XXVIII.
Mio disegno; motivi che
lo persuasero, ed espedienti per conseguirlo.
Come il tempo negli
antichi marmi corrompendo taluna lettera, e tale altra consumando, rende le
iscrizioni a leggersi difficili, così la forza degli eventi, esercitandosi
sopra le opere dell'uomo politico, quasi sempre ne scompone il disegno; però,
nel modo stesso che periti archeologhi sanno ricostruire le prime, e ridurle ad
ottima lezione, uomini che la scienza del governo degli Stati professano,
indagando, ritrovano in mezzo alle scosse della fortuna, e alle deviazioni
della necessità, il concetto dell'uomo politico. - E non sarà soltanto legge di
giustizia storica, bensì di giustizia universale, giudicarlo non già con le
norme assolute del retto, e del giusto, bensì con lo esame dei tempi nei quali
visse, e degli avvenimenti che lo costrinsero ad operare551. Che se questa sentenza dettata da Ugo Foscolo
fu reputata vera, ragionando dello scopo di Gregorio VII, tanto maggiormente
deve accettarsi nel mio, in quanto che le forze del tempo, se meno si
presentavano ardue a dominare, più inopinate e furiose imperversavano a scuotere.
Io però rinnegherei la esperienza e la verità, se o credessi o affermassi, che
agevolmente dagli uomini politici si renda giustizia agli uomini politici loro
contemporanei: chè da un lato le Fazioni pervertono lo intelletto, il giudizio
per passione si corrompe; e sovente eziandio, più che non converrebbe a spiriti
elevati, invece di affaticarsi a cercare il vero sotto la fronte prima delle
cose, pigramente si accomodano alla volgare sentenza. Onde, a senno mio, non le
preghiere soltanto, come disse Omero, sono zoppe e losche, ma la verità
altresì, avvegnadio veda a poco per volta, cammini tarda, e troppo spesso non
giunga neppure in tempo a chiudere gli occhi al travagliato dalla fortuna e
dagli uomini. M. Lamb, che fu poi Lord Melbourne, con aggraziata e verace
scrittura deplorò la condizione dei Ministri di Governo, la quale mi piace
referire onde si veda se questa sia stoffa da mettersi fra dita di uomini
rusticani, e per di più maligni:
«Le geste del soldato si
compiono davanti alla faccia del sole, alla luce del giorno, presenti i
compagni, e i nemici contro i quali ei combatte. Tutti le vedono, le conoscono
tutti; nessuno le contrasta, o le attenua. La fama tosto pel mondo le spande: e
tosto il premio di lode dovuto ai salvatori degli Stati ricevono. Il sagrifizio
di un Ministro e la devozione dell'uomo di Stato sperano invano
ricompense siffatte; però che gli sforzi loro adoperandosi più spesso a
prevenire, che a comprimere grandi vicissitudini, avviene che rimangono oscuri,
ignorati, esposti a tutte le false interpretazioni della ignoranza e della
mala fede. Li criticano, li accusano, e li condannano, mentre all'opposto
meritano il plauso della Patria non ingrata. Quante e quante volte questi
sforzi generosi e penosi vanno obliati in mezzo alla pubblica sicurezza
mantenuta da loro, o alla prosperità per essi iniziata552!»
Ora il mio disegno da
alcuni in parte si disprezza, in parte si nega; da altri si confessa, ma si
calunnia, e acerbissimamente riprendesi.
Qui emmi venuta in testa
certa fantasia di raccontare una storiella, la quale, comecchè alla mestizia
dello argomento non convenga, pure alle fortune che provo maravigliosamente si
accomoda; ed è questa. Fu già un Dottore, ma non ricordo il nome, di assai
tenera pasta, al quale, quantunque volte gli capitava operare qualche bene,
pareva proprio andare a nozze; e malgrado che da questo suo costume gliene
fossero venuti fastidii non pochi, e molestie grandi, pure non si sapeva
ridurre a mutarlo. Ora accadde, che, passando per certa contrada, s'imbattesse
in un marito ed in una moglie, i quali con una pertica e con un bastone si
ricambiavano univoci, e non equivoci (come direbbe l'Accusa),
segni di coniugale affetto. Il buon Dottore acceso di sdegno cacciavasi
risoluto in mezzo agli arrabbiati, e, messa la destra al petto dell'uomo, la
sinistra non so in qual parte della donna, teneva l'uno dall'altra lontano,
esclamando: - «In questa maniera, sciagurati!... per voi si rappresenta la
Unione di Gesù Cristo con la Chiesa? Così si fa bugiardo il primo padre Adamo,
quando disse, che marito e moglie sarebbero stati due in una carne sola?...»
E continuava a dire; ma
il marito, accigliato, gli rispose: «E che cosa importa a lei dei nostri fatti?»
E la moglie dall'altra parte: «O come entra lei nei fatti nostri?» E poi marito
e moglie insieme: «E se ci vogliamo bastonare, o che cosa gliene ha da premere?
Se tanto bastonassimo lei!... e se lo meriterebbe... se lo merita.... io lo
bastono... tu lo bastoni... noi lo bastoniamo...» E i coniugi coniugarono il
verbo bastonare sul corpo del Dottore. Gliene dettero cento, tanto erano e
giustamente infelloniti costoro; ma il povero uomo non sentì le dieci, chè
cadde alle prime percosse malamente ferito sul capo. Il Cerusico, accorso,
prima di medicare la piaga, prese co' suoi ferri a scandagliarla, onde il
Dottore traendo doloroso guaio: «Ohimè» disse, «che cosa fate, Cerusico?» E il
Cerusico a lui: «Io tasto per vedere se vi hanno offeso il cervello.» - «Ah!
Cerusico mio» soggiunse il ferito, non istate a perdere tempo, fasciatemi il
capo addirittura; e vi pare egli, che se avessi avuto cervello mi sarei messo
in mezzo a scompartire moglie e marito?» - Così è, voi troverete la storia dei
moderatori dei Partiti in tutto uguale a quella del Dottore e alla mia.
Ma, delle due Fazioni,
per ora parlerò intorno alla prima rappresentata dagli Accusatori e dai
Giudici, intervenuti fin qui in questa lamentevole procedura. La parte che da
loro adesso si tiene a vile, e la pubblica e la privata sicurezza difese; e sta
bene; voto di naufrago, passato il temporale, raro si ricorda: la parte che si
nega, è che, consentendo io a quello che formava allora, e conosceva
sperimentalmente formare il desiderio della parte grandissima del Paese (voglio
dire stabilire ed usare le libertà costituzionali), procurassi con ogni mezzo
legale e leale, senza neppure atomo di comodo privato, che con modi civili la
universalità del Popolo la restaurazione dello Statuto decretasse.
Ma se altri lo impugna,
a me basti averlo dimostrato fin qui, e compirne adesso la dimostrazione. Ho
detto come a simile intento per me fossero adoperati di due maniere partiti: i
primi di resistenza, i secondi d'iniziamento. Mi si conceda toccarli
succintamente da capo, per mostrare poi quanto sembrasse la conclusione
propostami razionale e onorevole.
Rispetto ai primi, la
resistenza fu opposta alla forza, all'astuzia e alle adulazioni. - La forza
apparve materiale e morale; e poichè anche sommarne i capi saría troppo lungo
lavoro, mi commetto alla benevola memoria del leggitore. - Astuzia fu la
insistenza per la proclamazione provvisoria della Repubblica, salva la conferma
dell'Assemblea; - astuzia le otto proposte preliminari per la Unificazione, del
27 febbraio, quasi accettate dal Presidente del Governo; - astuzia i due
Ministri romani, ordinario e straordinario, qui fermi per sollecitare ogni
momento; e i due ambasciatori straordinarii mandati il 15 marzo per isforzare
la Unificazione immediata553; - Ciceruacchio, alla
testa di una Deputazione del Popolo di Roma portante il voto del medesimo per
la unificazione con la Toscana, nel 17 marzo non già da Livorno
direttamente avviatosi a Firenze, ma aggirantesi per Pisa, Lucca, Valdinievole,
Pistoia e Prato, onde concionare i Popoli, e strascinarli ad ogni modo
nello statuito disegno554; - e il Ministro degli
Esteri, Rusconi, qui venuto in fretta ad assicurare, che Francia e
Inghilterra avrebbero impedito qualunque intervento nella Repubblica della
Italia Centrale (e non era vero), purchè costituita555. - Lusinghe: la Deputazione romana venuta a
offrirmi la carica di Triumviro a Roma, e la proposta espressa che di ciò fece
il Principe di Canino Presidente all'Assemblea Romana.
Partiti d'iniziamento
furono: impedire che il Popolo facesse da sè; ostare, per quanto era
dato, che il Governo non passasse alle moltitudini in piazza, la macchina
governativa non si disfacesse, gl'impiegati probi e animosi non fossero
cacciati o se ne andassero per dare luogo a gente forse prava, certo incapace;
attendere con somma diligenza che le proprietà e le vite dei cittadini si
rispettassero, onde il Popolo, mutata natura, non diventasse feroce; -
rigettate le misure di Legge dei sospetti, di armate mobili rivoluzionarie, di
supplizii immediati, e impedito che i Faziosi facessero da sè; -
rigettate le misure di mettere mano violenta negli argenti sacri, e nelle borse
dei ricchi, e impedito che i Faziosi facessero da sè; - i più temibili
fra gli agitatori o cacciati, o allontanati, o imprigionati; - i Ministri
Marmocchi e Mordini persuasi a sostenermi nello assunto della Restaurazione per
via delle Assemblee Costituenti; - dei Giornali, qualcheduno reso favorevole;
altri pregati a cessare, o a moderarsi; - armi tolte al Circolo; - emigrazioni
armate allontanate dalla città; - Religione protetta, delegando il Tribunale di
Volterra a giudicare delle ingiurie patite da lei; - Arcivescovo richiamato; -
Magistrati difesi; - con ogni mezzo attutito il delirio del Popolo, e richiamata
la intera Toscana al sentimento delle sue tradizioni, dei suoi costumi, dei
suoi interessi, della sua capacità, e della sua potenza; con altre più cose,
che nel corso di questa Memoria vengono sparsamente discorse.
Quello però su cui giova
trattenermi con maggiore larghezza è il provvedimento legale destinato a
operare la Restaurazione. Considerando come alla piena del Popolo, che aveva
fino dall'8 febbraio decretato la Unificazione con Roma, la Decadenza della
Corona e la Repubblica, fosse impossibile resistere direttamente, fui sollecito
di pubblicare il Decreto del 10 febbraio 1849. Ho detto come questo e l'altro
Decreto del 14 successivo venissero presentati dal signor Montanelli, e non
furono sua fattura, ma sì, mi sembra, del signor Avvocato Rastelli; e mi
affrettai a sottoscriverli per tre ragioni distinte, e d'importanza
grandissima: 1a perchè mi davano tempo di un mese e più, e il tempo
in questi negozii è tutto, checchè paia diversamente opinare l'Accusa,
dall'autorità della quale, in fatto di politica, mi sia lecito discostarmi; 2a
perchè a fine di conto mi assicuravano di un'Assemblea toscana, la quale
degl'interessi toscani discutesse, e il Paese veramente rappresentasse556; 3a perchè, sebbene dichiaravasi che
la forma del Governo della Toscana sarebbe stabilita dalla Costituente
Italiana, però la Legge sopra questa Costituente si prometteva, e non si diceva
nè come aveva ad essere composta, nè a quali condizioni vincolata557.
Fu per me dimostrato con
quanto, non dirò sfavore, ma furore venisse ricevuta cotesta Legge dai
Repubblicani. Il Popolano la lacerò acerbamente: espose i pericoli della
dilazione alla proclamata Repubblica; minacciò guerra civile; rampognò il
Governo per la sua repugnanza di aderire alla dichiarazione popolare della
decadenza del Principe; insistè aspramente nel sollecito uso di mezzi violenti
e rivoluzionarii, con altre enormezze, di cui con non mediocre fastidio venni
raccogliendo la storia da quello e da alcuni altri Giornali, che in quel tempo
si pubblicavano. In proposito di cotesta Legge la Costituente Italiana
del 13 febbraio 1849, prendendo a discutere strettamente la materia con
raziocinii affatto rivoluzionarii, dopo avere detto con focose parole quanto ho
riportato a pag. 333 e 334 di questa Apologia, continuava così: «Noi lo
ripetiamo ancora una volta ai Cittadini del Governo Provvisorio: osate, osate.
Unione con Roma e convocazione della Costituente. L'istinto popolare nel suo
squisito buon senso ha già precorso il vostro giudizio, e domanda questa
Unione. Voi avete udito il suo grido di gioia, e il saluto a quella Repubblica
per cui vuol vivere e morire; voi potete e dovete sanzionare quel saluto
e quelle grida.» Nel successivo N° del 14: «Abbiamo meditato sopra il Decreto
che convoca un'Assemblea legislativa toscana, e, in onta alla buona
intenzione, non abbiamo saputo indovinarne le ragioni politiche, nè il
principio di diritto. Un'Assemblea uscita dal suffragio universale, in un Paese
abbandonato al Provvisorio, o non ha voto, o non ha senso, o si colloca come
Sovrano in faccia al Popolo da cui fu eletta.»
E dietro lei la folla
dei Giornali del Partito, urgentissima tutta, come se si trattasse di scaldare
al fuoco mozziconi di candela di cera e appiccicarli insieme! In verità io non
capisco più dove sia andato il senno italiano. La massima parte dei Popoli,
repugnante o inerte, come spingiamo noi? Con questo strepito forse? No certo:
con che cosa dunque? Col terrore; e questo non dovevate, nè potevate domandare
a me; e a questo dovevo oppormi, e mi opposi. I Repubblicani, avendo penetrato
il riposto consiglio che dettò il Decreto del 10, presso il signor Montanelli
si adoperarono; il quale, piegando alle insistenze loro, apparecchiava il
Decreto del 14 febbraio, o, come ho detto, per lui lo apparecchiava l'Avvocato
Rastelli. Non vi ha dubbio: il Decreto del 14 febbraio metteva le mani
dell'Assemblea Romana nei capelli alla Toscana; legata ad una rota del carro
della Repubblica Romana, era mestieri che la mia Patria precipitasse nella
carriera perigliosamente inane di quella. Comecchè così mi venisse a sfuggire
la tavola di salute, pure firmai, perchè costretto a farlo, tutto parendomi
meglio che proclamare a tumulto la Repubblica, la Decadenza del Principe, e la
Unificazione con Roma; sperai in qualche congiuntura favorevole; in ogni caso
ero determinato a mandare avanti l'Assemblea Toscana, onde discutere
pubblicamente insieme i grandi interessi del Paese, che avrebbero persuaso i
Toscani a seguire lo antico loro dettato: «piano ai ma' passi.» Infine,
cotesto Decreto lasciava lo addentellato a molti schiarimenti, e a molte
questioni.
Invero, questo Decreto
non piacque ai Repubblicani; e più che mai raddoppiarono le violenze e gli
sforzi, i mezzi qualunque, che dichiaravano sacri perchè tendenti
a conseguire lo scopo agognato, siccome largamente al suo luogo, con prove
storiche, fu fatto conoscere; alle quali, chiunque vorrà giudicare secondo che
religione insegna, fie che aggiunga tutti i Giornali che io non possiedo, come,
a modo di esempio, la Italia dei Giovani, il Giornale Popolare,
lo Inferno, il Calambrone, il Tribuno del Popolo, la Lanterna
Magica, il Lampione, - ed altri, che io non ricordo, diarii e
foglietti staccati, e avvisi, e proclami, e decreti dei Circoli; e cotesta
congerie di fogli gli sarà com'eco di un tempo passato, e come testimonianza di
quanto gli uomini pensassero, macchinassero e compissero per instituire la
Repubblica, rovesciando il Governo Provvisorio. Nello intervallo che corre dal
14 febbraio al 6 marzo, vedete che il Circolo Fiorentino manda 25 Commissarii
nelle Provincie per convocare uno assembramento mostruoso a Firenze, al fine di
costringere il Governo a proclamare la Repubblica558.
Il Circolo delibera che non forzerà la mano al Governo in quanto al
giorno della riunione dei Deputati in Roma.... Non vi par ella grandissima
libertà cotesta? L'Assemblea intimata dal Governo è vilipesa, minacciata, o
derisa. - In questo intervallo i Popoli accorsi dalle Provincie, uniti col
fiorentino, proclamano la Repubblica di diritto e di fatto, e piantano l'Albero
della Libertà davanti il Palazzo. Il Circolo Popolare decreta Legge uniforme. I
Popoli accorsi sopra la Piazza, con immense strida, dichiarano decaduto il
Principe, la Repubblica, la Unione con Roma, e Laugier traditore; migliaia di
furiosi presentano al Governo i plebisciti perchè gli accetti e ratifichi.
- Come potessi schivarmi in quella tremenda giornata, ho esposto altrove.
Nondimeno Circolo e Giornali annunziano, bugiardamente, essere
stata accolta con giubbilo cotesta dimostrazione, - avere aderito, il Governo,
a proclamare la Repubblica; mentiscono parole, falsificano proclami: ma
accortisi che il Governo teneva il fermo a non lasciarsi strascinare, di nuovo
tramano altro più formidabile apparecchio pel 1° marzo, onde mandare ad effetto
la proclamazione della Repubblica. Non essendo soppressa la Legge Stataria,
pubblicata dai miei Colleghi per reprimere la reazione, io la mantengo per
reprimere le minacciate violenze dei Faziosi; e lo annunzio col Proclama del 27
febbraio, il quale, accorso (per parare il colpo) il 26 da Lucca, persuasi i
miei Colleghi, ottengo che sia pubblicato a Firenze. - In Consiglio mi
secondarono tutti i Ministri. Il Circolo ruppe in aperte minaccie, più che mai
palesò i danni dello indugio, e sospinse alla Repubblica; protestò contro il
Governo, ci fece sentire prossimo lo stato di accusa; me appellò, bruttamente,
traditore; ma il 1° marzo l'assembramento fu prevenuto. Il giorno successivo
tolsi via la Legge, dichiarando che si aveva ad aspettare la deliberazione
dell'Assemblea eletta col voto universale559.
Le vicende accadute nel
tempo intermedio mi avevano purgato agli occhi dei più di ben molte calunnie,
quantunque, e lo vedremo in breve, non cessassero di lavorarmi di straforo con
arti proditorie. Comprese allora il mondo, e più comprenderà adesso, che, se
contrastavo alla tumultuaria e violenta Repubblica, io già nol facessi per
tradire la Patria, non per concerti presi col Principe lontano, non per mantenermi
al Potere, non per rendermi necessario a tutti i Partiti, non in grazia di
futuri comodi, o talento di titoli (vanità sempre, in questo caso vergogna);
comprenderà che se ogni esordio di guerra civile ed attentato contro la
sicurezza pubblica o privata io diligentemente attesi a comprimere, già nol
facessi io in odio del Principato Costituzionale. Nella mia condotta io non ho
riguardato me, nè altri: ho considerato quello che mi pareva meglio pel mio
Paese: e al mio Paese ho sempre tenuto diritti la mente e il cuore. Questo ho
voluto: questo ho operato con pericolo passato, e con danno presente. Non
importa: meglio sventura onorata, che fortuna con vituperio. «Io sono per la
Patria, e per Lei» dissi certa volta a Leopoldo II; «nè che metta prima la Patria
vorrà V. A. adontarsi, perchè anch'ella l'ama con cuore di figlio.» Il Principe
blando assentiva al detto; ed io, quello che parlai quando saliva i gradini
della magione reale, penso potere ripetere ora che ho sceso gli scaglioni del
carcere.
Poichè ogni resistenza
felice aumenta nel resistente il credito che scema nello assalitore, così in
breve io mi sentii forte abbastanza per avventurare un passo, che sostengo
decisivo, come quello che, se non finiva la Rivoluzione, ormai la sottometteva;
le sue ultime prove erano fatte, e per necessità di cose doveva andare di mano
in mano digradando.
Lo spirito pubblico
riassicurato incominciava, comecchè timidamente, a farsi sentire, e bisbigliava
sommesso: che se la Toscana dovesse unirsi a Roma, non si aveva a discutere
davanti all'Assemblea Romana, ma sì davanti all'Assemblea Toscana.
I Settarii se ne commossero maravigliosamente; quale mi minacciò, quale mi
interpellò; quale infine, ostentando sicurezza, diceva ormai la quistione
decisa: la Unificazione con Roma e la forma del Governo doversi deliberare a
Roma. L'Alba del 4 marzo stringeva il Governo Provvisorio con le
seguenti parole:
«Alcune
interpellazioni al Governo Provvisorio.
Fino dal giorno in cui
il Governo Provvisorio toscano ascese al Potere, chiamatovi dalla volontà
unanime del Popolo e dal consenso del Parlamento, fu sua prima cura di
circondarsi dei Rappresentanti del Popolo, liberamente eletti per suffragio
universale diretto, onde dar forza alla sua nascente autorità e coadiuvarlo nel
soddisfare alle gravi bisogne dello Stato.
«A quest'effetto il
Governo, abolendo da un lato il Consiglio generale ed il Senato,
convocava immediatamente un'Assemblea legislativa di centoventi
Rappresentanti, determinando i modi della elezione, e promettendo di sottoporle
colla maggiore sollecitudine il progetto di Legge per l'attuazione della
Costituente Italiana.
Questa Assemblea doveva
concentrare in sè stessa tutti i poteri legislativi, per esercitarli in unione
al Governo Provvisorio, il quale si riservava, oltre alla sua parte
d'iniziativa, l'esclusiva sanzione e promulgazione delle Leggi.
Il giorno appresso, una
Dichiarazione governativa, inserita nel Monitore, modificava in parte il
precedente Decreto e restringeva nei suoi giusti limiti l'autorità del Provvisorio
Governo; annunziando che la volontà liberamente espressa dai Rappresentanti
del Popolo toscano, eletti per suffragio universale diretto, sarebbe stata
legge pel Governo, il quale avrebbe primo dato l'esempio della più perfetta
obbedienza al volere del Popolo sovrano.
Ma accortosi bentosto
come la precipitanza nel convocare l'Assemblea toscana non gli avesse
concesso di maturarne bastantemente la natura, i modi ed i limiti; avvedutosi
come non bastasse alle esigenze del Paese la presenza di un'Assemblea
meramente legislativa, la quale dall'indole stessa del proprio mandato
sarebbe stata limitata esclusivamente alla interna amministrazione dello Stato;
e come il Paese, rimasto privo di uno dei tre Poteri costituiti,
abbisognasse di una Assemblea sovrana Costituente, la quale decretasse la
forma politica dello Stato e le norme del nuovo patto sociale; il Governo
Provvisorio pensò che fosse necessario sopperire immediatamente a questo
pressante bisogno, ed a questo effetto pubblicò poco appresso il Decreto del 14
febbraio, col quale intendeva ad un tempo di dotare la Toscana di
un'Assemblea Costituente che determinasse la forma di Governo con cui dovrebbe
reggersi il Paese, e di soddisfare al voto unanime e concorde manifestato dal
Popolo Toscano e dal Popolo Romano per la Unione immediata dei due Stati in una
Italia Centrale.
Se ci atteniamo al
contesto di questi Decreti, i quali a dir vero spesso si elidono e si
contraddicono in più d'una parte, non può cader dubbio che il concetto del
Governo Provvisorio non sia stato quello di deferire le questioni di
ordinamento, tanto quelle relative alla forma dello Stato, come quelle relative
alla Unione con Roma, di deferirle, diciamo, ai 37 Deputati della
Costituente, i quali, raccolti coi Deputati Romani in Assemblea unica e
sovrana, decreterebbero la Unificazione dei due Stati, determinando in appresso
il patto sociale e le sorti dello Stato comune.
Le parole infatti dei
Decreti governativi parlano troppo chiaro, a chi voglia e sappia intenderle,
perchè si possa revocare in dubbio a quale delle due Assemblee debba
appartenere la questione dell'ordinamento politico.
Il Decreto dell'11
febbraio stabilisce che la forma del Governo della Toscana, come parte
d'Italia, dovrà essere stabilita dalla Costituente Italiana. Il successivo
Decreto del 14 febbraio, ordinando la elezione dei 37 Deputati ed il loro invio
a Roma, il quale sarebbe troppo ritardato se la Legge per la Costituente
dovesse essere sancita dalla Assemblea Legislativa Toscana, allega come
ragione di questa sollecitudine: che la Unione della Italia Centrale, già
operata nei comuni desiderii e nei comuni bisogni, aspetta il suo compimento
dall'invio dei nostri Deputati alla Costituente Italiana.
Ad onta però di queste
chiare e lucide espressioni, parecchi organi della stampa periodica (tratti
forse in errore dalle non poche e non lievi incongruenze dei due Decreti; da
certi termini dubbii ed oscuri contenuti nella Dichiarazione del 12, di cui
abbiamo sopra accennato, e nel Proclama del 27; e finalmente dalla convinzione
della incompatibilità di due Assemblee che reciprocamente si elidono e si
distruggono) hanno stranamente travisata la natura dei due Decreti, e ne
hanno falsata la interpretazione, sostenendo che la questione dell'ordinamento
politico sarebbe sottoposta all'Assemblea Legislativa, e restringendo la sfera
e l'autorità della Costituente, fino a ridurla in qualche guisa soggetta e
subordinata ai Decreti dell'altra Assemblea.
Questa erronea opinione,
portata dal Giornalismo nell'arringo dei Circoli e delle altre Associazioni
politiche, ha falsati i giudizii, contorte le opinioni, ed ha sparso nel
Pubblico l'incertezza, il dubbio e la esitanza; di guisa che la Stampa ed i
Circoli nel proporre le liste elettorali, e gli Elettori nel compilare le loro
schede, si trovano tuttavia nel maggiore imbarazzo, ignorando la natura e
l'indole respettive delle due Assemblee, non meno che i limiti del mandato da
darsi ai 120 Deputati della Legislativa ed ai 37 della Costituente.
Ora questa incertezza,
questi dubbii, e questi imbarazzi debbono cessare immantinente.
Noi chiediamo quindi
formalmente al Governo Provvisorio di mettere in chiara luce questa
delicatissima e troppo stranamente complicata questione; di disvelare il
concetto che lo animava nel dettare i due Decreti; di dichiarare infine
solennemente a quale delle due Assemblee egli intenda rimettere la discussione
della forma che dovrà assumere la Toscana, e della sua Unione con Roma.
Non esitiamo a credere
che il Governo vorrà dare una pronta e adeguata risposta a questa nostra
interpellanza, nè vorrà nascondersi nel velo del mistero o dell'obblio, come ha
fatto per la precedente inchiesta fattagli nel nostro Numero di mercoledì. Si
rammenti il Governo che in assenza dei Parlamenti, e presso un regime libero e
popolare, il diritto d'interpellare il Governo sui suoi atti appartiene ad ogni
Cittadino, e sovra tutto a quei corpi morali, i Circoli e la Stampa periodica,
che ne rappresentano i bisogni, i voti e le speranze; e che debito del Governo
si è di darvi pronta, sincera e soddisfacente risposta.»
La Costituente
Italiana del 6 marzo 1849, dopo avere censurato tutti gli atti del Governo
Provvisorio, così prosegue: «Ora taluno vorrebbe turbare il corso logico delle
idee, revocare in dubbio a cui competa decidere della forma del Governo
toscano, e consumare l'atto più eminente di sovranità popolare. Il dubbio è
nato dal cammino ondeggiante, traverso al quale si sviluppavano le decisioni
del Governo Provvisorio. Il dubbio è grave. I nostri amici dell'Alba
hanno solennemente chiesto che venga in modo esplicito dissipato, e noi
non possiamo che fare eco ad essi, ed alle loro legittime istanze congiungere
anche le nostre. A noi però il concetto fondamentale della Costituente
Italiana, i limiti del mandato legislativo, e le considerazioni stesse che
precedono i due Decreti dei 10 e 14 febbraio, stanno dinanzi allo sguardo e
insegnano necessariamente la soluzione più logica di questa difficoltà. - Dopo
dichiarazioni sì esplicite, nessuna pretesa invaditrice potrebbe essere messa
in campo dall'Assemblea Legislativa senza disconoscere la legittimità della sua
origine, e attaccare il sovrano mandato deferito alla Costituente.
L'Assemblea Legislativa non esiste che come istituzione transitoria e
secondaria, come garanzia speciale accordata alla Toscana a propria tutela
duranti i pericoli e la necessità della situazione presente: collo esercizio
incoato della sovranità nazionale nella Costituente, anche i Poteri legislativi
debbono cessare, perchè in quella soltanto debbono concentrarsi. Noi non
riguardammo, e non possiamo riguardare l'Assemblea Legislativa, che come
elemento di soccorso, congiuntosi al Governo Provvisorio per fortificarlo; che
al cessare di esso rientra nelle brevi limitazioni di un'autorità consultiva
provinciale. Tali almeno sono le deduzioni naturali, invincibili, della Unione.
Noi quindi respingiamo assolutamente qualunque dottrina che tentasse,
contro la parola e lo spirito della Legge, trasportare all'Assemblea
Legislativa quelle facoltà che sono irrevocabilmente e solo acquisite alla
Costituente.» E qui continua facendosi l'obietto se la forma definitiva
del Governo della Toscana deva decidersi dai Deputati Toscani
congiuntamente ai Deputati Romani, o se da loro esclusivamente; e, come
è da aspettarci, si mostra parziale del primo partito.
Eccomi giunto alle
Forche Caudine. Stretto in questa maniera, era forza spiegarmi. Lo invio di 37
Deputati Toscani a Roma, perchè, congiuntamente co' Deputati Romani,
deliberassero sopra la forma del Governo della Toscana, mi suonava
vergognosissimo inganno. Che cosa avessero a deliberare, con Assemblea che già
aveva proclamata la Repubblica, davvero non sapeva comprendere. Sul principio
non poteva cadere questione, a meno che l'Assemblea Romana, abrogato il Decreto
del giorno 8 febbraio, non avesse consentito a tornare da capo; il che appariva
assurdo. Supposto che lo avesse concesso, o potuto concedere, il brutto inganno
non veniva meno, avvegnadio il numero dei Deputati Romani superasse troppo
quello dei Toscani. - Nè meno sarebbe stato festoso mettere a partito,
nell'Assemblea degli Stati Romani, stremi di moneta, con carta che non
trovavano da esitare nemmeno a vilissimo prezzo, se avesse voluto ricevere
caritatevolmente la Toscana, tuttavia florida e con un attivo nel suo patrimonio
sempre superiore al passivo560. Ma questi, nel
linguaggio acceso degli uomini di parte, e' sono positivismi insensati.
Io, per me, non desidererei meglio che i cittadini altra moneta non
possedessero tranne di rame; dei cibi, non compri, dispensati dall'orticello,
si contentassero; sempre brodetto nero bevessero: ma dipende forse da
me, se gli uomini questo benedetto amore di sostanza non vogliono abbandonare?
Se sia buono o cattivo costume quello di stare attaccati al proprio avere, io non
voglio discutere adesso; per certo egli è vecchio, nè facile a farlo smettere,
e credo che se ne siano potuti accorgere anche il signor Rusconi e i suoi
compagni; però si astengono da confessarlo, perchè, appo la Chiesa loro,
presumono la infallibilità della dottrina che negli altri contrastano: e così
sempre dei Partiti succede. - Le due Costituenti, promesse dal Governo, non
potevano senza pericolo revocarsi; ma, sottoposti i Deputati per la
Costituente Italiana alla decisione della Costituente Toscana, il Paese tornava
assoluto padrone di sè stesso. Il Governo, che minacciava cascare giù in
piazza fra le moltitudini, senza che alcuno osasse impedirlo, era da me
raccolto, e riposto in mano del Partito Costituzionale. Ora stava a questo
accorrere, e farsi vivo. Non avevo adempito, con industria pari al pericolo,
anche quello che gli uomini del Conciliatore avevano consigliato? A chi
ben guarda, il Decreto del 6 marzo era infinitamente più ristrettivo
della Legge della Costituente già proposta dal signor Montanelli. Invero,
l'Assemblea Toscana si trovava investita di facoltà sì ampie, che il
Consiglio Generale non immaginò possedere giammai. All'Assemblea spetta
deliberare se voglia unirsi con Roma: - quindi, ella poteva decidere non
volere; non volendo questa Unione, le competeva, a un punto, il diritto e
il dovere di ordinarsi in Repubblica o in Principato Costituzionale
separatamente; e, scegliendo il Principato, nessuno poteva impedirle di
restaurare la Casa di Lorena. Tutto stava in lei.
Considerando, pertanto,
gli uomini capaci per le faccende politiche non abbondare in Toscana, pensai,
che su molti sarebbe caduta doppia nomina per le due Assemblee; e questo
concessi per avere maggiore sicurezza che i Deputati alla Costituente Italiana,
partendo prima delle deliberazioni prese dalla Toscana, non somministrassero
pretesto a soverchierie rivoluzionarie. Al quale intento, provvidi ancora che
le formalità per lo spoglio dei Deputati alla Costituente Italiana si
eseguissero con lentezza; e di vero, non furono mai principiate561.
Se in mezzo agli
sconvolgimenti politici, o per virtù o per fortuna, mi venne fatto condurre a
questa riva lo Stato, l'Accusa, per onore suo, si ritiri, anzi si penta e si
dolga di avermi offeso, e prometta fermamente di pensare, in seguito, a quello
che scriverà. Nè creda essa che io in questo modo per vana iattanza mi esprima;
mai no: se io il faccio, è segno che ho da opporle un testimone a cui ella dee
fare di berretta; una prova che ella almeno ha da credere; una autorità, che da
lei alla più trista vuolsi rispettare, e questa autorità è la sua; questo
testimone egli è dessa.... propriamente l'Accusa....
Il Decreto del 10 giugno
1850 dichiara con parole solenni: «Il Popolo Fiorentino restaurava la
Monarchia» (il Decreto non mette costituzionale, ma ce lo metto io,
credendo servire allo amore della Patria e alla reverenza del Principe) «alla
quale era devoto, ed a cui si era mantenuto, in mezzo alla tristezza dei tempi,
costantemente fedele562.» E sia così, poichè
così dice. Lo incubo rivoluzionario fu quegli che, aggravandosi sul petto a
questo Popolo, gl'impediva la voce e la conoscenza; ora, poichè dallo incubo io
lo liberava, dandogli abilità e modo di manifestare la sua devozione, egli è
evidente che, anche a giudizio dell'Accusa, merito lode, non biasimo. Di qui
non si esce: o crede, o non crede a sè stessa l'Accusa? Io devo supporre che a
sè creda; e allora, dove trova materia a quel brutto delitto che si chiama tradimento?
Ella potrebbe sospettare, come fa, quando fosse persuasa che io immaginassi il
voto universale nemico al Principato Costituzionale, o che per me si volessero
praticare violenze e inganni, per estorcere un voto contrario al desiderio dei
Popoli; ma no, chè io ho provato, e proverò ancora, come nessuno con sicurezza
maggiore alla mia sapesse gli umori dei Toscani; e in quanto a brogli, per
preoccupare la libera votazione, nessuno, e neppur essa (ed è tutto dire!), ha
mai pensato accusarmi563. Forse ella avrebbe
potuto criticare il mio concetto, preferire un metodo ad un altro; e su questo
ognuno ha i suoi consigli. A me le violenze non garbano, di qualunque colore
elle sieno, e quando una cosa può ottenersi in palazzo, con modi civili e fra
uomini di senno, non comprendo la ragione nè la necessità di andarla a pescare
fra le commosse moltitudini in piazza. Ma poichè prevedo che con l'Accusa non
si può fare a fidanza, così sarà prudente consiglio continuare il mio
ragionamento.
Io riporterò questo
Decreto, affinchè si conosca come con la prudenza, aspettata la opportunità,
possano ottenersi giuste e ragionevoli cose, senza ricorrere a partiti
disperati.
«Il Governo Provvisorio
Toscano
«Decreta:
«Art. 1° L'Assemblea
Toscana è investita del Potere Costituente a due distinti effetti, cioè:
«(a) Per
decretare, se e con quali condizioni lo Stato Toscano debba unirsi a Roma.
«(b) Per comporre
insieme ai Deputati dello Stato Romano la Costituente dell'Italia Centrale.
«Art. 2° Tenuta ferma la
nomina dei trentasette Deputati per l'Assemblea Costituente Italiana, e la
contemporanea ma distinta votazione per l'Assemblea Toscana, non sarà per altro
incompatibile che si riuniscano in uno stesso individuo la rappresentanza sì
nell'Assemblea Toscana, come nella Costituente Italiana.
«Art. 3° Il Ministro
Segretario di Stato pel Dipartimento dello Interno è incaricato dell'esecuzione
del presente Decreto. «Dato in Firenze li sei marzo milleottocentoquarantanove.
«F. D. Guerrazzi
«Presidente del
Governo Provvisorio.»
Non è da dirsi se
Circoli e Giornali si tenessero offesi; accorrendo pronti al riparo, si dettero
sollecitamente a mutare le note dei Deputati, transfondendo nella Costituente
Toscana i più sviscerati Repubblicani, affinchè la Repubblica e la Unificazione
con Roma fossero proclamate per acclamazione dall'Assemblea appena convocata.
Che più? Io vengo
apertamente oltraggiato come avverso alla Repubblica. Il Circolo minaccia
rivoluzione, se l'Assemblea Costituente Toscana non dichiara la Unificazione
con Roma; esamina gli eligendi, e, se non si obbligano a sostenere questo
concetto con le armi, rigettansi con vituperio564.
I Giornali repubblicani, infervorando gli animi alla scoperta, bandiscono la guerra
civile, se l'Assemblea Toscana non proclama la Repubblica, e subito. E
queste cose abbiamo veduto altrove; ma specialmente intorno al Decreto del 6
marzo il Nazionale muove querela perchè gli sembra alla onnipotenza del
Popolo ingiurioso; e a parere mio s'inganna, imperciocchè lo studio di
formulare dirittamente il partito non si sa comprendere in che cosa o come
offendesse la libertà di risolverlo565. La Costituente provoca
il Popolo, affinchè riparando la ostinata resistenza del Governo a proclamare
la Unificazione con Roma, in onta alla volontà manifesta del Paese, mandi all'Assemblea
Costituente Toscana gli uomini che l'acclameranno spontanea e unanime; e
di queste iattanze mi prendevo cura mediocre, conciossiachè io troppo bene
sapessi che i Settarii rimasti delirassero, ed i partiti avessero ottimamente
compreso, che questa Unificazione, non essendo stata vinta di assalto, ormai
per bloccatura non riusciva altramente possibile566.
Il Popolano, tra perchè il Governo non buchera l'elezioni, e tra perchè
la Legge pessima genererà un Assemblea di Retrogradi e di Conservatori, mi
viene intuonando da capo la minaccia della guerra civile567. Come se fosse fede quella di convocare i
comizii universali, perchè liberissimi dieno il voto, e maneggiarli poi perchè
lo depositino nell'urna a modo tuo; e lasciata la fede, bel senno davvero
sarebbe, per conoscere e rispettare il sentimento di tutto il Popolo,
industriarti con ogni arte a farlo attestare del tuo. Questo si chiama nel
sistema dei Settarii consultare il Popolo; e se non si obbedisce, o ci
dichiarano la guerra, o ci congiurano contro, o ci calunniano con vituperii di
cui nessun Partito oggimai più si vergogna; - nessuno.
La solerzia del Governo
non mancò alla Patria. Il Ministro dello Interno stampò e diffuse una lista di
Deputati di opinione moderata, per rettitudine insigni; altro non poteva fare,
e non fece, chè senno e probità lo vietavano. Il Prefetto ebbe ordine
raddoppiare vigilanza sopra i Circoli, e sopra le moltitudini. Io raccolsi la
Guardia Civica nel Giardino di Boboli. Quello che io le dicessi vuolsi ricavare
dal Monitore del 12 marzo 1849: «La Guardia Nazionale di Firenze, in
numero di meglio che 2000 uomini, è stata stamane passata in rivista dal
Generale Zannetti su la Piazza Maria Antonia. Quindi, marciando per
plotoni, si è recata nel Giardino di Boboli, dove il cittadino F. D. Guerrazzi
Presidente del Governo Provvisorio l'ha arringata, interpellandola se fosse
deliberata a tutelare l'ordine, ad aiutare della sua forza il Governo, fermo
nel volere la libertà delle elezioni e la indipendenza degli eletti
Rappresentanti. A queste interpellazioni la Guardia Nazionale ha risposto
con manifesta ed unanime adesione alla mente del Governo568.»
Ora esaminiamo un po'
come cotesto atto venisse commentato dai Faziosi: «Ecco, dicevano essi,
apparecchiarsi il terreno perchè le Assemblee non pronuncino la Unificazione
con Roma, e conseguentemente la decadenza della famiglia di Lorena, e la
Repubblica: questo non può succedere, nè succederà; ma quando mai per caso
inopinato accadesse, noi allora profitteremo di ogni mezzo ci
presentino le circostanze, affine di salvare il Paese nostro da un giogo
aborrito, che imporre si volesse a nome della legalità e di una servile
rappresentanza.»
I Repubblicani non
temono che la Guardia Nazionale voglia suscitare nel Paese la guerra civile,
facendo fuoco sopra i suoi fratelli, che «traditi nei loro voti, e
vedute strozzate le loro speranze dal capestro delle legali formalità,
usassero l'estremo loro appiglio, la suprema loro ragione - la forza e la
violenza.» E neppure i Settarii temono che i Deputati possano sopportare
l'obbrobrio del rifiuto delle tre Leggi indicate; ma «dove questo obbrobrio
dovesse pesare su di essi, certo, ad onta di tutte le esortazioni del
Guerrazzi, non peserà su la Toscana l'obbrobrio assai maggiore di avere
pazientemente sopportato il tradimento; e la Toscana saprà consumare la
sua Unione con Roma, e saprà subirne tutte le conseguenze, anche ad onta dei
suoi Rappresentanti, e degli uomini del Governo Provvisorio569.
I Repubblicani
strepitano e minacciano a cagione dell'Assemblea Costituente toscana,
dichiarando che la si vuole da me instituita per decretare la Restaurazione; -
il Procuratore Regio Paoli, e dietro a lui gli Auditori Marrucchi, Bambagini e
Ciaccheri, e dietro a loro i Consiglieri Orsini, Aiazzi e Pieri, e Regio
Procuratore generale Bicchierai, strepitano e accusano a cagione dell'Assemblea
Costituente toscana, che la si volle instituita da me per decretare la
Repubblica. I Repubblicani mi chiamano alla scoperta traditore per volerla
convocare; - i Procuratori Regii, Auditori e Consiglieri, gli uni dietro agli
altri, m'incolpano di tradimento per averla convocata. In verità, sarebbe
questa farsa gioconda da rallegrare le genti, se non l'avessero rappresentata
su le lagrimevoli scene di un carcere, che da 29 mesi divora la salute degli
uomini e delle famiglie.
I Repubblicani, per
quanto venni informato, e i Circoli e i Giornali manifestavano, tentarono un
colpo estremo. La Legge Stataria non era più da richiamarsi in vigore a
Firenze. Il 1° aprile per contenerli dall'avventurarsi a disperati partiti,
mandai fuori la Notificazione, che già fu da me riportata a pag. 518 di questa Apologia.
Premesse queste
considerazioni e questi fatti, lascio a quanti fanno studio di onestà
giudicare, se sieno consentanee al vero ed al giusto le seguenti proposizioni
dell'Atto di Accusa, § 85.
«Quanto alla Repubblica
ed alla fusione con Roma, non si vuol conoscere se il Guerrazzi l'ha creduta
sempre, od in massima, forma buona ed accettabile per la Toscana, quando si
sa, che servì di elemento disorganizzatore; che in questo senso fu lasciata
operare liberamente570; che tutto il
suo sforzo si ridusse in qualche contingenza a persuadere ed agire
perchè non venisse attuata troppo sollecitamente, o prima che venisse
approvata dal voto nazionale; e ad interpellare su la fusione il Consiglio
di Stato; e che, sia questa, sia altra forma di Governo per la Toscana, non che
il giudizio sul Principe e sul Principato, era ormai abbandonato anche per
fatto suo al potere illimitato dell'Assemblea Costituente Italiana!»
Sì, certo, pretendere e
sostenere che il voto nazionale toscano pronunziasse intorno alle sorti
toscane non era piccola impresa, però che nei miei presagi importasse
esclusione di Repubblica, e richiamo del Principato Costituzionale. Il successo
poi dichiara, e lo ardore dei Repubblicani a impedirlo rivela, come io al vero mi
apponessi. Inoltre, per mostrarvi come i denti dell'Accusa, comecchè mordano,
pure tentennino, avvertano di grazia i miei lettori: l'Accusa afferma, che io
altro non feci che procrastinare la dichiarazione della Repubblica all'apertura
dell'Assemblea. Quel giorno venne; ebbene, fu ella proclamata la Repubblica?
No: nè allora, nè poi. L'Accusa opporrà: «No, perchè Novara ti aveva messo in
cervello.» Nemmeno; nel giorno 25 marzo, imitando lo esempio dato da Roma
nell'8 febbraio, dove avessi voluto, poteva essere decretata la Repubblica per
acclamazione. Chi mai lo avrebbe impedito? L'Accusa da capo obietterà: «Sì,
potevi, ma per quanto?» Questo è un altro discorso: - quanto sarebbe bastato
per sentire qualche Requisitoria contro i perversi perturbatori dell'ordine
repubblicano.....
Il 25 marzo il signor
Montanelli apriva l'Assemblea Costituente Toscana571;
nel 27 sopraggiunse la notizia lacrimevole della disfatta del 23 di Novara.
Riarse la rabbia dei Repubblicani; ma oggimai credevo di avere raccolto forze
abbastanza per resistere con profitto. Sebbene non mi fosse riuscito ad
allontanare, per virtù di voto, i non Toscani dall'Assemblea, - nè per ingegno,
pubblicando sul Monitore la lettera del Generale D'Apice. - pure, mercè
le pratiche indefesse, era giunto il Governo ad acquistare una maggiorità al
Partito Costituzionale572. Venuto alle strette
co' Colleghi, Montanelli domandava allontanarsi, diviso fra la evidenza dei
fatti e il dolore di dovere renunziare alle visioni dello entusiasmo; Mazzoni,
proseguendo nella sua fede, nonostante i fatti nemici, passa fra gli oppositori
del Governo.
Nella notte del 27 al 28
fu proposta all'Assemblea la elezione di un Capo provvisorio al Potere
Esecutivo per curare specialmente le cose della guerra. - Non era presente il
Popolo, mancavano gli stenografi; ma vivono i Deputati presenti, i quali
attesteranno le ingiurie atrocissime avventate contro di me dal Partito
Repubblicano. Non mancarono accuse aperte di trame ordite per operare la
Restaurazione del Principato; nome e sostanza del tradimento dichiararono.
Montanelli sorse a difendermi sostenendo, che egli rispondeva per me, e
prometteva, che io senza il consenso dell'Assemblea non avrei con violenza
imposta forma governativa allo Stato, e veramente io pensava fare così.
Ma le ingiurie repubblicane siffattamente mi commossero, che ricusai
ostinatissimo lunga ora il carico commesso. I preghi urgenti, continui, a
ributtare impossibili, dei Deputati Costituzionali formanti la maggiorità, e
dell'egregio Presidente Taddei; le rampogne oltre modo passionate, e veementi
degli amici, che, dopo avere tanto fatto pel Paese, vinto da sdegno lo
abbandonassi nel supremo pericolo; - e soprattutto la paura di commettere
cosa vile, dopo spazio, forse troppo, di tempo, mi piegarono. Nel Monitore
del 28 marzo è riportato il Decreto dell'Assemblea, che dichiara:
«L'Assemblea Costituente
Toscana nella notte de' 27 al 28 marzo 1849 ha deliberato quanto appresso:
Art. 1. Che sia
immediatamente ricostituito un Potere Esecutivo provvisorio.
Art. 2. Che questo
Potere Esecutivo sia conferito ad una sola persona.
Che il Cittadino
Deputato F. D. Guerrazzi sia rivestito del Potere Esecutivo anzidetto.
Che questo Potere abbia facoltà
straordinarie per provvedere ai bisogni della guerra e alla salvezza della
Patria, e che queste facoltà continueranno in esso, finchè ne durerà la
necessità.»
Nel N° del 29 successivo
si legge il mio Proclama, il quale stampato a pagine 220 di questa Apologia,
in nota, rende testimonianza manifesta del mio forte rifiutare, e del pauroso
quanto esiziale sospettare dei Repubblicani, che i pieni poteri io
adoperassi per restaurare violentemente il Governo Costituzionale.
Malgrado le mio
promesse, o fosse diffidenza di me, o le suggestioni calorose che venivano da
Roma, le quali accertavano dei soccorsi inglesi e francesi, solo che trovassero
il Paese costituito a determinato reggimento, esporrò brevemente quello che per
loro si tentasse.
A ben significare le
scosse che camminando pel dirotto sentiero io pativa, non meno che la necessità
delle dichiarazioni vie via emesse come scudo a riparare me ed altrui dal
flagello delle lingue dolose, importa riprendere e proseguire la serie delle
calunnie di traditore, che copertamenie o scopertamente i Settarii andavano
insinuando contro di me. Quando pensai cavare di Livorno la Guardia Municipale
livornese sostituendole parte della fiorentina, mentre i Faziosi Reazionarii
davano ad intendere in Firenze che io chiamava i Livornesi per formarmene un
corpo di Pretoriani, i Faziosi Repubblicani a Livorno dicevano che io vi
mandavo a opprimere la Libertà; ed allorchè, consigliando il Colonnello Tommi,
il reggimento del Colonnello Reghini s'indirizzava a Livorno, secondo che ho
esposto a pag. 373 di questa Apologia, con Dispaccio del 9 marzo eravamo
avvisati: «ad arte essersi sparso fra il Popolo che il Comandante era
incaricato di fare fuoco sul Popolo, come già dicevasi aveva fatto sul Popolo
Pistoiese.»
Nel 17 marzo 1849 si fa
credere a Livorno, che io tramo di consegnare la Toscana al Piemonte; a parare
la insidia scrivo a Livorno, e induco Montanelli ad accompagnare con la sua
firma (poichè in lui riponevano fede i Settarii) il Dispaccio del medesimo dì
inviato al Governatore:
«Al Governatore di
Livorno.
«Scrive il signor Demi,
che si sparge voce come noi vogliamo consegnare la Toscana al Piemonte.
Quantunque noi crediamo che queste voci non sussistano, pure vi autorizziamo a
dichiarare, che il Governo crede, e lo ha detto, che la Unione con Roma sarà
proclamata come necessità. Guardatevi dalle mene dei nemici, che si vestono in
ogni maniera per guastare la santa impresa.
«Guerrazzi. - Montanelli.»
L'Accusa s'impadronisce
di cotesto Dispaccio, e intende ritenerlo per dimostrazione di animo: come se
all'uomo politico posto a duro partito non deva nè anche essere concesso con
parole schermirsi. Le quali parole poi, in confronto delle opere, spariscono; e
considerate tritamente, non esprimono cosa che valga: però che la opinione di
un fatto deva cedere davanti alla evidenza del fatto contrario.
Ma io potrei dire di
più, se non mi ritenesse la reverenza delle somme chiavi; potrei dire,
che prima di accusare uno scritto, hassi a conoscere la lingua nella quale e'
fu dettato; e se la non si conosce, allora tutte le Procedure ammaestrano
ricorrere al Dragomanno. L'Accusa pensa che la parola Unione spieghi il
rimescolare di due cose, per modo che vengano a formare uno impasto solo; ed
anche qui l'Accusa s'inganna. Altro è unire, ed altro unificare; unire
significa, in lingua italiana (che nei tempi antichi si chiamava fiorentina,
perchè sapevano parlare e scrivere egregiamente in Firenze tutti, compresi
anche Giudici), congiungere due cose in guisa che ognuna ritenga la propria
specialità: unificare importa ridurre due cose ad unità per modo, che,
ognuna di loro perdendo la propria specialità, compongano un tutto. Dove
l'Accusa obiettasse che sono queste sottigliezze filologiche, e che le parole
voglionsi intendere pel senso politico, che il tempo loro partecipa, nemmeno
avrebbe ragione. Di ciò gli faccia testimonianza primieramente il Farini, che
io qui le richiamo alla memoria: «Il Mazzini era giunto (in Toscana) il dì
stesso che il Granduca partiva da Siena, e vi era stato accolto con grande
festa. Egli si era dato a predicare la Unificazione con Roma, che non
voleva chiamare Fusione, parola a lui ed ai suoi esosa, la quale voleva
dire lo stesso...... ma il Guerrazzi non voleva la Unificazione ec573.» Più espresso poi il Conciliatore:
«Colla parola Unione intendemmo sempre stabilire un vincolo di
federazione negl'interessi politici, militari e commerciali, dei varii Stati
d'Italia574.» E poco oltre: «Quindi
o si parla di Unione, e noi diciamo: si proclami pure la Unione con
Roma, ma si proclami al tempo stesso la Unione col Piemonte.» Nella Seduta del
29 marzo 1849 il proponente la Legge che aveva in iscopo la confusione
degli Stati Romano e Toscano, non riputando la sola parola Unione
esprimesse il suo concetto, la chiamò Legge per la Unione assoluta con Roma.
Per le quali spiegazioni filologiche e politiche, io vorrei che si persuadesse
l'Accusa potersi desiderare la Unione degli Stati Italiani senza bisogno
ch'ella scappasse fuori con una Requisitoria di Lesa Maestà.
L'Accusa sa, o dovrebbe
sapere, poichè nel suo Volume lo registra a pagine 828, come io, favellando nel
12 febbraio dalla terrazza di Palazzo Vecchio al Popolo ragunato per piantare
l'Albero, dicessi, che forse cotesto atto di unirsi con Roma
sarebbe stato consentito da tutta Toscana; per ora essere prepotenza che
le presumevano imporre: - donde era agevole quanto onesto dedurre, anche senza
porre mente ai successi del tempo, che una legge suprema costringeva ad usare
cosiffatti ripari. Nel Popolano del 18 marzo abbiamo veduto appormi alla
scoperta l'accusa di tradimento, e tradimento con tremanti labbra i Settarii
fremevano, e tradimento ogni ora nelle oscure carte stampavano. Ad ogni caso
inopinato, non solo in Firenze ma nelle Provincie si gridava: tradimento575. Tradimento per Novara, tradimento per Genova.
Nel 29 marzo a Lucca, a Pisa e a Pescia spargono la voce essere io partito per
Gaeta a prendere il Granduca576, con altre più strane
novelle, - e trovano fede577; quindi la necessità di
stampare nel Monitore del 30 marzo la Nota seguente, ma senza pro:
«Siamo autorizzati a smentire la voce che si va spargendo dello invio, per la
parte del Governo, di una Deputazione a Gaeta.» L'Accusa non manca di
acciuffare cotesto avviso; lo separa dalle circostanze che conosce
accompagnarlo (anzi le sopprime), lo appunta, lo arruota, lo affila, e me lo
scaglia addosso, come se spontaneo egli fosse, e pubblicato solo per vaghezza
di mostrarmi avverso al Granduca. Se questa sia fede, conosca il Paese intero,
e giudichi; e se a tale siamo noi che possano per esercizio lodevole di
professione usarsi arti, che nel cittadino si rimprovererebbero come
iniquissime, io incomincierò a dubitare davvero, se la vita salvatica debba anteporsi
a questo tanto commendato nostro civile consorzio.
Nel 1° aprile i
Settarii, i quali si affaticavano a screditarmi presso lo universale,
insinuando che, se avversavo la Repubblica, già non intendevo a questo per
amore che portassi al Paese, bensì per turpe interesse, e per cagione di
accordi già stabiliti col Principe, ordiscono fra loro di muovermene improvvisa
domanda; avvisato per tempo, entrando all'Assemblea, preoccupo il passo e
distruggo lo artifizio, dicendo: «Domando la parola per un fatto personale.
Innanzi che io mi recassi in seno di questa onorevole Assemblea, ho appreso
come qualche Deputato ha proposto all'Assemblea stessa di fare una
interpellazione al Potere Esecutivo sopra la verità del supposto invio di una
Deputazione o che altro di simile a Gaeta, per ricondurre quaggiù il fuggitivo
nostro Principe. Debbo dichiarare che una simile domanda è tanto trista per chi
la fa, quanto è stupida per chi la crede.»
Si levarono voci
minaccievoli; di grida, di gesti rabbiosi non fu penuria, ma per quel giorno
squarciai la male composta trama. Intanto, mentre in mezzo al fortunoso
mareggiare di Fazioni smanianti la mia fama preservo e la mia vita, del
combattuto potere mi valgo a difendere pertinacemente l'Assemblea dagli estremi
conati della Setta, promulgando il Proclama del 1° aprile 1849 già riportato a
pag. 579-580 di questa Apologia.
Me ne valgo per
richiamare l'Arcivescovo, e per resistere alle crescenti e continue calunnie.
L'Accusa rammenta e adopera contro me, come subietto di Accusa, la dichiarazione
del 5 aprile, che io con tutti i Ministri firmai; ma non ricorda o non sa del
cartello mantenuto affisso, dopo il 3 aprile, all'Albero su la Piazza del
Duomo; non sa o non ricorda la congiura allo scopo di tôrmi di mezzo come
traditore che ha venduto Patria e coscienza; non ricorda, e si dovrebbe
rammentare come in piena Assemblea mi rinfacciassero nel 3 aprile di
apparecchiare le feste della Restaurazione con i due milioni stanziati per le
spese della guerra; non si ricorda, e lo dovrebbe sapere, che a motivo dei
veementi sospetti nella deliberazione dell'Assemblea Costituente fu apposto il
vincolo solenne di non risolvere intorno alle sorti della Toscana senza il
concorso e l'annuenza dell'Assemblea, a pena di nullità, e di essere punito
come traditore della Patria. Crescendo pertanto il perseguire infestissimo,
irrequieto, dei Settarii, per tutela di vita, e per condurre a compimento il
concepito disegno, feci e consigliai gli altri a fare la dichiarazione
seguente:
«Il Capo del Potere
Esecutivo e il Ministero dichiarano sopra l'anima e onore loro, essere
calunnioso, che per essi siasi operato o si operi, direttamente o
indirettamente, pratica, trattato, insinuazione, ed anche principio alcuno o
preliminare di proposta, parlato o scritto, tendente alla Restaurazione in
Toscana della Dinastia della Casa di Lorena. Il Potere Esecutivo sente e
ricorda l'ordine imposto dall'Assemblea, e l'obbligo da sè medesimo assunto,
che non si possa in verun modo mutare la forma politica della Patria nostra senza
consultare l'Assemblea Costituente. - Firenze, 5 aprile 1849.»
Dei firmati, ne fecero
colpa allo egregio amico P. A. Adami; e questi non tacque averla sottoscritta,
perchè la conobbe provvidenza necessaria a salvarmi e a salvarsi da pericolo
imminentissimo; e fu reputato sincero: così che la porta del carcere gli venne
dischiusa; - certo non avranno ommesso di rampognare il defunto Colonnello
Manganaro, uomo di molta virtù; ma egli sembra che avesse la fortuna, la quale
a me non arrise finora, di trovare orecchie alla persuasione non disperatamente
impenetrabili, conciossiachè i giorni che visse ultimi della vita onorata non
gli furono fatti amari con lo squallore del carcere infame578.
La Seduta del 29 marzo
si apre con le dimostrazioni del Partito Repubblicano avverse al voto della
notte del 28: voglionsi pubblicati i nomi dei consenzienti e dei dissidenti,
per esporli alla popolare indignazione. Il Deputato Manganaro579 contradice la proposta, ma dichiara: «Frattanto
ho il coraggio di asserire, che io votai per il Potere Esecutivo
conferito al Cittadino Guerrazzi; e nulla temo avere opinato in tal
modo.» Così eravamo arrivati a tal punto col Partito Repubblicano, che era pericolo
procedermi amico, e per dichiararlo vi abbisognava coraggio; e questo
avrebbe dovuto avvertire chi giudica. Un Deputato propone la Legge di cui lo
scopo è la Unione assoluta con Roma, e però implicitamente la
dichiarazione della Repubblica e la decadenza del Principe. Nella Seduta del 30
marzo il Deputato Marinelli riassume la interpellazione mossa nel 29 dal
Deputato Giotti per sapere da me se avessi mandato una Deputazione a Gaeta:
intende che vi risponda pubblicamente, perchè simile notizia si va
insinuando fra il Popolo! Altri v'insiste. Lo scopo di questa interpellazione
era di diffidare sul mio contegno i Repubblicani fanatici, e spingerli a
qualche estremità. A me parve necessario riparare alla insidia, dichiarando a
voce e in iscritto, non essere vero, sì perchè lo invio della Deputazione a
Gaeta fosse veramente menzogna, sì perchè, come altrove ho detto e qui ripeto,
e di ripetere mi giova, volevo condurre con la persuasione i dissidenti ad
aderire alla Restaurazione; non già per via di trame, nè per violenza, o per
basso motivo di privato interesse. - Il Deputato Venturucci troppo presto
avventura la proposta: «Gettiamo uno sguardo sopra gli avvenimenti che
occasionarono la esistenza di questa Assemblea. Mancò uno dei Poteri; il
Governo si trovò incompleto; fu interrogato con suffragio universale il Paese
come intendeva provvedere al suo avvenire. Ebbene! Ora non possiamo, che
rispondere: il Paese, di cui siamo i Rappresentanti, accetta la Carta del 1848.
Così avremo una Costituzione concessa, ma consentita. Noi non avremo fatto una
Rivoluzione, saremo in terreno legale, o almeno la Rivoluzione non sarà
colpa nostra. Non nasceranno interni dissidii, si eviteranno gli esterni
nemici, avremo serbato le nostre forze per un migliore avvenire, e daremo il
nobile esempio, giusta la sentenza di Sallustio, di avere voluto seguire la
ragione piuttosto che la fantasia.»
Questo era il concetto
del Rappresentante del Potere Esecutivo. Ma Venturucci col suo affrettarsi
indisciplinato l'ebbe a mettere in repentaglio gravissimo580. - Si levarono grida di disapprovazione, nelle
tribune alte in ispecie. Un Deputato del Partito contrario obietta la proposta
di dichiarare l'Assemblea solidale della Rivoluzione. Un altro afferma che
l'Assemblea ha ricevuto mandato ristretto dal Popolo, vale a dire determinato a
proclamare la Repubblica e la Unione con Roma. - Dannata sentenza era questa,
imperciocchè con siffatto mandato imperativo non faceva mestieri discussione, e
l'adunanza compariva simulacro inane.
Il Deputato Nespoli, ad
evitare che il partito Busi fosse approvato per acclamazione, fa la proposta
che prima si provveda al modo di resistere; penseremo dopo alla forma del
Governo. Venturucci protesta contro qualunque voto per acclamazione; Nespoli
gagliardamente lo appoggia; Palmi nota, che il proponimento della patria difesa
votato dall'Assemblea è nullo, se non venga seguíto dallo effetto; per
conoscere questo, bisogna consultare il Popolo intero; e quindi propone lo
invio di Commissarii in provincia. Turchetti si unisce a questi oratori,
concludendo perchè il voto nella quistione agitata si sospendesse. Questi tutti
formavano parte della maggiorità creata dal Governo, ma andavano
disseminando, e anche anticipando incautamente i varii partiti discorsi
nelle conferenze: invero i Repubblicani, prevalendosi di cotesta sconnessità,
si sforzano a far discutere il partito Busi come pregiudiciale. Turchetti, e
principalmente il Deputato Sestini che muove dubbio se possa deliberarsi così
grave negozio, senza il concorso dei 120 Deputati, vengono derisi. I Settarii,
sparsi nelle tribune alte, prorompono in grida di minaccia. La più parte dei
Costituzionali balena. Fu allora che io, domandata la parola, uscii in quella
proposta, di cui, elogiando così, faceva la storia il Conciliatore del
1° aprile 1849: «Alle parole degli opponenti alla fusione immediata con
Roma strepitando le tribune, e togliendo così ai Deputati la libertà delle loro
opinioni, il deputato Guerrazzi si è alzato, e rivoltosi con nobile fierezza
al Presidente della Camera, disse: Signor Presidente, io domando che sia a me
data la forza di cui ella dispone; ed io come capo del Potere Esecutivo andrò a
fare sgombrare le tribune a tutti questi scellerati ed iniqui perturbatori.
Queste parole sono state accolte co' più vivi applausi581.»
I Deputati della
maggiorità, e il Popolo non educato dal Circolo, m'interruppero con applausi di
conforto. Palmi e Venturucci, ripreso coraggio, orano per la sospensione del
partito Busi, fino a mutate condizioni politiche. Modena, e altri Deputati,
conflittano la sospensione, e intendono si deliberi sopra la Unione, e subito.
Si va ai voti. Sessantasei Deputati si trovano presenti: 42 votano pel Governo,
24 per la parte repubblicana. La maggiorità governativa sommava quasi a due
terzi.
Quanto è vero dunque ciò
che afferma l'Accusa, che io avversassi la Repubblica, solo per farla
proclamare dall'Assemblea? Gl'idi di marzo erano venuti; dunque perchè non la
feci dichiarare, non la favorii io? Anzi, perchè l'avversai? - La notizia della
disfatta novarese ti aveva sopito nell'animo il genio repubblicano, - oppone
l'Accusa; ma io ripeto che nel 25 marzo questa mai sempre dolente novella non
era arrivata, anzi in quel giorno inebbriava, piena nel suo bel fiore, la
speranza.
I Repubblicani, secondo
che vedevano inclinare le cose alla restaurazione dello Statuto, s'inviperivano
a sospingere il Paese nella Repubblica. Urgeva contenerli, e affrettarmi a
sgombrare le vie, affinchè il voto universale, nelle vicende che precipitavano,
si manifestasse solenne e trionfante: a questo intento mando Montanelli, che lo
chiedeva, in Francia; pubblico il Proclama del 1° aprile, e alla fine dichiaro
non potersi provvedere alla salute della patria: 1° Se non si proroghi
l'Assemblea, con obbligo nel Potere Esecutivo di non risolvere intorno alle
sorti del Paese senza consultarla; 2° Si sospenda ogni questione intorno alla
forma del Governo; 3° Rimangano i Deputati a Firenze per condursi, a richiesta
del Capo del Potere Esecutivo, in qualità di Commissarii per la guerra nelle
Provincie, o sovvenirlo in altra maniera.
Prima che per me si
manifesti il motivo di cosiffatta proposta, vedasi come l'accogliessero i
Repubblicani. Essi tornano passionatamente su le cose decise, - perchè, come il
Popolo avrà coraggio, essi dicevano, per prendere le armi, se l'Assemblea non l'ha
per proclamare la Repubblica? - I Settarii fremono nelle tribune; il Deputato
Del Sarto procura placarli con accomodate parole, ma cresce il rumore. Il
Deputato Manganaro valorosamente dichiara: «Che Popolo e non Popolo? Nessuno ha
diritto di chiamarsi Popolo nel nostro cospetto. È una frazione del Popolo
che ce ne vorrebbe imporre. Noi soli, eletti dal suffragio universale,
possiamo parlare in nome del Popolo, e provvedere alla salute di lui.»
Il tumulto a queste
parole scoppia per modo violento e scandaloso, che il Ministro dello Interno
dichiara: la dignità dei Ministri non consentire che rimanessero. Biondi
esclama che i Deputati avranno il coraggio di morire; e nessuno abbandoni il
posto (e questo si chiama sapere sostenere le parti di Deputato). Turchetti
corre a dare ordini per isgombrare le tribune. Il Ministro dello Interno grida
al Presidente: «Io le ho mandato 180 uomini, che ne fa ella?»
Nel 3 aprile si tornò a
discutere intorno alla mia proposta. Il Deputato Pigli, sempre nello intento
d'indurre l'Assemblea a riporsi dalle cose decise, si oppone che il partito del
Capo del Potere Esecutivo venga preso in considerazione, finchè non sia
decretato intorno alla forma di reggimento: egli vota per la Repubblica. «Il
Partito Repubblicano» prosegue l'oratore «dicono poco numeroso in Toscana: gli
uomini si pesano, non si contano. Gli uomini della Rivoluzione vincono con
la Rivoluzione. Prudenza e opportunità essere istrumenti da tiranni. Voi dite
non vedere il Popolo invaso da entusiasmo; e sia: ma dovete dirmi, che avete
fatto tutto per eccitarlo, che tutto avete fatto perchè non andasse
spento e distrutto. I principi sono fuggiti, i troni sono restati.
Voi chiamate il Popolo a difendere le frontiere, ma non gli date armi, nè
danaro e divise. Volete che il Popolo risponda davvero? proclamate la
Repubblica.» Protesta contro le parole del Deputato Venturucci, che dichiarò la
Toscana soddisfatta dello Statuto del 1848. Così, a sentire il Pigli, la
Repubblica era di Elena il nepente, che avrebbe somministrato non solo
uomini, ma danari, armi, cannoni e cavalli, anche quando il Governo non gli
avesse somministrati; ed egli ignorava quello, che altrove ho narrato, che
richiesto dai Repubblicani Romani a mandare a Bologna per instituirvi una
Commissione di reciproca difesa, vi aveva spedito Manganaro e Araldi, i quali, poichè
ebbero atteso più giorni indarno, si ridussero non so se più sconfortati, o
incolleriti, per non avere potuto vedere in faccia un Commissario Romano!!!582
Le opinioni di Carlo Pigli
udivo, in quei tempi, andare su le bocche degli uomini accesi da inestimabile
entusiasmo, ed anche oggi leggo ripetute nei libri che essi stampano. La dura
esperienza dovrebbe averli sgannati; ma non è così. Io ho sempre tenuto come
perniciosissima la invasione della fantasia nel dominio della ragione; e tanto
le volli anche materialmente separate, che, in casa mia (quando la ebbi!),
tenni due stanze: in una delle quali scriveva quanto mi dettava la
immaginazione, e in un'altra trattava negozii. La Repubblica è una voce; niente
più, niente meno; nè le voci a un tratto, meno quelle di Dio, operano prodigii.
In quanto a spirito pubblico, non vogliono intendere i Repubblicani che essi
non operarono rivoluzione in Toscana, ma andarono oltre perchè trovarono
sgombra la via; se il Principe teneva fermo, il Partito Repubblicano non
avrebbe allora mai, nè anche un momento, prevalso; e in quanto agli ordini
militari, ci vogliono tempo, concordia e sapere. Le armi, i danari, e le assise
non difettavano; mancavano chi le volesse e sapesse maneggiare e vestire; e le
cose affermate in questo proposito, a carico del Governo, erano sfrontatezze, e
niente altro. Deh! non ci nuoccia perpetuamente la nostra matta prosunzione; e
di più non dico.
A Pigli subentra il
Deputato Mazzoni; egli pone essere stata intendimento universale la Repubblica;
venire tardi i consigli della paura. Il Popolo avere conferito ai Deputati
mandato imperativo. Adesso trattarsi di Repubblica, o di Restaurazione. Per
richiamare il Principe Costituzionale, mancare l'Assemblea di facoltà. - Si
obietta il Popolo restío allo appello del Governo; l'Assemblea faccia il suo
dovere: se il Popolo non farà il suo, peggio per lui. La proposta del Potere
Esecutivo non somministrare veruno vantaggio, anzi recare danno. Con la
Restaurazione non può trattare l'Assemblea.
Il Deputato Mazzoni erra
manifestamente su la natura del mandato, il quale era impressionato dalla
formula proposta dal Decreto del 6 marzo: se, e come Toscana deva unirsi a
Roma. Aveva ragione trattarsi adesso di Repubblica o di Restaurazione; non
aveva ragione a credere i Deputati propensi alla Repubblica prima dello
infortunio novarese, mutati dopo; perchè prima di allora erasi dato opera ad
agitare fra i Deputati i concetti, che verrò esponendo. Rigidi i suoi
principii, non giusti. E quando anche veri e giusti, vi ha qualche cosa nel
mondo, davanti alla quale ha da cedere il rigore del raziocinio, ed è la carità
della Patria. Perano piuttosto venti sillogismi, che un uomo solo! La carità
del luogo natío persuade a procurare al Popolo il maggior bene possibile anche
a carico della propria reputazione. Pur troppo col Deputato Mazzoni, uomo
d'altronde per integrità di vita santissimo, procedevo diverso. Questo motivo
mi costrinse a non partecipargli i miei consigli: sarebbe stato lo stesso che
persuadere il David di Michelangiolo. Propugnarono pel concetto repubblicano i
Deputati Modena, Bichi, Giotti, Menichelli, Vannucci, Trinci Bartolommeo,
Cipriani; lo avversarono i Deputati Carrara, Palmi, Micciarelli, e Socci. Gli
oratori favorevoli al Governo, e contrarii alla immediata proclamazione della
Repubblica, vennero vilmente oltraggiati dal Popolo tuttora parteggiante pei
Circoli. Più volte fu ordinato lo arresto dei perturbatori, e lo sgombro delle
tribune.
Pigli, per confondere le
cose e ritardare la votazione, dichiara volere interpellare il Governo: non gli
riesce, e si passa ai voti. Quarantatrè sono per la sospensione, 29 contro; il
Deputato Taddei si astiene dal votare perchè non aveva assistito alla
discussione.
La parte del Governo in
questo nuovo sperimento acquista un voto, quella dei Repubblicani cinque; e
ciò perchè il Partito dei pretesi ortodossi costituzionali di Firenze, invece
di venire a rafforzare il nostro concetto, disertava la causa; e non fu bene.
I Repubblicani
dell'Assemblea non si sgomentarono per questo, ed insisterono perchè le
interpellazioni del Deputato Pigli si ammettessero: il Ministero o il Capo del
Potere Esecutivo vi rispondessero pubblicamente. Io pure gli avevo più volte
nei giorni antecedenti, ed anche poche ore avanti, ragguagliati con coscienza
di quanto volevano adesso sapere di nuovo583. Ora perchè questo? Non
senza astuzia era il trovato. Il Ministero repugnerà, essi pensavano, per
prudenza a manifestare le condizioni nostre di fronte alle Potenze estere, e,
per pudore della Patria, la fiacchezza dei Toscani; allora scompariranno le
cause della oppugnata proclamazione della Repubblica, e discutendo gli articoli
potrà essere rigettata la Legge proposta dal Potere Esecutivo. Ultimo tentativo
per l'agognata Repubblica. Essi s'ingannarono; i Ministri Marmocchi e Mordini
risposero in modo da tôrre loro ogni baldanza. Quivi Marmocchi non dubitò di
posporre tutto alla verità, e dichiarò pochi i Repubblicani, contrario lo
spirito del Paese a cotesta forma di Governo, arduo eccitare i Popoli alla
difesa delle frontiere; allegò fatti, confermò la sua sentenza con raziocinii.
Il Ministro degli Esteri smentì i conforti di Francia e d'Inghilterra
asseriti falsamente dal signor Rusconi. Il Deputato Pigli comprendendo
quanta e quale impressione avrebbero fatto coteste solenni dichiarazioni
nell'universale, dopo averle provocate, si oppose perchè fossero pubblicate; -
e così presumono illuminare il Popolo, e servire agl'interessi di lui! Questi
paionmi, e sono tranelli di Settario, non concetti, non ispiriti di uomo di
Stato. Ai giorni nostri, se lo inchiodino bene nella mente gli uomini di tutte
le condizioni e di tutti i Partiti, colui che cammina con maggiore probità
riporterà vittoria su gli altri. - Allora io sorsi, e dissi: «Poichè lo
avete voluto, io intendo, al contrario, che abbiano intera pubblicità; e questo
per due motivi del pari importanti: primieramente perchè non si concede
sopprimere nel ragguaglio della Seduta una parte, che il Pubblico ha diritto di
sapere; secondariamente perchè tutti i Toscani sieno informati per loro governo
dello stato del Paese584.»
La mia proposta fu
vinta.
«L'Assemblea Costituente
Toscana
Decreta:
1° Doversi nel momento
attuale sospendere ogni deliberazione intorno alla forma del Governo ed alla
Unificazione della Toscana con Roma.
«2° Doversi prorogare,
siccome proroga, la prossima futura di lei Tornata al dì 15 aprile corrente.
«3° I Deputati non
pertanto dovranno restare in Firenze.
«4° Il Capo del Potere
Esecutivo non potrà risolvere intorno alle sorti della Toscana senza il
soccorso e l'annuenza dell'Assemblea, non solo a pena di nullità, ma di essere
punito come traditore della Patria. Potrà bensì provvedere alle necessità dello
Stato con la emissione di tanti Buoni del Tesoro, fino alla concorrenza di
2,000,000 di lire, ipotecando i medesimi unitamente all'imprestito volontario
decretato con la legge del 5 aprile 1848 per sostenere la guerra della
Indipendenza, sopra i Beni dello Scrittoio delle Rendite.
Li 3 aprile 1849.»
Fu vinta, ma combattuta
dalla diffidenza. La proroga era concessa per soli dodici giorni; ed anche a me
piacque che fosse così; e m'imposero, sotto solenne religione, l'obbligo di non
risolvere intorno alle sorti della Toscana; e due milioni assegnarono per
limitare le facoltà che aborrivano, e pur si dovevano, in tanta urgenza,
lasciare liberissime. Però gli Avversarii non rifinivano di sussurrare
menzognero ed esagerato il rapporto; i fatti non veri; vero soltanto l'accordo
del Potere Esecutivo col Principe a Gaeta.
Avrei potuto allora
chiudere violentemente l'Assemblea, e operare qualche giorno innanzi quanto
successe il 12 aprile. Nol feci, e non lo volli fare. Considerai, che
avventurandomi a cotesto passo avrei potuto incontrare resistenze di città, di
provincie, od anche d'individui; e questo verosimilmente accadendo, bisognava
ricorrere alla forza. Simile partito poi non era sicuro che riuscisse, con le
milizie che possedevamo allora: dato che riuscisse, era mestieri venire a
contesa; ed io diligentemente procurava, che non insorgesse dissidio di sorta
da nessuna parte, perchè lo universale consenso rallegrasse la Corona, e la
persuadesse, che i casi passati dovessero ritenersi come que' brevi scompigli,
che pur talvolta si levano anche fra persone dilette, e da obbliarsi
facilmente; nessuno nella solennità del reintegrato Statuto avesse a piangere:
dall'altra perchè non fosse somministrato pretesto agli stranieri
d'intervenire nelle faccende nostre con la loro diplomazia, e peggio con le
loro armi. - Inoltre, dal partito violento mi dissuadeva la mala compagnia
reazionaria od anarchica, che in queste occasioni sempre ribolle, e ti
spinge fuori dei limiti del tuo disegno. Nè anarchici, nè reazionarii;
estremi entrambi. Siffatta maniera di gente servendo piuttosto alle passioni
proprie, che al bene dello Stato, sono fastidio sempre, vergogna spesso,
qualche volta rovina della parte a cui si attaccano; sozzi in vista, nè meno in
effetto dannosi de' serpenti di Laocoonte.
Io intesi fare così.
Ottenuta la proroga dell'Assemblea mandai Deputati di qualunque Partito, purchè
probi, nelle Provincie, affinchè, investigato lo spirito e le tendenze delle
Popolazioni, sopra l'anima e coscienza loro ne riferissero dentro breve spazio
di tempo. Al punto stesso, io con ogni conato, e sinceramente, mi adoperai nel
negozio dello adunare milizie. Mi volsi a tutti i Partiti, parlai a tutti
gl'interessi, eccitai tutte le passioni. Feci comprendere agli amici della
Restaurazione correre loro dovere di conservare intero lo Stato alla Corona;
non prendessero il desiderio del richiamo del Principe a pretesto di
codardia, imperciocchè io non indicassi loro nemici nuovi, sibbene antichi,
tali dichiarati dallo stesso Sovrano, già combattuti, e certamente acerbi per
le recenti offese sopra i campi lombardi. Serbare lo Stato intero, e
respingere, s'era possibile, ogni aggressione straniera, formava il dovere
primo di ogni cittadino; o almeno tentarlo. Altra causa ad operare lealmente consisteva
per me nella promessa solenne data dalla Toscana ai Popoli Lunensi e della
Garfagnana di difenderli, per quanto forza umana bastasse; e delle altre
ragioni altrove indicate non parlo, avvegnadio quando ti lega la religione
della promessa tra gente onesta più lungo discorso non abbia luogo.
Però io devo confessare,
che da tutti questi sforzi sperava potesse ottenersi tanto da provvedere all'onore
prima, e poi al benefizio delle sorti della Patria, non però quanto bastasse a
giusta difesa, se l'Austria si fosse avventata con grosso sforzo di
gente contro di noi. Onde era ordine al Generale D'Apice, che dove i nemici si
fossero affacciati grossi così da non poterli per qualsivoglia estremo di
virtù impedire, anzichè sprecare senza prò sangue umano, si ritirasse
protestando: in ogni altro evento proteggesse la Garfagnana, e Massa e Carrara.
La disperata difesa, che andavano immaginando i Repubblicani, non poteva
farsi, e quel seppellirci sotto le rovine delle città è partito che il
Paese civile repudia. Queste deliberazioni, è vero, salvano all'ultimo i paesi,
ma sul momento li guastano, e noi non li possiamo patire sciupati. Quando le
palle nemiche avessero a bucherare i nostri palazzi, ohimè! non vi parrebbero
eglino malconci dal vaiolo? Ed a chi mai di noi basterebbe il cuore di vedere
il suo palazzo col vaiolo? Siffatte enormezze si hanno da lasciare ai Barbari,
che non vogliono sopportare dominio straniero in casa, come sarebbero il russo
Rostopchin a Mosca, o il vescovo Germanos a Missolungi; una volta avemmo ancora
noi un Biagio del Melano.... ma, come Barbaro, lo abbiamo dato all'oblio, così
che io giocherei Roma contro uno scudo che neanche venti dei miei civilissimi
lettori ne conoscono il nome585. Chè se i Toscani un
giorno, per volontà dei cieli, e per virtù propria mi chiariranno bugiardo,
pensino che io faccio capo saldo a tutto 12 Aprile 1849; e se non
vorranno pensare a questo, io domanderò perdono, se pure i miei occhi saranno
aperti, e sarà incerto se con maggiore esultanza me lo concederanno essi, o lo
domanderò io. Fino a quel giorno la evidenza mi dà la ragione e l'angoscia di
averla.
La frontiera toscana,
com'era allora, a giudizio degl'Ingegneri, non si presta agevolmente alle
scarse difese: lunga si sprolunga la linea, ed abbisogna copia di gente, e
apparecchio immenso. Le milizie nostre, poche a tanto uopo, e in condizione di
disciplina deplorabile; e ciò sia detto, salvo il debito onore di quelli che
mostrarono cuore ed ingegno per sostenere le difese estreme. La gente raccogliticcia,
e giova qui rammentarlo anche una volta, non fa frutto: di questo non vogliono
persuadersi gli Entusiasti, ed è verità vecchia, e lo abbiamo sperimentato a
nostre spese di nuovo.
Oltrechè poi anche di
gente siffatta non era il novero grandissimo, o almeno corrispondente allo
assorgere di Popolo come un uomo solo che intende difendere disperatamente i
suoi lari; avvegnachè, per lungo disuso e per mansuetudine antica, i Toscani
repugnassero dalle zuffe; e sebbene abbiamo visto, come condotti una volta al
campo riescano soldati a nessuna milizia secondi, pure sradicare dall'animo dei
Popoli la infame repugnanza tutto a un tratto non puossi. Nel Ducato di Lucca,
per concessione della Principessa Elisa, i Lucchesi si reputavano immuni dalla
milizia. Privilegio esercitato con ragione, quando si trattava andare in remote
contrade a combattere guerre di conquista; stolto, empio, iniquamente preteso,
quando chiama la Patria. Per la qual cosa vedemmo, maraviglioso a dirsi! nel
contado lucchese i rustici armati a sostenere la guerra per non andare alla
guerra.... Le campagne toscane poi poco alla milizia disposte per le cause
referite, e per altre, che sarà bello tacere. La gioventù cittadina, diversa,
ma meno adatta alla sobrietà e alle fatiche, alla virtù insomma, - senza la
quale armati si hanno, soldati non già, - difficile a governarsi, apportatrice
nelle armi delle scapigliature di piazza, non osservatrice di altri ordini che
dei suoi, e questi ogni ora mutati; non obbediente ad altri capi che agli
eletti da lei, impedimento sempre, difesa nulla o scarsissima.
Da Firenze dopo molte
istanze ottenemmo 80, credo, soldati civici, i quali ancora non partirono per
la Frontiera, ma rilevarono il presidio di Orbetello.
Più tardi partirono
mille, e generosissimi tutti, senza badare a Repubblica o non Repubblica; chè
nei cuori accesi di carità patria davvero, quando si tratta di difendere il
suolo natio, si guarda dove e perchè si va, non a chi ci manda.
I padri empivano di querele
il Palazzo, perchè il Ministro della Guerra rendesse loro i figli.
«Firenze 2 aprile. - Il
Ministro della Guerra è assediato da continue dimande di molti cittadini, i
quali reclamano perchè i loro figli siensi arruolati Volontarii. - Non può egli
fare a meno di rammaricarsi nello scorgere nei genitori dei coscritti tanto
dolore per atto così eminentemente patriottico, e che onora la Gioventù
toscana. La Patria versa in sommo periglio, nè mai ha avuto tanto bisogno
quant'oggi dell'opera dei suoi figli: essa attende però, ed esige da tutti
quelli che nudrono in seno amore del proprio Paese, sagrifizio di ciò ch'è più
caro all'uomo. Senza di che mai Italia si affrancherà dal dominio straniero,
sorgente dei nostri mali. Il Ministro della Guerra, al tempo medesimo che si
congratula co' giovani soldati, non può non rammentare ai loro genitori il
dovere sacrosanto, che ad ogni cittadino incombe di rispondere allo appello
della Patria: che, in luogo di lamenti, egli si attende dai genitori un
incitamento ai figli ad essere buoni e virtuosi soldati; non può infine non
richiamare alla loro memoria lo esempio delle madri spartane, le quali non solo
volonterose consentivano ai figli di prendere le armi, ma eziandio con le loro
mani ne gli rivestivano, e gli accompagnavano al luogo del generale convegno, e
prima di lasciarli gli ammonivano a combattere da eroi, o gli consigliavano a
volere perdere meglio la vita che serbare un contegno del quale la patria
dovesse arrossire. Nudre pertanto fiducia il Ministro della Guerra, che tutti i
Toscani i quali abbiano figli ricovreranno più generosi sentimenti, e che,
invece di muliebri lagnanze, verranno ad allegrargli le orecchie parole di
patria carità.
«Manganaro.»
Credono eglino i
Repubblicani, che, gridando dentro coteste leprine orecchie: Repubblica!
avrebbero camminato i padri più accesi nelle cose della guerra? Immaginino come
vogliono, noi vediamo com'è. Nè meglio Livorno di Firenze, anzi peggio; e
Toscana tutta alla medesima stregua. Se questa dolente pagina fosse scritta per
mia difesa soltanto, ci verserei sopra tutto lo inchiostro del calamaio, e ci
strofinerei sopra lo stoppaccio settantasette volte sette; ma la lascio, perchè
leggendola si abbiano a vergognare i miei conterranei. E perchè le madri slave
non piangono quando i loro figli vanno a combattere, ma esultano, riesce ai
Croati vincere noi, che ci vantiamo così civili, e presumiamo tanto!...
Udii, che gli Ufficiali
(intendo i pessimi) sotto pretesti varii sollecitavano congedi, o allegavano
infermità per non andare alle frontiere: infermità che in taluni forse erano
vere, ma dedotte insieme, e in mal punto, erano da sospettarsi tutte false!
Pertanto prevedevo
sicurissimo, che i Deputati i quali percorrevano le provincie, muniti di mie facoltà
per eccitare la milizia civica alla patria difesa, sarebbero tornati, non dirò
senza costrutto, - chè tanto non credevo allora, nè credo abbia maledetto il
Signore la nostra contrada, - ma con rapporti capaci a fare mettere giù la
speranza di vedere le moltitudini correre armate alla frontiera, molto più per
opinioni politiche allora invise allo universale. Io aspettava il ritorno di
questi Deputati, e mi consigliava a parlare in questo modo nell'Assemblea,
indirizzando il discorso ai Partigiani della Repubblica:
«Voi non avete creduto
alle mie parole mai: ecco persone di fiducia vi riferiscono, come nelle
provincie non ferva lo entusiasmo di combattere, che voi immaginaste. Se
pertanto non comparisce universale il moto di correre alla difesa delle frontiere
per amore della Patria, la quale contiene le cose che per modi diversi tornano
a tutto uomo più care, come vorreste voi che vi si precipitassero i Popoli per
una forma di governo, che molti ignorano, moltissimi aborriscono? Se non si
levano per cagioni, che tutti i cuori sentono, come presumete eccitarli per via
di astrattezze che la mente non comprende o rigetta? Voi mi avete rampognato di
avere omesso i mezzi capaci a tenere desti gli spiriti del Popolo. Se intendete
degli onesti, io gli ho praticati tutti; se mai (lo che io non voglio
credere) accennaste ai modi della Rivoluzione di Francia del 1793, sappiate
ch'essi fecero paurosa la libertà ed infame; sicchè vi volle mezzo secolo a
riassicurare gli animi sbigottiti. I sacri argenti tolti alle Chiese avrebbero
gittato forse 15 o 20 mila scudi, sussidio insufficiente a tanto uopo, e
avrebbero partorito esecrazione infinita contro il Governo. Il tôrre a forza fa
sparire la moneta, e dare al capestro il collo dei repugnanti vi farà ricchi di
delitti, non di moneta586. Spingere uomini
incontro al cannone con la scure dietro, nè lo potevate domandare voi, nè lo
potevo eseguire io. Solo posso precederli, e questo, se mi è dato, farò. Voi vi
ingannate intorno alla virtù dello entusiasmo; egli esalta, non crea le forze.
Con lo entusiasmo voi non formate la scienza degli artiglieri, la disciplina
negli eserciti, gli esercizii della cavalleria, non gli apparecchi di guerra, e
per di più da un punto all'altro, di faccia al nemico. Non invocate gli antichi
esempii di Francia, perchè l'anima trema rammentando le necessità dei pochi,
che vogliono dominare su i molti. Queste necessità sono i Settembrizzatori
a Parigi, le Mitragliate a Lione, gli Annegamenti a Nantes. - La
Libertà non si nudrisce, si avvelena, col sangue; nè ho mai sentito dire, che
rovistando pei sepolcri si trovino argomenti al prospero vivere degli uomini,
bensì vermi; ed io per me non voglio prendere gli esempii da altro Paese, che
da quello che mi citate. Dove mise capo la convulsione dei Francesi così
atrocemente eccitata? Dove andarono a terminare le quattordici armate
rivoluzionarie? Nella perdita di tutta la Italia, nel confine del Reno
minacciato. Dove si quietarono gli esaltati spiriti della Libertà? Nelle
turpitudini del Direttorio. Se lo ingegno, e la fortuna di un uomo, cui si
piegarono tutti ad adorare despota, non erano, - la Francia sarebbe stata
invasa, e divisa. Ecco quali immensi abbattimenti succedono a immensi furori.
Ora la fortuna vi para davanti due vie da seguitare: la prima sta nel
precipitarvi con grandissimo pericolo, anzi con esizio certo, nella
Unificazione con Roma e nella Repubblica, contro gl'interessi e il sentimento
universali; la seconda, compiacendo al genio e alle necessità della Patria, nel
restaurare lo Statuto Costituzionale. Il primo partito, oltrechè voi non
potrete sostenere, vi divide dentro, chiama certamente il nemico di fuori, ed
apparecchia sventure, che nemmeno potranno sostenersi con onore: il secondo vi
unisce in pace; chiude il campo alle contese tra partiti nemici, nelle quali
essi sempre trasmodano, e, se per impeto di passione, feroci, - se per
ingordigia di comodi, ferocissimi e spietati; toglie adito ai pravi disegni dei
reazionarii, e pretesto agli stranieri d'invadere le nostre terre. Il
suffragio universale del Popolo torrà via ogni amarezza dall'animo del
Principe, per indole facilmente oblioso; il quale, considerato la qualità dei
tempi, gli eccitamenti straordinarii e la potenza di uomini repubblicani qui da
ogni parte convenuti, e gli errori in cui tutti di leggieri trascorriamo quando
la mente è commossa da súbita passione, o turbata da inopinate vicende, troverà
più che non bisognano motivi per l'animo suo a dimenticare il successo come un
sogno di febbre. Preservate la Patria dalla occupazione straniera, e mantenete
le libertà costituzionali, che dirittamente esercitate bastano ai Toscani.
Frattanto permettete, che io mi congratuli meco, e con voi, che il sentiero a
questo partito non sia stato mai chiuso, e che la nostra Patria in così
impetuoso turbinío non abbia a deplorare fatti scellerati, nè perduta la fama
della sua vera civiltà. Questo consiglio io vi do di coscienza, non per fine di
privato interesse, non per obbligo d'impegno assunto, non per patto convenuto,
non per altro meno onesto motivo; ma sì, come a dabbene uomo si addice, mosso
unicamente dallo amore di Patria, e di voi; e perchè voi ne andiate nel
profondo dell'animo persuasi vi confermo, che nessuna pratica fu da me iniziata
in proposito col Principe assente, - veruna. Se io abbia operato con lealtà
quanto mi parve che fosse bene della Patria e non per basso intento, voi vel
conoscete a prova. Voi trovate il terreno delle trattative vergine; provvedete
voi. Brevi le condizioni, e facili. Lo Statuto si mantenga, duri indipendente
il Paese. La Inghilterra da me consultata si profferisce mediatrice di
questo: farà lo stesso la Francia. Di oblio non parlo; conciossiachè, se
male io non conobbi, mi paia più agevole al Principe nostro concederlo, che a
voi domandarlo; e a me giammai, quante volte per altri lo chiesi, disse di no.
Se ho commesso errori (e ne avrò commessi di certo) perdonateli alla bontà
della intenzione, alla infermità del giudizio587.
E quando non mi sia meritata alcuna lode, deh! concedetemi almeno che senza
detrimento di buona fama io vada a riposare in terra lontana, ma sempre
italiana, l'animo e il corpo affaticati.»
Io per me non dubito
punto affermare, e ritenere per certissimo, che le parole aperte, i modi
schietti e legali, la lealtà, ed anche (non mi sia conteso dirlo) la generosità
del procedere, la urgenza finalmente dei casi, avrebbero sciolto la durezza dei
più pervicaci, e (lo soffrano in pace gl'interessati a negarlo) partorito assai
più prosperevoli sorti alla Patria comune, di quelle che le vennero, dal
costoro operato, nel 12 aprile 1849. Il consenso universale di tutta la Toscana
sarebbe stato istantaneo come lo spandersi della luce al sorgere del Sole; dopo
quindici e più giorni non avremmo veduto condotti ad aderire al Municipio di
Firenze alcuni Municipii toscani nella guisa stessa con la quale i Romani
traevano i testimonii in giudizio, dando ai malevoli argomento per calunniarli
avversi alla cosa, mentre erano offesi del modo. La livornese resistenza non
sarebbe accaduta, e con essa, se non la volontà, veniva almeno tolta la
occasione alle armi straniere di scendere quaggiù, del pari che il motivo a
chiamarle; donde poi era dato campo larghissimo alle potenze mediatrici a
interporsi con frutto. E forse oggi anche noi ci consoleremmo della non
acquistata indipendenza italiana con la indipendenza toscana mantenuta, con lo
esercizio effettuale delle libertà sanzionate nello Statuto, di cui la
conservazione fra noi mi pare che assai si rassomigli alla mostra del diamante Koh-i-noor
(montagna di luce) nella Esposizione di Londra, dove tutti lo possono vedere in
gabbia, ma sparirebbe con la gabbia, lo zoccolo, il guanciale, et reliqua,
se qualcheduno si attentasse a toccarlo.
A questo punto io mi
rinnuovo l'obietto, che per deliberarmi io aspettassi la occasione. Se si dirà
che la occasione mi facilitasse il cammino a mandare a compimento il concetto
prestabilito, si parlerà con rettitudine; se poi all'opposto si sosterrà che
l'occasione generasse il concetto, questo ormai fu dimostrato falso da quanto
sono venuto esponendo in questa scrittura fin qui, ed aggiungerò in breve per
conclusione. - Nè penso che alcuno vorrà appuntarmi per avere colto il destro
propizio, avvegnachè l'uomo non possa creare gli eventi: questi sono di Dio.
L'uomo può qualche volta impadronirsene, e indirizzarli per forza o per ingegno
a fine determinato. Ricordo che Madama Staël per istudio di scemare la fama a
Napoleone soleva chiamarlo homme des circonstances, della quale sentenza
punto ei si offendeva, per i motivi che ho poco anzi discorsi. Sicchè su questo
particolare penso, che sarà savio arrestarmi.
Però io voglio esporre
quello che avessi considerato nello evento di fortuna prosperevole alle armi
piemontesi. Vinta una battaglia, non sempre si vince la guerra. Poniamo vinta
la guerra con una battaglia sola, come accadde a Marengo nel 1800, e
ultimamente a Novara; allora si presentavano subito al pensiero molte e gravi
contingenze, così nello interno, come di fuori. Incomincio dalle ultime. Il re
Carlo Alberto sarebbe cresciuto di reputazione e di forza, per virtù sua e per
decadenza della Fazione repubblicana. - Bisogna ritenere che la massima parte
dei Lombardi procedeva sviscerata della Repubblica, non già per fine politico,
quanto per riputarla mezzo sicuro a ricuperare la patria. Una fatale
persuasione, che durò anche dopo lo infortunio novarese, e compose il martirio
doloroso di Carlo Alberto (principe, il quale se trova molti superiori in
grandezza, nessuno, a parer mio, lo uguaglia nella sventura), si radicò nella
mente dei Lombardi e di parecchi fra gli altri Italiani, che il Re non
camminasse sicuro in questa bisogna, ed in segreto se la intendesse co' nemici
d'Italia. Assurdità, e peggio; ma la disgrazia è persuaditrice tristissima
degli uomini, e chi da lontano conosce per relazione le cose udendo il veemente
narrare, e i giuramenti smaniosi, e i pianti, e tutto quanto insomma ha
maggiore virtù di commuovere l'animo umano, si trova conturbato nello
intelletto e nella fede. In questo travedimento gli esuli tennero per fermo,
che ormai non più il Principato, ma la Repubblica avrebbe loro riaperte le
porte della patria: di qui il correre a sollevare Italia tutta a parte
repubblicana; di qui l'opera ardente e indefessa, impresa a danno della
Monarchia Piemontese, che fu parte non piccola fra le cause della disfatta di
Novara. Della verità del mio concetto porge argomento il considerare che prima
degl'infortunii di Custoza i Repubblicani si fossero sottomessi, dichiarando
non volere con importune contese disturbare la opera della Indipendenza
italiana. - Ora, se la sorte delle armi, arridendo al Re, avesse non pure
quietati, ma distrutti, i fatali sospetti; se al Re fosse stato concesso di
schiudere ai Lombardi il varco pel ritorno in patria, mentre la Repubblica non
si era mai mostrata capace di tanto, non veniva tolto ad un tratto il motivo
negli esuli di parteggiare per la Repubblica? Certo che sì. Cresciuta
l'autorità del Principato, non poteva supporsi che Piemonte consentisse tenere
quello stecco su gli occhi di una Repubblica della Italia Centrale, e l'avrebbe
avversata con tutti i modi: dalla parte di Napoli, non importa dimostrarlo.
Conquista da Torino non temevo, chè se di volere non avesse patito difetto, gli
mancava il potere. La Francia, la quale come abbiamo letto dichiarato da
Lamartine, non avrebbe sofferto che il Regno Sardo si ampliasse col
Lombardo-Veneto e co' Ducati, pensiamo un po' se gli avrebbe consentito
stendere la mano anche sopra Toscana! Dalla conquista in fuori, la Repubblica
della Italia Centrale doveva aspettarsi dal Piemonte pessimi ufficii. La
vittoria delle armi italiane avrebbe richiamato l'attenzione della Francia e
della Inghilterra, rimaste quasi arbitre dei destini d'Italia, ad assettare le
cose nostre; diversamente invero da quello che appaiono adesso, ma pure in modo
contrario alla Repubblica. La Inghilterra, tenerissima della sua Costituzione,
non ama le Repubbliche, e la Francia repubblicana le odia. Però Napoli sarebbe
stato costretto a procedere dirittamente nelle vie costituzionali, e ad
accogliere con onore gli esuli cittadini. Dal quale successo erano a prevedersi
verosimili due conseguenze: la prima, che anche in questa parte l'autorità
regia costituzionale acquisterebbe aumento; la seconda, che i napolitani esuli,
reduci in patria, sarebbero rimasti di affaticarsi per la Repubblica nel modo
stesso, e per le medesime ragioni che ho esposto testè discorrendo degli esuli
lombardi. La Toscana e Roma pertanto si vuotavano di questi arnesi potentissimi
di Rivoluzione. Così tra le cause scemate per desiderare la Repubblica, la
cresciuta autorità costituzionale, le pratiche di Potenze primarie, la pressura
da due lati, la debolezza comparativa dello Stato, il difetto di frontiere
validissime, e la necessità di non isconcordare per costituirsi con solidità,
avrebbero costretto questi due Stati a piegarsi alla forma costituzionale. Cosa
sarebbe avvenuto del potere temporale del Papa, non è facile prevedersi: solo
lo evento è bastato a persuadere che lo avrebbero restaurato le armi
repubblicane di Francia: ad ogni modo faceva mestieri accomodare anche il Papa
degnamente, come a Capo della Chiesa Cattolica si addice.
E questo per ciò che
riguarda di fuori. Nello interno poi, a cagione di quanto venne dichiarato
superiormente, opera perduta sarebbe mettere parole intorno al successo della
aggiunzione al Piemonte, come quella che pareva ad accadere impossibile.
Consideriamo piuttosto la Unificazione con gli Stati Romani.
Trovavo dentro (e fu sovente
materia delle mie conferenze col Capo del Municipio fiorentino, e con altri
precipui cittadini così di Firenze come delle Provincie, delle libertà
costituzionali fidatissimi amici) repugnanza infinita di lasciare uno
stato certo e provato sufficiente, per avventurarci in condizioni ignote, piene
di pericolo, allo universale per nulla necessarie, dalla maggiorità rigettate.
Trovavo che i Toscani, ed in
singolare modo i Fiorentini, sentivano inestimabile molestia a ridursi in grado
di provincia romana, mentre ab antiquo avevano formato florido stato,
copioso di commercii e pieno di gloriose memorie.
Trovavo che i Toscani
aborrivano di rendersi solidali al fallimento della finanza romana, e
ostinatissimi contrastavano per non essere tratti in cotesto vortice di debito.
Trovavo che Firenze non si adattava
a restare priva della sede del Governo, fonte per lei non pure di decoro, ma di
vantaggi notabili, sia per la stanza degl'impiegati, sia pel concorso di quanti
muovono dalle Provincie quaggiù pei loro negozii col Governo; sia finalmente
pel soggiorno dei forestieri, i quali sogliono fermarsi nelle Capitali.
Trovavo la classe commerciante
di Livorno paurosa di scapitare in pro di Civitavecchia, il quale porto, come
prossimo alla metropoli della Italia Centrale, non ha dubbio che si sarebbe
ampliato con danno di Livorno.
Trovavo costumi diversi,
diversi i gradi di civiltà, diverse le maniere del vivere, l'economie ed altre
più cose, che non consentono che Unificazione piena e assoluta ad un tratto si
faccia, o fatta non abbia poi a dolere. Toscana mutata in provincia sopportava
sagrificio troppo duro, come grande sarebbe riuscito il vantaggio, se qualche
parte dello Stato Romano si fosse aggiunta a lei in condizione di provincia.
Queste unificazioni o fusioni, come dicevano allora, si operano
di consenso o di forza. A effettuarle con la forza vuolsi una potenza grande,
che raccolga nella mano di ferro le varie generazioni abitatrici di una
contrada della medesima lingua, e le costringa tutte a portare la impronta
delle sue dita. Ma da Napoleone imperatore e re in fuori, nei tempi moderni,
non discerno altri che potesse essere stato capace da tanto. A volerle condurre
per via di consenso, si richiedono uguali, o molto simili, le condizioni
disposte dalla natura, e secondate dalla operosa volontà degli uomini.
Ora tra per le
sollecitazioni delle Potenze estere, e le volontà dei Re d'Italia, tra per il
cessato bisogno nei più di ricorrere al partito estremo della Repubblica per
tornare in patria, e la inclinazione della Toscana a starsi divisa, e le
difficoltà in parte invincibili della Unificazione con Roma, lasciato che le
passioni ardenti si sfocassero e le cause di quelle, preparata grave e profonda
discussione, io ritenevo come sicuro che l'Assemblea Costituente Toscana,
avrebbe deciso, in ogni evento, pel Principato Costituzionale e per la
Confederazione, non Unificazione, con Roma come con gli altri Stati Italiani.
E così opinava
certamente il Partito che ebbe ad organo prima il Conciliatore, poi lo Statuto;
conciossiachè abbiamo veduto com'egli confortasse consultare la Toscana,
convocando l'Assemblea Costituente col principio accettato del suffragio
universale, e persuadendo i Deputati a sciogliersi spontanei se questo non
ordinasse il Governo. Il Governo aderì al consiglio, nè si vede ragione perchè
cotesto Partito avversasse poi quanto aveva provocato egli stesso; solo per
mostrarsi coerente avrebbe dovuto credere che l'Assemblea Costituente
procedesse nemica alla Restaurazione; e ciò non fu. Questo fatto io lascio alla
considerazione del Paese, chè a me non giova spendervi attorno più lunghe
parole.
Rimane a vedersi chi
avrebbe scelto l'Assemblea per Principe. - Non è verosimile scegliesse uno
straniero, perchè per le dominazioni straniere parmi, se non erro, immortale lo
aborrimento degli Italiani tutti; scegliendo uno di casa di Savoia, avrebbe
contradetto Napoli; se chiamato un Reale di Napoli, gli si opponeva Piemonte, e
ad ambedue avrebbero ostato Francia e Inghilterra. Se è vero, come parmi
verissimo, che la memoria degli antichi beneficii non si cancelli per breve
furore, nè la diuturna benevolenza cessi per impeto passeggero, e che, remosse
le cause del delirio, l'uomo ritorni nel suo stato normale; - deve credersi che
i Toscani avrebbero richiamato i Principi, che potevano salutare col nome di
concittadini.
Dimostrazione storica.
I fatti, che per sofisma
o per calunnia non si tramutano, hanno dimostrato fin qui come, il Principato
Costituzionale cedendo il campo, subentravano inevitabili ad occuparlo la
Repubblica e l'Anarchia. Parte repubblicana era poco numerosa fra noi, nè di
Toscani tutta, ma audace e gagliarda, sovvenuta dalle voglie dell'accesa
gioventù, cui sembra spesso che per potere basti desiderare: onde è sicuro che
quella parte, come voleva, avrebbe potuto, nello sbigottimento universale,
cacciare le mani nei capelli al Paese, e strascinarlo colà dove ella mirava:
però ammaestrando la esperienza, che i pochi contro ai molti inerti o
repugnanti, senza ricorrere ai partiti estremi, non durano; in breve, siccome
già si appoggiavano, avrebbero dovuto i Repubblicani darsi interi in balía, non
dirò al Popolo minuto (conciossiachè il nome di Popolo suoni sempre reverito
alla mia mente), bensì alla plebe che del Popolo è piaga. La plebe soverchiata,
indi a poco parte repubblicana avrebbe regnato come regna il fuoco. Commesso io
alla salute del Paese, credei riparare nella consultazione del Popolo toscano
per mezzo del suffragio universale come ad asilo ultimo ed efficace. Da una
parte non lo potevano rinnegare i Repubblicani, perchè da loro medesimi
professato; dall'altra tornava accetto ai Costituzionali, perchè somministrava
loro tempo di riaversi: finalmente era desideratissimo dal Popolo; perchè
trattandosi di disporre di sè, gli pareva giusto poter dire anch'egli, una
volta, la sua. Intorno ai fini e ai presagi di questo provvedimento non occorre
dire altro, avendoli a suo luogo con abbondanza di ragioni spiegati. - Ora i
Repubblicani, dubitando contrario lo esito del voto universale (e con parole
espresse il dubitare significano)588, tentano, e più volte,
le vie della violenza; violenze e lusinghe cadono davanti la probità del
provvedimento, la costanza dell'uomo589. Frattanto la plebe
ribolle commossa per un fine, e muoventesi per un altro, sicchè poi gli stessi
agitatori ne hanno paura. In mezzo a perturbazioni, per varietà infinite, per
impeto stupende, procede il mio concetto. Con la Legge del 6 marzo, al Popolo
toscano la padronanza piena e legale per disporre di sè restituisco, e non
limitando (che questo non poteva io), ma stabilendo la norma con la quale
dovesse esercitarsi il mandato, prevengo la opposizione che i Deputati non
abbiano già a deliberare, bensì, e unicamente, a ratificare. L'elezioni protette,
e liberissime. Il Popolo non accorse nella copia sperata; e di ciò un poco
fu colpa la consueta inerzia, un poco la nuovità degli ordini politici, e molto
le dissuasioni dei parrochi; nel che operarono, a mio parere, poco
avvisatamente; avvegnadio, messa da un lato la paura di possibile scomunica
votando per la Costituente Italiana, egli è sicurissimo che non vi era pur
dubbio del non incorrerla votando per la Costituente Toscana; e somministrando
questa onorata via per assettare di quieto il Paese, parmi che avesse dovuto da
loro con ogni maniera di ufficii promuoversi. Nondimeno nè anche si potè dire
scarsa la votazione; dacchè il numero dei voti sorse nel Compartimento
Fiorentino ai 28,231, nel Lucchese a 2618, nel Pisano a 6341, nel Sanese a
9288, nello Aretino a 6687, nel Pistoiese a 4418, nel Grossetano a 5288, nel
Livornese a 11,781, nello Elbano a 909, nel Massetano e Carrarese, a 893, nel
Garfagnino a 704, e nel Lunense a 702. Il Partito che si vantò, e tuttavia si
vanta, unico ortodosso costituzionale in Toscana, quando si conobbe pressochè
escluso dalle elezioni, gridò desolazione dell'abbominazione sopra la
Babilonia fiorentina; e non pertanto uscì dall'urna una maggiorità di uomini
che volle e seppe rappresentare il principio costituzionale del Paese, ed anche
qualcheduno che minacciato dalla plebe delle tribune ebbe cuore per esclamare:
«Piuttosto morire, che lasciare per viltà il seggio di Deputato590.» La Guardia Nazionale fiorentina interpellata
con rito solenne, se le bastasse l'animo di tutelare l'ordine interno della
città, e l'Assemblea nello esercizio del suo ufficio, rispose affermativamente,
e quindi ambedue vennero alla sua fede commesse. La parte repubblicana,
tentando far votare la Repubblica per acclamazione, venne repressa; e tanto più
da me si volle grave e speciale consulta, intorno al deliberare le sorti
politiche del nostro Paese, in quanto che mi pervenivano quotidiani rapporti
che mi confermavano nella conoscenza antica del rifuggire che faceva la Toscana
dal reggimento repubblicano. Le notizie della guerra, dubbie prima, varie poi,
alla fine infelici, anzichè sbigottire gli animi repubblicani gli accesero,
come suole, di stupendo furore: me accusarono in faccia di fellonia; me
venduto, e venditore!.... Tali enormezze ero destinato a sentirmi dire dopo
quarantasei anni di vita onorata! E se tradissi io, e se me e altrui vendessi,
ora lo vedete a prova. - Poichè alle mie parole non credevano, le mie
insinuazioni aborrivano, alle mie stesse preghiere imprecavano, provvidi
l'Assemblea si prorogasse, e i Deputati nelle Provincie si spedissero, e ciò in
prima perchè la nuova esaltazione si calmasse, e il tempo porgesse consigli più
adattati ai casi; e poi perchè i Deputati tornassero ad attestare della fedeltà
dei miei rapporti; lasciando pure che, sotto pena d'infamia a me, decretassero
il divieto di mutare forma di Governo, inconsultata l'Assemblea: però che
questo non volessi fare io.
Tutto ciò fu detto,
chiarito, con documenti provato, e comprendo ottimamente che l'Accusa degli
spessi riepiloghi abbia a sentire fastidio grandissimo, e forse ancora orgoglio
del suo stile laconico di faccia allo asiatico mio: nonostante questo, mi è
parso non dovermi trattenere dal dire, confortato dalle parole e dallo esempio
del Foscolo, il quale, condotto a scolparsi davanti al Direttore della Polizia
del Cantone di Zurigo, così gli scriveva:
«Da tutte queste cose
che io mi assumo di esporle, e dalle troppe parole che ho fin qui speso,
m'avveggo con mio rincrescimento che io la costringo alla noia di prolissa
lettura. L'apologia è cosa sì infelice per indole sua, che non può aspirare
neppure a scansare la verbosità. Perchè, dove a lei, signor mio, basta una
sillaba, un atto arbitrario, un cenno muto, a macchiarmi, - a me bisognano
narrazioni, esami, allegati e convincentissima serie di ragionamenti, a
lavarmi.
E incomincio anco a
sentire che l'uomo al quale è conteso il tacere trova compenso nello
spassionarsi di tutte le ragioni che aveva represse dentro il suo petto.
Socrate sapeva ch'ei, giustificandosi o no, era precondannato a morire; pur (se
Platone merita fede) perorò per lunghissime ore a' suoi giudici; e quando ei fu
sentenziato, gli andava pur tuttavia intrattenendo a parole: - O Ateniesi, ora
che voi avete fatto il voler vostro mandandomi a morte, io il debito mio
rassegnandomi, voi ed io non abbiamo da far altro di meglio fuorchè il
conversare fra noi: ond'io parlerò, e non rincrescavi d'ascoltarmi, e
rispondere.»
Fino al punto a cui mi
sono fermato, la linea è retta per lo scopo a cui incammino la mia politica.
Ora pertanto come potevo tergiversare o ravvilupparmi in subdoli
partiti dopo il Decreto dell'Assemblea del 3 aprile, se fino al 15
aprile ella si era prorogata, e fino a quel termine non si poteva discutere
della forma del Governo da darsi alla Toscana?
Udite adesso di grazia
che cosa vi dice il Procuratore Regio D'Arlincourt. Egli vi narra: -
«come io ingannassi da una parte e dall'altra, e però fossi da entrambe
percosso.» - Poco dopo: - «come io, trattando più tardi col Municipio, giuocassi
partita doppia,» - nonostante che abbia scritto poco sopra: - «come io troppo
possedessi di sagacia e d'ingegno per non comprendere dai casi avvenuti e che
avvenivano in giornata, che stava per accadere imminente la restaurazione del
Granduca591.» - Questi sono
martirii del senso comune, e Dio volesse che il nobile Visconte e compagni
avessero crocifisso il giudizio soltanto! Ai giorni che corrono, di giudizii
temerarii non è davvero a lamentarsi penuria; pure io aveva creduto fin qui,
che lo scrittore, quando col suo cervello di farfalla non corre pericolo
soltanto di commettere leggerezza, bensì di gettare un peso nella bilancia dove
è librata la vita dell'uomo, dovesse avvertire che un grano più di pudore non
guasterebbe certamente i fatti suoi: e le proteste di non volere pregiudicare,
e poi lavorarti di straforo, ormai sono abiti usati così, che la vecchia
ipocrisia li vendè al rigattiere, dal quale gli ha comprati la ipocrisia nuova,
e, per averli rifatti nelle manopole e nel bavero, crede, che non le sieno
riconosciuti addosso.
Rimane adesso a vedersi
come io adoperassi i brevi giorni, che dal 3 al 12 intercedono, e ciò rispetto:
1° alla difesa della Patria; 2° alle disposizioni per la Tornata dell'Assemblea
del 15 aprile. Parlerò prima della guerra, o per meglio dire della difesa delle
frontiere. Fino dall'8 agosto 1848 a mediazione dei Ministri delle Potenze
estere fu convenuto come lo esercizio di siffatto diritto non potesse
somministrare all'Austria argomento di aggressione; nè il patrocinio stesso
poteva ora mancarci, e non ci mancava, molto più quando ci fossimo ricondotti
al pristino stato di cose di quieto. Non vale obiettarmi, che in questo disegno
tornavano inutili gli apparecchi guerreschi: imperciocchè gli uomini che fanno
mostra volersi difendere, vengono sempre più rispettati592; ed è sicuro che otterranno patti migliori, di
quelli che disarmati si mostrano, e disposti ad accettare ogni carico si voglia
loro imporre: laonde Ugo Foscolo meritamente deplora come causa suprema delle
sorti infelici del Regno Italico la dissoluzione dello esercito provocata dal
partito liberale593. E neppure rileva
opporre, che le nostre armi inferme e poche non avrebbero potuto durare contro
lo sforzo austriaco; dacchè anche lo esercito italico di faccia alle forze
alleate si trovasse in condizioni perverse: ma gli altri ti aiutano quando
mostri di volerti aiutare; la debolezza, che non è colpa tua, consiglia la
compassione altrui; la propria abiezione provoca ira; e quando veramente una
necessità grandissima non prema di sgarire un punto, anche i poderosi calano a
partiti comportabili. Eranmi conforto a proseguire nello arduo cammino le
parole che mi venivano porte da quei dessi, ch'ebbi a sperimentare, ora più ora
meno copertamente, sempre avversi, e che in fatto di Governo Costituzionale
presumevansi allora, e tuttavia si presumono, possedere del Governo
Costituzionale la pratica, e la scienza. Lodavano la rigettata Unificazione con
Roma; il concentramento del potere in un solo Magistrato approvavano; e a
questo rivolgendosi raccomandavano, che a salvare la Toscana adoperasse quei
partiti che la esperienza gli persuadesse migliori: quindi dicevano due essere
i mali che minacciavano la Patria, la guerra civile e la possibile invasione austriaca;
laddove queste due calamità egli fosse giunto ad allontanare, gli promettevano
riconoscenza solenne. Se i tempi fossero corsi meno infortunosi, avrebbero
saputo dare più forti consigli; però, comunque acerba ne flagellasse la
sventura, doversi, mercè il concorso dei Municipii, mantenere libero lo
Stato da invasione straniera, e incolumi le istituzioni costituzionali
aborrite dalle fazioni reazionarie, la pubblica tranquillità, le proprietà,
e le persone minacciate dai turbolenti di ogni Partito: breve, salvare quanto
più dell'onore e della indipendenza nazionale si potesse594. Grave soma davvero era questa per le mie
spalle; sicchè parendo al Partito preteso ortodosso che io non potessi
uscirne a bene, determinò fare da sè; ed avendo capacità, e coscienza di
riuscire meglio, prudentemente decise, e di ciò non lo incolpo. Però a mio
parer non gli fu onore mancarmi di fede, se dubitò che io non sarei
arrivato a salvare le libere istituzioni; non gli fu onore precipitarmi dentro
uno abisso di miseria, se tenne che non avrei prevenuto la discordia civile;
non gli fu onore ribadire il chiodo con la calunnia, se pensò che per me non si
sarebbe potuto preservare il Paese dalla invasione straniera. Nondimeno
ritengasi, che nel 29 marzo gli ortodossi Costituzionali di Firenze me
reputavano per volere e per sapere adattato all'ardua impresa.
Vediamo pertanto, da
quel punto in poi, in che cosa peccassi, perchè di amici mi si avventassero ad
un tratto tanto acerbamente nemici. Qui accorrano i Toscani tutti, si
chiariscano a prova, e giudichino poi se io abbia commesso colpa per la quale
cristiani e gentiluomini dovessero credersi assoluti dall'usare meco quella
fede, la rottura della quale anche tra' popoli più barbari è reputata
indegnissima cosa! Due pertanto erano i fini alla mia cura commessi, come
sempre furono, cui si provvedeva con apparecchi guerreschi, e con interni
ordinamenti.
Cavalli pel treno, e
copia di cannonieri per diligenza del Ministro della Guerra si procurarono595. Qui in Firenze, senza distinzione di parte,
chiamo quanti sentono in cuore carità di Patria, e gli scongiuro di recarsi ai
confini596. A Livorno commetto che
mandino vie via gli arruolati per farne la massa in Firenze; a provocare lo
arruolamento si adoperino i mezzi meglio efficaci, impegnandovi Sacerdoti,
Circoli, e Popolani597; più tardi ordino, le
armi da caccia si requisiscano, agli schioppi da guerra sostituiscansi, e qua a
Firenze le armi, e i Volontarii si avviino598; di nuovo domando armi,
perchè in Firenze dalle Provincie già accorsero mille giovani, e non so come
armarli; accetto un battaglione intero di Livornesi Volontarii, purchè portino
le armi, e gli Uffiziali si sottopongano agli esami i quali hanno a dimostrarli
degni, che per costume e per perizia possa loro affidarsi il sangue
dei fratelli599; informato che in
Livorno si trovano 2000 schioppi, prescrivo si prendano, giudicando il
proprietario Italiano abbastanza per chiamarsi soddisfatto quando gli venga
retribuito il giusto prezzo600. Da Lucca si aspettano
parecchi montanini per arruolarsi; il Municipio lucense con ogni sforzo seconda
le diligenze del Prefetto601. Il Prefetto di Pisa,
sussidiato da uomini di seguito nel Popolo, confida trarre gente dalle campagne602. A Lucca le armi da caccia si prendono, e,
dandole in cambio delle guerresche alla Guardia Nazionale, con queste si armano
i Volontarii603. D'Apice provvede di
comandante la Guardia Nazionale di Livorno adattato a mobilizzarla sollecitamente604. La Gioventù livornese viene confortata da me a
mostrare virtù pari al pericolo605. Romanelli eccita la
gioventù aretina606; Franchini, soldato
della Indipendenza, lasciato il Ministero accorre alla difesa dei patrii colli;
Morandini, forte uomo, a ragione pensando che quando lo straniero minaccia la
Patria, il mandato vero del cittadino sia di volare a difenderla, si dimette
dalla Deputazione, e va al campo607. Le armi di nuovo con
più sottile ricerca a Lucca e a Livorno requisisconsi, e si ottengono608. Prometto (consentendo alle istanze di Giorgio
Manganaro) condurmi a Livorno; intanto, esortata la Guardia Nazionale
fiorentina a non mancare alla Patria, due Compagnie del mezzo Battaglione che
usciva di guardia senza prendere riposo vogliono partire609. I Cacciatori volontarii di Costa e Frontiera
chiamati a formare un Corpo di riserva610. Il Gonfaloniere
Fabbri, compiacendo al suo genio e alla carità della Patria, fatto appello ai
sentimenti generosi della Gioventù livornese, conchiude con queste memorabili
parole: «Giovani generosi, caldi di amor patrio, questo è il momento più bello
della vostra vita. Da voi la Patria attende la propria salvezza. Dio non
abbandona gli oppressi. L'ora del risorgimento è suonata. Le armi soltanto
ponno decidere dei nostri destini611.» Provvedo mandarsi
mezzo milione di lire per armi, e da Livorno chiedo prima armi, poi gente612, e le armi si mandano613. Maremma invia Volontarii, ma pochi; quelli
raccolti e istruiti a Firenze, richiesti dal Generale, partono pel campo614. Chiamato da Livorno il Battaglione Del Fante,
continuo a esigere armi; i Livornesi rimprovero di iattanza; ordino tolgansi le
armi alla Guardia Nazionale; - poco frutto fa Lucca615. La Legione Accademica è riconcentrata in
cotesta città616. Acquistansi nuove armi
a Livorno617. Tommaso Gasperini,
Ermolao Rubieri e Angiolo Angiolini, rinunziati gradi superiori della milizia
cittadina, si arruolano e partono soldati, esempio grande di modestia e di
virtù618. Nel giorno 6 pubblico
il Manifesto alla Gioventù fiorentina619; ai Sacerdoti dichiaro
non trattarsi adesso di Unificazione con Roma, nè di forma di governo; ai Conservatori,
che mal conserva chi si espone a vedere tutto disperdere; agli affezionati del
Principe, che badino trattarsi adesso di mantenere intero lo Stato, affinchè
egli tornando non abbia a trovarlo menomato, e ne faccia loro rimprovero; ai
Repubblicani, che la Repubblica, perfettissima forma di governo per uomini
perfetti, non è frutto maturo pei nostri denti, o a meglio dire per le
corrotte anime nostre: e che intorno al riordinamento del Paese, le Leggi
dell'Assemblea si hanno a venerare come precetti di Dio. Intanto vadano,
combattano, e mostrino la loro virtù. Civici livornesi concentrati a Pisa; i
Bersaglieri e i Volontarii chiamati a Firenze; provvedersi armi620. Al Gonfaloniere di Livorno scrivo il Dispaccio
riportato a pag. 53 di questa Apologia, dove me dico infame, se per
dispiacenze private ricusassi una pace, che può avvantaggiare la difesa della
Patria; componga B. un Battaglione, cotesta anzi essere la via unica per
ridonargli l'amicizia antica; spedirò appena raccolto il battaglione in
Garfagnana; raddoppinsi tutti. Nel solo Generale D'Apice si riunisce tutto il
comando621. Ordino al D'Apice in
ogni evento regga in Garfagnana, e cuopra Massa e Carrara; spingo al
campo tutta la milizia di Linea; raccomando le provviste. A Livorno Giorgio
Manganaro instituisce una Commissione che di nuovo si dia a ricercare le armi,
e le prenda per la difesa della Patria622. Il Ministro della
Guerra provvede a formare prontamente un Corpo di Zappatori623. Da Carrara muovonsi Volontarii per San
Marcello, e per altri punti della frontiera624. Rimproverato Livorno
di tepidezza, lo accendo con lo esempio di Firenze, che manda già milletrecento
uomini a Lucca625. Livorno spedisce 700
Volontarii ed armi a Firenze626, donde poi la calunnia
dello averli io pretoriani miei chiamati quaggiù. Armi tolte ai Circoli627, donde poi sicurezza intera alla libertà del
prossimo voto dell'Assemblea. Schioppi requisiti sotto multa di lire cento
a chi dentro tre giorni non li depositasse al Municipio: i Civici impotenti a
marciare depositino i loro presso i Capitani, per armarne i Volontarii in
procinto di partire628, donde poi la
calunnia, che io disarmassi la Guardia Civica per dominare tiranno la città.
Partono da Firenze 800 Volontarii, altri 800 se ne aspettano da Livorno per
organizzarsi629. - Invece di mandare
soccorsi a Genova, tento potere ottenere armi dall'arsenale di cotesta città630. - Da capo mi chiamo parato a rimettere ogni
ingiuria, purchè i miei offensori accorrano alla difesa della Patria: sempre dimenticai
tutto (io dico), e saranno prima stanchi di offendermi, che io di
perdonare. - Vengono armi ed armati da Livorno: m'impegno trasportarmi io
stesso al campo631. Il Gonfaloniere di
Pisa, Ruschi, chiama gli scolari assenti, i quali rispondono allo invito, e
vogliono essere incamminati a Lucca, quantunque non compresi nella nota firmata
alla Università di Pisa632. Da Livorno 20
cannonieri toscani, e 18 americani, domandano potersi condurre ai passi dello
Abetone. Manganaro spedisce archibugi633. - In virtù della
solerte opera del Governatore provvisorio e del Gonfaloniere Fabbri, Livorno
manda ancora 205 Volontarii, ed altri ne promette634.
I Municipali tutti sono diretti a Lucca635. Accetto i soldati
lombardi alle stesse condizioni del Piemonte, se armati ed organizzati;
diversamente si lascino andare636.
Questo, secondo che ricavo
dagli scarsi Documenti autentici che mi trovo fra mano, è quel poco che per me
fu fatto, inefficacemente forse, ingenerosamente non già, per tutela del Paese
e per salvezza del suo onore. Se mi verranno, come spero, consegnati gli
Archivii, potrò ordire più completa Storia; per ora non ho voluto avanzare
niente altro, perocchè non mi fosse fatta abilità di appoggiarlo con prove:
tale e tanta è la grandine della bugie ai tempi nostri, che oggimai temo che
anche il galantuomo corra risico grande di non essere creduto, dove non porti
seco in tasca quattro testimoni almeno, che affermino con sacramento la verità
delle sue parole. Di più non seppi, nè potei fare: armi e armati raccolti;
gioventù commossa; Partiti tutti con preghiere richiesti; anche il ritorno del
Principe accennato, come motivo di difesa per serbargli intero lo Stato;
Deputati spediti Commissarii in Provincia (più oltre dirò peculiarmente di
loro); Guardie civiche mobilizzate; Milizie stanziali, Municipali tutti mandati
alle frontiere; Volontarii organizzati; Legioni accademiche ricomposte; e, in
quanto a me, oblio delle offese in benefizio della Patria con pienezza di cuore
accordato, obbligo di correre io stesso alla frontiera assunto. Capisco che
scarsi meriti sono questi per pretendere lode, e non la pretendo; solo non
parmi che dovessero fruttarmi l'odio del Municipio fiorentino e della
Commissione Governativa. Pensai io, e credo che tutti quelli i quali sentono
onore pensassero allora, che un motivo armato dovesse da noi farsi, e in ogni
caso e sempre a benefizio delle Provincie, che con tanto amore si erano alla
fede toscana commesse. Dopo il Decreto del maggio 1848, e dopo le dichiarazioni
profferite dal Governo pel fatto dell'Avenza, a operare in questa guisa
consiglio prudente e religione di promessa persuadevano. Nè vale dire, che nel
presagio della insufficienza degli aiuti fosse meglio non darli; conciossiachè,
da un lato, simile contegno apra una porta da rimessa alla ingratitudine, e
dall'altro i derelitti non ti menino buona la scusa, ed a ragione, chè da cosa
nasce cosa, e la fortuna nelle vicende umane tiene massima parte, e, finchè la
speranza ha fiore di verde, tale risorge che si credea spacciato, onde gli
antichi costumavano spesso quel detto, che Anteo battendo la terra si rilevava
più forte. Nè per mantenersi in fama di onesti bisogna avere promessa lunga e
attendere corto; e, se non erro, assai più giova essere parchi a stendere la
mano, che facili a lasciare coloro che si raccomandarono a quella.
Il Conciliatore nel
27 marzo usciva in questi acerbi rimproveri contro dei miei Colleghi e di me:
«Che avete fatto dopo cinque mesi che tenete il Potere, senza che nessuno vi abbia
seriamente avversato?» (Che cosa s'intenda con la parola seriamente,
io non saprei; quello che so, è che il Conciliatore con le acute
scane fendeva moderatamente a morte i fianchi al Ministero
Montanelli, e al Governo Provvisorio.) «Quali sono gli apparecchi vostri, gli
uomini, le armi e i danari? La guerra è rotta, Piemonte già versa sangue per la
causa d'Italia, e neppure un soldato dei nostri varcò la frontiera: anzi possiamo
assicurare, che le scarse milizie ebbero ordine di rientrare nello interno.
A questa ora nel marzo del 1848 la Toscana aveva sul Po 8000 combattenti, e si
dicevano pochi, e la inettezza o il mal volere del Governo accusavasi, e due
Ministeri si rovesciarono per questo, e per questo una Rivoluzione fu fatta, e
il Paese esposto a sciagure e ad aggravii esorbitanti; e adesso quando il
Piemonte ci domanda: Toscani, dove sono i vostri soccorsi? noi siamo costretti
a tacere con vergogna.» Io vi dico in verità, emuli miei, che non per me mai i
Toscani hanno dovuto abbassare la fronte avvilita. Questo vostro discorso
sembra nato a un parto con l'altro sì famoso del Generale Buonaparte reduce
dalla impresa di Egitto; ma Buonaparte poteva dire al Direttorio: «Dove sono
gli eserciti? che avete fatto dei tesori?» perchè veramente eserciti vittoriosi
aveva lasciato, e lo erario pieno; ma i Ministeri precedenti al mio ci avevano
lasciato tale una eredità, che se fosse stato in potestà mia io non mi sarei
giovato accettarla nè manco col benefizio della Legge e d'Inventario637; e questo dicasi in quanto a quattrini:
rispetto ai soldati, essi nel marzo non avevano toccato sconfitta sul campo di
battaglia, e la troppo peggiore per la disciplina delle armi a Livorno; infermi
gli ordini nel marzo, pure non guasti affatto dalle scioltezze, per non dire
licenze, della non prospera ritirata. Mariano D'Ayala attese a riordinare e
ampliare le milizie nostre, con tale diligentissima cura, che n'ebbe (io ben
rammento) dallo stesso Conciliatore meritata lode: onde non si comprende
come, elogiato prima lo artefice, si facesse poi a biasimarne la opera. Ma
questi sono accorgimenti di Partiti!... A Mariano D'Ayala parve potere
restaurare la disciplina nelle soldatesche nostre, svegliando nei loro petti
sensi di onore; quindi schivò fra le pene, quelle che la dignità umana
offendessero: forse era savio consiglio; a me pareva opera perduta farne sperimento
su genti guaste; mi talentava meglio licenziarle tutte per tornare a comporle
da capo. A questo mi muoveva il pensiero che, operando sopra gli animi viziati,
duriamo fatica doppia, chè prima bisogna tôrre via il fracido e poi edificare;
e siccome il guasto difficilmente tutto si leva, così quasi sempre ci tocca a
provare nel processo dei tempi i fondamenti deboli; il degno Collega,
all'opposto, teneva potere riuscire in virtù del suo sistema, ed io
naturalmente piegai riverentissimo la mia opinione dinanzi alla molta perizia
ch'egli si trova a possedere delle militari faccende. Però vuolsi confessare,
che o si fosse voluto accogliere il mio suggerimento, o piuttosto tenere il
sistema di Mariano D'Ayala, nè l'uno nè l'altro potevano produrre i beni desiderati
nel breve giro di quattro mesi; e nè in Piemonte, dove pure gli ordini militari
di tanto superavano in bontà i toscani, le milizie poterono così tosto riaversi
dei danni patiti nella disciplina, a cagione delle sorti infelici della guerra.
Bene è vero che il Governo piemontese crebbe fino a 135 mila uomini lo esercito
nel gennaio del 1849; ma come nei corpi umani la grassezza è segno di floscio,
così neanche negli eserciti il numero denota forza; e a tutto vuolsi tempo,
anche facendo presto: la colpa sta nel non fare nulla, e dare ad intendere
di aver fatto. Napoleone sviluppato dalle nevi russe corre in Francia, e
prende gente sì, non soldati, per avventurarla ciecamente su le pianure di
Dresda e di Lipsia, come un giuocatore disperato si giuoca il danaro
dell'ultimo pegno che ha portato al Presto. Questo dicasi rispetto alle milizie
stanziali. In quanto ai Volontarii, gli spiriti procedevano alquanto rimessi
dopo la prima guerra in Lombardia, però che a molti stava sul cuore la giornata
del 29 maggio, in cui 3 mila circa Toscani furono lasciati soli a combattere
onoranda ma dolente battaglia contro gli Austriaci grossi di 35,000 uomini,
nonostante che fossero stati confortati a tenere il fermo, con la promessa di
sollecito soccorso638. Arrogi, che fino a
tanto resse Gioberti, egli rifuggì da noi come il Diavolo dall'acqua santa; e
quando gli subentrò Presidente al Ministero il Generale Chiodo, là su le
frontiere dove tenevamo soldati per la comune difesa, ce li corrompevano i maledetti
zelanti del Piemonte, peste dei Governi, e mille volte peggiori degli
stessi nemici, e li traevano a disertare con armi e bagagli639.
Il Conciliatore
riportava queste notizie senza un filo di biasimo per gl'imbroglioni; e se
punto io m'intendo di favella, con tale un garbo che dava ad intendere come
cotesti fatti non lo infastidissero troppo640: sicchè pareva (per non
dire troppo) strano, che dopo venti giorni egli ci conciasse così di santa
ragione, se non avevamo da dare i soldati che ci portavano via, e se non
volavamo a farci ammazzare per fratelli che mostravano volerci dare il pane
con la balestra.
Dopo che Creonte esultò
per l'empie liti di Eteocle e Polinice, può da un punto all'altro, mutati
indole e costume, buttata là la clamide greca, e vestito il ferraiuolo di
Tartufo, farsi esprobatore dell'uno, perchè guardasse l'altro in cagnesco?
L'Accusa rovistando carte non mie ha rinvenuto una lettera, dalla quale resulta
che i Piemontesi nel 13 marzo 1849 armata mano avevano preso possesso di Calice,
ravvivando in mal punto la vecchia contesa641. - Ma chi pospone la
Patria al cordoglio d'ingiuria patita, non merita sedere al Governo degli
Stati; e noi considerando le necessità di questa nostra inclita Madre, e le
nobili parole della Corona Toscana, che, confortando il Popolo a sopportare
magnanimo i colpi di fortuna, diceva: «E noi non disperiamo della Italia, e
siamo risoluti di durare nel proposito, che ci fece unire le nostre armi a
quelle del re Carlo Alberto, nè per isventure sapremo mai separarci da lui642;» non volemmo venire meno al dovere nostro.
Dica pertanto Lorenzo Valerio, se scrisse dirittamente Pasquale Berghini (se
pure lo scrisse) quanto si legge stampato nel Libro III, pag. 132, dell'Opera
di L. C. Farini, che avversi noi al Piemonte, malgrado le misere superbie
nostre, non avremmo avuto uno scudo nè un soldato per la guerra della
Indipendenza. Appena vedemmo questo amico fidato, non ci versammo nelle sue
braccia con amore, e non deplorammo insieme le miserie le quali avevano
impedito che il nostro Popolo e il suo procedessero come a fratelli veri si
addice? E dopochè furono reiterate le affettuose accoglienze, più volte venendo
a trattare dei bisogni della Patria, non ci legammo per fede con lui, che la
causa del Piemonte, e con essa la causa d'Italia, avremmo con ogni supremo
sforzo soccorsa? Conobbe in noi punto, il Valerio, stupido astio per la
grandezza che il Piemonte deve avere, se piace a Dio, onde sia baluardo
efficace d'Italia? - Io penso che Lorenzo Valerio, aperto, schietto e
affettuoso Legato del Piemonte, avesse motivo di chiamarsi contento di me,
assai più di qualche altro che volle giocare meco di arguzia, e non comprese
nulla.
Le maliziette e le
saccenterie, mel creda chi legge, arruffano più che altri non pensa; e se ne
giovano i guastamestieri e quelli che, non avendo cuore nè mente da accogliere
concetti grandi, apportano nella trattativa dei negozii politici le arti del
sensale. Fu conclusione dei ragionamenti nostri, che per noi si sarebbe fatta
diligentissima provvista di danari e di soldati, intanto che pel medesimo
ufficio egli si recherebbe a Roma. Queste conferenze accadevano nel 10 marzo
1849; però lascio considerare quali fossero la mia maraviglia e il mio dolore,
quando nelle prime ore del giorno 16 marzo venni fatto avvertito da Livorno,
Domenico Buffa avere proclamato nel giorno antecedente a Genova rotto lo
armistizio Salasco. Mi condussi a casa Montanelli, il quale da parecchi giorni
giaceva infermo, e quivi mandai per Valerio, che quantunque per i molti disagi
sofferti, e per la tremenda ansietà dell'animo, fosse anch'egli ridotto in
pessimo stato di salute, pur venne; e udita la novella, egli, la fronte
includendo nel cavo della destra e stringendola con le aperte dita, come
persona che la dolorosa moltitudine dei pensieri intenda concentrare in uno
solo, più volte esclamò: «Ed avevano promesso aspettare il mio «ritorno!» -
Credo potermi ricordare eziandio, ch'egli aggiungesse: «Vogliono perdere
tutto!» Non essendone sicuro, io non lo accerto. Ma perchè riesca anche in
questa parte compíta la difesa contro l'accusa che mi mettono addosso, pongo
senz'altro comento, chè tutto spiega da sè, la minuta di lettera confidenziale
trovata dall'Accusa negli Archivii del Governo, e da lei stampata a pag. 220
del suo Volume.
«Signor Ministro,
Appoggiandosi sul fatto
dell'armistizio prosciolto e delle ostilità riprese, il Generale La Marmora ha
dichiarato d'occupare Pontremoli e Fivizzano, sotto colore di essere spedito a
scendere dall'Appennino in Lombardia.
Io e il Governo
Provvisorio abbiamo sentito la trista nuova della prepotenza che il Piemonte
così stranamente ci arreca, e sebbene con animo conturbatissimo, pure abbiamo
dato ordine rapidamente alle nostre truppe di lasciar passare le truppe sarde,
perchè la guerra ripresa non corresse l'orribile rischio di cominciare con
un'avvisaglia fra Piemontesi e Toscani.
Questo contegno del
Governo Sardo è per me inesplicabile: mi affretto però a chiedere
confidenzialmente tutte quelle spiegazioni che reputerete più opportune a
togliere di mezzo i dubbii che la condotta del vostro Generale insinua
gravissimi nell'animo mio.
Avvezzo a conoscere le
tergiversazioni e gl'indugi, coi quali il Governo Piemontese ci ha condotti e
tenuti sospesi sulle cose di Lunigiana, io non posso infatti considerare come
un semplice avvenimento di guerra, quello della occupazione di Pontremoli e
Fivizzano, e credo quindi avere il diritto di ottenere convenevoli spiegazioni.
Per ciò che riguarda poi
il Piemonte, io non penso che egli farebbe opera utile neppure a sè stesso,
cominciando con tali atti la guerra, e non correggendoli colle spiegazioni
opportune. Non penso neppure che il Governo siasi portato convenientemente
coll'istesso Valerio, che di tutte queste cose va ignaro, e al quale noi
abbiamo resa testimonianza di tutta fiducia, e pei diritti d'un'antica
personale amicizia, e più per quelli della rappresentanza d'un Popolo fratello.
Che anzi in questo
stesso momento mi giunge notizia, che la presenza di truppe sarde in Lunigiana
abbia già suscitato una serie di atti di rivolta, contro i quali io v'invito a
protestare energicamente, dichiarando lo scopo dello stanziamento delle dette
truppe, e invitando quella popolazione alla più severa osservanza degli ordini
stabiliti. Che se il Governo Piemontese poi non vorrà aderire a queste mie
giustissime richieste, io sento il dovere d'ammonirvi delle tristissime
conseguenze di un simil contegno, e di farvi noto che dove per voi si tenti di
rompere guerra alla Toscana, menomando il suo territorio o fomentando la
ribellione, la Toscana potrebbe bene accettarla e fare proclamare la
Repubblica a Genova, e sostenere con altri mezzi una ostilità sconsigliata,
colla quale dareste principio a una serie forse infinita d'errori e di colpe, e
dalla quale penso che aborrirete come ogni generoso Italiano.
Qui dunque è necessario
che il Governo Piemontese dichiari apertamente i suoi intendimenti, e corregga
l'odiosità delle apparenze colle prove più amichevoli verso di noi.
Io e il Governo che
rappresento non abbiamo che una via, e la percorreremo energicamente (e il
Proclama che vi accludo e la Legge sull'imprestito coatto vi faranno fede di
ciò); ma se le nostre relazioni non sieno accompagnate dalla più illimitata
fiducia, noi non potremo percorrerla più, e su voi ricadrà tutta l'odiosità
della nostra impotenza. Si tolga dunque di mezzo ogni causa che spenge
l'entusiasmo e l'amore che deve congiungere i due Popoli e i due Governi, e
speditemi quanto prima potete le spiegazioni che chieggo. Vi saluto distintamente
ec.
Dalla Residenza del
Governo Provvisorio Toscano, li 17 marzo 1849.»
Nonostante che il
Governo Provvisorio questi casi sentisse amaramente, e lo significasse al
Ministero Sardo, dissimulava il torto; e così, riportando il Proclama del
Generale La Marmora, coloriva la cosa nel Monitore del 22 marzo 1849:
«Il Generale La Marmora
alla testa di un numero considerevole di Piemontesi è entrato in Lunigiana; e
in forza di alcune disposizioni che il Governo Sardo aveva preventivamente
concordato col Governo Toscano, per causa della guerra, è da sperarsi che
nulla conturberà il momentaneo ricovero richiesto e ottenuto dalle truppe
piemontesi nel suo passaggio.»
Il Generale La Marmora
pubblicava entrando il seguente Proclama:
«Abitanti
della Lunigiana!
Il Piemonte ha tenute le
sue promesse. Spese l'intervallo della tregua a rinforzare e migliorare
l'armata, senza perdonare a sacrifizio di sorta; accresciutene le file di ben
40,000 uomini, ecco che dichiara la guerra, ed il Re si pone alla testa della
magnanima impresa. Per cooperarvi ho ordine di passare fra voi; ma la mia
momentanea occupazione di coteste valli non è che militare, ed affatto estranea
alla vostra interna politica. Qualche incomodo vi recherà forse il nostro
passaggio. Ogni cosa sarà però pagata esattamente, nè d'alcuna molestia
v'avrete a lagnare. Noi non vi chiediamo che un momentaneo ricovero; e ben lo
speriamo nella nostra qualità di fratelli vostri, e per la missione nostra di
liberare altri comuni infelici fratelli. - E siccome la santa causa che siamo
chiamati a sostenere vi desta nell'animo quelli stessi generosi sentimenti che
noi nutriamo, il comune entusiasmo si confonda col solo grido di
Viva la Indipendenza
Italiana.
Il Generale - Alfonso la Marmora.»
Io non accuso, mi discolpo,
e neanche spontaneo, ma costretto; e non sono andato già io a ricercare queste
carte importune, bensì l'Accusa, e le ha stampate, ed ora vendonsi; sicchè
trovandosi oggimai di pubblica ragione, chiedo in grazia di non essere ripreso
di poco cuore, come quello che alla dignità della Patria non abbia saputo
donare il proprio silenzio. Però supplico fervorosamente Dio a volere che
queste carte, invece (come altri iniquamente spera) di somministrare materia a
nuove ire, persuadano la tolleranza scambievole che nasce dal sentirci tutti
quanti siamo non immuni da errore; insegnino ad assumere la severa gravità ch'è
indizio di Popolo che si rigenera, e consiglino gl'improvvidi scrittori,
avvegnachè il Sammaritano non infondesse nelle piaghe del trafitto asfalto, ma
vino e olio; ed è così soltanto che possono dirsi pace anche i Giudei ed i
Sammaritani.
Esaminiamo adesso se la
protervia mia nello attraversare il disegno della Restaurazione, e nello
instituire ad ogni costo la Repubblica, mi facessero meritevole di cosa, che
per demerito altrui non si giustifica mai, voglio dire il tradimento.
Le mie tergiversazioni,
per gittarmi poi al Partito trionfatore, indignarono forse gli animi dei
Costituzionali ortodossi, come hanno commosso i Giudici del Decreto del 7
gennaio 1851, sicchè vollero venire a mezzo ferro e farne un fine? Questo
supposto può scriversi dai Giudici, ma non può sostenersi da cui goda del bene
dello intelletto, perchè le mie informazioni sì antiche che recenti
m'istruivano che i toscani Popoli avversavano le forme repubblicane. Riporto a
testimonianza di fede, davanti gli uomini di tutti i partiti, i Documenti che
seguono. - Per somministrare schiette e leali notizie ai miei avversarii, che
parteggiavano per la Repubblica impossibile, domando al Governo di Livorno:
«Ditemi se gioverebbe più ad animare o la idea della difesa della nostra terra,
o la idea della Repubblica. Intendo che si presenta lo spirito di tutto il
Popolo, non già di una classe o di una fazione643.» Rispondeva il sagace uomo Avvocato Massei:
«Al Cittadino Guerrazzi,
Rappresentante il Governo Toscano.
Crederei più opportuno
toccare in genere della difesa della Patria contro lo straniero, piuttosto che della
forma di Governo col Popolo. Così faccio io nelle mie brevi parole al balcone,
e non senza qualche effetto.»
Avuta questa risposta,
insistevo col Dispaccio telegrafico del medesimo giorno:
«Continui sempre a
consultare lo spirito pubblico. Animi per la difesa del territorio. Purchè
vogliamo davvero, difenderemo il Paese dall'invasione straniera. Chiunque vuol
tutelare la Patria, parta subito e faccia massa a Firenze. Qui si istruiscono,
e poi s'inviano al campo. Essendo uomo di Governo, non le raccomando di ridurre
i Livornesi a temperanza e modestia, e al vero amore della libertà.
D'Apice è in viaggio.
Ricevetelo come merita. Gioventù, alle armi. La Patria non muore mai.»
Interrogato con
diligenza il Prefetto di Pisa, informava sollecito: «La Unificazione con Roma
ha contro di sè l'opinione generale. La difesa del Paese sarebbe la formula che
concilierebbe senza confronto il maggiore consenso. Ciò ritenuto, il
pronunziarsi per questa gioverebbe in quanto a rassicurare da ogni inquietudine
sulla Unificazione. Ma anche la formula della difesa non va esente dalle
difficoltà per lo spirito delle popolazioni di campagna poco disposte ad
adattarsi ai mezzi di esecuzione. È verità, e bisogna dirlo.»
Il Prefetto di Lucca
anch'esso: «La Unificazione con Roma aumenterebbe i mezzi materiali, ma
diminuirebbe i morali religiosamente e politicamente; nel primo senso sarebbe
preferita; nel secondo temuta e schivata644.»
Uguali rapporti venivano
dalle altre provincie toscane, i quali non mi è dato riferire, però che nel
Volume dei Documenti dell'Accusa io non li trovi impressi, e gli Archivii non
mi sieno stati conceduti fin qui. Nonostante questo, è sicuro che tutti
suonassero nella stessa guisa, avvegnadio nella conferenza segreta del 3 aprile
io dichiarai espresso la Toscana procedere, per la massima parte, avversa alla
Repubblica ed alla Unificazione con Roma, e il Ministro dello Interno, più
tardi, nella pubblica Assemblea, adempiendo al suo dovere, senza rispetto
significò: «Vi sono Rapporti dei nostri pubblici funzionarj, e dei pubblici
funzionarj di un ordine più elevato (per esempio i Prefetti) intorno alla idea
della Unificazione della Toscana con Roma. Se debbo qui fedelmente esporre
quello che a me da questi funzionarj vien riferito, dirò, che la massima parte
della popolazione toscana recalcitra alla immediata Unificazione con Roma:
alcuni perfino ne fanno argomento di timore per non poter conservare l'ordine
pubblico, quando questa Unificazione fosse legalmente e definitivamente
proclamata da questa Assemblea, mentre all'opposto la opinione contro qualunque
ingiustissima invasione straniera potrebbe crescere fino al furore.»
Nel 2 aprile 1849
indirizzo al signor Presidente dell'Assemblea Costituente Toscana la lettera
seguente:
«Signor Presidente
dell'Assemblea Costituente Toscana.
In coscienza, e sopra
l'anima mia, considerate attentamente le volontà e le cose, io credo che non
possa salvarsi, o almeno tentare di salvare il Paese, laddove non siano
dall'Assemblea consentite queste cose:
1° I pieni poteri non
sieno illusione nè facoltà che scappano ogni momento di mano, ma libero
esercizio di pensare e attuare subito quanto si reputa necessario per la salute
della Patria.
2° Proroga
dell'Assemblea a tempo determinato o indeterminato, con obbligo nel Potere
Esecutivo di non risolvere intorno alle sorti del Paese senza consultarla, -
pena la dichiarazione di traditore.
3° Sospensione di ogni
quistione intorno alla forma del Governo.
4° I Deputati rimangano
a Firenze per condursi a richiesta del Potere Esecutivo, in qualità di
Commissarii per la Guerra, nelle Provincie, e sovvenirlo in altra maniera.
Per me non vi vedo altra
via. L'Assemblea deliberi. Scelga chi vuole per Capo, Dittatore, o che altro;
le parole sono nulla, le cose tutto. Io sarò lieto di mostrare come deva
obbedire chi ama la Patria davvero. Addio.
A dì 2
aprile 1849.
Amico - Guerrazzi.»
Chiamo i signori
Prefetto Massei e Consigliere Paoli a Firenze per assistere alla Tornata
dell'Assemblea del 3 aprile, perchè essi somministrassero schiarimenti sul modo
col quale avevano saggiato lo spirito pubblico allorquando, a Livorno e a Pisa,
lo avevano detto contrario alla Repubblica, e la opinione loro sostenessero
apertamente645. In quel giorno mi
viene offerto da Livorno un Battaglione di Volontarii, ed importa apprendere il
come: «Feci conoscere (scrive Massei) al Ministro dello Interno la necessità di
decidersi per l'accettazione o il rifiuto della offerta di un Battaglione di
Volontarii fatto da alcuni patriotti livornesi, sotto nome di Battaglione
repubblicano, pronti a renunziare al nome646.»
Ed io rispondo come si legge a pag. 625. Poche ore dopo, riparando all'oblio
del nome, con Dispaccio telegrafico, aggiungo: «il Battaglione può chiamarsi Del
Fante, livornese, morto a Krasnoie. Ritenuto quanto ho detto su le armi e
su gli Ufficiali, si metta in via647.»
Nel giorno 3 aprile
accadde la Seduta memorabile dell'Assemblea, nella quale per certo io non
lusingai parte repubblicana, nè essa lusingò me, e fu detto di sopra: in quel
giorno stesso certo ufficiale della Posta mi portava un plico aperto diretto a
lui, dove stavano incluse lettere per gli spettabili signori Ottavio Lenzoni,
Cesare Capoquadri, Orazio Ricasoli, Gino Capponi, conte Serristori, ed altri
parecchi, di cui non rammento il nome, raccomandandogli che facesse recapitarle
al domicilio dei segnati. Sospetto era lo invio; ritenni si trattasse di trame,
e il tenore della lettera breve mandata all'ufficiale confermava grandemente il
dubbio: pure rimisi ai mentovati Signori le lettere col sigillo intatto, e solo
gl'invitai a non volere partecipare ad intrighi, rendendomi più grave il fascio
già troppo per le mie braccia. Ora ho da dire che commisi al Segretario
scrivesse conoscerne io il contenuto, ma il fatto sta che, non avendole aperte,
io non lo conosceva. Siccome al mondo tutta cortesia non è anche spenta, così
qualcheduno, a cui duole del mio non degno strazio, mi fa tenere per mezzo del
mio Difensore una copia della lettera da lui ricevuta onde me ne valga, la quale
dichiara così:
«Al vero Cittadino.
Non vi è tempo da
perdere. Movetevi una volta con coraggio, senza timore. La Toscana tutta
reclama anche da voi la sua salvezza, ed è dovere di farlo. Correte, ma subito,
dai soggetti in calce notati; stringetevi con i medesimi, e d'accordo col
Municipio andate da Guerrazzi per concertare il modo, prima per tutelare
l'ordine, e quindi per salvare la Patria da una invasione austriaca. Il
Principe confida anche in voi, e i Toscani non dimenticheranno il vostro nome,
che sarà scolpito in un monumento inalzato a eterna memoria dei benemeriti
della Patria.»
N. B. La lettera non ha
data, ma ha il bollo di Posta del 30 marzo 1849, ed è scritta, o sottoscritta
così: «Il Comitato dei Veri Cittadini.»
Dunque, nel 3 aprile,
nella comune estimativa io non era reputato avverso alla restaurazione del
Principato Costituzionale? All'opposto, me giudicavano attissimo a restituirlo
in Toscana. Dunque allora non pensava la gente che i miei fatti e i miei detti
mi palesassero uomo capace di tenere due corde al suo arco. Dunque nessuno si
avvisava che io fossi di cuore doppio, ma sì all'opposto me tenevano per
tale, da sicuramente confidarmi il disegno del richiamo del Principe, e del
medesimo prendermi a parte.
Quantunque non sia mio
instituto esaminare le risposte date dai testimoni, che l'Accusa stessa
ricercò, tuttavolta, occorrendomi leggere i deposti relativi ai giorni 11 e 12
aprile, poichè mi cade il taglio mi giova riportare quello che intorno alla mia
propensione di restaurare il Principato Costituzionale dichiarino alcuni
spettabili Cittadini. Il signor Dottore Venturucci, animoso e dabbene,
interrogato se per me si manifestassero tendenze alla Restaurazione, risponde:
«A onore del vero, dirò, che interpellando io il Guerrazzi come Capo del Potere
Esecutivo, mentre si parlava di dover fare una guerra insurrezionale, su le
disposizioni del Popolo Toscano, su quelle delle Milizie, intorno ai termini
della Toscana con gli Stati Italiani ed Esteri, il signor Guerrazzi si mostrò
molto pago di queste interpellazioni, e si diè a rispondere: - La
disposizione del Popolo Toscano è manifestamente per Leopoldo II: la
soldatesca si compone di gente non buona, in ispecie Volontarii; - e rivoltosi a
Montanelli ch'era tornato di recente, soggiunse: - dillo tu. - E Montanelli
assentiva con lacrimevole storia. - Inoltre, egli aggiungeva, tranne che con
Venezia e con Roma, non siamo in buoni termini con altri Governi; anzi, nè
anche con Roma ci troviamo in perfetto accordo, e nella intimità che uomo
potrebbe credere, però che il Mazzini quando stette a Firenze fu poco contento
di noi, non avendo io voluto che si alzassero gli Alberi, nè si proclamasse la
Unione con Roma, e dovei penare molto perchè ciò non si facesse. Noi non siamo
in termini officiali con nessuna Potenza; nessuna ci ha voluto riconoscere;
solo il Ministro inglese mantiene con noi termini officiosi.»
I Giudici del 7 gennaio
1851, questo chiamano parlare coperto. «Onde, - il signor Venturucci
continua, - da tutte queste cose, ed anche da altre risposte del
Guerrazzi, sembrerebbe potesse ragionevolmente arguirsi essere in lui stata la
tendenza a operare la Restaurazione Costituzionale, e che per questo
soltanto cercasse ottenere un voto di fiducia, e avere in mano il potere
assoluto.»
Vuolsi notare come il
Montanelli tornasse di Lunigiana il 10 marzo 1849648,
e però cotesti discorsi accadevano nel 12 o 13 dello stesso mese, che secondo
il calendario della onesta Accusa succederebbero il 27 marzo, che fu giorno doloroso
per la notizia della battaglia di Novara.
Il Professore Taddei,
schietto e leale, testimoniando del vero, dice: «Posso rispondere, che dalle
sue espressioni sì di quel giorno (12 aprile 1849), che dei giorni
precedenti, si rilevava benissimo ch'egli non solo non avversava la
ripristinazione della Monarchia, ma che anzi vi si mostrava proclive. La quale
proclività dava a me fondamento per lusingarmi, che egli volesse e sapesse
trovare modo di fare questo passaggio in conformità del desiderio universale
nei modi più atti per risparmiare il sangue, e per conciliare nel tempo
stesso la dignità del Paese.» Nè alla età del signor Taddei si mentisce,
perchè potrebbero fare all'illustre vecchio mali gravi, non lunghi, e l'uomo
compreso nei casti pensieri del sepolcro aborrisce macchiare d'infamia la
veneranda canizie. Di Ferdinando Zannetti ho favellato altrove. Potrei citare i
signori Emilio Nespoli e Avvocato Giuseppe Panattoni, ma per non allungare di
soverchio le citazioni, ed essendo eglino meno espliciti degli allegati, credo
bene porre fine a questo negozio, che più propriamente è materia dell'Avvocato
difensore.
Nè questa opinione
furono soli a concepirla i Fiorentini, chè nel Messaggere del Galignani,
in data del 7 aprile 1849, occorre questa notizia: «Leggiamo in una lettera da
Firenze del 1°. Corre fama che Guerrazzi, il quale non è stato mai
partigiano della Repubblica, siasi fatto Dittatore unicamente allo scopo di
avere più agio a restaurare l'autorità del Granduca649.»
Ed appartiene eziandio a
questo periodo il Documento che segue:
Istruzioni che il
Ministro della Guerra dà al Generale D'Apice, state precedentemente concertate
col Capo del Governo.
«1. Provocherà in Lucca,
Pietrasanta, Massa ec., lo spirito pubblico per la difesa del Paese, mostrando
tutti i pericoli della invasione, e rammentando di frequente gli orrori di
cosiffatta sventura. Saggerà bene il genio del Popolo; e se gioverà, per
allacciare più consensi, lasciar da parte la questione sulla forma di Governo,
sì il faccia. - Però la mobilizzazione deve essere immediata; si metta
d'accordo con le Autorità, e avvenga per amore o per forza, in specie per le
campagne.
2. Destramente conosca,
e mi referisca se proclamare la Repubblica e la Unione con Roma sarebbe adesso
argomento di forza, o piuttosto di dissoluzione.
3. Avvenendo qualche
moto di ribellione o attentato alle vite ed alle sostanze, secondi le Autorità
locali per reprimerlo e punirlo acerbissimamente.
4. Non concedendo il
tempo ristabilire la disciplina con modi graduali e blandi, bisogna tentare, se
si può, con modi severi. Quindi sia inesorabile: non raccomando giusto, sapendo
quanta sia la giustizia sua. Per converso, largheggi ai meritevoli di
ricompense. Faccia sentire al soldato, la guerra essere un mestiere che giova,
il merito cosa da trarne immediato vantaggio, la disciplina fruttare onore e
sicurezza.
5. Tenga ilare e perpetuamente
occupato il soldato. Qui sta il gran segreto della disciplina. Il Capitano
che può affaticare di più i soldati gli avrà meglio disciplinati; perchè il
lavoro afforza le membra, persuade la condotta regolare, e stanca la persona.
Vorrei si esercitassero ai lavori di zappa, vanga ec.
6. Con la solita sua
prudenza può mostrare il Generale che la difesa del Paese, e della integrità
del territorio, è cosa che tutti i Partiti desiderano, e di cui tutti i
Governi domanderanno conto ai soldati, qualora vilmente si ricusino. Ritornando
anche Leopoldo, terrà in dispregio un'armata che non seppe conservare alla
Toscana la Lunigiana, Massa e Carrara.»
7. Difenderà la
Frontiera ad ogni costo; e cercherà con ogni diligenza conoscere gli
avvenimenti oltre la Frontiera, così per la parte dei Piemontesi, come per
quella degli Estensi, e ne darà ragguaglio fino a Lucca con staffetta; da Lucca
a Firenze per telegrafo.
8. Adoprerà tutti i
mezzi per accordarsi col Governo Piemontese e co' Liguri, per far causa comune
contro il nemico tenendosi sopra la difensiva; però non gli si toglie la
facoltà d'imprendere l'offensiva quante volte giovi alla difensiva.
9. Lo stesso anche più
ampiamente dicasi per la parte degli Stati Romani, che considererà sempre come
destinati a formare una stessa famiglia con noi, se i casi non vogliono
altrimenti.
10. Finalmente vigilerà
a impedire qualunque complicanza col suscitare inopportune quistioni politiche
con gli Stati confinanti.
11. Non gli si
raccomanda che in ogni evento salvi l'onore del Paese, perchè in questo il
General D'Apice non ha mestieri di raccomandazione.
12. Le migliori truppe
saranno postate nei passi più deboli della linea di difesa. - Organizzare una
riserva in seconda linea in modo da soccorrere con celerità i posti attaccati.
Firenze a dì 1° aprile
1849.
G. Manganaro.»
L'Accusa legge con
l'occhio cieco del Bano di Croazia l'ordine di lasciare da parte la quistione
su la forma del Governo, e l'altro d'indagare destramente se la Repubblica
piaccia o no; il quale non era senza arguto consiglio, però che, i partigiani
della Repubblica ponendo nel Generale grandissima fede, io disegnava adoperarlo
a persuaderli efficacemente, in virtù della convinzione che doveva nascere in
lui dal coscienzioso esame dei fatti, a deporre la ubbia di volere instituita
la Repubblica in Toscana650: nemmeno apprezza
l'Accusa l'Articolo 6, il quale pure spiega a chiare note, che il Generale
faccia sentire la possibilità del ritorno del Granduca, e quanto sarebbe per
desiderare egli ancora, che il suo Stato intero si conservasse. Questo è il
concetto che parimente dettai nel Manifesto alla Gioventù Fiorentina, ma qui
più esplicito e là più coperto, siccome consigliava prudenza, chè adesso
favellavo con un uomo solo, e discreto per indole, per instituto obbediente. Si
sollevano le cateratte all'Accusa soltanto allo Articolo 9, dove raccomando di
accordarsi con gli Stati Romani per fare causa contro il comune nemico,
perchè gli ha da considerare come destinati a formare una sola famiglia con noi,
se i casi non vogliono altrimenti.
Che cosa trova qui da riprendere l'Accusa? Forse trattasi qui di Unificazione
con Roma repubblicana? Quanto queste Istruzioni negli altri Articoli
esprimono, non esclude simile concetto? E meglio non lo escludono fino dalla
radice il cumulo dei fatti concomitanti? - O dunque che cosa significa egli
cotesto Articolo? - interrogherà l'Accusa. - Ed io rispondo avere in altra
parte manifestato i miei pensieri in proposito. Il Ministero Capponi651, dettando la commissione al Legato Ridolfi per
le Conferenze brussellesi, si palesò vago di vedere Toscana arrampicarsi su pei
greppi degli Appennini, e mettere un piede in Lombardia; a me cotesti possessi
lombardi non andavano a sangue, e mi pareva che meglio potesse allargarsi verso
la Umbria, memore dell'antica Etruria, di cui furono confini la Magra e il
Tevere; il quale concetto mi parve allora, e ritengo anche adesso, più
classicamente politico, per ragioni che non importa discorrere. A me piaceva
parte degli Stati Romani, non già nella guisa che disse David quando gli morì
il figliuolo avuto da Betsabea: «Poichè non verrà più a me, io me ne vado a lui652;» ma sì nel modo contrario, voglio dire che,
invece di andare a loro, essi venissero a me; onde se, senza pericolo di
commettere tradimento, si può desiderare ampliato lo Stato da parte di Ponente,
non si sa come appo l'Accusa si corra pericolo di fellonia, piegando questo
desiderio a Levante. Io poi giudico, e quanti hanno pratica delle faccende
politiche giudicheranno meco, che corra necessità assoluta di ampliare i
piccoli Stati, conciossiachè, mettendo pure da parte il riflesso che le
difficoltà degli Stati grandi diventino tribolazioni vere pei piccoli, i tempi
(per dire tutto in una parola sola) impongono l'obbligo di tali spese a cui gli
Stati piccoli non possono sopperire. Avviene per questi come nelle private
proprietà, dove i troppo grandi possessi non recano danno minore dei troppo
piccoli alla pubblica economia, chè in quelli nuoce la inerzia a usufruttare,
in questi la impotenza. Ed a me talora, pensando lungamente su le condizioni
economiche della Toscana, veniva fatto concludere: «Noi abbiamo gl'incomodi di
un guscio di noce armato come un vascello a tre ponti.» Siffatto mio
intendimento poi non avrebbe dovuto suonare nuovo all'Accusa, poichè mi scoppiò
fuori quasi per forza nella Tornata del Consiglio Generale toscano del 22
gennaio, e venne con la consueta carità raccolto, ravviato, e messo in
vetrina dallo amico nostro il Conciliatore653.
- E forse nè anche a questo tacerà l'Accusa, e dirà che simili disegni
deggionsi dai Ministri cacciare via come tentazioni del Demonio; ed io, poichè,
tra le tante e strane vicende della mia vita, mi trovo ridotto anche a questa,
di favellare di politica con l'Accusa, mi permetterò osservarle, che, se i
casi volevano, avremmo potuto compensare la Chiesa in Lombardia, a modo di
esempio, col ducato di Parma, che già fu suo, e com'ella sa, o piuttosto non
sa, da Paolo III, nel 12 agosto 1545, dato in feudo ecclesiastico, reversibile
dopo la estinzione della linea mascolina, a Pier Luigi Farnese; la quale
investitura però non tolse, che nel 1718, in virtù del Trattato della
quadruplice alleanza, Art. V, Cap. I, fosse dichiarato feudo imperiale, senza
il consenso del Duca Francesco, come senza attendere alle proteste d'Innocenzo
XIII654; e neppur tolse più
tardi che nel 1731 le milizie austriache l'occupassero, per consegnarlo a Don
Carlo infante di Spagna. Tutto questo poi ho voluto raccontare, perchè l'Accusa
conosca che simili composizioni di Stati, e sieno ancora della Chiesa, si costumino
fare senza pericolo di tradimento, per via di Congressi e col mezzo di Trattati
politici. E mi sembra non presumere troppo di me, se affermo che il mio
concetto d'ingrandire, se lo volevano i casi, la Chiesa in Lombardia e
la Toscana nella Umbria, superò in bontà quello di ampliare Toscana in
Lombardia, o si attenda alla Storia e alla antica parentela dei Popoli, o alle
comodità geografiche, o finalmente alle altre tutte cagioni per le quali
avviene che lo accomunarsi piace che succeda, e successo si mantenga. Che se
poi ad ogni modo pretenderà l'Accusa, che i miei desiderii e presagii
costituiscano peccato, senta una cosa l'Accusa: - prometto confessarmene; - e
mi lasci stare.
L'Accusa dirà, immagino:
- della commissione del 1° aprile 1849 ego te absolvo, e se a malincuore
Dio solo lo sa; ma con altri ganci ti tengo; ora rispondi: come ti scuserai del
Dispaccio del 18 marzo 1849 mandato al Generale D'Apice655? - Parmi la risposta breve: nè lo mandai, nè lo
firmai. - Ma egli è composto collettivamente, però che accenni a conferenze
avute col Governo Provvisorio. - Che monta questo? Il Montanelli come
Presidente del Governo Provvisorio si reputò rappresentare l'ente complesso, e
credo dirittamente pensasse; e tanto è vero che fu così, che sebbene vi adoperi
il numero plurale non pertanto si sottoscrive: G. Montanelli. - Ma dunque come
va ch'è scritto di tuo carattere, tranne la firma? - Il signor Montanelli
praticava un costume assai somiglievole, per quanto leggiamo scritto, a quello
della Sibilla Cumana; notava le cose sue su fogli sparti, e gli lasciava ora
qua, ora là; io uso diversamente, e pongo cura diligentissima a tenere in sesto
non solo lo scrittoio mio, ma anche l'altrui; e talvolta alle tre ore
antimeridiane mi sono trattenuto allo Ufficio per accomodare le carte arruffate
dei Segretarii. Ora il signor Montanelli avendo conferito col Generale D'Apice,
spontaneo o richiesto gli mandò la commissione in discorso, e lasciò sul mio
tavolino la minuta del Dispaccio neppure sottoscritto; tornato la sera, vidi il
foglio, lo lessi, e parendomi, come veramente era, di nessuna rilevanza, lo
stracciai pel mezzo e lo gittai nella paniera. Ragionando nel dì successivo
delle varie cose del giorno innanzi, il signore Montanelli mi venne
interrogando se avessi veduto le Istruzioni partecipate al D'Apice; e negando
io, egli soggiunse avermene lasciato sul tavolino la minuta; allora immaginando
che accennasse alla carta gittata nella paniera, la ricercai, ne misi insieme i
quattro pezzi, e domandai se a sorte intendesse di quella. Avendomi risposto
per lo appunto essere, io per gentilezza non consentendo ch'ei la ricopiasse
emendai il fallo involontario riscrivendola; e scritta che fu, lo avvertii: «E
parti commissione questa sufficiente per noi? E pensi che possa contentarsene
il Generale? Siffatta vaghezza mette a strano partito noi e lui; bisogna essere
precisi nello indicare le cose che vogliamo sieno fatte; altrimenti tu me lo
crei di punto in bianco Dittatore, e ti togli l'adito a mai trovarlo in peccato.
Ancora, e scusami amico mio, - e questa commissione di promuovere gl'interessi
repubblicani della Italia Centrale che cosa significa mai? Questa è buona per
un negoziatore, non per un Generale; questa poteva darsi dal Direttorio a
Buonaparte mandato alla conquista d'Italia; ma a D'Apice, che ha da starsene in
Toscana, io non vedo a che giovi; la sua commissione è militare, non politica,
e meglio importava indicargli i luoghi della frontiera, ove urge, e noi
vogliamo che si afforzi. Inoltre, gl'interessi repubblicani della Italia
Centrale che cosa sono eglino? Toscana non è confusa ancora con gli Stati
Romani, e penso, che male ciò possa effettuarsi; forse mai, - ed a questa ora
tu ne dovresti essere quanto me persuaso: di più, Toscana non assunse ancora
forma repubblicana, e dubito forte se mai l'assumerà656; pertanto sai tu che cosa mi pare tu abbi
ordinato al D'Apice? Che abbandonate le nostre frontiere, ei se ne vada diritto
a prendere soldo dalla Repubblica Romana.» Sorrise Montanelli, e, come
costumava, tutto soave mi rispose: «Ormai l'ho spedito;» e preso il foglio lo
sottoscrisse.
In vero, come avrei
potuto dare al Generale cotesta commissione, e come contestargli essere
conforme alle conferenze verbali, se i miei colloquii e le mie commissioni
suonavano diversi? - Il Generale D'Apice udito in testimonianza depone: «Avendo
avuto luogo di recarmi due o tre volte a Firenze, ho udito in coteste
circostanze parole da lui che mi fecero credere non fosse lontano a ristabilire
in Toscana il Granduca Leopoldo II, e dette maggiormente forza a tali mie
supposizioni il discorso fattomi dal medesimo signor Guerrazzi l'ultima volta
che parlammo insieme, il quale consistè nello avvertirmi che in ogni caso
importava difendere la frontiera, perchè, se tornava il Granduca, avrebbe avuto
piacere di trovare non menomato lo Stato neppure delle provincie che da cotesta
parte gli si erano aggiunte; per la quale cosa tolto commiato da Firenze e
giunto a Lucca riunii davanti a me i due Tenenti Colonnelli Facdouelle e
Fortini, e Colonnello Baldini, e ripetei loro in sostanza il discorso del
signor Guerrazzi657, nè mai alcuno di noi
si è occupato di vedere se convenisse più l'una che l'altra forma di governo, quantunque
fra le istruzioni suddette vi fosse pure questo incarico658.» Più oltre: «Nel richiedere al Ministro della
Guerra più ampie istruzioni, ebbi in veduta specialmente la comparsa del
Granduca Leopoldo o di altro in suo nome, avendo presente il discorso
fattomi dal signor Guerrazzi sul possibile ritorno del medesimo Granduca,
per cui bisognava difendere la frontiera; come pure non avevo dimenticato le
qualche parole confidatemi dal Guerrazzi, per cui mi era parso ch'ei non fosse
alieno da trattare il ristabilimento del Granduca.» Non importa notare nemmeno
che il Generale non accenna a un tempo soltanto, ma a tre diversi; e comecchè
mi manchi modo di riscontrarlo, io do per sicuro che la prima volta e la
seconda egli si portasse a Firenze prima del 27 marzo 1849; e ciò avverto onde
l'Accusa si vergogni avere, in onta al vero, sostenuto che simili disposizioni
in me nascessero, tardo pentimento, dopo la battaglia di Novara. Ora, se io
avessi scritto al Generale come suona il Dispaccio del 18 marzo 1849, e gli
avessi favellato come egli depone, avrebbe avuto motivo a dubitare della sanità
del mio cervello. Anzi, dove bene s'intenda, parmi evidente la prova che
cotesta commissione fosse del tutto fattura non mia, imperciocchè io mi ero
lasciato andare fino a fargli sentire la possibilità del ritorno del Granduca,
e quella lo incarica di sostenere la Repubblica; donde la necessità della
doppia origine di siffatte manifestazioni. Per la quale cosa ammonisco i miei
Giudici, che colui il quale tiene con varie persone discorso diverso può
reputarsi talvolta, ed essere, uomo mascagno; credere poi che un Magistrato
parli a un Generale bianco e gli scriva nero, per lo meno è da matto.
A questo tempo si
referisce la seguente lettera, che io scriveva al signor Consigliere Carlo
Bosi, dalla quale si fa manifesto come io sentissi di coloro, che più si
mostravano smaniosi per la Repubblica659.
«Al
Governo di Livorno.
Qui non può farsi nulla.
La Patria versa in grandissimo pericolo. Io ne ho assunto la malleveria davanti
agli uomini e a Dio: voglio riuscirvi, o morire: ormai della vita poco
m'importa, anzi mi pesa. Ordino pertanto sia posto termine alle perturbazioni
manifeste e segrete contro il Governo, e contro la quiete pubblica. Chi sono
gl'infami che altro non sanno che dividere la Patria e spaventare la città,
senza mai - -mai prendere uno schioppo e arruolarsi nella milizia finchè dura
il pericolo? Wimpfen ha minacciato in Casale con 10 mila Austriaci mettere capo
a partito alla Italia Centrale; ma non sono 10 o 20 mila Austriaci quelli che
temo, sibbene questi commettitori di scandali. Voi mi farete esatto rapporto di
quanto avviene, indicandomene gli autori; e quando vi ordinerò arrestarli, voi
non dovete porre tempo tramezzo, fosse mio fratello: altrimenti renunziate. Oh!
è facile sostenere la Repubblica con la gola fioca di acquavite e di fumo; con
la opera poi la cosa è diversa. Il Popolo non si disonori con atti brutali:
s'invigili cautamente il contegno di tutti; se commettono fallo, si raccolgano
prove e mi si rimettano. Per suscitare la forza bisogna sia forte la Legge. La
Inghilterra, che non ci avversa, dichiara che dove continuino in Livorno
gl'insulti alle persone, ai Consoli, alle Insegne ec., provvederà al Paese come
già fece a Lisbona. Per Dio! mi viene il sangue al viso. Badate i retrogradi;
vi sono, e vanno puniti: ma
1° Non si ha a scambiare
retrogradi co' paurosi.
2° Quando si mette la
mano addosso a qualcheduno, conviene avere ragione: se no, se poco amico,
diventa avverso; se nemico, cresce nell'odio.
Dei perturbatori non so che
farmi. Gli uomini liberi sono gravi, animosi e operosi. Tali furono gli
Americani, e così vinsero.
Partecipi questi miei
sensi al Popolo Livornese, e gli dica che me ne appello al giudizio loro,
all'onore, alla carità patria, e alla fama che pel mondo si sono guadagnata
grandissima. Viva la Libertà! Viva Livorno! E chiunque è valido alla frontiera.
Guerrazzi.»
«P. S. Al Proclama
aggiunga eccitamento a marciare; - vengano ad arruolarsi; - gli mandi a Firenze
con armi; - mandi armi - armi - armi. - I gradi a chi sarà meglio reputato
capace. - Come affidare il sangue nostro a cui non sa nulla?»
E meglio la mia opinione
intorno agl'improvvisi fattori della Repubblica può dedursi da quest'altra
lettera che indirizzava ad un mio fidatissimo e congiunto, comecchè di lontana
parentela660.
«Caro
Giorgio,
Viene costà Adami: a lui
parla del negozio di cui mi scrivi. - Pei male intenzionati - lascia fare. Il
tempo non è per loro. Quello che mi duole, senza punto sbigottirmi, si è che
persone amiche - o che si dicono - o che si dissero amiche, invece instruirsi,
emendarsi e attendere con discretezza, vogliono Repubblica, perchè:
Non hanno
da noi
Danaro
pel giuoco,
Danaro
per le donne,
Danaro
per l'osteria.
Ma la Repubblica esige
più severa virtù del Principato. Addio.
Guerrazzi.»
Nel giorno otto aprile
furono spediti 27 Deputati in Provincia; quantunque non si ponesse studio a
scerre i nomi, e questo per probità, nondimeno sostengo, che 18 almeno di
quelli appartenevano al Partito Costituzionale; e con protesta di non
pregiudicare agli altri, che trovo notati alla pag. 226 dei Documenti
dell'Accusa, parmi che sieno: Guerri Francesco, Giorni Donato, Nespoli Emilio,
Panattoni Lorenzo, Sestini Giuseppe, Socci Gaetano, Biondi Marco, Frangi
Riccardo, Del Sarto Eduardo, Vivarelli Tommaso, Giusteschi Napoleone, Paoli
Tommaso, Micciarelli Elpidio, Brizzolari Enrico, Barsotti Giuseppe, Becagli
Luigi, Turchetti Eduardo, Palmi Gregorio. Le Commissioni scritte ch'ebbero dal
Governo furono:
«Cittadino
Deputato,
I Rappresentanti del
Popolo i quali, a forma delle già pubblicate istruzioni, si recheranno nelle
Provincie ad eccitare i Giovani alla difesa della Patria in pericolo, ed a
raccogliere le armi di coloro che non sono in grado di adoperarle, sono
investiti dei supremi poteri per conseguire tutto ciò che può condurre ad
ottenere questo intento. A tale effetto sono autorizzati a servirsi dell'opera
dei Pretori e dei Gonfalonieri del Distretto nel quale si recheranno, con
facoltà anche di sospenderli dalle loro funzioni, e proporne la destituzione al
Potere Esecutivo, qualora non corrispondessero alle premure che sono in obbligo
di darsi per coadiuvarli.
Però voi, Cittadino
Deputato, recandovi nella vostra Provincia, siete autorizzato in forza della
presente Ministeriale, a procedere alle sopraesposte misure, qualora non
troviate nei pubblici funzionarii quell'attitudine e buon volere che dai tempi
si esigono, informando immediatamente il Governo dei motivi che vi avessero
indotto a prender queste misure, e con piena responsabilità del vostro operato.
Informate il Governo
intorno a quei Ministri del Santuario, che, postergando al sacro dovere di una
Religione di carità e di amore gl'interessi di Casta, tradiscono insieme al
mandato di Cristo le speranze della nostra Patria, affogando le Libertà, prezzo
di tanto sangue e di tanti sacrifizii.
Date opera a crear
Comitati che si occupino di raccoglier denari, ed oggetti per coloro che si
mobilizzano; a procurar soscrizioni di Cittadini che si obblighino a soccorrere
le Famiglie di coloro che, mobilizzandosi, le lascerebbero nella indigenza. E
di ciò è urgentissimo occuparsi, perchè, con questa sicurezza, avremo fra i
combattenti anche coloro, che, trattenuti dalla indigenza della famiglia, non
si muoverebbero.
Vigilate perchè questi
Comitati non si istituiscano inutilmente, ma operino con ardore, al quale
effetto usate molta avvedutezza nella scelta delle persone che dovranno
comporli.
Non trascurate la parte
più sensibile della umana famiglia, le Donne. Profittate della sensibilità del
loro cuore, il quale, infiammato, è capace degli slanci più sublimi. Levatele
all'altezza delle circostanze, affinchè esse pure ci aiutino, procacciando
oggetti di vestiario, fasce e fila pei feriti, ed ispirando coraggio nei
Giovani, i quali non sapranno allora ricusarsi dall'affrontare i pericoli.
Operate adunque,
operate, ed il Paese, ne siam certi, saprà pienamente corrispondere.
Li 8 aprile 1849.
Devotissimo - Marmocchi.»
Nel 9 aprile erano
trasmessi ordini pel ritiro dei moschetti ai Circoli661, la quale operazione consumata, toglieva, in
certo modo, l'ultimo dente alla Fazione. Tutti i provvedimenti onde la
deliberazione del giorno 15 riuscisse libera, pacata e solenne, essendo stati
presi, mi addormentai sicuro fra l'ultimo puntello e il naviglio su lo scalo.
Anche la mano di un nano bastava ad abbatterlo, e il nano, maligno com'è natura
dei nani, venne, e lo abbattè, procurando per gratitudine, che il legno
precipitando mi passasse proprio sul corpo. Questo è il dramma; rappresentato a
Firenze, spettatrice Toscana. I Toscani adoperino i diritti della Platea verso,
o contro coloro, che bene o male sostennero la propria parte.
Insieme alla commissione
scritta caldissime preghiere ricevevano a voce, che convinti per nuovi e
proprii sperimenti del desiderio della universa Toscana, di ritornarsi al suo
Statuto, nel giorno designato (15 aprile) convenissero in Firenze a sostenere
la proposta che avrebbe fatta il Capo del Potere Esecutivo; e fu nel 9 aprile
1849, che il signor Filippo conte de' Bardi, recatosi dal signor P. A. Adami,
gli favellò in questa sentenza: «Parlare in nome suo e dei Deputati della
maggiorità rimasti in Firenze; pregarlo a farmi, di quanto sarebbe per dirgli,
speciale partecipazione: per impedire, avere io fatto abbastanza; ed egli,
comecchè della persona pessimamente disposto, essersi condotto all'Assemblea a
fine di sostenere il Governo nel suo contrasto alla Unificazione con Roma: ora
correre urgentissimo il bisogno di tôrre il Paese dalla incertezza; non
dubitassi; nella Tornata del 15 aprile, proponessi francamente il partito di
restaurare il Principato Costituzionale, che mi avrebbero circondato tutti per
sovvenirmi co' voti, e al bisogno con la persona; questo poi esporre a lui onde
me lo referisse, perchè non gli era occorso mai di trovarmi libero così, da
potere tenermi prudentemente siffatto linguaggio.» P. A. Adami conferì meco
intorno alla proposta del conte de' Bardi, ed io l'accolsi con animo
volonteroso, dicendo al medesimo che bisognava trovarci pertanto nel 15 aprile
tutti al nostro posto, per la quale cosa io non avrei potuto concedergli per la
prossima domenica il consueto permesso di recarsi a visitare la famiglia a
Livorno; e questo fu il motivo che indusse Adami a partirsi a mezzo della
settimana per casa sua, e gli giovò, salvandolo dal trovarsi nei giorni 11 e 12
aprile a Firenze.
Ciò posto, senza ira
come senza rancore, e favellando di me come di un morto, uomini del Municipio
di Firenze e della Commissione Governativa, udite:
Cosimo Ridolfi, dando
facile orecchio a parole di astio, o di superbia, o di avventatezza
sconsigliata, procedè meco nel giorno ottavo di gennaio 1848 in Livorno
ingiusto e leggiero; io nel risentimento, eccessivo. S'egli avesse profferito
una parola, una parola sola (che fra gli onesti è dovere, perocchè, dopo il
primo onore di non far torto a nessuno, venga subito l'altro di confessarlo
fatto), io che mi sento di assai placabile natura di leggieri avrei dato
all'oblio il brutto caso, nel quale anche oggi va ficcando le mani l'Accusa,
scompigliandone le ceneri per tentare se vi fosse rimasto nascosto qualche mal
tizzo sotto: ma questa parola non disse il Marchese; e volle tramare di
orgoglio la tela ordita dalla ingiustizia, ed io crebbi nella intemperante
querimonia; però le mie parole non furono pese a lui, come le sue catene a me.
Ad ogni modo avemmo torto da una parte e dall'altra. Alla più trista, poniamo
la partita saldata, e non poteva essere questa pel Municipio di Firenze e la Commissione
Governativa causa per nuocermi.
Quando il Principe
chiamò nei suoi Consigli il marchese Gino Capponi, io ne fui lieto,
stringendomi a esso amicizia ventenne; e subito gli mostrai come io intendessi
sostenere il suo Ministero, dacchè, sapendo in quei giorni stremo di pecunia lo
erario, gli proposi, per conforto dei miei amici di Livorno, di sovvenirlo di 6
od 8 milioni di lire, e di ciò fa fede la lettera che leggiamo stampata a pag.
3 dei Documenti662. Non piacque il
partito; ma pure esso dimostra le voglie pronte di procedere parziale al
Ministero Capponi: dunque per questo, Municipio fiorentino e Commissione
Governativa, non potevate muovervi a farmi danno.
Io scongiurai l'amico
prima, poi il Ministro Capponi, a trattenersi dal mandare armati a Livorno,
condottiero Leone Cipriani, per reprimere tumulti, a comporre i quali parve ad
altri ed a me dovessero bastare i provvedimenti ordinarii; ma ei non mi volle
ascoltare: quello che avvenne non importa dire; così si potesse dimenticare!
Livorno era lasciata in balía di gente perversa: andai, la mantenni alla
devozione del Principe, la preservai dall'anarchia; non mi fu grato, non dirò
Gino Capponi, ma il Ministero Capponi; all'opposto mi si mostrò nemico, mi
abbeverò di amarezze, mi saziò di umiliazioni: tacqui, soffersi, e quante volte
parlai, o scrissi di Gino Capponi, lo feci con rispetto, e l'ho dimostrato:
dunque per questa causa non sembra che voi, Municipio e Commissione, aveste
motivo di offendermi.
Il Ministero Capponi mi
allontana da Livorno, come si legge che gl'Israeliti cacciassero i lebbrosi
fuori del campo; ed io, senza lagnarmi, lascio libero il seggio al signor
Montanelli, e mi riduco, senza pure aspettarlo, a Firenze, mostrando a prova la
inanità dei brutti favellii, che me, calunniando, susurravano agitatore del
Popolo livornese per libidine d'impero; ed anche qui, se non erro, non vedo che
il Municipio fiorentino e la Commissione Governativa avessero materia per
danneggiarmi.
Il signor Montanelli
bandisce a Livorno la Costituente Italiana di concerto col Ministero Capponi663; il Ministero depone lo ufficio; però,
consultato, delibera quale successore abbia ad accettare, ed uno, proposto,
fervorosamente n'esclude, che non era il nostro. Il Municipio livornese,
condottiero Fabbri, bene si reca a Firenze per rappresentare al Principe il
voto del Popolo di cotesta città, che me desidera assunto al Ministero, ma
protesta solennemente farlo, come semplice espressione di desiderio, senza
punto intendere menomargli la prerogativa regia di scegliersi liberissimo i
suoi Consiglieri. Intanto una Deputazione di spettabilissimi cittadini di
Firenze recavasi dal Granduca, e, venuta al suo cospetto, per mezzo del sig.
Professore Ferdinando Zannetti gli favellava in questa sentenza:
«Altezza!
Mossi noi qui presenti
dal desiderio di vedere riconciliato Livorno col Governo, e di evitare civili
discordie, noi sottoponghiamo al senno di V. A. la proposta di commettere al
signor Professore Montanelli lo incarico di formare il nuovo Ministero. Questo
poi facciamo, accertati che il Ministero attuale siasi dimesso, e con parola di
onore assicurati dal signor Montanelli, che conserverà il Principato
Costituzionale, ed eviterà, se gli sarà possibile, di tôrsi a collega il
signor Guerrazzi664.» E la Corona
rispondeva, ammonendo essere per lo Statuto fondamentale riposta in sua piena
volontà la scelta del Ministero, alla quale avvertenza il signor Zannetti con
modesto parlare soggiunse: «Altezza! Non cadde mai nel mio animo, nè in quello
de' miei compagni, di venire a imporle un Ministero; ma il solo desiderio
accennato testè, fu quello che ci mosse a umiliarle la nostra proposta, come
mero e semplicissimo voto: onesti, come ci studiamo essere, noi ci saremmo
guardati bene dal presentarci all'A. V. dove non avessimo riportata dal signor
Montanelli la parola della intera conservazione del Principato Costituzionale665.» L'A. S. poi me non accettò se prima non ebbe
consultato in proposito Lord Giorgio Hamilton e il marchese Gino Capponi, e questo
so per confidenza onorevolissima che mi venne fatta dal Principe stesso, sicchè
qui non vedo peccato che dovesse concitarmi l'odio del Municipio e della
Commissione Governativa.
E prima condizione del
mio accettare la proposta del Montanelli fu, che si conducesse dal marchese
Gino, e in suo e in mio nome lo pregasse a volere presiedere il Ministero
nostro; egli ci rispose, come altrove ho narrato; ma certo per me non gli si
poteva dare pegno maggiore di devozione e di stima: onde anche da questo mio contegno
non vedo che il Municipio e la Commissione Governativa potessero ricavare
argomento di rancore contro di me.
Portai la Costituente
come Simone il Cireneo; le tolsi il vano e il maligno, la ridussi nella
condizione di potersi dividere, e in parte accogliere, in parte aggiornare, e,
venuto il tempo, anche per la parte aggiornata adoperare a tutela dello Stato;
discussa fu; voi l'accettaste a pieni voti nel Consiglio Generale, a pieni voti
in Senato la confermaste: onde io credo che per questo, Municipio e Commissione
Governativa, non potevate appuntarmi, molto meno farmi sopportare non degne
pene.
Alla sicurezza pubblica
e privata, Ministro dello Interno, provvidi quanto e meglio di voi, e in
termini dei vostri più deplorabili assai; imperciocchè, se anche voi
confessaste trovare insufficienza negli ordini infermi, quale non la dovevo
sperimentare io, quando, colpa o fortuna, voi mi consegnaste questi ordini del
tutto disfatti? Quindi io penso che da ciò, o Municipio di Firenze e
Commissione Governativa, non abbiate potuto desumere cagione di mal talento
contro di me.
Come avreste potuto, o
uomini che componeste allora il Municipio Fiorentino, redarguirmi di essere
rimasto al Ministero, se pel Gonfaloniere vostro premurosissime istanze mi
faceste onde io non deponessi lo ufficio, e con magistrale deliberazione lo
inviaste, insieme ad altri spettabili personaggi, a Siena per interporsi
mediatore fra il Principe e il suo Ministero, affinchè la dimissione mai dal
maestrato non avvenisse?
La notte dell'8 febbraio
1849 non mi assistè al fianco, chiamato, l'onorevole vostro Gonfaloniere? Non
udì le provvidenze, non approvò, non confortò, e, piena la mente di quanto
aveva udito e approvato, non bandì la mattina che il Governo aveva provveduto
alla salute pubblica: i Cittadini quietassero? Municipio fiorentino e
Commissione Governativa, voi non mi potevate perseguitare per questo.
Vi disprezzai Membro del
Governo Provvisorio? No certo, poichè voi il Governo sorto dalla necessità
approvaste, e gli prometteste leali soccorsi, e così in magistrale
deliberazione dichiaraste. Vi ascoltai per l'abrogazione della Legge Stataria,
vi ascoltai per le armi distribuite al Popolo; e se due volte, due sole volte
rimproveraste, se non prendo errore, parmi poterne dedurre, che tutto l'altro
vi giovò e piacque. Il Municipio sovvenne il Governo nella esecuzione delle
Leggi su la Costituente Toscana, nel negozio delle armi, nella Commissione per
riorganizzare la Guardia Nazionale, di cui fu chiamato a fare parte anche il
signore conte Digny666; col Gonfaloniere
soventi volte conferimmo intorno alla Unificazione con Roma; e cadendo
d'accordo intorno alla impossibilità di promuoverla con profitto fra noi,
stabilimmo avrei adoperato ogni sforzo per impedire che la Fazione Repubblicana
la spuntasse a furia di Popolo, e per fare in modo che tutto il Paese con
solenne e pacato voto intorno alle sue sorti decidesse. Qui dunque non ho
peccato, onde voi, o Municipio fiorentino e Commissione Governativa, aveste
dovuto rompermi come una canna fracida.
Da voi pure venne il
consiglio di sciogliere il Parlamento e interpellare il Paese col suffragio
universale, e non una volta, ma due; anzi da voi la minaccia che, dove il
Governo di ciò fare si fosse astenuto, i Deputati avrebbero rifuggito di adunarsi
più oltre; onde anche per questa parte, o Municipio di Firenze e Commissione
Governativa, io confidava andare immune dal rigore delle ire vostre.
E certo poi non meritai
ira siffatta allora quando sofferto fu da ciascuno, che la Fazione Repubblicana
gavazzasse imponendo le sue leggi al Paese, ed io solo, presente il
Gonfaloniere del Municipio di Firenze, felicemente mi opponeva a quella.
Nè immagino già avervi
dato, o Municipio Fiorentino e Commissione Governativa, causa di straziarmi
allorchè curai che l'elezioni per la Costituente Toscana accadessero
liberissime; e se copia maggiore di Costituzionali elettori non concorse a
votare, certo non fu mio errore, e voi lo confessaste, comecchè il numero non
si potesse chiamare scarso.
Ditemi, egli è perchè io
usciva a risico della mia persona per tutelare i cittadini, o perchè toglieva
le armi alla gente dei Circoli, o perchè ostava che la Repubblica per
acclamazione si votasse, o perchè solennemente dichiarai, e feci dal Ministro
dello Interno dichiarare, che la Toscana si mostrava aliena dalle forme
repubblicane, o piuttosto perchè mi accinsi dietro i vostri conforti a
salvare quel più che si potesse di onore e d'indipendenza nazionale, e
mandai Deputati in Provincia a consultare lo spirito pubblico al doppio scopo
che la restaurazione del Principato Costituzionale avvenisse per consenso,
senza discrepanza, di tutti, e che lo Stato si difendesse, o almeno di
difenderlo come ce ne correva l'obbligo si tentasse; - egli è per tutto questo,
o Municipio, io domando, e Commissione Governativa, che voi mi avete tradito?
Forse vi ravvisaste, e pensaste avere potuto provvedere meglio da voi stessi;
ed io vi ho detto, e vi ridico adesso, che non vi biasimo, anzi, di questo vi
lodo, e meco tutto il Paese vi loda e ve ne rende grazie; voi dell'opera vostra
andate alteri, e ne avete ben donde: ma v'era bisogno che voi mi tradiste per
completare la vostra gloria? - Ma no: per avventura, in quei momenti estremi,
io da me mi mostrai diverso? inasprito, smentii in un giorno tutta la mia vita,
e commisi sevizie, o provocai le turbe livornesi a irrompere sopra questa bella
madre Patria a guisa di Barbari? - Nessun sospetto arrestai, nessuno bandii;
anzi, amorevole gli ammoniva affinchè si guardassero. M'inganno; ad uno solo ordinai
partisse, e tosto; e chi fu egli mai? Niccolini, quel mio preteso cagnotto e
lancia spezzata per commuovere i Popoli ad acclamare Repubblica667. Vediamo se l'altro addebito mi si conviene. -
E avvertite che io raccolgo Documenti cascati dalle mani dell'Accusa aperte
come i lucchetti dello avaro, sicchè quando saranno posti a disposizione mia
gli Archivii, come già furono alla
Direzione degli Atti, potrò, spero, essere più completo. Antonio Fossi,
Segretario del Governo di Livorno, nel 9 aprile 1849 a ore 5 e 30 min. pom.,
per via telegrafica mi avvisa: «Il Popolo ha occupate le carrozze per seguire i
Volontarii. Le misure prese a nulla hanno valso. Il Governatore e il
Gonfaloniere accorrono alla Stazione per riparare. Mi ordinano prevenirla pel
possibile di un ritardo nello arrivo668.» Lo egregio amico
Giorgio Manganaro, nel giorno 10 aprile 1849 a ore 1 e 15 min. pom., per
telegrafo annunzia: «Oggi il Popolo di Livorno è tornato alle solite
improntitudini. Comunque avessi fatto presidiare la Stazione da numero 60
Guardie Nazionali, questa è stata invasa da più di 600 persone, le quali si
sono impossessate delle carrozze e dei vagoni, e con estrema violenza hanno
voluto viaggiare gratuitamente. Mi sono trasferito col Gonfaloniere sul posto,
ma la opera nostra è andata perduta, e la mia voce è stata impotente per farli
rientrare nel dovere669.»
Ora sentano un po' come
io coteste ribalderie provocassi e confortassi: «Al Governatore di Livorno. - 10
aprile ore 3 antim. - Se il Governatore ha senno, faccia indagare subito quali
fossero le persone, ne ordini l'arresto di notte, e le mandi a Volterra:
facciasi tutto prima del giorno670.»
Alle ore 11 e 40 min.
pom, del medesimo giorno: «I Livornesi, per improntitudine di alcuni,
suscitano perigliose discordie quaggiù; pure vengano e saranno accetti671.»
Nel giorno 11 aprile,
ore 1, min. 55 pom.: «La Strada ferrata Leopolda non continua le sue corse per
cagione della insolenza livornese. Vedete quanto danno questo produrrà
al commercio. Bisogna tutelare la Stazione con ogni mezzo672.»
Nel medesimo giorno, a ore
3 e m. 21 pom.: «Insisto pei disordini della Strada ferrata. La Società
sospende le corse. È cosa intollerabile. Si dichiari alla città che ella è
unica in queste prepotenze. È un furto. Si faccia conoscere. Appena giunti a
Firenze ne prenderemo 10 per cento, e gli manderemo a Volterra. Questi
sconsigliati rovinano il commercio, e fanno perdere la reputazione al Paese.
Provvedete. Firenze si muove più tardi,
ma più dignitosa673.»
E detti ordini perchè
buona mano di costoro si arrestasse, e mandai cavalli a posta; ma fra lo
spandersi ch'essi fecero per i campi, e gl'impedimenti opposti dalle barriere
della strada ferrata da una parte, e dall'altra la ritrosia della nostra
milizia a operare cosa che valesse, ebbero modo a fuggire. Ancora nel medesimo
giorno, alle ore 4, m. 35 pom., domando al Governatore di Livorno: «È vero, che
il Governatore di Livorno abbia risposto, credersi impossibilitato a impedire,
che le turbe invadano i vagoni a Livorno? È vero, che abbia affermato, non
potere impedire questo successo oggi e domani? L'Amministrazione ha sospeso le
gite da Pisa a Livorno per questo motivo674.» Più tardi alle ore 5
e m. 20 pom.: «Il Capo del Potere Esecutivo chiede se altra gente sia partita o
partirà da Livorno. Vengono Livornesi senza pagare? Sì, o no675?»
Questi Documenti parlano
per me, e non sono soli; scelti dalla mano dell'Accusa, certo non è da
credersi, che cogliesse rose in fiocco perchè io me ne tessa ghirlanda; e
tuttavolta bastano.
Avete considerato voi
con quanto, non dirò studio, ma accesissimo zelo io proteggessi le strade
ferrate, e qui e a Lucca e da per tutto, non solo allora, sibbene in ogni
tempo? E pure mi affermano per sicuro, che uomini a me noti per antico
commercio, e nelle loro richieste soddisfatti sempre, nel giorno 12 aprile 1849
di subito, senza causa come senza consiglio, mi si mostrarono avversi, e
togliendo seco gli operaj, e le guardie della Strada, ne componessero una
schiera, e costituitisi capitani di gente eletta muovessero a gridarmi: «Morte!
Morte!» Se questa cosa fosse vera, bisognerebbe dire, che coloro i quali
hanno che fare con la Strada di ferro, talvolta terminano col parteciparne la
durezza; e di più non dico. Esamineremo in breve se pei fatti dei giorni 11 e
12 Aprile meritassi essere tradito.
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