaccio alcuno sopra le traccie di
cotesto appunto? Perchè non ne ricercarono lo egregio conte Del Medico?
Veramente, a cagione del suo amore per la Toscana, male gl'incolse, e forse, mentre io
tribolava in carcere sotto le torture degl'interrogatorii, questo illustre
amico mutava in terra non sua gli amari passi dello esilio; ma nel modo (ed è
questo uno dei singolari trovati della presente Procedura) che i dimoranti in
Firenze, per lettere s'interpellavano; anzi un po' a voce, e con giuramento, e
un po' per via di epistole s'invitavano a raccontare il fatto loro; potevasi
col medesimo mezzo richiamare anche il Conte, a somministrare schiarimenti in
proposito.
Veramente l'Accusa,
sommando i suoi addebiti, di cotesta lettera non fa capo d'incolpazione, ma
intanto ella la cita, ella la converte in risposta, la suppone spedita, e
ricevuta; le giova nella composizione non giusta nè leale dell'atmosfera
criminosa, nella quale si studiò sempre e si studia immergermi dentro.
Io penso avere provato
quanto la pressione da me patita fosse materiale e continua, tale da soddisfare
la Legge anche
nei casi ordinarii; ma per chiarire come altre forze e di altra maniera
necessità valgano a costringere gli uomini politici, mi giovi riportare certa
sentenza profferita da Odilon Barrot nella Seduta dell'Assemblea di Francia del
19 luglio 1851 che mi cade adesso sott'occhio: «Bisogna confessare, che
occorrevano allora una certa corrente d'idee, tali e siffatte preoccupazioni
degli spiriti, certe morali necessità, le quali fanno sempre sentire la loro
pressione sopra gli uomini politici. Quante volte nelle nostre secrete
discussioni intorno ai punti che adesso si affacciano, circa i pericoli che
avevamo preveduto, e la esperienza confermò, quante volte non intesi io
rispondermi: - Certo voi avete ragione, non oggi però; più tardi: adesso lo
stato degli umori, la corrente, le preoccupazioni impediscono ad accettare le
vostre idee!»
§ 8. Minaccie
d'incendii e di saccheggi.
E poichè sento in cuore
carità di patria, andando, confidai prevenire i casi pei quali tutta guerra
civile viene esecrata meritamente. La fortuna (ed io perciò le perdono ben
molte offese) di tanto mi era in questa parte benigna, che lo esito rispose
alla speranza. Onde io rimasi sbigottito davvero, quando mi conobbi accusato di
avere incusso timore di saccheggio e d'incendii. Questa turpe accusa è
scomparsa, come piace a Dio, nel Decreto del 7 gennaio 1851 e nell'Atto di
Accusa; ma fu scritta nel Decreto del 10 giugno 1850: onde riesce pieno di
sconforto pensare come uomini cristiani possano con tanta leggerezza aggravare
di scellerate accuse il capo di un uomo cristiano.
Di me troppo era
consapevole, avvegnadio quasi per iniziare il carattere di cotesta Spedizione,
appena giunto in Empoli, volli ogni trascorso rimesso agli Empolesi, e
riceverli in grazia come buoni fratelli: e già mostrai in che guisa
premurosamente ammonissi i Livornesi, passando per Empoli, ad osservare buona
condotta, e a rammentarsi che cotesti popoli, comecchè momentaneamente
traviati, ci erano pur sempre fratelli. Tanto riposi solertissima cura a
inspirare sensi di umanità in tali fortunose vicende, dove la voce di lei per
ordinario si fa meno ascoltare! Nonostante rilessi affannoso se per avventura
taluno vi avesse aggiunto qualche espressione maligna, e la Dio mercè di simile minaccia
io non trovai vestigio. Questa sarebbe stata contradizione al mio scopo, il
quale fu implorare pace, e portarla; impedire effusione di sangue; appena nata,
sopprimere la guerra civile. Di ciò dia prova, che informato come la colonna
condotta dal Petracchi si avanzasse sopra Pietrasanta precorrendo la colonna
D'Apice, nello intento di ovviare ogni probabile conflitto, anzi ogni ingiuria,
e anche semplice iattanza, non meno che per istudio della militare disciplina,
non esitai ad avventurarmi solo per vie non sicure; e giunto in tempo, le
ordinai riprendesse la via di Viareggio. L'ordine venne eseguito, non ostante
la stanchezza dei soldati, e il non celere obbedire470. Ne sieno prova il comando ai soldati di
portare fronde di olivo nella bocca dello archibugio scarico e su i caschi, e
il perdono concesso largamente a tutti. Se questo non feci a De Laugier, ciò
avvenne, perchè prima di attendere la risposta si era fuggito; però ai signori
Compagni e Salvioni, intercedenti per lui, dissi che non sarebbe stato senza
grave pericolo rimanersi allora in Toscana, e che lo consigliavo a ritirarsi in
Piemonte, dove liberissimo intendevo lasciarlo andare.
In qual parte, pertanto,
incussi timore di saccheggio e d'incendii? Forse nel Dispaccio da Pisa inviato nel
21 febbraio 1849 al Prefetto di Lucca? Quivi si parla del Decreto del
Presidente del Governo Provvisorio contro De Laugier; si protesta ritenere per
apocrifi gli atti di lui, perchè nè il Governo nè il Municipio ha ricevuto da
Leopoldo II veruna dichiarazione autentica in proposito; avere il Governo
sentito il bisogno di reprimere la guerra civile nei suoi primordii; venire io
mandato con 3,000 uomini e D'Apice generale, a disperdere gli autori dello
attentato.
Per avventura i
saccheggi e gl'incendii s'incontrano nell'Ordine del Giorno ai Soldati, in data
di Lucca, del 21 febbraio? Ma no, quivi anzi si palesa il modo col quale
intendevo mandare ad esecuzione il Decreto, che poneva il Generale De Laugier
fuori della Legge: - fugga, sgombri dalla nostra terra; - e quivi è
l'ordine di non combattere: «Portate un ramo di olivo sopra i vostri caschi,
perchè voi non venite a suscitare, ma a reprimere la guerra civile.» Con quale,
non dirò probità, ma fronte, avrei potuto io nel giorno 22 febbraio volgermi ai
Cittadini, ponendo la condotta del Governo in parallelo con quella del Laugier,
se avessi minacciato gli orrori dello incendio e del saccheggio?
«Cittadini! - Un soldato
ribelle ordina si straccino le Notificazioni del Governo Provvisorio, eletto
dall'Assemblea nazionale e dal Popolo. Il Governo Provvisorio all'opposto
ordina, che le stampe di cotesto soldato vengano diffuse e affisse sopra le
cantonate. Il Governo intende che il Popolo, confrontando, giudichi e veda:
come il soldato adoperi parole di menzogna, il Governo di verità; - il soldato
ecciti la maledetta guerra civile, il Governo si affatichi richiamare i
fratelli a concordia, necessaria sempre, santissima adesso che l'Austriaco
torna a minacciare la desolazione nel nostro diletto Paese; - il soldato tolga
il presidio alle frontiere, il Governo spinga la gioventù, atta alle armi, a
difenderle; - il soldato calpesti la legge e la nazione, il Governo legge e nazione
sostenga; - il soldato tenti spegnere la civile libertà nel sangue dei
cittadini, il Governo procuri conservarla intera; - il soldato semini
l'anarchia, susciti la Patria
a sanguinose reazioni, il Governo voglia conservare l'ordine e gridi pace,
pace.
Tacciano le discordi
opinioni, tregua alle parti. Soldati toscani, il vostro posto non è contro il
soldato toscano, ma sì alle frontiere contro il comune nemico. Cittadini,
l'odio vostro non contro voi, ma deve volgersi contro l'Austriaco, che vede le
vostre discordie, e ride. Il Governo co' voti più ardenti del suo cuore
supplica Dio che cessi, appena nata, l'empia guerra: richiama i traviati ad
avere pietà se non di altrui almeno di sè stessi; spera dovergli bastare a
questo fine una parola di affetto, desidera essere risparmiato da più penoso
ufficio; ma quando accadesse diversamente, sappiano i perversi pertinaci avere
dichiarato il Governo, chiunque con parole, con scritture, o con fatti si
adoperi aizzare la guerra civile, traditore della Patria, e come tale doversi
punire con tutto il rigore della Legge. Il Governo farà in modo, che la sua
dichiarazione non rimanga parola vana, e lo abbiano per inteso471.»
Vedasi il Proclama
diretto ai soldati del Generale Laugier in data di Camaiore, del 22 febbraio
(il quale non pervenne loro, e fu inutile, perchè già eransi sbandati): in
quello io dico, «che voglio abbracciarli, dimenticare ogni trascorso, perdonare
lo involontario fallo; tornino in famiglia per combattere il solo nemico che
abbiamo, lo straniero.» Vedasi la Notificazione datata da Camaiore nel medesimo
giorno, essendomi qui pervenuta nuova della intenzione manifestata da alcuni di
arrestare la madre del Generale Laugier;....472 di qual tenore ella
fosse vedete qui sotto. Mi risponderanno, preservare uno annoso ed innocente
capo dalle furie di uomini perversi, fu dovere, nè può somministrare adesso
argomento d'ingenerosa iattanza. Ed io dico: sta bene; dovere fu, non argomento
di lode; non mi si dia, non la cerco; ma neppure si converta il dovere in
subietto di accusa. Ed io mi difendo da accuse. Se poi taluno volesse
appuntarmi per l'espressioni che adoperai in cotesto Proclama, lo pregherei a
tenere sempre fisso nella mente lo esempio del Lafayette e del Fauchet, che non
dubitarono valersi di parole bene altramente gravi, per salvare Foulon, o Luigi
XVI; e la Storia,
invece di biasimarli, gli loda per l'arguta loro pietà473.
Nelle tempeste
rivoluzionarie se si avesse a guardare le parole, che la necessità pone su le
labbra, o su la penna, guai a tutti quelli, che sederono, sedono, e sederanno
Ministri! Sarebbe più agevole far passare un cammello traverso la cruna
dell'ago, che assolvere un Ministro da queste stolide imputazioni; gli uomini
di Stato e i Politici opinano così: è opera di Accusa, quando speculando il
suo calendario crede il sole entrato nel segno del mastino, andare a
cercare il nodo nel giunco, e dai detti e dai gesti ricavare materia di
perduellione. Non senza raccapriccio, io credo, gli Storici prudenti noteranno,
e già hanno notato, come la Riforma Leopoldina del 1789 di cosiffatte
esorbitanze purgava la
Toscana. Del progresso abbiamo avuto assai: oh! chi ci fa
stornare, di grazia, sessantadue anni!......
Nulla d'incendio e di
saccheggio nel Dispaccio spedito al Presidente del Governo Provvisorio datato
parimente da Camaiore il 22 febbraio; il quale mi giova riferire non solo per
mostrare che non fu mai proposito ricorrere a questo mezzo ch'è infamia dei
popoli civili, ma eziandio che non ve ne fosse bisogno, atteso l'arrendevolezza
per tutto incontrata.
«Al
Presidente del Governo Provvisorio.
Al mio giungere in
Lucca, senza perdere tempo, deliberai correre contro Laugier e verso
i nostri fratelli in tre punti. Uno per la strada littorale di Viareggio, dove mandammo
i Livornesi con ordine che fossero sostenuti per mare dal Vapore il Giglio.
In Val di Serchio furono lasciati in riserva i Civici Pisani. Il secondo verso
il Monte-Chiesa, dove il Maggior Petracchi si era spinto col solito generoso
ardore, distendendosi fino a Macellarino. Il terzo per la via di San Quirico
verso Camaiore, dove Laugier aveva raccolto maggior copia di gente e posto tre
pezzi di artiglieria.
Era ordine a
tutti di procedere a schioppo scarico con ramoscelli di olivo nella bocca del medesimo
e sui caschi; dove avessero incontrato resistenza fossero andati innanzi,
domandando se per la empietà di un uomo i fratelli dovessero trucidare i
fratelli. L'anima mi esulta nel poterle dire che i Toscani ingannati da
Laugier, appena seppero che per la parte di San Quirico mi avvicinava col
General D'Apice, protestarono che non intendevano combattere contro i loro
concittadini, onde da Montemagno, ove Laugier aveva posto un pezzo
d'artiglieria e diverse compagnie, si ripiegarono sopra Camaiore, e quinci, per
quanto ci viene riferito, sopra Pietrasanta. Entriamo adesso a Camaiore,
alle 5 e mezza pomeridiane, fra il suono delle campane e gli applausi di tutte
le popolazioni accorse dalle campagne circostanti, che acclamavano al Governo
Provvisorio, alla Italia, alla Libertà. Il Municipio indirizza la protesta che
si compiega qui dentro.
Appena riposati qualche
ora, è proponimento nostro passare oltre. Qui mi giunge la consolante notizia
che il Petracchi con la sua colonna è entrato in Viareggio in virtù delle
medesime disposizioni dei nostri fratelli Toscani.
Nessuna nuova di
perviene di mosse piemontesi, anzi avendo mandato un amico mio474 e del Gioberti a Sarzana per sapere un po' se, egli
Ministro, i Piemontesi avessero a comprimere la Libertà in Toscana, con
promessa che, ove trovasse dato simile ordine al Generale Piemontese colà
stanziato, sarebbe tornato ad avvisarmi, od altrimenti avrebbe proseguito per
Torino, non si è più visto; e tutto porta a credere che la invasione Piemontese
fosse una brutta calunnia del Laugier. Dove, contro il diritto delle
genti e lo interesse medesimo dei Piemontesi, questi passassero la frontiera,
noi anderemo loro incontro collo stesso ulivo in cima alle armi, e
gl'interrogheremo se i nemici dei Piemontesi sono i Toscani o se gli Stranieri,
e gli costringeremo a nome della Patria e della Libertà a procedere uniti con
noi alla difesa della Patria. Credo debbano esser queste per tutti i cuori
generosi liete novelle. Nella fiducia di potergliene partecipare ben presto
anche migliori, mi dichiaro di Lei ec.
Camaiore,
22 febbraio 1849.»
Perchè incutere timore
di saccheggio e d'incendio, se le popolazioni mostravansi lietissime di
accoglierci, e noi invitavano a liberarle con incessanti messaggi? Dove dalle
mie labbra fosse uscita la immanissima minaccia, come avrei avuto abilità di
lasciare ai Lucchesi il seguente Manifesto? Io vado lieto per averlo dettato,
perchè spira intero l'anima mia. Del mio intelletto ho, com'è debito, opinione
rimessa; ma non così leggermente concedo che altri possa vincermi per altezza
di cuore.
«Lucchesi!
I deboli nella
inaspettata vittoria si mostrano crudeli. Il Popolo nel trionfo dei suoi
diritti, come colui che si sente fortissimo, è sempre generoso. Il
Governo, nelle cui mani fu confidata la rappresentanza del Popolo, sa
mantenersi all'altezza del suo mandato: egli non ricorda le ingiurie
disoneste ed ingiuste di cui era posto segno ne' tempi passati; e se le
ricorda, le perdona. Come vinse i suoi nemici armati con fronde d'ulivo, così
egli intende vincere i suoi detrattori colla persuasione e con la magnanimità.
Si assicurino pertanto tutti i suoi avversarii, perchè la passata
malevoglienza, invece di somministrare al Governo argomento di persecuzione, dà
titolo loro di amplissima tutela. Quelli soltanto che le procedure iniziate
paleseranno cospiratori contro la
Patria saranno giudicati a norma delle leggi veglianti;
depongano il pensiero che il Governo intenda procedere a modo di Dittatore e
rinnovare le proscrizioni sillane. Egli assunse il carico di mantenere tranquillo
il Paese, finchè l'Assemblea nazionale non decida delle sue sorti: questo
intende fare, e questo con ogni supremo sforzo farà. Il Governo darà opera
infaticabile a stringersi con gli altri Stati Italiani per combattere la sacra
guerra della Indipendenza. Tutti quelli che sentono carità di Patria devono
cospirare a questo scopo. Il Governo indirizza le sue preghiere ad ogni classe
di cittadini, e segnatamente poi ai Sacerdoti, onde essere sostenuto
nell'arduo assunto. I copiosi di beni terreni ricordino che con poco danaro
dato alla Patria acquisteranno onore grande e sicurezza di non rimanere
disfatti dai rapaci stranieri. I Sacerdoti tengano in mente che l'albero della
Libertà deve crescere fortunato accanto alla Croce. Una volta la Libertà fu bandita
coll'abolizione di ogni culto divino; adesso si predica Cristo iniziatore di
Libertà. Noi abbiamo fatto molti passi verso i Ministri dell'Altare; deh! ne
muovano essi uno solo verso di noi. Anche la Libertà è una Religione
nutrita di lacrime di popoli desolati, santificata col sangue dei Martiri, ed
essa pure merita la benedizione del Cielo. Non sieno i Sacerdoti ribelli ai
voleri di Dio, perocchè Dio con segni manifesti protegga visibilmente la Causa Santa della
Libertà e della Indipendenza Italiana475. Possano queste parole,
che ci partono dal cuore, avere virtù di vincere gli animi più renitenti, indurli
a deporre gli odii e gli sdegni, e ad unirsi una volta nel concorde volere di
dare salute alla povera Patria, che a mani giunte a tutti i suoi figliuoli
supplica PACE.
Lucca, 26
febbraio 1849.»
Se io con gli atti
smentii le mie parole; se la lingua dolosa pronunziava ipocriti accenti, sorga
l'accusatore, e mi vituperi: possano i miei avversarii, come me in questa
parte, aspettare il giudizio degli uomini e di Dio senza paura.
A completare i Documenti
che furono mia fattura, mi giova citare una frase del Dispaccio telegrafico del
21 febbraio 1849 riportato a pagine 487 del Volume dell'Accusa: «Le cose
andranno bene. Penso al Piemonte;» e l'altra contenuta nella lettera del 22
febbraio riportata poc'anzi: «ho mandato a Sarzana uno amico del Gioberti, e
mio.» Come pensavo io al Piemonte? In che guisa? Con quali termini? Certo
gl'Inquisitori dei Circoli non mi si staccavano dai fianchi, ma adesso, in
Lucca, era più libero; mi confidava con persona amica in procinto di partire. A
Pasquale Berghini io consegnava questo scritto pel Ministero Piemontese:
«Berghini,
Siete amico mio, e più
della Patria; quindi vi dichiaro essere la verità:
Che la Costituente Italiana
fu liberamente accettata dal Principe col consiglio del Ministro d'Inghilterra.
Che partì da Firenze
sempre promettendo sollecito il ritorno.
Che tardando a tornare,
e mandandogli noi la nostra dimissione, rispose, stessimo al nostro posto,
sarebbe quanto prima tornato.
Che dopo simulata
infermità andava via senza indicare il luogo ove intendeva celarsi.
Che il Ministero,
considerando da una parte offeso il patto costituzionale, dall'altra la
impossibilità di governare, depose, come doveva, i suoi poteri nel seno
dell'Assemblea.
Che l'Assemblea e il
Popolo elessero il Governo Provvisorio per provvedere alla quiete e all'ordine
del Paese. Sostenere adesso da taluno dei Deputati che non votarono con
libertà, è menzogna:
1° Perchè la necessità
li costringeva ad eleggere un Governo Provvisorio;
2° Perchè nella Sala
delle Conferenze anche prima di entrare in Seduta pubblica, e prima che il
Popolo invadesse l'emiciclo della sala, avevano determinato l'elezione del
Governo Provvisorio;
3° Perchè i Deputati in
parte uscirono, ma per le mie veementi rimostranze, cacciato via il Popolo, i
Deputati tornarono, mentre nessuno li costringeva, unitamente al Presidente, e
votarono, dopo discussione, all'unanimità.
Il Governo non poteva
governare con Camere nate da legge elettorale conosciuta difettosa, e perciò le
ha convocate di nuovo sulla base del voto universale. Queste Camere sono
convocate pel 15 marzo: più presto non si poteva. Il Popolo irrompe e vuole
Repubblica. Il Governo con tutte le forze ricusa prendere la iniziativa per
dichiarare la Repubblica,
e la fusione con Roma. Intende che tutta la Nazione rappresentata legittimamente, e con
maturità di consiglio, decida delle sue sorti. Ma sforzato da questa posizione,
che gli sembra ed è legalissima, in primo luogo si difenderà dalle ingiuste
aggressioni, ed in secondo luogo, ritirandosi, lascierà a cui spetta,
tutta la odiosità d'avere protetto, mentre invadeva il comune nemico tedesco,
la guerra civile in Italia.
Lucca, 21
febbraio 1849.
Guerrazzi.»
Lo scrissi allora, nè mi
sembra dovermene pentire adesso. Se Vincenzo Gioberti, invece di essere preso
da quella sua caldezza che parve soverchia, e se invece di stimarmi, a torto,
dei maneggi politici di Giuseppe Mazzini svisceratissimo, avesse voluto
sperimentare da sè, io vado convinto che noi ci saremmo trovati d'accordo; però
che io non mi senta presuntuoso così da ostinarmi nel mio concetto, e quanti mi
conoscono sanno che di buon grado ascolto, e, dove trovi avere errato, di
leggieri il confesso. La mia scrittura pertanto apriva l'adito a interrogazioni
e a schiarimenti, e a senno mio le prime potevano ridursi a due: Perchè la Convocazione
dell'Assemblea col suffragio universale? Qual fine ve ne ripromettete voi? Io
gli avrei risposto, con parlare succinto, quello che verrò diffusamente
ragionando fra poco, e allora io penso che il Ministro Gioberti avrebbe potuto,
con vantaggio grande della Patria comune, interporsi mediatore fra il Paese e
il Principe; certificarlo dello scopo mio, e confortarlo ad aspettare lo esito
del rimedio proposto, siccome quello che si addiceva meglio ai tempi, al Paese,
al decoro, e alla contentezza dell'universale476.
Il signor Farini nel tomo
III della Opera altrove citata a pag. 223 afferma: «Queste dichiarazioni del
Guerrazzi erano consentanee a quelle che il Governo Provvisorio aveva già
pubblicate, nè a mutare le risoluzioni del Governo Piemontese potevano essere
efficaci.» In primo luogo ha da notarsi, che lo intervento piemontese in
Toscana fu concetto particolare a Vincenzo Gioberti, non già del Governo
Piemontese, se dobbiamo ritenere per vere le dichiarazioni parlate da Urbano
Ratazzi nella Seduta del 21 febbraio 1849 della Camera dei Deputati piemontesi,
e le scritte da Domenico Buffa, che in quei giorni governava Genova. In secondo
luogo domando: e perchè le mie dichiarazioni non dovevano avere la virtù di
mutare il concetto di Vincenzo Gioberti intorno allo intervento piemontese in
Toscana? Forse la bandita Costituente toscana chiudeva irrevocabilmente l'adito
a qualsivoglia mezzano partito? La Costituente doveva per necessità sopprimere il
Governo Costituzionale in Toscana? I rimedii vi erano, e buoni, e lo stesso
signor Farini gli ha scritti, ma non ha meditato, come agli storiografi si
addice, a sufficienza su quelli; o forse gli obliò, o forse, e questo parrebbe
più grave, gli ha voluti dimenticare. Quando Roma nel gennaio del 1849 ebbe
bandita la Costituente,
Vincenzo Gioberti non reputò rotta ogni via di accordo col Pontefice;
all'opposto tenne, che per essa potesse condursi a fine la pratica di onorevole
e fortunata conciliazione. «Illustrissimo signor Presidente. - Ricevo da Gaeta
la lieta notizia, che il conte Martini fu accolto amichevolmente dal Santo
Padre in qualità di nostro ambasciadore. Tra le molte cose che gli disse il
Santo Padre pel conto degli affari correnti, questi mostrò di vedere di buon
occhio che il Governo Piemontese s'interponesse amichevolmente presso i rettori
ed il popolo di Roma per venire ad una conciliazione. Io mi credo in debito di
ragguagliarla di questa entratura, affinchè ella ne faccia quell'uso che le
parrà più opportuno. Se ella mi permette di aprirle il mio pensiero in questo
proposito, crederei che il Governo romano dovesse prima di tutto usare
influenza, acciocchè la
Costituente che sta per aprirsi riconosca per primo suo atto
i diritti costituzionali del Santo Padre. Fatto questo preambolo, la Costituente dovrebbe
dichiarare che per determinare i diritti costituzionali del pontefice uopo è
che questi abbia i suoi delegati e rappresentanti nell'assemblea medesima,
ovvero in una commissione nominata e autorizzata da essa Costituente. Senza
questa condizione il papa non accetterà mai le conclusioni della Costituente,
ancorchè fossero moderatissime, non potendo ricevere la legge dai proprii
sudditi senza lesione manifesta non solo dei diritti antichi, ma della medesima
costituzione. Se si ottengono questi due punti, l'accordo non sarà impossibile.
Il nostro Governo farà ogni suo potere presso il pontefice affinchè egli
accetti di farsi rappresentare, come principe costituzionale, dinnanzi alla
commissione o per via diretta, od almeno indirettamente: ed io adoprerò al
medesimo effetto eziandio la diplomazia estera, per quanto posso disporne.
Questo spediente sarà ben veduto dalla Francia e dall'Inghilterra, perchè
conciliativo, perchè necessario ad evitare il pericolo d'una guerra generale477.»
Perchè Vincenzo
Gioberti, che sì manieroso mostravasi a Roma, voleva dare alla Toscana il pane
con la balestra? Hassi a ritenere pertanto, che Gioberti un po' per isdegno
concepito per mendaci rapporti, un po' cedendo alle insistenti suggestioni di
cui non importa dire, deviasse in questa faccenda dalla prudente gravità
dell'uomo di Stato.
Questi Documenti, la
difesa del mio onore mi ha persuaso allegare; e non tanto per respingere da me
la temeraria imputazione appostami dal Decreto del 10 giugno 1850, ma molto più
ancora, perchè porgono manifesta testimonianza di tre cose a ritenersi
notabili:
Prima, come io reputassi e
dovessi reputare la mossa del Generale Laugier operata senza il consenso della
Corona, e contraria agl'interessi della Patria, a parte qualunque quistione intorno
alla forma di reggimento.
Seconda, come in tutti questi
atti emanati da me, sempre circuito dallo inquieto sospetto degli Inquisitori
rivoluzionarii, pure lontano alquanto dalla violenza immediata io non
adoperassi verbo nè facessi allusione alcuna relativa alla Repubblica:
riscontro sicurissimo dell'animo mio intorno a questo particolare.
Terza, come per me non
fossero incarcerati, nè si ordinasse incarcerarsi Sacerdoti; i quali no, mai,
se Sacerdoti davvero, io mi condurrò a credere nemici della Patria nostra, a
noi tutti, quanti sortimmo nel suo grembo la vita, per tanta bellezza, e più
per tanta sventura sommamente diletta.
§ 9. Corruttela delle
milizie laugeriane, e di tutte in generale, e accusa del giuramento.
A materia ingrata
subentra altra ingratissima. Nel modo di concepire dell'Accusa, so bene io che
cosa ella intenda per corruttela, e come non le piaccia nè le giovi
distinguere; a me all'opposto talenta analizzare ed esporre dirittamente la
materia al giudizio altrui. Ora, se per corruttela si voglia indicare la
indisciplina delle milizie, apparirà strano davvero che a me si attribuisca; se
invece per corruttela s'intende la parzialità dimostrata a difendere la Patria, la repugnanza a
seguire, e la prontezza ad abbandonare il Laugier, si vedrà del pari come male
possa essermi attribuita. E innanzi tratto, favelliamo del Decreto che scioglie
le milizie dal giuramento. Questo Decreto fu apparecchiato per ordine di non so
cui, e presentato alla firma; io ricusai firmarlo, sì perchè i nostri
sindacatori non lo esigevano, sì perchè ho piccola opinione dei giuramenti, i
quali dovrebbero legare moltissimo, ma alla prova vediamo che stringono
pochissimo: ne abbiamo uditi tanti di questi benedetti giuramenti! - Breve; di
giuramenti non sono partigiano gran fatto, perchè l'uomo probo, e che teme Dio,
non ha mestiero di altro ritegno, che il timore di offenderlo; e per lo
improbo, i giuramenti sono come funi a Sansone quando aveva i capelli
cresciuti.... E Cristo maestro lasciò scritto: «sia il tuo parlare: sì, sì;
no, no; il soverchio a queste parole viene dal maligno.» Ho letto ancora,
che Ugo Foscolo, il quale per fede intemerata fu, piuttosto che raro, unico al
mondo, soleva portare uno anello dove erano incise le parole: est, est; non,
non; nobilissima impresa, che ognuno che voglia può meritare. Nonostante la
mia opposizione e la mancanza della mia firma, il Decreto venne stampato, e col
mio nome. La sera il Generale D'Apice accorse ad osservarmi come gli paresse
cotesta provvidenza inopportuna, ed io gli rispondeva approvando il suo
concetto; solo non comprendere il motivo delle sue riflessioni, però che io mi
fossi astenuto da firmare il Decreto, e non avere voluto che si stampasse. Egli
replicava averlo letto: io soggiungeva essere impossibile; finalmente chiesto
il Monitore, esaminando, trovo il Decreto stampato. Procedei alle debite
indagini, interrogai ufficiali e stampatori, e chiarii come lo sconcerto
nascesse dal costume, che mi assicurarono antico, di raccogliere i Decreti
dalla tavola dei Ministri, e farli firmare dopo stampati. Più del costume
pessimo ed antico, scusava poi la nuova pressura, imperciocchè ai Decreti
nostri sovente accadde quello ch'ebbe a sperimentare il Governo Provvisorio di
Francia nei suoi, «i quali, pretesi con gridi impazienti da quelli che
accorrevano a dimostrarne la urgenza, erano portati via e stampati, prima che
fossero sottoscritti dai Componenti il Governo Provvisorio478.»
Questo fatto molto di
leggieri poteva chiarire l'Accusa interrogando gli ufficiali del Ministero
dello Interno, tanto gli eletti quanto i reprobi, e qualcheduno
degl'impiegati alla compilazione del Monitore; potevasi eziandio
ricercare il Generale De Laugier, che presentasse la mia lettera, dove di
questo fatto gli si ragiona; e al D'Apice era dato somministrare in proposito
testimonianza pienissima; ma tanto è pervertito il fine dell'Accusa, così,
falsato il suo instituto, ella dimentica lo ufficio che le commise la Società, che il vero teme,
e fugge, se nuoccia al fine della condanna.
Nè qui, nè a questo
soltanto si limitò l'Accusa; e quante volte i testimoni vollero deporre quello
che venne loro dettando la coscienza, udironsi dire da taluno degli
Esaminatori: «basta.... non importa altro!»
Questo nasce dal
pervertimento delle nozioni più ovvie intorno allo ufficio del Ministero
Pubblico, che fino dal principio di questo lavoro noi con l'autorità del Guizot
deplorammo. Non è duello, no, lo incontro del Ministero Pubblico col prevenuto;
questo sarebbe scelleratissimo, imperciocchè rinnuoverebbe lo spettacolo
dell'uomo inerme gittato alle bestie feroci; - sarebbe pagano. Un credente di
Cristo, Santo Telemaco, incontrò il martirio perchè questa infamia presso gli
antichi Gentili cessasse nei circhi; ora potremmo noi moderni cristiani patirla
rinnuovata nei fôri? No; - la
Legge e la
Società non hanno istituito il Ministero Pubblico avvocato,
furiere e provveditore del patibolo; egli non deve fare dell'accusa un
patrimonio suo proprio: non deve mettervi gara, come se si trattasse vincere un
palio. Se, non vincendo l'Accusa, il Ministero Pubblico corresse pericolo
dell'azione della calunnia, comprenderei, se non la fede, almeno il bisogno del
sostenerla tenacemente. La
Società e la
Legge chiudendo il prevenuto, e sequestrandolo da ogni relazione,
circondandolo di terrori, saziandolo con pane d'angoscia.... hanno confidato
alla religione di chi presiede al Ministero Pubblico d'indagare sottilissimo le
ipotesi della innocenza e della colpa; altrimenti il giudizio diventa
assassinio giuridico. La
Società e la
Legge non sentono bisogno, molto meno vantaggio, a punire: in
ciò non guadagnano la prosperità, nè la morale, nè la economia pubblica, nè
nulla. Se alla religione del Ministero Pubblico la Società non confidasse
altro che la vittoria della pena, come potrebbe resistergli il
prevenuto? Chi cercherà le difese per lui? Chi lo assisterà? Chi supplirà con
lo ingegno e la pacatezza a quanto gli rapiscono il tedio del carcere, e le
ansietà della procedura? Come mai il prevenuto, sbigottito e solo, durerà
davanti l'Accusa fredda, acuta, esercitata da lunghissima scherma, sovvenuta da
cento braccia e da cento occhi, terribile Briareo? No; - l'Accusa è tutela di
verità: se dimentica il suo instituto, o lo calpesta; se le prove della
innocenza sopprime; se i testimoni favorevoli esclude, o non ascolta, o non
provoca a dire quello che sanno; se i mezzi per chiarire la verità rigetta, -
paga solo di quanto ella pensa capace per la condanna.... allora, perchè si
raddoppiano impieghi? Perchè si commettono inutili spese? Il carnefice può fare
tutto da sè.
Continuando adesso io
dico, che se l'Accusa con le sue imputazioni vuolsi referire alla mia visita
nel Castello di San Giovanni Battista, io colà mi recai in compagnia del signor
Montanelli con la semplice intenzione di esaminare la indisciplina della
milizia, che da ogni parte mi affermavano vergognosa. Trovai la Fortezza chiusa, remosse
le sentinelle, Popolo stipato sotto le mura, parte dei soldati alle trincere,
parte vaganti, e le milizie e il Popolo avvicendarsi ingiurie e sassate. Fatto
aprire le porte, il Popolo vi sì precipitò, ma venne, con molta difficoltà,
respinto, adoperandomivi io stesso. Dentro, tumulto infernale. Anche cotesta fu
trista giornata. Le milizie schieraronsi in tre file, due laterali, una di
faccia; da sinistra i Volontarii gridavano: Viva la Libertà! Viva il Governo
Provvisorio! - Verso questi si avviò il signor Montanelli. Io, accompagnato dal
Colonnello Baldini, m'incamminai al centro. Qui sorgevano diverse le grida;
alcuni urlavano: Viva Leopoldo! - Altri: vogliamo andarcene! - Altri
finalmente, e questi erano i troppo più: vogliamo la massa! Alcuni
artiglieri, ma rari, minacciavano volerci puntare contro i cannoni. Passando
davanti alla Linea, non una, nè dieci, ma cento volte dissi: che il Governo non
costringeva nessuno; e chiunque volesse ritirarsi, lo facesse liberamente; noi
poi non essere nè padroni, nè signori, nè nulla; soltanto preposti a mantenere
illeso lo Stato a benefizio dello Stato medesimo, e di quello a favore di cui
si sarebbe dichiarato il voto universale; ognuno di loro avrebbe potuto votare
come meglio credeva.
E queste cose diceva in
parte suggeritemi dagli stessi Ufficiali, che mi assicuravano come i soldati
ritenuti a forza avrebbero voluto partire; e lasciati partire, avrebbono voluto
rimanere. Così invece di esortare i soldati al giuramento, e incutere timore ai
repugnanti, la verità è, che per me concedevasi a tutti facoltà amplissima di
restare o di andare. Le mie proposizioni compariscono vere dalle cose che
seguono:
Nel giorno stesso ci
pervenne la seguente Protesta:
«Ai Signori Membri del
Governo Provvisorio.
L'ordine, la Patria e la Guerra della Indipendenza,
essendo la divisa di tutti gli Uffiziali toscani, quelli della milizia
stanziale di Firenze protestano altamente pel loro onore in faccia alla Toscana
e alla Italia tutta, che i loro sentimenti non concordano con quelli espressi
questa mattina da una parte dei loro sottoposti ai signori Membri del Governo
Provvisorio, e pregano il Governo suddetto a rendere di pubblica ragione la
presente dichiarazione.
Firenze, dalla Fortezza
di S. Giovanni Battista, li 11 febbraio 1849.»
Questa Protesta
presentava l'intero collegio degli Ufficiali dei Volontarii, del Reggimento di
Artiglieria e del 4° di Linea: l'originale è negli Archivii, la copia nel Monitore.
Pochi soldati si
prevalsero della facoltà di partire; e i partiti, come gli Ufficiali
presagivano, tornarono chiedendo essere ammessi al giuramento, che avanti
rifiutavano. - (Monitore, 12 febbraio 1849.)
A Pontremoli i soldati
reputandosi sciolti dalla milizia, disertano con arme e bagaglio; ma breve
tratto di cammino percorso, tornano addietro, e parte spontanei, parte persuasi
dagli Ufficiali, giurano. - (Monitore, 15 febbraio.)
A Portoferraio varii
soldati tumultuano; vengono repressi dai Sedentarii, timorosi che non si
vogliano unire ai galeotti per mandare in subbisso la città. - (Monitore, 15
febbraio.)
Gli Ufficiali delle
milizie stanziate all'Elba mandano al Governo Provvisorio la seguente Protesta:
«Gli Uffiziali del 2°
Battaglione del 3° Reggimento di Linea, di guarnigione a Portoferraio,
protestano, nulla avere risparmiato per quanto loro incumbeva, onde prevenire
gli eccessi commessi nei tre precedenti giorni da molti individui del
Battaglione medesimo. Quindi solennemente dichiarano di avere disapprovato
l'accaduto, avvenuto con loro dolore per subdoli raggiri, e di non approvare
quanto fosse per seguire di consimile, giacchè i sottoscritti intendono di
servire fedelmente alla Patria, all'Onore, al Governo Provvisorio, e a tutto
ciò che per le superiori disposizioni potrà contribuire alla tanto sospirata
Indipendenza Italiana.
Portoferraio, 13
febbraio 1849.»
A questa Protesta
accenna il Dispaccio del Ministro della Guerra, al Governatore di Portoferraio,
del 16 febbraio 1849. «Pervenuta a questo Ministero per l'organo del Maggiore
Orselli Comandante il Battaglione che trovasi ora in cotesta Città, una
Protesta di cotesti Ufficiali, che fa loro onore, il Ministero medesimo non può
che esternare su di ciò la piena sua soddisfazione, scorgendo in essa quei
sentimenti che non possono andar disgiunti da chi apprezza la Patria, l'onore, ed i
voleri di un Governo eletto dalla pluralità dei voti di un Popolo479.»
Sessanta soldati soli partirono
dalla Elba, e sessanta tumultuarono a Livorno. Qui il Popolo gli arrestò. Lo
Stato Maggiore del presidio di questa Piazza protestò devozione al Paese
rappresentato allora dal Governo Provvisorio. Sopra gli altri il maggiore
Pescetti, che non rifiniva di persuadere i soldati, com'essi non avessero a
badare tanto in là, e dovessero difendere con tutta l'anima da qualunque
invasione straniera la Patria,
che gli nudrisce e paga durante la vita intera, perchè col braccio la
proteggano un giorno. - (Monitore, 15 febbraio 1849.)
A Lucca, tranne
pochissimi, soldati e Ufficiali si mostrarono pronti di obbedire al concetto di
mantenere il Paese quieto dentro, difeso fuori, fino al resultato del voto
universale; e invece di aspettare insinuazioni o abbisognarne, mandavano agli
altri proclami per trasfondere in essi lo ardore dal quale, a sentirli, si
dicevano animati.
La
Linea
senza riguardi voleva la Repubblica:
«Fratelli d'Italia! Non
seconda è la Linea
a quei sentimenti che Veliti e Granatieri hanno mostrato alla Nazione;
essa pure sente nel cuore l'alto disimpegno che l'è affidato, sente gli affetti
di Patria, l'idea sacra della Libertà. Il traviamento di pochi, che ogni sforzo
all'opera non omesso a ricondurli al giusto e perfetto sentiero (sic),
non sia per dare idea di corruzione nel totale.
Pronta ed avida di far
mostra di sè al mantenimento dei diritti sociali, alla difesa della Libertà e
della Indipendenza d'Italia, anela quel momento di stringere la mano d'unione
al Popolo, per nuovamente combattere il comune nemico, quando chiami la tromba
all'onorato appello.
Sì, Fratelli! giura
altamente esser con voi e con le altre milizie, nella brama che la Patria risorga, e vendicare
quei valorosi che un dì pugnando morivano sui campi lombardi.
Viva il Governo
Provvisorio toscano! Viva la Repubblica Romana ec. ec. ec.
Livorno, 15 febbraio
1849.
La Linea.»
Più rimessi i
Granatieri, pubblicavano parole portentose a dimostrare la gran voglia che
provavano di farsi fare a pezzi, pei fini di che avverte lo stupendo loro
Proclama,
«Livornesi!
Alcuni soldati,
dimentichi di sè stessi, ignari del proprio dovere, a scherno di noi tutti,
tentarono la fuga, e corse voce per ogni via di Livorno, essere dei Granatieri;
ma, siccome galleggiano in seno al mare le navi, così l'innocenza più
leggiera galleggia sopra l'infamia e i delitti480. Vi supplichiamo a disprezzare e non credere i
retrogradi che amano porre discordie fra il Popolo e i Soldati.
No, non vogliamo che
rida su di noi lo straniero, non vogliamo che le Armi Fraterne, intente
alla difesa della Patria, brandiscano contro i petti nostri, ma anzi
l'impeto del nostro furore le faccia sfavillare nella gente nemica allorquando
pugneremo a fronte i diritti della bella Penisola, e la tanto sospirata
Libertà. (sic.)
Livornesi! ogni
cittadino è soldato; or dunque facciamo di noi salda catena, la quale sarà
di cilicio al barbaro Croato che tenterà spezzarla.
Sì, giuriamo tutti sul tricolore
Vessillo, di farci fare in brani pria che vederlo sventolare in mani
tedesche. Fratelli! scordate quei detti pestiferi vomitati da Vipere
velenose, amanti di discordia fra noi, la rovina di tutta l'Italia; è
loro che fuggitivi (sic) vogliamo che sentano il peso di quella pena
quale si deve ai Traditori di Patria. Uniamoci, e la vittoria è certa.
Viva il Governo
Provvisorio! Viva l'Italiana Indipendenza! Viva l'Unione.
S. B. -
I Granatieri.»
Le Guardie di Finanza (e
fecero bene, e le lodai allora di Palazzo, e torno a lodarle adesso di
prigione) accorsero spontanee a tenere in rispetto Empoli che sembrava volere
rinnuovare il guasto della odiata strada a vapore481.
Nè mancarono i Veliti, chè anzi primi fino dal 12 febbraio, non contentandosi
di favellare ai soldati Toscani, si rivolsero a tutti quelli d'Italia, e loro
dicevano.... Ma sarà meglio ch'eglino stessi i proprii concetti manifestino:
«A tutti
i Soldati Italiani di Toscana!
Fratelli! Camerati!
L'affetto e la riconoscenza ad un uomo è un lodevole sentimento; ma il
sentimento più puro e più nobile è quello del Cittadino verso la sua Patria.
Prima di rivestire una uniforme di soldato noi eravamo Cittadini, e tuttora
siamo Cittadini a buon titolo, poichè vestiamo le insegne e portiamo le armi
dei difensori della Patria. Rispettiamo noi stessi nei Governanti eletti dal voto
del Popolo, di quel Popolo di cui noi pure facciamo parte. Riserbiamo le ire
contro il nemico comune, contro lo straniero oppressore dell'Italia, e giuriamo
di volere essere soldati e difensori di questa Italia, madre comune di tutti
noi, di questa Italia che fino a quest'oggi fu debole perchè divisa in brani,
ed ora comincia ad esser forte perchè si unisce al cenno di Roma, della città
che Dio ha posto a capo e centro della forza e della gloria italiana. Fino a
quest'oggi il superbo straniero rideva dei soldati toscani del Papa, e
gl'insultava chiamandoli guardie del Santo Sepolcro. Ma lo straniero non riderà
e non insulterà ai guerrieri della grande Nazione Italiana. Uniamoci dunque in
un amplesso fraterno ai nostri concittadini, e gridiamo con loro:
Viva il Popolo Italiano!
Viva Roma eterna! Viva l'Italia!
Firenze, 12 febbraio
1849.»
(Seguono
le firme dei componenti il Reggimento Veliti.)
E non si voglia
dimenticare, in grazia, che in quel giorno stesso, 12 febbraio, io mi opponevo allo
inalzamento dell'Albero della Libertà in Firenze, e che nel giorno seguente,
13, soldati toscani e Popolo empievano i cortili di Palazzo Vecchio, con
tremende grida proclamando la
Repubblica; in fine, che soldati erano quelli che, poche ore
prima, avevano appeso bandiera rossa alla magione reale.
Il giuramento non
conteneva in sè espressione o concetto il quale, in modo irrevocabile,
alienasse i soldati dalla Monarchia Costituzionale: presentava anch'esso il
carattere di provvisorio; e quando pure avesse dovuto ritenersi permanente,
anche alla restaurazione dello Statuto applicavasi: «Giuro fedeltà e obbedienza
alle Leggi e ai Poteri esecutivo e legislativo costituiti e da costituirsi
dal libero assenso del Popolo. Giuro difendere e sostenere col mio sangue
la sacra bandiera italiana sotto cui ho la fortuna di militare, e di non
mai abbandonare o vilmente cedere il posto che mi verrà affidato. Giuro
sdegnare qualunque relazione col nemico della Patria. Giuro di non usare le
armi che contro i suoi nemici sì interni che esterni. Giuro di prestare
obbedienza a tutti i miei superiori, e rispettarli e difenderli482.» Porge testimonianza della verità di quanto
poco anzi affermai, che nessuno soldato fosse stato violentato, anzi nemmeno
blandito a rimanersi, l'Ordine del giorno dell'11 febbraio 1849: «Il
Capitano interrogherà ciascun soldato della sua volontà di servire la Patria, oppure
abbandonare le bandiere. Quelli che vorranno continuare saranno raccolti ec. -
I soldati poi che avranno deciso abbandonare le bandiere, verranno
immediatamente licenziati senza congedo alcuno. Il Governo Provvisorio
rilascerà loro la giacchetta di panno e il berretto di fatica483.» L'Auditore Padelletti nell'Atto del 27 agosto
1849 dichiara: «Non feci Processo verbale perchè non vi era bisogno, essendo
liberi di andarsene quelli che non volevano servire il Governo Provvisorio484.»
Come a me poco
importasse di questo giuramento l'ho dimostrato riportando la lettera spedita
al Consigliere Paoli nel 13 febbraio 1849, nella quale si legge la sentenza: «Non
abbiamo bisogno di giuramento; ma se pure lo prestano, meglio che mai485.»
Nè quanti rifiutarono
giurare ebbero a patire per parte del Governo Provvisorio molestia: all'opposto
si accettarono di nuovo, reintegrandoli facilmente nei loro gradi e titoli di
anzianità. «Il Governo Provvisorio, volendo attribuire ad aberrazione
momentanea di mente, anzichè a mala volontà, il fatto di quei militari che ricusarono
di prestarsi al giuramento di fedeltà alle nuove istituzioni, ha ordinato che
vengano riammessi al servizio, senza perdita di anzianità, tutti coloro che
pentiti del commesso fallo si sono di già costituiti e si costituiranno alle
militari bandiere per riprendervi il corso della rispettiva Capitolazione. -
Firenze 17 febbraio 1849486.»
Dai quali fatti deduco,
ed il dedurlo è lieve, non avere punto bisogno le milizie toscane delle mie
insinuazioni per dichiararsi favorevoli al Governo Provvisorio; recandomi
inerme e solo in compagnia del Montanelli, non potere usare violenza alla
milizia, ma all'opposto essere in facoltà della milizia ritenerci prigioni; gli
Uffiziali delle tre armi, onoratissima gente, se le mie parole non fossero
state ristrette in questa formula: «Qui non si tratta altro che di difendere la Patria, e questo di voi
altri soldati è dovere supremo. In quanto al Principe o forma di Governo,
dipenderà deciderne all'Assemblea toscana eletta con suffragio
universale. Voi pure, soldati, darete il voto alla persona, o persone, che
penserete più acconcie a sostenere il vostro voto;» (se, dico, così da una
parte e dall'altra non fosse stato detto ed inteso), è da credersi che da me,
inerme, in mezzo a loro, dentro Fortezza chiusa, avrebbero con equo animo
ascoltato proposizioni di tradimento? Può egli supporsi, che essi avrebbero
mandato spontanei, senza che nessuno gliela chiedesse, padroni del Castello
assoluti, la protesta del 12 febbraio contro una parte della milizia, se i
sensi manifestati da questa fossero stati tutti affetto, tutti spiranti
benevolenza e devozione al Principe? Avrebbero eglino pregato il Governo a
rendere pubblica la dichiarazione di non concordare co' sentimenti espressi da
una parte della milizia? - No, ripeto, qui non si trattava tradire nessuno, lo
intenda bene l'Accusa, sibbene tutelare la Patria fino al voto dell'Assemblea: - no, le
grida dei pochi soldati non suonavano devozione, ma sì piuttosto impazienza di
servizio militare, e cupidità di recuperare le masse perdute.
Adesso esamino se le
milizie laugeriane potessero essere per opera mia corrotte, o spaventate da me.
Le milizie dopo le rotte sogliono rilassare la disciplina; questo noi vedemmo
accadere anche negli eserciti incliti per militari ordinamenti, come a mo' di
esempio quelli di Napoleone; le nostre milizie, dicasi con rammarico, non
avevano mai avuto il pregio della disciplina, e per maggiore stroppio erano
state vinte. Non è mio studio trattare qui dei modi di comporre ed istruire lo
esercito in Toscana; basti dire, ch'eglino erano tali, da produrre effetti
pessimi, e li partorirono. Gli Ufficiali disprezzavano i soldati a un punto, e
temevano; i soldati avevano a vile gli Ufficiali, e gli odiavano; non fu
spettacolo capace di rassodare la disciplina davvero la mutua detrazione. Il
Generale Laugier, preso da impeto, coperse di obbrobrio a Valleggio gli
Ufficiali, al cospetto dei soldati. Per avventura poteva avere ragione di
concepire amarezza inestimabile contro gl'imbelli, ma si ha da confessare eziandio,
che il modo tenuto tagliò alla radice la disciplina. Cotesti Ufficiali non
potevano più durare al comando. Non importa che io dica come occorressero
nobili eccezioni, e non poche, e queste al confronto quanto da un lato facevano
risaltare la bontà dei soldati virtuosi, così dall'altro svelavano come il male
fosse profondo pur troppo. Che cosa, di rovina in rovina, diventasse il nostro
esercito sarà bello tacere, imperciocchè dopo la vergogna vediamo avanzare una
strage nefandissima dalla quale il pensiero inorridito rifugge487. Io narrai come la massima parte dei soldati
raccolti in Castello di San Giovanni Battista, indifferente ad ogni sentimento,
urlasse: «Vogliamo andarcene! La massa! La massa!» La soldatesca
laugeriana, uguale in tutto a questa, non aveva in bocca gridi diversi.
Nello scritto che ho
citato sopra, impresso nel Risorgimento, egli stesso, il Generale
Laugier, dichiara che nel 16 febbraio: «aumentava la diserzione e la
indisciplina nelle truppe; mancava il danaro per pagarle.» Più oltre:
«Moltissimi ordini di previdenze militari non sono eseguiti.» Ancora: «Truppe e
cavalli non avevano preso nutrimento; compagnie senza cappotto; mancano fieno e
biada; cavalleggieri privi di portamantelli. - A Montemagno ordino
strattagemmi guerreschi, che non furono eseguiti con diversi pretesti.» -
«Le truppe, egli aggiunge, erano piene di entusiasmo, non però quelli,
fra queste, che temevano di pericolare il proprio sostentamento, e famiglia.»
A cui coteste parole accennassero, di lieve si comprende, imperciocchè i
soldati semplici non abbiano famiglia, nè il soldo loro sia tale da farli
paurosi di perderlo. Convoca gli Uffiziali e propone loro o ritirarsi in
Piemonte, o far testa a Fosdinovo: rigettano l'uno e l'altro partito; vogliono
capitolare. - A un tratto gli giunge notizia del campo di Porta in piena
rivolta; - «ai soldati essere stato assicurato (egli continua) averli io
traditi, e fuggito in Piemonte. Gli esorto a ricondursi all'ordine, e seguirmi
a Fosdinovo, ma rifiutano ostinatamente gridando: A casa! La paga! La massa!
- Il Colonnello Reghini e molti Ufficiali assistevano impassibili a quella
brutalissima scena. Coloro stessi che io reputai più fidi, mi avevano
abbandonato. Volli che il Commissario di Guerra Pozzi mi mostrasse la cassa;
negava: la pretesi; costretto, aprì; eranvi poche centinaia di lire; l'obbligai
a consegnarle al Capitano Traditi, e ne feci ricevuta. - Ordinai
all'artiglieria, alla cavalleria, ai buoni soldati, seguirmi a Fosdinovo. Gli
Uffiziali non mossero. - Cercai coloro che formavano parte del mio
Quartiere Generale, ed avevano oggetti per me necessarii, che avevo loro
affidati al momento della partenza: non potei mai trovarli! - Mi fermai
all'Avenza con la speranza di vedermi, se non altro, raggiunto da quelli che mi
avevano le mille volte giurato non volere la loro dalla mia sorte dividere, o
almeno restituirmi quello che avevo loro affidato. Inutile!»
Riuscirebbe difficile,
per non dire impossibile, ritrarre con tinte più scure la indisciplina
soldatesca, nè questa poteva essere opera del momento, sibbene derivata da
origine remota; e come si vede, poco, anzi nulla, desumeva da opinioni
politiche, ma tutto da voglia di ridursi a poltroneggiare a casa co' danari
della massa. Nè dicasi che questo portento di disordine nascesse dal mio
Proclama del 22 febbraio 1849, però che óstino due ragioni, una più forte
dell'altra; la prima, perchè cotesto Proclama non fu impresso, nè pubblicato;
la seconda, perchè innanzi che io muovessi da Lucca, De Laugier, deliberato a
partirsi, mandava l'ultimo addio ai Popoli della Versilia. E queste mi
paiono ragioni, che anche dall'Accusa si potrebbero capire.
I soldati toscani un po'
per colpa dei successi, e moltissimo per quella degli uomini, erano ormai
ridotti a tale, che, qualunque mutamento in loro accadesse, non poteva essere
che in meglio. Don Mariano D'Ayala, personaggio di quella rettitudine che tutto
il mondo sa, si dimise dal Ministero della Guerra, sgomento di riuscire a
condurre la milizia a termine ragionevole di disciplina488. Quello che il Generale D'Apice ne pensasse,
può ricavarsi da questi brevi cenni, contenuti nella lettera del 27 febbraio
1849, pubblicata nei Documenti dell'Accusa a pag. 72: - «Alla mia entrata in
Massa, vi trovai il Caos; ed ho dovuto mandare le truppe di Laugier ad
organizzarsi altrove, per dopo richiamarle. - Una compagnia italiana dovei
spedire a Firenze, per evitare la dissoluzione di quel corpo, conseguenza
della indisciplina della truppa, della quale io non ho colpa. - Gli Uffiziali
del mio Stato Maggiore sono animati del migliore spirito, e pieni di zelo e di
attività. Cosa farà la truppa? Lo ignoro.»
Il Ministro della
Guerra, Colonnello Tommi, malgrado i suoi sforzi lodevolissimi, non venne a
capo di nulla; ond'è che giustamente commosso, uscì col seguente Ordine del
Giorno, che ben dimostra quale e quanta fosse la disperazione del male, atteso
i rimedii gagliardi, ch'egli si proponeva adoperare:
«Uffiziali,
Sotto-Uffiziali, Soldati!
La giustizia non può
sostenere più a lungo la indisciplina che disfà l'armata. Ogni mite consiglio,
ogni mezzano temperamento sarebbe una ingiuria alla Patria, che versa in tanto
rischio, da esigere come dal cittadino ogni sagrifizio estremo, così dal
soldato ogni prova più estrema di valore. Nè il valore può essere disgiunto
dall'ordine, che solo costituisce la forza degli eserciti; e l'ordine è
calpestato da voi. Fiacchezza nei comandi, ribellione nelle compagnie, soldati
faziosi, inobbedienti, disertori; ecco il miserando spettacolo che la Toscana ha dinanzi ogni
giorno. E la Toscana
non può soffrirlo, noi non vogliamo, voi nol dovete, ove pensiate uno istante
alla ignominia vostra e del vostro Paese. Su dunque, sentite per voi stessi una
volta riverenza di uomo, ed amore di soldato; e trattenete con contegno
migliore la mano della Giustizia, che pende inesorabile sopra di voi. Noi
l'amministreremo senza pietà, poichè la pietà sarebbe così per voi estrema
rovina, come per noi incancellabile vergogna.»
Se non che a guasto
antico male si ripara con parole; e le minaccie, e i rigori stessi, tornano
inefficaci nella estrema corruzione; sicchè il meglio è disfare, ed a questo
partito penso che si sieno attenuti; ma tanto basti allo increscioso argomento
di dimostrare come le milizie del Generale Laugier e le toscane tutte fossero
di per sè e da gran tempo corrotte.
Prima però che io mi
parta dallo ingrato soggetto promosso dalla suprema indiscretezza dell'Accusa,
e da me assunto per necessità di difesa, abbiano meritata lode i generosi
soldati che si mostrarono degni di fortuna, non di causa migliore; - con grato
animo io la profferisco loro, e desidero ch'essi non l'abbiano meno accetta,
perchè venga dalla parte di un prigioniero.
§ 10. Perchè il
Generale Laugier si partisse da Massa.
Apparisce chiaro del
pari, che non per me il Generale De Laugier fosse costretto ad allontanarsi.
Due vie egli aveva per riuscire alla impresa: o una forza irresistibile e
materiale, o un consenso universale di Popolo. Per la prima aveva mestieri del
soccorso piemontese, per la seconda no. La seconda era scevra da conflitto
sanguinoso, e da guerra civile; la prima difficilmente, imperciocchè le armi
allora non erano poche in Toscana, terribile il furore della gente armata, e la
concitazione di parte del Popolo maravigliosa; ed una volta venute a riscontro
le due schiere, l'una avrebbe voluto andare innanzi, e l'altra spingere
indietro, la quale cosa come possa definirsi senza zuffa tra uomini che tengono
le armi in pugno, e si reputano nemici, io non so vedere. Ad ogni modo questo
partito venne meno, col rifiuto o con la disdetta dello intervento piemontese489. Avanzava l'altro; ma non correva la stagione
opportuna, nè poteva farlo riuscire De Laugier, come ho notato poco anzi:
questo doveva partirsi dal centro ed estendersi alla periferia: alla rovescia,
senza molto polso di armi, non vedemmo mai riuscire simili moti, perchè hanno
sembianza di aggressione, e trovano i Popoli indifferenti o contrarii; nè
ricorrere alla forza diventa meno incomodo a cui l'adopera che a quello contro
cui si adopera, conciossiachè per esempii quotidiani rimanga chiarito come
quegli che usa la forza si trova sempre, per vicenda di casi, tratto più in là
che non voleva; e sostenuto da gente cupida, e spesso anche pessima, almeno in
parte, ch'è del pari pericoloso accettare o ricusare, comincia co' consigli
proprii e termina sempre o quasi sempre con gli altrui: per le quali cose,
trovandosi debole suo malgrado, è costretto ad abbracciare partiti violenti, e,
posto ormai sul pendio, bisogna che vada.... e vada tuttavia - prima di passo,
e poi di corsa a precipizio. Il tempo pertanto non era opportuno; e il modo
anche meno: ritornerò fra poco su questo argomento. Frattanto giovi notare come
De Laugier, incontrate appunto le popolazioni indifferenti o avverse, depose
giù dall'anima la impresa avventata prima assai che io mi muovessi da Firenze.
Di vero, la mia partenza fu il 20 febbraio, ed egli ci racconta nella sua
Relazione del 1° marzo, che nel 17 già era solo; non secondato che da pochi,
contrariato segretamente dalle autorità politiche e governative, in niun luogo
aveva appoggio, meno in lui solo490. Viareggio non si
mostrava disposta a contrastare co' Livornesi, essendo fra loro dimestichezza
grande a cagione dei commerci491; più tardi protestò
apertamente contro De Laugier492. Pietrasanta non si
commosse493, Lucca e Massa
mormoravano contro di lui494. Carrara gl'insorgeva
nemica, Camaiore ci accoglieva festosa; soldati Piemontesi non venivano; i suoi
per fame, per difetto di paga, per indisciplina, sbandavansi; tutto questo
basta, e ce n'è di avanzo, per fare capitare male un disegno importuno. Ma in
conferma del vero, stiamoci agli stessi laugeriani Proclami. Nel 21 febbraio,
appena entrato io a Lucca, egli così avvisava i Pietrasantini.
«Pietrasantini!
Io voleva sostenere i
diritti di Leopoldo Secondo mio legittimo Sovrano; le popolazioni non hanno
corrisposto; siamo pochi, e perciò mi ritiro, perchè mi ripugna di versare il
sangue cittadino.»
Nelle prime ore del
giorno 22 febbraio mi pervenne nelle mani questo altro:
«Popoli
della Versilia!
Voleste risparmiar l'orrore
di una guerra abbominevole, io vi aderisco; nessuno desidera versare il
sangue cittadino, meno dell'Italianissimo Generale De Laugier.»
Veramente nella sua
Relazione datata 1° marzo, Sarzana, copiosa d'inesattezze, egli c'insegna come
nel 21 febbraio fosse deciso andare a Lucca, e nella notte ritirandosi
avesse ordinato a Montemagno strattagemmi guerreschi; e se non condusse a
fine il primo proponimento, e' fu perchè le milizie nol vollero, o nol poterono
seguitare; il secondo (che non mi sembra diretto a risparmiare sangue) gli
fallì, perchè sotto diversi pretesti non venne eseguito. - Che che di
ciò sia, il Generale Laugier nelle prime ore del giorno 23 partiva per Sarzana.
- A me si presentò la
Deputazione Massese in Pietrasanta, nel giorno 23 febbraio,
verso le ore 2 p. m.495
Da tutto questo, se non
erro, mi sembra provato: che io a Lucca andai per sottrarmi a presentissimo
pericolo; nel concetto di allontanare dalla città in momenti di esasperazione
gente arrabbiata; per rendere innocua la Spedizione, la quale, senza me e contro me, con
offese e con morti sarebbesi fatta; e rimane chiarito eziandio, come non paure
d'incendii o di saccheggio io incutessi, ma parole civilissime e cristiane
favellassi, perdono a tutti concedessi, i soldati del Generale Laugier non
corrompessi (poichè tanto, più guasti di quello ch'erano non si potessero fare,
nè pervenisse a loro il mio Proclama; anzi prima che io lo scrivessi, si
fossero, molto per colpa loro, moltissimo per colpa di chi li lasciò senza paga
e senza pane, sbandati); Laugier non costringessi a partire, come quello che i
Piemontesi non vollero soccorrere, le popolazioni seguitare, i soldati
obbedire; finalmente che in tutto quel successo io non favorii la Repubblica, anzi
neppure la rammentai nei pubblici Atti, malgrado i focosi eccitamenti degli
uomini mandati dalla Fazione repubblicana a sorvegliarmi; e che pei fatti e per
le ragioni politiche io ritenni, e doveva ritenere, la mossa del Generale
Laugier, operata senza il consentimento del Principe, contraria agl'interessi
della Patria.
Che mal consiglio fosse
cotesto, e capace di sobbissare il Paese con la guerra civile, universalmente,
crederono, ed io allora credei, e credo ancora. I Popoli se ne commossero
prima, e se ne rallegrarono poi come di lutto domestico evitato. Santissimi
Vescovi ne resero, spontanei, grazie solenni a Dio!
|