XXIX.
Del giudizio pronunziato
sul mio operato dal Decreto del 7 gennaio 1851.
Nel § 32 il Decreto
della Camera di Accusa della Corte Regia per somma grazia crede dovere
concedere, che se io in qualche circostanza distolsi o raffrenai le più
accese voglie della Demagogia, pure il complesso degli atti (comodissima
formula quando non si trovano ragioni) autorizza a credere che tutto io
facessi per conservare nelle mie mani il potere. Ora è impossibile, che il
complesso degli atti conduca inevitabilmente a supporre cosa assurda. E qui i
miei lettori mi sieno benevoli a non appuntarmi, se alla medesima accusa,
ripetuta con singolare insistenza, la medesima serie di raziocinii io
contrapponga, conciossiachè io veda, che Cicerone adoperasse nella medesima
guisa, nella orazione per Sesto Roscio Amerino, sia che anch'egli avesse a
persuadere gente dura, o qualche altra necessità lo sforzasse; - e nella
fiducia che le mie preghiere verranno accolte, continuo.
Il mio potere era
provvisorio; il suo termine segnato; convocata l'Assemblea Costituente, ella
doveva decidere per la Repubblica o per la Monarchia Costituzionale. Nel primo
caso, ricusando, come avevo fatto, la carica di Triumviro a Roma, dimostravo
animo alieno dal proseguire nel duro incarico; inoltre, è egli verosimile, che
prevalendo i Repubblicani, volessero mostrarsi parziali a persona reputata
avversa, e riporre in sue mani la somma delle cose? I Repubblicani mi avrebbero
mandato in carcere, ne più nè meno, come gli altri hanno fatto, ed in breve vi
chiarirò; e la ragione sta nella storia del Dottore spartitore di liti che ho
raccontata di sopra. Nel secondo caso, mi sembra che senza prova mi verrà
concesso, che me l'Assemblea non avrebbe scelto Principe! Il Decreto si
compiaccia ricordare, che invece di attaccarmi al Potere, nella notte 27-28
marzo io feci tutto quanto da uomo onestamente può farsi per essere liberato
da tanto peso, e non mi riuscì affrancarmene676; volga altresì la mente alle istanze del
Montanelli e dei suoi amici, perchè accettassi il Ministero; non oblii, che al
Governo Provvisorio io presi parte per ineluttabile forza, da un lato, della
Fazione trionfatrice; dall'altro, per l'esortazioni non meno potenti dei
cittadini, affinchè dall'anarchia preservassi la Società677; e deh! consideri eziandio il Decreto, che a
quei giorni, durare in carica egli era peggio che posare su pettini da lino; e
se mi dicesse, che tra affanni punto minori si sono veduti uomini non pure
accettare il Potere, ma ricercarlo ed ambirlo, io rispondo, ch'è vero per
quelli i quali intesero fare esperimento pratico di una loro astrattezza
politica, potentissima delle passioni umane, a cui ogni giorno osserviamo
sagrificarsi da molti riposo, sostanze, e persino la vita; ma non poteva essere
vero con me, che governavo per benefizio altrui e non per procurarmi comodo
privato, o per fondare monarchie alla napoleonica, ovvero per compiacere a un
mio concetto. Dunque mi è lecito dolermi, che il Decreto non abbia rifuggito da
scrivere così dissennate proposizioni, le quali non reggono al confronto del
fatto e del raziocinio.
E proseguendo il Decreto
argomenta, che il pensiero del richiamo del Principe, per certo inconciliabile
con gli ordini da me dati di cacciarlo violentemente dalla Toscana, sembra
piuttosto sopraggiunto in forza dei successi della guerra, e delle
dichiarazioni del Ministro Inglese, e non senza frode, se attendasi
questa sentenza ricavata da una Decisione del 10 marzo 1800! «È vero, che
ne contrapponeva altrettante (proposizioni), che lo dimostravano tutto
diverso: ma oltrechè queste non distruggono quelle, un tale contegno altro non
spiega se non che procurava di stare, con l'arte solita usarsi da chi doppio
ha il cuore, preparato a far giuocare in ogni evento o l'una o l'altra,
nell'atto di gettarsi a quel Partito che avesse trionfato.»
Così veramente
adoperarono molti, signori Giudici, anzi moltissimi impiegati, per cui il Conciliatore,
come altrove ho detto, ebbe ad esclamare: «Che cosa possiamo sperare da quelli
che s'inchinarono a tutti i poteri, che stancarono le anticamere dei Ministri,
e che oggi proclamano svisceratissimi la Repubblica?» Ed io mandava,
come altrove ho avvertito, Dispacci telegrafici a Pisa e a Livorno di questa
sentenza: «Uomini, parte esagerati, parte male intenzionati, jeri codini, hanno spedito in diverse
parti della Toscana per convenire giovedì a Firenze, per costringere il Governo
a dichiarare la Repubblica,» con quello che segue678. Così adoperarono molti, signori Giudici, anzi
moltissimi impiegati, che stavano allora abbracciati allo impiego ferocemente
tanto da disgradarne Ajace Oileo, quando, naufrago, abbrancò lo scoglio679. Se mai venisse fatto a chi tale mi giudica,
voltare gli occhi su la cima dei campanili, vedrà che le banderuole, per istare
bene con tutti i venti, non li contrastano mica, ma gli secondano. Le
ventaruole politiche poi non pure secondano il vento che tira, ma con tanto
abbrivo gli si arrendono agevolissimamente, che, soffiando Gherbino, le miri
trascorrere fino oltre a Greco. Bell'arte invero la mia di conciliarmi il
Partito, che fosse per trionfare, combattendoli tutti! Artifizioso giuoco
quello, per cui vincendo i Repubblicani mi dicono alla ricisa, ch'essi
avrebbero fatto mettermi in carcere680; e vincendo i loro
oppositori, mi ci hanno messo. Non osai io guardare in faccia i Retrogradi e i
Faziosi, e dire loro apertamente: Voi siete iniqui? Certo non parranno
queste le vie più acconcie per apparecchiarseli entrambi benevoli. Non si
ricordano i Giudici che furono giorni in cui la gente, quanto più si sentiva
nera, tanto più procedeva tinta in chermisi da disgradarne le barbe bietole di
agosto, e tutti smaniosi acclamavano la Repubblica? Dov'erano allora gli sviscerati
pel Principato? Se qualcheduno, accostandosi loro, diceva: anche tu sei di
quelli? essi, imitando Pietro, rispondevano tosto: non so quello che tu
dici681. La Repubblica non era
Partito vincitore allora? A che le resistenze, a che gl'indugii? Guardando le
tante bocche che mi schiamazzavano attorno - Repubblica! Repubblica! io
pensai: parte di costoro sono vili propugnatori di quanti danno loro la
pietanza; parte sono ebbri; - aspettiamo che smaltiscano il vino; - parte
finalmente, comecchè onestissimi, per passione travedono: e agli errori, alle
ebbrezze e alla viltà io solo contesi, e volli che il Popolo prima posasse, poi
giudicasse di sè. Nell'8 febbraio trionfò la Repubblica; l'accettai io?
Domando: l'accettai io? - No, la impedii. Dunque in quel giorno io non era per
lei. Se io non impedivo, sarebbe stata, o no, proclamata? Sì, proclamata. Se io
non mi fossi sagrificato, intendetelo bene, o ingratissimi, sagrificato anima e
corpo a tenere il Governo, chi sarebbe salito al potere? Chi? - Rispondete!
Allora lo sapevate, e lo temevate; adesso, che vi credete sicuri, lo avete
dimenticato, e di me vi curate come di un cane morto! E se continuerete a dire
breve incendio sarebbe stato quello, io tornerò a rispondervi: sì, ma sarebbe
bisognato estinguerlo col sangue; sì, ma per ispegnere di fiamma, le cose e le
genti incenerite non si restituiscono.... Voi però, riprendono i Giudici,
nicchiaste, perchè non reputaste la Repubblica sicura; ed io rispondo: se non
la reputai sicura allora, o quando la dovevo credere tale? Se nel giorno del
trionfo si pensasse a quello della sconfitta, io vi ripeto, che l'uomo starebbe
perpetuamente esitante tra il sì e il no: personaggio da commedia. Se i Giudici
miei intendessero politica; se invece di andare a pescare le loro citazioni
nelle Decisioni criminali del 1800, le avessero desunte dalle opinioni degli
uomini di Stato, avrebbero posto mente a queste parole del Generale Cavaignac
riferite nel Monitore francese del 19 gennaio 1851: «In Francia, come
per ogni dove, due cose sono possibili adesso: egli è forza scegliere
Monarchia, o Repubblica.» - (È vero! È vero! Voci da sinistra e da destra.)
- «Chiunque non è per l'una, è per l'altra; e se ciò potesse applicarsi al
passato, direi: quelli che operarono malamente nella Monarchia, apparecchiavano
la Repubblica; e quelli che male si comportarono nella Repubblica,
apparecchiarono la Monarchia.»
Affermando, come
l'Accusa fa, che i miei sforzi si restrinsero a impedire la proclamazione della
Repubblica, finchè il voto universale si pronunziasse, prima di tutto non dice
il vero, perchè molte più pratiche impresi, e fu dimostrato; e quando anche
fosse così, basterebbe; perchè, come vedremo, la elezione di un libero
Parlamento in Inghilterra non solo fu sufficiente a impedire che la Repubblica
s'instituisse, ma instituitala soppresse, restaurando il Principato.
Ora mi urge tenere
proposito stretto della citazione desunta dalla Sentenza criminale del 1800!
Cotesto insulto giaceva da 51 anno deposto sotto la polvere nella obsoleta
armeria criminale, ed a ragione, però che i Giudici nel 1800, anneriti dal fumo
degli uomini arsi vivi nella scelleratissima Reazione del 1799. non si
contentassero a quei tempi condannare, ma insidiavano ancora. Adesso i Giudici
hanno estimato decoroso tôrre dalla armeria criminale cotesto insulto,
forbirlo, e tentare di sfregiarmene il volto.... È facile insultare un uomo
oppresso; più facile insultare un uomo che da ventinove mesi si tiene chiuso in
disonesto carcere; facilissimo insultare un uomo, cui hanno legato e piedi e
mani! - Però vi ha un Tribunale che giudica Giudici e prevenuti, ed è la
Coscienza Pubblica. Giudici del Decreto del 7 gennaio, io vi chiamo davanti a
questa, perchè ella decida se io meritassi lo ignobile oltraggio; se in voi fu
gravità, e, quello che più importa, giustizia, a dirmi improperio.
Francesco Forti,
scrittore meritamente reputato fra noi, nel suo Libro delle Instituzioni
Civili, dimostra la fallacia del sistema forense di citare particole di
Decisioni antiche nelle Decisioni nuove; conciossiachè i raziocinii che vi
occorrono sieno speciali affatto al caso contemplato, nè senza pericolo grande
possano trasportarsi ad un altro. Quasi impossibile è che si trovino due casi
identici; quindi quel curioso e matto gettito di Decisioni antiche, che i
Curiali si avvicendano nel capo, lo indefesso disapplicare delle
Decisioni allegate, e l'opporre Decisione a Decisione; sicchè spesso si è
veduto (materia di riso, e lo doveva essere di pianto) citare la Decisione
medesima per sostenere pro e contro. In Prussia le allegazioni delle
Decisioni vietarono, ed hanno fatto bene. Se questo concetto nelle materie
civili fu rinvenuto giusto, tanto maggiormente si deve reputare tale nelle
criminali, essendovi troppo più importante il subietto, necessaria la
esattezza. Ora il prevenuto del 1800 era egli uomo pubblico o privato? Si trovò
in libertà piena, od agì costretto? Ebbe due interessi da salvare, importanti
entrambi, ma importantissimo l'uno, e l'altro meno? Furono parole le sue, o atti?
Tutto questo s'ignora, e tutto questo era necessario esporre, se si voleva
dimostrare la parità di ragione, e salvare la citazione dalla taccia di
temeraria, per non dire di peggio682.
In politica
quotidianamente avviene, che l'uomo non possa nè deva procedere con la
schiettezza, che neppure la buona morale desidera nei commercii della vita
privata. Di vero, ragionando gli antichi intorno alla buona fede che deve
presiedere ai contratti, consentirono di leggieri in questa sentenza, che il
venditore di un carico di grano non fosse obbligato di palesare al compratore
che altri ne attendeva di Sicilia o di Egitto. Nella diplomazia senza offesa
della morale è mestieri ricorrere a certa dissimulazione persuasa dalla
necessità. Quante volte i successi stanno fuori di noi, indipendenti dal nostro
volere come dal nostro potere, e pel continuo alternare di fortuna si
modificano, o trasformano, agevolmente si comprende che assoluti non ponno
essere i consigli e il linguaggio degli uomini politici. Così di rado avviene,
che alla commissione patente dei negoziatori non si aggiungano istruzioni
segrete, le quali, a seconda dei casi, la estendono, la restringono, o la
mutano. Nelle Storie italiane incontriamo ad ogni piè sospinto lettere in
cifre, le quali per certo dovevano contenere cose diverse dal mandato aperto.
Richelieu, cardinale, sappiamo come dentro le lettere officiali soleva inserire
certe note di proprio pugno scritte, sconosciute perfino ai suoi Segretarii più
intimi; in Inghilterra, l'uso della doppia corrispondenza incominciò sotto la
regina Elisabetta, e credo che tuttavia duri, imperciocchè Pitt la raccomandò
molto non solo per le ragioni allegate, ma ancora perchè, trovandosi i Ministri
per la Costituzione costretti a comunicare gli Atti diplomatici al Parlamento,
non venissero a rendersi palesi le condizioni dei negozii con indiscretezza
somma, e. quello ch'è peggio, con danno del Paese.
Ma poniamo da parte
questi esempii, e adduciamone uno che cade singolarmente a taglio pel caso
nostro. Prima però che mi faccia a discorrerlo con qualche lunghezza, devo
avvertire che, per quello raccontano gli storici, Monk poco si curava delle
libertà della sua Patria, e suo intento era consegnarla in assoluta balía di
Carlo II. Se così fu, come dicono, io non gl'invidio il suo ducato di
Albermarle, nè la contea di Torrington, nè la baronia di Potheridge, e sto
contento al mio carcere. Noto altresì che Monk rovesciò un Governo costituito
nel suo Paese, ingannando per privata comodità: - io impedii che si costituisse
per violenza di Parte, e volli si consultasse il voto libero e pacato del
Popolo, senza badare a me, come si è visto. Monk aveva esercito disciplinato, e
devotissimo ai suoi voleri: - io non avevo armi disciplinate, nè devote. Monk
era uomo da tempo antico avvezzo ai garbugli sanguinosi dei Partiti estremi: -
io dedito agli studii. Egli di provato coraggio su cento campi di battaglia683: - io per professione alieno dalle armi. Dalle
quali cose tutte ricavo ch'egli avrebbe potuto e dovuto mostrarsi più franco di
quello che non fece.
Queste cose avvertite, è
da sapersi come tenendosi Inghilterra a Repubblica, re Carlo II mandasse da
Colonia una lettera nel 12 agosto 1656 al Monk, molto raccomandandosi a lui, e
facendogli grandi profferte, la quale lettera egli spedì difilato al Protettore
Cronvello, per suo governo684!
Morto Cronvello durava
la Repubblica, agitata più che condotta dal lungo Parlamento, pieno di
uomini violenti, e tra loro nemici. A chi considerava nella prima scorza le
cose, pareva la Repubblica non soltanto gagliarda, ma rigogliosa della vita
irrequieta della giovanezza; però i meglio avvisati conoscevano cotesta essere
febbre di parossismo che consuma. «La restaurazione degli Stuardi speravano e
desideravano i Popoli numerosi, anonimi, i quali, se eccettui i momenti
di esaltazione, amano il riposo politico per accudire tranquilli ai commercii
della vita civile685.»
Deposto Riccardo
Cronvello, giudica Hume, Monk concepiva il disegno della restaurazione di Carlo
II686; ma non era piccolo
negozio operarla; difficilissimo poi, senza mettere in fiamme il Paese; e Monk
voleva uscirne vincitore senza sangue. Giorgio Booth nel 1° agosto 1659 prende
le armi nella contea di Chester, col pretesto di ottenere un Parlamento libero,
o almeno il richiamo nel Parlamento lungo dei membri dimessi da
Cronvello: fine vero era la restaurazione di Carlo II. Realisti e Repubblicani
si voltano a Monk. Re Carlo gl'invia Stefano Fox fidato messaggio, con lettere
regie per indurlo a collegarsi col Booth e procedere uniti contro il Parlamento
lungo: ma il Monk riceve tutto chiuso in sè la lettera, non risponde, e lascia
partire sconclusionato il messaggio. Sollecitato dal Colonnello Atkins di
accontarsi col Booth per favorire la causa regia, replica brusco: «io gli
muoverò contro; nello stato nel quale mi trovo non posso farne a meno687.» A questa epoca sembra referirsi l'altra
spedizione fatta da re Carlo, del dottore Niccola Monk al Generale suo fratello,
con nuova lettera autografa per impegnarlo a cessare dalle incertezze. Il
Dottore arriva mentre il Generale stavasi a conferenza con gli ufficiali;
trattenendosi allora il fratello col cappellano Price, uomo di provata fede ed
amicissimo al Re, gli palesa lo scopo della sua missione; al fine, presentatosi
al fratello, dopo gli affettuosi abbracciari, incomincia a scuoprirgli il
trattato. Monk, rompendogli le parole a mezzo, lo interroga se per avventura ne
abbia tenuto discorso con altri che con lui; e udendo come ne avesse favellato
col Cappellano, accomiatollo con Dio senza volerne sapere altro688: «non si fidando» avverte Hume «neppure di un
fratello, dal punto ch'ei conobbe avere egli confidato il segreto a persona a
cui pure lo avrebbe confidato egli stesso689.» Nonostante Monk si
apparecchiava a sostenere il Booth, e già aveva dato gli ordini per mettersi in
cammino, e scritto lettere al Parlamento lungo perchè richiamasse i
membri dimessi, o si sciogliesse convocandone un nuovo; quando, meglio
considerando il negozio, gli parve intempestivo il momento, per la quale cosa
revocati gli ordini, e soppresse le lettere, decise aspettare. Al cappellano
Price, che non rifiniva spronarlo, con mal viso gridò: «Dunque volete rovinare
ogni cosa e farmi perdere il capo sotto la scure690?»
Il giorno successivo arrivava notizia che Booth era stato disfatto, sicchè a
buon fine tornavano le prudenti dimore. Allora nei Repubblicani sorse una
allegrezza smoderata, e i gridi, e i vituperii contro re Carlo andarono a
cielo. Avendo taluno detto in questa occasione alla presenza del Generale, come
i vinti avessero disegnato restaurare Carlo Stuardo, egli riprese: «Io per me
vorrei che il Parlamento promulgasse una legge per impiccare su l'atto chiunque
parlasse soltanto di richiamarlo!» Le divisioni fra i Repubblicani
inasprendosi, Lambert e i compagni costringono il Parlamento a dimettersi dal
Governo, ed eglino stessi lo usurpano sotto nome di Commissione di Sicurezza;
Monk si dichiara a favore del Parlamento lungo, e così arringa i
soldati: «Quanto a me, credo che il mio dovere stia nel sottoporre le milizie
alle autorità civili; e il vostro è difendere il Parlamento, che vi dà la paga,
e gl'impieghi: se però alcuno di voi pensa diversamente, è libero di
abbandonare le bandiere, e andarsene dove meglio gli torna691.»
Monk pubblica lettere
con le quali dichiara avere preso le armi «per la difesa della libertà e dei
privilegii del Parlamento, e per sostenere, contro tutti, i diritti e le libertà
del Popolo;» e, lasciata la Scozia, si muove con lo esercito contro Londra; il
Comitato tratta con lui; egli lo inganna, e si avanza indirizzando lettere al
Municipio di Londra, con istanza caldissima che facesse causa comune col
Parlamento lungo per rivendicarsi dalla tirannide del Comitato militare. Il
Parlamento lungo recupera la sua autorità nel 25 decembre 1659 mercè gli
aiuti di Monk. Così sono varii gli eventi, e fanno forza agli umani disegni,
che Monk, il quale partendo di Scozia si era proposto completare il Parlamento
con la restituzione dei membri dimessi, o abolirlo affatto convocandone uno
nuovo che collo assenso di tutti governasse la nazione, si era trovato adesso a
sostenerlo con l'autorità e con le armi! Non pertanto questo era il suo scopo,
e, malgrado l'operato in contrario, noi lo vediamo affaticarsi a conseguirlo
con tutti i nervi692. Monk accostandosi a
Londra, dopo avere vinto un Partito coll'altro, si dispone a superare il
Parlamento; nella necessità di aumentare cautele, si toglie dal fianco la
moglie, perchè, secondo l'ordinario, ciarliera; e allontana eziandio il
cappellano Price, come quello che non gli pareva abbastanza capace a
dissimulare. Invia Gumble a tenere bene edificato il Parlamento con profferte
di devozione, e per dargli pegno di fedeltà gli fa consegnare una lettera
segreta, con la quale il Municipio di Londra domandava il suo aiuto per
rimettere in Parlamento i membri esclusi, o convocarne uno nuovo libero e
completo693. E si avverta bene che
Monk intendeva fare, e fece appunto come il Municipio lo pregava; qui fu che
dette di una mazza sul capo a certo ufficiale che andava vociferando dintorno:
«Sta a vedere che questo Monk ci ricondurrà Carlo Stuardo.» Al cappellano Price
che, prima di lasciarlo, lo svegliava raccomandandogli il Re, susurrava
sommesso: «Lasciatemi fare, perchè abbastanza sospettano di me.»
Il Parlamento spedisce
verso Monk due commissarii, Scott e Robinson, sotto pretesto di
complimentarlo: ma in sostanza per ispiarne gli andamenti694; e questo fecero ignobilmente, seguendolo da
per tutto, albergando nella medesima casa, e tentando perfino forare i muri per
udire e vedere quello ch'ei facesse o dicesse nella sua stanza: ma il Monk
teneva l'occhio fisso al pennello, e si mostrava loro siffattamente sviscerato
della Repubblica ch'eglino ne scrissero a Londra celebrando il suo zelo pel
Parlamento lungo. Monk giunto in prossimità di Londra domanda che sieno
licenziati i reggimenti rimasti fedeli al Parlamento; per pretesto dava lo
studio di evitare ogni conflitto con le sue milizie: motivo vero era restare
signore assoluto della città; e gli riusciva. I reggimenti congedati dal
Parlamento si ammottinano. Il Popolo, côlto il destro, insorge a tumulto, e
domanda Parlamento libero. Monk sta fermo! - Arrivato in Londra il
Generale è accolto dal Parlamento che intende rovesciare, lo blandisce con ogni
maniera di sommissione. A Ludlow dice: «Dobbiamo vincere e morire per la
Repubblica!» Ad un altro dichiara che, malgrado il suo rispetto pel Parlamento,
non patirà mai che accolga nel suo grembo uno dei membri esclusi.
«Dissipava» scrive il Guizot «i sospetti rinascenti, e con la solennità delle
proteste assopiva le diffidenze più inquiete; sicchè l'ammiraglio Lawson, il
quale altre volte dubitò del Monk, ebbe a dire a Ludlow, nell'uscire di casa
sua: «Il Levita e il sagrificatore sono passati vicino a noi senza soccorrerci;
spero avere incontrato il Sammaritano che ci salverà.»
La città commuovendosi a
tumulto, il Popolo grida: «Parlamento libero! Abbasso il Parlamento lungo!» Il
Municipio ricusa pagare le imposte. La ribellione si fa manifesta. Monk è
chiamato in Parlamento. Il tempo che desiderava è pur giunto; egli ricuserà
andare; scoprendosi, al fine si unirà al Popolo, e, cacciato via il Parlamento,
restaurerà la Monarchia. Niente di questo: parendo a lui che la occasione non
fosse a bastanza matura, va in Parlamento, parteggia co' più arrabbiati,
esagera il bisogno di misure severe, offre reprimere la sommossa, e
malleva la riuscita695. Alle parole tengono
dietro i fatti; nel 9 febbraio 1660 invade la città con lo esercito, abbatte
porte e saracinesche, leva le catene dalle strade, e schianta i piuoli dove le
attaccavano; fa arrestare i Membri più autorevoli del Municipio. «Per questi
accidenti» scrive il Guizot «il Popolo di Londra rimase come percosso da
stupore; quello che vedevano non indovinavano; ormai che cosa dovessero credere
non sapevano; ogni loro idea era sconvolta. È questi, esclamavano, quel
Monk che doveva ricondurre il Re? Egli è un demonio scozzese. Signore! Che cosa
mai avverrà di noi? Vedevansi con terrore arrestare i Municipali
maggiormente diletti, e tradurre prigionieri alla Torre. Ogni resistenza
impedita. Il Popolo spaventato fuggiva per le strade; Londra presentava lo
spettacolo di città presa di assalto. Il Parlamento trionfava, e grato al
benemerito Generale stanziava 50 lire sterline pel suo pranzo. Haslerig andava
gridando: Adesso Giorgio appartiene a noi anima e corpo.»
Se non che il Monk dagli
eventi che si succedevano tolse motivo a conoscere da un lato, come il lungo
Parlamento fosse caduto in discredito, e mancasse di aderenze e di aiuti;
dall'altro, quanto universale e profonda animavversione il Popolo gli portasse;
però, come pilota che gira la ruota del timone, ad un tratto occupa i quartieri
della città, rassicura la moltitudine, si collega col Municipio, e scrive
lettere al Parlamento perchè nel 6 maggio si sciolga, dando luogo a un
Parlamento nuovo e libero: così scandagliata bene la opinione pubblica per una
serie continua di prove personali, la fa compagna delle sue armi; e diventa
arbitro delle sorti d'Inghilterra. Ma non precipita ancora, e, dopo avere
sostenuto impossibile la riammissione dei membri esclusi nel Parlamento, adesso
consiglia armato che vedano aggiustarsi fra loro; appuntate le conferenze fra i
membri del Parlamento in carica e gli esclusi, questi discutono molto e non si
accordano in nulla, troppo essendo gli umori ed i fini diversi. Tentate le vie
della conciliazione e non riuscitegli a bene, Monk delibera più gagliardo
espediente, qual era quello di condurre, senz'altro rispetto, i membri esclusi
a riprendere per forza l'antico posto nel Parlamento; ma ad infievolire la
impressione, intento a schivare resistenza disperata dalla parte dei
vinti, manda fuori un Manifesto nel quale molto si distende contro il
ritorno dello Stuardo, e contro lo Episcopato; parla della necessità di
apparecchiare nuovo Parlamento, e convocarlo pel 20 aprile. Ciò fatto, toglie
in mezzo alle guardie i membri esclusi e gli riconduce a Westminster. Alcuni
Lordi, cogliendo il destro, vollero aprire la Camera alta; Monk prevedendo
cotesto tentativo inopportuno, gli fa cacciare via duramente, onde si tengano
per avvertiti tutti coloro che volessero precipitare le cose, o condurle in
modo diverso da quello ch'egli aveva disegnato.
I Repubblicani, vedendo
riprendere posto a canto di loro gli uomini che avevano cacciato, si commuovono
a maraviglioso furore; alcuni vanno via, altri rimangono, parecchi degli usciti
si ravvisano e tornano. Il Parlamento completato elegge Monk Generale in capo
dello esercito inglese, rende alla città porte e catene, libera di prigione i
Municipali arrestati il 9 febbraio, proroga la convocazione del nuovo
Parlamento al 25 aprile. Monk manda fuori un altro Manifesto nel quale, dopo
aver dimostrata la necessità in cui si era trovato di completare il Parlamento
perchè le imposte si riscuotessero, finisce raccomandando severamente
sorvegliare e accusare in pubblico chiunque macchinasse a favorire il ritorno
di Carlo Stuardo696. Ad Haslerig, che
fattosi a trovare il Monk lo confortava a mantenersi saldo nella causa
repubblicana, questi toltosi il guanto, e posta la sua nella mano di lui,
diceva con sembiante solenne: «Io vi protesto che mi opporrò con tutte le mie
forze alla elevazione di Carlo Stuardo, al governo di un solo, e alla Camera
dei Pari.»
Haslerig e i
Repubblicani più accorti gli oppongono: «Egli è chiaro che qui si tende a richiamare
il Re, e il voto del Parlamento lo dà a sospettare pur troppo. Badate, Monk,
che non vi avvenga come a Stanley, che, per avere restituito il trono a Enrico
VII, n'ebbe in guiderdone la morte: egli è grande delitto presso i re avere
troppo meritato di loro.» Allora gli propongono il regno, ed egli ricusa; gli
danno la regia stanza di Hampton-Court per tenerselo bene edificato, ed ei
ricusa; gli stanziano ventimila lire di sterlini, ed ei se le prende. - I
Repubblicani ricorsero ad un'altra alzata d'ingegno, e fu di fare presentare al
Monk, dai più accesi fra i suoi ufficiali, una dichiarazione perchè la
firmasse, la quale consisteva nell'obbligarsi a costringere il Parlamento onde
decretasse che la Repubblica era la forma definitiva del governo del Paese, e
che verun Parlamento successivo potesse avere abilità di alterarla. Monk, preso
alla sprovvista, si trovò sgomento, e non gli ricorrendo miglior partito propose
aggiornare la firma all'indomani nel Consiglio Generale degli Ufficiali.
Nello intervallo di tempo conferì co' suoi devoti, e la mattina al Consiglio,
invece di firmare il foglio, ammoniti gravemente gli ufficiali esaltati del
proprio dovere, vietava pel seguito di simile sorta assemblee; e notati i più
audaci, statuisce licenziarli alla prima occasione: bene avrebbe potuto,
adoperandovi alquanto di forza, rompere gl'indugii, ma repugnava, alla
indole di lui far capitare male persone alle quali lo legavano vincoli antichi,
e precipitare di crollo ciò che si poteva compiere pacificamente e di quieto.
Molte furono le arti
praticate dal Monk affinchè il Parlamento lungo si sciogliesse, la quale
cosa ottenne nel 16 marzo 1668; prima di separarsi, il Parlamento deliberò che
nessuno ufficiale si accogliesse se prima non approvasse con iscrittura la
guerra impresa contro l'ultimo Re, e che dal nuovo Parlamento si escludessero
gli uomini che avevano impugnato le armi contro il Parlamento lungo; e
Monk lo lasciò fare, anzi, nell'ultima Tornata, egli domandò che abolisse la
Legge su la milizia, perocchè, avendone commessa la organizzazione a mani
sospette, era da temersi che in onta dei buoni Repubblicani si richiamasse
Carlo Stuardo; ed ottenuto il Decreto, nel giorno stesso fece stamparlo e
pubblicarlo.
Il Popolo ad alte grida
acclamava il Re; canzoni realiste si cantavano pubblicamente per le vie; un
tintore cancellava dal piedistallo, che già sorresse la statua di Carlo I, la
iscrizione: exiit tyrannus regum ultimus etc.; e Monk, contento di
secondare segretamente il moto, stava in apparenza così avviluppato nelle sue
ambagi che una segreta spia del Re ebbe a scrivere il 10 marzo al suo signore:
«Monk, in quanto riguarda Re e Lordi, si è scoperto parziale al Parlamento....
l'altro giorno ha detto che verserebbe l'ultima goccia di sangue prima di consentire
il ritorno degli Stuardi in Inghilterra.... stasera però sembrava alquanto
meglio disposto.» I Repubblicani, sempre più agitati, s'ingegnano penetrare gli
arcani consigli di Monk; e côlto alla sprovvista Cristofano suo figliuolo di
sette anni, con domande suggestive e con doni gli fanno confessare avere udito
certa notte suo padre e sua madre, mentre giacevansi in letto, che favellavano
del ritorno del Re. Allora Enrico Martyn, legato di antica amicizia col Monk,
gli va incontro risoluto, e così gli favella: «Orsù via, diteci una volta, che
cosa intendete di fare?» - «Una Repubblica» risponde Monk «io la volli sempre e
la voglio.» - «Sarà» soggiunse Martyn, «ma voi mi avete l'aria di quel tal
sarto campagnuolo che fu incontrato certo giorno con la vanga e la zappa in
ispalla. - Dove ve ne andate? gli domandarono. - Vado a prendere la misura di
un vestito. - Come! con la zappa e con la vanga? - Al giorno d'oggi così si
fa.»
Ora, non che sia di
mestieri al caso nostro, ma per completare il racconto, è da sapersi come il
giorno dopo, nella stanza di Morrice, Giorgio Monk consentisse a ricevere
dalle mani di Giovanni Greenville la lettera di Carlo Stuardo scritta fino dal
21 luglio 1659. Questa lettera diceva: «Io non posso credere che mi vogliate
male: voi non ne avete motivo, e quello che attendo da voi parmi così grande
benefizio pel vostro Paese che io spero che voi non vi ricuserete a farlo.»
Nelle istruzioni del Greenville occorreva questo altro passo, che pose
ugualmente sott'occhio al Generale: «Io vado persuaso che Monk non può serbare
in cuore alcuno mal volere per me; nè egli ha commesso cosa che io non possa
perdonare agevolmente: sta in lui farmi tale un favore del quale io non saprò
ricompensarlo mai come merita.»
Imprese subito le
trattative, furono in breve concluse a questi patti: 1° Oblio generale, tranne
quelli che crederebbe escludere il Parlamento; 2° Garanzia dei beni venduti, e
pagamento del soldo allo esercito; 3° Libertà di coscienza. - Carlo Stuardo
condottosi a Breda di leggieri concesse i patti, e gli avrebbe conceduti
maggiori. Pel 25 aprile fu convocato il nuovo Parlamento, e nel 1° maggio
fissata la deliberazione intorno alla forma di Governo conveniente a
Inghilterra, Scozia, ed Irlanda. - In questo giorno Greenville si presenta
al Consiglio di Stato, e domanda favellare al Monk. Monk avvisato dal
colonnello Birch si accosta alla porta, dove Greenville gli consegna lettere
regie da parteciparsi al Consiglio e allo esercito.
Comecchè la cosa fosse
concertata col Monk, egli finge stupore; ordina con mal piglio a Greenville
aspettasse, e alle guardie lo custodiscano; rientra in Consiglio, che
stupefatto davvero non sapeva a qual partito appigliarsi. Il Birch deluso
giurava al Monk essere ignaro di tutto, e non importava che giurasse; fatto
chiamare dentro il Greenville, e interrogatolo dove avesse ricevuta la lettera
dello Stuardo, risponde: a Breda; - vogliono mandarlo in prigione; il Monk fece
sicurtà per lui, e tutti insieme decisero che la lettera dello Stuardo sarebbe
aperta in pieno Parlamento. Carlo Stuardo fu proclamato Re dal Parlamento e dal
Popolo, con gazzarre, luminarie, e falò, e allegrie altre cotali, che fanno dimenticare
ai guastamestieri di tutti i Governi, come sotto coteste apparenze covi pur
sempre un Partito vinto, ma non abbattuto, che può placarsi e guadagnarsi con
miti consigli, inasprirsi e allargarsi con insensate rigidezze.
«Tanta fu la emulazione
e la impazienza fra Lordi, Comuni e Municipio, a chi sapesse meglio manifestare
la propria gioia e reverenza, che per servirmi delle parole di un nobile
storico (probabilmente Clarendon) riusciva impossibile non domandare con
sorpresa, dove fossero coloro che avevano commesso tanto male, ed impedito il
Re per tanti anni di godere la consolazione e l'appoggio di così ottimi
sudditi. Il Re stesso ebbe a dire più tardi: - Che il torto era suo, se non
aveva preso prima possesso del trono, dacchè trovava tutte le classi tanto
impegnate a promuovere la sua restaurazione697.» Il giorno dopo pare
sempre così; nei giorni avanti cammina diversa la bisogna.
Nel giorno dopo in
Inghilterra fu vista accendersi gara fra Parlamento, Municipio e Borghesi, a
chi più mandava danaro al re Carlo, il quale avevano pure sofferto che per
tanti anni languisse in condizione piuttosto misera, che augusta; e mentre il
Municipio gli stanzia lire diecimila di sterlini, ecco i Borghesi dargliene
sedicimila, e il Parlamento munificentissimo donargliene cinquantamila698. - Nel giorno dopo quel desso che nella Camera
del Parlamento aveva posto le insegne della Repubblica, venuto in furore di
Monarchia, fu visto rabbiosissimamente stracciarle ed arderle699.
Nella regia patente, che
amplissima fu largita al Monk, dopo la esposizione dei beneficii operati da lui
in vantaggio della Inghilterra e del Re, si legge a modo di conclusione: «Hæc
omnia prudentia, ac felicitate summa victor sine sanguine perfecit.»
Veramente questo fu principalissimo scopo, che il Monk si propose nella
Restaurazione, e gli fu bella gloria fra i suoi contemporanei; ed io non
dubito, che gli verrebbe confermata dai posteri, se come si auguravano senza
eccezione avesse ottenuto l'oblio dal Parlamento, e se le lettere private da
lui prodotte nel processo del marchese di Argyle non facessero andare dubbiosa
la Storia se deva cancellare cotesta lode, per le poche vite che permise
spente, o piuttosto lasciarla stare per le moltissime che preservò700.
Facciamo adesso una
supposizione: immaginiamo che poco innanzi delle conferenze e dei patti
stabiliti col Greenville, il Municipio di Londra insieme col Popolo fosse
giunto a rovesciare il Monk, terminando con molta agevolezza, con impeto, e
senza alcuna guarentigia, quello che fra tante difficoltà era stato
apparecchiato e quasi compíto da lui; immaginiamo altresì che spinto prima in
disonesto carcere, fosse stato condotto poi davanti ai miei Giudici; come non
lo avrebbero eglino deriso? «Gli atti di distruzione» gli avrebbero detto «già
non ci darete ad intendere che fossero preparativi di Restaurazione. Le
manifestazioni ostili non comprendiamo come potessero condurre allo scopo che
adesso ci raccontate; dove sono gli atti univoci, non equivoci,
co' quali presumete convincerne? Dove le prove limpidissime? Allo
stringere delle tende, vedendo come fosse impossibile avversare la
Restaurazione, l'avete secondata; invano però, chè tardo pentimento fu questo,
e forse dovuto più che altro alla opinione del signor De Bordeaux ministro di
Francia701. - Con qual fronte
sostenete il disegno di restaurare il Principato, se pure ieri il Popolo
acclamante il Re disperdeste, il Municipio imprigionaste, i Repubblicani con le
vostre armi sovveniste, quelli che si mostravano parziali al Principe di
propria mano percuoteste, - impiccato, chiunque il ritorno dello Stuardo
procacciasse, voleste? I bandi, i proclami, i manifesti per dichiararvi
svisceratissimo al Parlamento lungo pubblicavate forse in benefizio
della Monarchia? Che cosa alla fin fine avreste fatto? Vi sareste così
destreggiato, finchè un Parlamento libero pronunziasse intorno alle forme
governative del Paese... Bello sforzo invero, onde noi dobbiamo mandarvi
assoluto, anzi decretarvi la corona dell'alloro! O non vedevate come tutti noi
con accese voglie stavamo in agonia pel ritorno di Carlo Stuardo! Quali indugii
erano i vostri? Dovevate pure indovinare quello che con saldo cuore vi
diciamo adesso, noi essere vogliosi di mostrare col sangue nostro, con
quello della moglie, dei figli, dei servi e delle serve, il nostro sviscerato
zelo per il diletto capo di Carlo Stuardo. Quanto (e fu poco) operaste, dal
complesso degli atti siamo autorizzati a ritenere, che il faceste per
mantenervi al potere tanto male da voi conseguito, tanto pessimamente
esercitato. Voi intendevate giuocare a partita vinta, e tenere il piede in due
staffe per gittarvi alla Fazione trionfante, secondo che costumano le persone
della vostra qualità, che di mal pelo portano taccata la coda, anzi pure, che
hanno doppio il cuore, come ha detto una sentenza della Camera stellata, ai
tempi di Enrico VIII, oggi fa cento anni.»
Povero Monk, altro che
ducati, e contee, e baronie, e pensioni, e patenti col victor sine sanguine,
se tu avessi avuto la fortuna di nascere nel 1805 in Toscana come sono nato io!
Tu stavi fresco con i miei Giudici, o Giorgio Monk, tu stavi fresco....!
All'opposto, un uomo di
Stato a cui nessuno per certo, comunque da lui per opinioni diverso, vorrà
negare pratica di negozii umani grandissima, e capacità somma di speculare gli
avvenimenti politici, il signor Guizot, così giudica di Giorgio Monk:
«Anche in Inghilterra,
ora sono dugento anni, diceasi la Monarchia scomparsa per sempre, la sola
Repubblica possibile. Monk conobbe questo essere falso. Egli credè alla
Monarchia quando la Repubblica durava, quando tutti intorno a lui, sinceramente
od ipocritamente, ed egli stesso come gli altri, non parlavano che di
Repubblica. E quando, dopo la morte di Cronvello e la caduta di suo figlio
Riccardo, si pose avanti realmente la quistione tra i due governi, Monk si decise
per la Monarchia.
Gli si è negato questo
merito: e Monk, mirando al suo scopo, ha tanto usato ed abusato della
simulazione, che alcuni spiriti prevenuti e superficiali hanno realmente
revocato in dubbio, che la sua risoluzione fosse precoce, e costante.
Ma quando da vicino e profondamente si studiano i fatti ed i documenti, non può
più dubitarsi. Fino dal primo momento Monk si decise; e checchè facesse o
dicesse, egli fu saldo nella sua decisione sempre fino all'ultimo giorno. Nel
dubbio ed esitanza universali, egli avea una opinione decisa ed un partito
preso. Fu questo il primo suo atto di buon senso politico.
Se Monk fu deciso, fu
ancora paziente. Seppe aspettare il buon successo, preparandolo. Uomo di
guerra, mentre il suo mezzo di azione era l'armata, fu costantemente risoluto a
non rinnovare colpi violenti e la guerra civile. Comprese che la
Monarchia, per essere solidamente ristabilita, doveva esserlo pacificamente,
naturalmente, come una necessità nazionale, e un supremo rifugio del Paese.
A dispetto di tutte le impazienze e le diffidenze, seppe contenersi,
dissimulare, indugiare, attendere, fino a che l'evento quasi da sè stesso si
compiesse. E compiutosi l'evento, Monk volle che nelle patenti, che
consacravano la sua fortuna e la gloria, s'inserisse il motto: Victor sine sanguine (vincitore senza
sparger sangue): tanto la sua prudenza era figlia della riflessione e della
volontà. I partigiani della Monarchia eziandio fecero prova di molto
discernimento. Alcuni di loro avevano sostenuto la Rivoluzione, altri l'avevano
combattuta; asprissime guerre si erano fatte fra loro in pro o contro del Re,
di cui volevano porre in trono il figliuolo. Umori, passioni, interessi li
dividevano, e nonostante le discordie loro aggiornarono. Fino al giorno della vittoria,
passioni, genio e interesse ridussero nel supremo intento comune: sottoposero
le preferenze particolari alla necessità di tutti; e questa è pietra di
paragone vera del giudizio politico dei Partiti.
E fecero anche di più i
promotori della Monarchia: confidarono la esecuzione dei loro disegni nelle
mani di uomo che sospettavano, ed avevano ragione di sospettare. Monk aveva
militato pel Re, per la Rivoluzione, per la Repubblica, per Cronvello e pel
Parlamento; egli operava sovente, e favellava in varie guise, non pure diverse,
ma contrarie fra loro: simulava con risoluta franchezza da sgomentare i più
intimi. I partigiani della Monarchia stavano sul conto suo pieni di dubbio, e
d'inquietudine; dalla speranza facevano trapasso alla paura, dalla luce alle
tenebre: ma nè per isperanza, nè per paura, nè per desiderio, nè per le ambagi
del Monk, forviarono. Monk somministrava a un punto, e imponeva la norma del
come si avessero a governare; però tutto sommando avevano maggiori motivi di
confidare che per diffidare.... non si commisero ciecamente in sua balía, ma lo
secondarono con discrezione, lo attirarono senza metterlo a cimento, docili ai
suoi consigli, vigili ma tranquilli dietro a lui come a capo eletto,
imperciocchè tali imprese abbisognano di un capo, nè vi sia capo tranne quello,
che, sostenendolo, lasciamo operare702.»
Ascoltiamo un altro
Giudice, David Hume, solenne storico, il quale, se non sedè Ministro nei
consigli della Corona, durante la sua vita fece professione di politica, e
tenne carica di diplomatico. «Accorda meglio alla ragione, e alla schiettezza,
ritenere, che Monk appena mosse di Scozia nutrisse il disegno di ristabilire il
Re. Nè qualunque obiezione si volesse dedurre dallo aver egli tutto taciuto,
perfino allo stesso Carlo, può essere tenuta in qualche conto, allorquando si
rifletta, che Monk era di natura riservato; che le sue circostanze richiedevano
dissimulazione; ch'egli sapeva il Re circondato da traditori e da spie; che
insomma sarebbe durezza interpretare in discredito della probità del Monk
una condotta, che dovrebbe anzi sublimare in noi la idea che ci formiamo della
sua prudenza.» Così a pag. 431 del Cap. 62 della Storia d'Inghilterra,
e poco oltre a pag. 442: «Malgrado questi passi, che muovevansi verso la
restaurazione della Monarchia, il Monk proseguiva a mostrarsi caldo partigiano
della Repubblica, nè aveva peranco consentito ad aprire pratiche col Re.
Convocare un Parlamento libero, e restituire sul trono la famiglia regia, erano
in quello stato di cose due provvedimenti per necessità connessi fra loro. - Nè
era tenuto in conto di poca sincerità il silenzio da lui osservato nel
principio della impresa, dacchè ei si mantenne riservato del pari nel tempo in
cui, secondo i dettami del senso comune, chiaro appariva che non poteva
nutrire altro disegno.»
Nel Capitolo 65 poi il
dabbene Hume, riportando in nota la notizia della morte di Giorgio Monk, non si
può trattenere di spendere altre parole per giustificare la dissimulazione di
lui. «È per verità una singolare prova della strana possanza dello spirito di
Parte, quella che la malevolenza debba perseguitare la memoria di un signore il
cui tenore di vita non andò mai soggetto a censura, e che, col ristaurare
l'antico, legittimo e libero governo ne' tre Regni, che si trovavano immersi
nella più rovinosa anarchia, fu certamente fra gli abitanti di queste isole
quegli che, dal principio di quei tempi in poi, più d'ogni altro rendesse
servigii durevoli ed essenziali alla patria. Neppure i mezzi, onde si valse per
condurre a fine sì grande impresa, vanno soggetti a grave sindacato; giacchè
appena è biasimevole la dissimulazione ch'ei seppe per qualche tempo tenere, e
la quale, nel caso suo, era assolutamente necessaria. Ei non godeva la
confidenza di quel bifronte, sedicente ed usurpatore Parlamento, cui balzò di
sgabello; perciò non poteva tradirlo. Negò persino di spingere una tale
dissimulazione sino a prestare il giuramento d'abiurare il Re. Nullameno
confesso che il reverendo dottor Douglas mi ha mostrato una lettera, trovata
nelle carte di Clarendon, tutta di pugno di Monk, e diretta a sir Arturo
Haslerig, che contiene le più calde, e quindi, nel cuor suo, le più false
proteste di zelo in favore della Repubblica. Per verità, duole assai che un
così degno e schietto uomo debba una volta essersi trovato nella necessità di
spingere cotanto innanzi la dissimulazione. Il casato de' Monk s'estinse col
figlio del Generale.»
Ecco pertanto come
uomini di Stato e politici solenni giudicarono di Giorgio Monk, lo esempio del
quale mi piacque con lunghezza riferire, non già perchè mi attagli, parendomi
le sue dissimulazioni troppe, e troppo profonde: onde mi riesce difficile a
credere, che fossero tutte costrette dalla necessità, e qualcheduna non ne
usasse per compiacere al suo genio.
Ancora, (e non importa
che ne faccia protesta, perchè tutto il mondo lo conosce a prova) a operare
come feci mi mosse non cupidità di comodi privati, bensì il rispetto che
professai sempre al voto, che mi parve ed era universale nel 1849 nei miei
compatriotti; e lo amore di figlio che porto al mio diletto Paese mi persuase a
procurargli il maggiore bene che per me si potesse, quantunque con gravissimo
carico mio; onde io spero con troppo migliore ragione meritarmi il nome di onesto, che pure tributarono i contemporanei
al Soldato inglese: chè se nel naufragio della mia vita mi sarà concesso uscire
alla riva sopra questa tavola sola, e me lo assentirà la benevolenza degli
uomini probi, ciò recherà qualche conforto ai miei lunghi, atroci e non
meritati travagli.
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