XXX.
I giorni 11, 12 e 13
aprile 1849.
Io mi era tratto dal
cuore lo stile del quale lo hanno trafitto, per iscrivere una storia di
tradimento con ferro grondante di sangue... Ma un fiotto di voci scellerate mi percosse
fino nel profondo del mio carcere, e mi avvertì come, - nella guisa stessa che
i selvaggi della isola di Giava, incisa la scorza dell'albero Upas, lo
circondano cupidi, pure aspettando che ne coli il visco velenoso per intingere
in quello le freccie mortalissime, - una torma di lupi dalla faccia umana
stesse con le orecchie incollate a queste mura, per attrappare al varco un
grido di dolore, uno accento d'ira, per mescolarlo nel fiele di cui contristano
quotidianamente con effemeridi infami la veneranda Patria: allora ruppi le
carte e le gittai ludibrio dei venti. Io parlerò sommesso, - io narrerò pacato;
- e voi che leggete, pensate e dite se mai vedeste affanno pari allo affanno
mio.
Prima però della mia, udite
la storia di questi giorni composta dal Decreto del giugno 1850, riveduta e
corretta dal Decreto del 7 gennaio 1851, e dall'Atto di Accusa.
«L'ora del riscatto era
suonata (Il Decreto del 7 gennaio anch'egli pone: l'ora del riscatto era
suonata). Il Popolo Fiorentino disperde gl'incomposti gruppi di armati (Il
Decreto del 7 gennaio aggiunge soverchianti), che imponevano alla città
con bruttezza di modi e di costumi. Nel giorno 12 restaurava la
Monarchia, alla quale era rimasto in mezzo alla tristezza dei tempi fedele
(Il Decreto del 7 gennaio aggiunge: costantemente. L'Atto di Accusa
dice, che il Popolo ravvivò gli antichi sensi di fede). - In faccia a
questo moto unanime, risoluto, evidente nel suo scopo, la restaurazione del
Principe (Il Decreto del 7 gennaio muta con le parole infallibilmente
diretto), non potevano concepirsi mali, che non avvennero; il
Guerrazzi richiama nella notte dell'11 la Guardia Municipale per opporsi
alle mene, ei diceva, diaboliche dei retrogradi, e dava ordini
(che non furono eseguiti per evitare la effusione del sangue e la guerra
civile), nei termini che appresso:
«Firenze, 12 aprile. -
Basetti, prendi il comando della Municipale. Fuori in piazza a difendere
l'Assemblea e la Patria, e la Libertà, e il tuo amico Guerrazzi.» E più tardi:
«In Piazza vi sono i Veliti e la Guardia Nazionale, entra la Cavalleria e
l'Artiglieria; esca la Municipale, o si cuopra di vergogna.» - E tali furono le
insistenze, riuscite a vuoto, mosse al Colonnello Tommi, per trasportare le
artiglierie in piazza, e al Colonnello Diana d'intimare il Popolo e caricarlo,
per cui si compì la Restaurazione pacifica e senza sangue.
Nè qui si trattiene la
opposizione del Guerrazzi (Il Decreto del 7 gennaio aggiunge: per contrariare
l'avvenuta Restaurazione), perchè ad alcuni Membri recatisi
all'Assemblea per invitarla a sciogliersi (L'Atto di Accusa aggiunge: e
intimarle che non si rendesse opponente alla già decretata e incoata
Restaurazione) egli dichiarò ch'essi avevano operato una vera
Rivoluzione, e minacciò prima, poi intimò loro l'arresto.»
Il Decreto del 7 gennaio
e l'Atto di Accusa lasciano lo intimò, ma questo secondo aggiunge: «E si
fu dopo tutto questo, che il Guerrazzi si mostrò più docile e pieghevole alla
Restaurazione stessa, suggerì dei temperamenti, non secondati, e si esibì di
recarsi a Livorno onde maneggiarsi perchè vi fosse accettata.»
Quanto questo racconto
corrisponda al vero, adesso vedremo.
Erano in Firenze nel
giorno 11 febbraio tre colonne di Livornesi. La prima condotta dal Guarducci. Questa
stanziò un tempo a Pistoia, amorevolmente accolta dal Popolo. Ottime
informazioni ci venivano di lei. Nel Ministero della Guerra potranno trovarsi.
Fu chiamata di là per inviarla nel contado aretino: andò, ma credo non passasse
Montevarchi. Il signor Romanelli avvisò irregolare il procedere dei militi, gli
revocassimo; poco dopo mandava diverso rapporto: essere stato male istruito, i
militi non dare luogo a richiamo; ma siccome la gente gli era di troppo, ed
egli si augurava venire a capo della sua commissione per vie conciliatorie,
così insisteva perchè fossero rivocati. Guarducci ebbe ordine tornarsi alle
stanze di Pistoia; giunto a Firenze per trasportarvisi con i cariaggi della
Strada Maria Antonia, prese quartiere al convento di Santo Spirito, onde
ristorarsi del cammino. Il maggiore Guarducci espose lo stato miserabilissimo
delle sue genti: mancare di cappotti, di vesti, di scarpe, di tutto. Il
Ministro Manganaro propose passarle in rassegna, ed io l'accompagnai. Veramente
noi le trovammo in pessimo arnese. Il Ministro osservò non essere cotesta
forma, assisa, nè armamento da soldato; restassero per essere vestite e armate
convenientemente. Esse rimasero, e questo serva a raddrizzare ciò che fu
detto erroneamente di loro, che repugnassero a partire, e perfidamente dato ad
intendere al Popolo, che io le avessi chiamate a Firenze a pravo scopo.
La seconda colonna
composta di poca gente, guidata da Cercignani e Toccafondi, albergava da
qualche tempo in Borgo Ognissanti; la più parte Civici.
La terza era di
Volontarii disarmati, e furono messi in Fortezza di San Giovanni Battista.
Intorno a questa è da
dirsi. Alla chiamata della difesa della Patria erano accorsi circa mille
Giovani dalla provincia. Per cura principalmente del Capitano Montemerli in
poco più di 15 giorni, secondandolo altri egregi Ufficiali, si resero idonei ai
più complicati movimenti militari. Instruiti a dovere, erano incamminati al
campo. Si offersero allora mille altri circa Giovani livornesi; il Ministro
della Guerra pensò surrogarli nella Fortezza di San Giovanni Battista ai
partiti, affinchè presto s'instruissero, e pronti, secondo i bisogni della
Patria, si avviassero ai confini: disegnò gl'instruttori e gli Ufficiali; non
gli armò, perchè non ebbero tempo ad ammaestrarsi neppure nei movimenti che si
fanno senz'armi; e non furono mai armati703.
E questo ancora risponda
alla calunnia, che fossero stati raccolti armati per soverchiare il Popolo di
Firenze.
Bene altre volte erano venuti militi da Livorno quaggiù, e gli accoglievano
festosi; anzi, come si è visto certa volta, giunti di notte, comecchè fosse
tardi, erano ricevuti al chiarore di torcie, e al suono di bande.
Ora secondo i rapporti
che ci venivano, niente era da dirsi della colonna Guarducci, e meno degli
altri raccolti in Castello. Quelli di Borgo Ognissanti commisero parecchi
trascorsi di cui fanno fede i Rapporti delle Delegazioni. Mi riferisco a
cotesti; io credo potermi rammentare si trattasse di qualche baruffa in Via
Gora a cagione di femmine. Non conosco la strada, nè le persone che vi abitano;
però mi assicurarono, che colà si riducono donne le quali non godono fama di
castissime in Firenze. Che se poi la informazione si trovasse essere falsa, io
protesto solennemente che non intendo oltraggiare la fama delle donne di Via
Gora, e mi unisco alla stima in che le tiene l'Accusa704. Ma caste o no, le donne, quando tirano pei
fatti loro, convengo di leggieri che si abbiano a rispettare. Però devo
aggiungere, riportandomi sempre ai Rapporti delle Delegazioni, che della
medesima specie baruffe erano state commesse, in tempo assai remoto, dai militi
albergati all'Uccello, senza che avessero sèguito alcuno, tranne il castigo,
che in simili casi sogliono applicare ai trasgressori. Io vorrei un po' sapere,
se tutti i soldati appartenenti a milizie ordinatissime, e sottoposte a
disciplina piuttosto acerba che dura, si sieno astenuti sempre da procedere
brutali con le femmine di partito, e se abbiano puntualmente pagato tutto il
vino che si hanno bevuto; e, avendo commesso queste ed altre taccherelle che si
tacciono per Io migliore, siasi detto di coteste milizie che la città
deturpassero con la bruttezza dei modi e dei costumi! La sera del 10 aprile
1849 mi avvisarono essere sorto tumulto a Porta a Prato: andai, e trovai che un
sergente e un soldato della compagnia Cercignani avevano voluto
forzare la consegna di non uscire dalla città in cotesta ora; erano stati
arrestati: mantenni l'arresto, e ripresi severamente il sergente, che, invece
di dare esempio della disciplina, pel primo la manometteva. Di lì recatomi alla
Porticciuola, osservai per buon tratto di Via della Scala rovesciarsi in città
una frotta di gente armata di grossi bastoni, e udii ancora uno di quella
imprecare al mio nome.
Donde muoveva? Chi la
inviava? Chi le labbra e l'anime comprava per dirmi: morte? Come, e
perchè la gente di contado mostravasi tanto tenera delle offese di cui i
cittadini si risentivano sì poco? Io so chi la spingeva, e chi la comprava, e
non merita memoria. Per questo e per altri indizii sospettando fosservi uomini
indettati ad attaccare briga, e con intento scelleratissìmo aizzare la gente a
guerra fraterna, come pur troppo vi erano, fu reputato il meglio sgombrare la
città dei militi livornesi. A questo scopo fino dal giorno 9 aprile, con
lettera confidenziale al Ministro della Guerra, commisi ordinasse al Guarducci
partisse incontanente per Pistoia; colà avrebbe trovato le cose necessarie:
agli altri sarebbesi provveduto subito dopo. Il Guarducci verso sera nel giorno
11 aprile con la sua colonna s'incamminava alla Strada ferrata Maria Antonia.
Percorsa quasi tutta la città, sboccando per via degli Avelli, ormai era
arrivata alla Stazione.
Essa partiva, obbedendo
agli ordini ricevuti, sicchè bisogna convenire che perduta opera era quella di
disperderla; bastava lasciarla andare. O che l'Accusa, per via di figure
rettoriche tolte in prestito dalla Italia Rossa, vuole dare ad intendere
che lo sfondo di un uscio aperto equivalga alla presa di Belgrado? Qui accadde
il conflitto detestabile. Se fossero i Livornesi provocati o provocatori non so
di certo; solo rammento che i rapporti pervenutimi nella notte chiarivano, come
una mano di ragazzi, seguitati da parecchi uomini, gli avessero insultati a
parole, ed inseguiti co' fatti. Chi primo fu ad usare l'arme nella infame
battaglia? Questo, come cosa di obbrobrio eterno alla Patria, ogni uomo onesto
deve aborrire di raccontarlo, ed io non lo dico; però non lo ignoro. Intanto mi
pervenne avviso del fatto; e quantunque io non lo credessi grave, pure asceso
in carrozza condussi meco il Colonnello Vincenzo Manteri per vigilare da
me stesso. Quando udii lo scoppio dei moschetti mi prese ribrezzo. Arrivato a
certa strada, di cui ignoro il nome, mi occorse uno squadrone di Cavalleria,
condotto dal Maggiore Diana, che stava a ridosso dietro un casamento: solo
l'Ufficiale Capanna tentava imboccare nella Via dell'Amore, comunemente
nota col nome di Via dei Cartelloni, ma il cavallo aombrato non glielo
concedeva. A me pareva che in quel momento, nè il luogo, nè gli atti fossero
convenevoli a soldati, e non rimasi da muoverne qualche risentita parola al
Maggiore; poi fatto scendere un Dragone da cavallo vi salii sopra, intimando ai
soldati di seguitarmi. Così mi persuase il dovere, e così senza badare ad altro
io feci. A mezzo di questa via certo uomo da una porta mi trasse un colpo di
fuoco addosso, e certo non mi parve cotesta cosa da farsi in Via dello Amore;
ma (come a Dio piacque) rimasto illeso, attesi ad affrettarmi. Arrivato nella
Piazza Vecchia vidi alcuni Livornesi inferociti, sciolti a modo di Bersaglieri,
sparare nella direzione della Piazza Nuova lungo la Chiesa di Santa Maria
Novella; tre o quattro giacevano feriti; un altro, mi pare, soldato, e un
vecchio, lo furono accanto a me. Le fucilate dalla parte dei cittadini venivano
dalle finestre, rade ma aggiustate; una ne fu tratta da certa casa allora non
finita, prossima allo ingresso della Stazione; però che levando gli occhi
vedessi la fumata spandersi fuori della finestra. Scesi da cavallo per ordinare
che cessassero l'orribile guerra, e siccome non volevano obbedire presi a
strappare loro le armi di mano: uno poi, così si mostrava imbestialito, fu
mestieri prendere in quattro per trasportarlo alla Stazione. Resi altrove
meritata lode, e qui la ripeto, al signor Janin e a tale altro signore che mi
si disse americano, i quali per amore di umanità standomi al fianco secondarono
i miei sforzi; nè, in omaggio del vero, devo commendare meno il Maggiore
Guarducci, che vedendo i soldati inobbedienti a cessare dal fuoco gittò via lo
squadrone, protestando con accese parole non volerli più comandare. - In questo
momento vennero a dirmi alcuni cittadini, avere arrestato l'uomo che aveva
tratto contro di me nella Via dei Cartelloni; e mi presentarono uno stocco che
gli avevano tolto di mano: povero arnese, fatto di un fioretto appuntato dentro
a un finocchio delle Indie; ordinai lasciassero l'uomo in libertà, e gli
rendessero lo stocco; solo gli domandassero in che cosa l'avessi offeso. Dentro
la Stazione trovai altri feriti, aiutai a riporli dentro ai carri, mi sottrassi
fuggendo alle istanze di andare seco loro, nè quinci mi mossi, finchè io non
gli vidi partiti. Il Dottor Morosi, il Chiarini, ed altri moltissimi, possono
attestarne.
E questo ancora valga a
chiarire come sia erroneo affermare, che il Popolo disperdesse i gruppi armati
e soverchianti. La quasi totalità della colonna Guarducci era assettata nei
cariaggi, imprecava ai rimasti, voleva partire senza loro; i combattenti, se
non erano venti, a trenta non arrivavano, i quali dagli egregi uomini
rammentati sopra, e dai compagni stessi furono strappati a forza dalla Piazza,
e a forza rimessi dentro alla Stazione. Però fra tutti i militi, e segnatamente presso
coloro che piangevano detestando lo scontro scellerato, e se n'erano astenuti,
trovai comune la opinione, che una gente iniqua avesse tramata la insidia per
ispingere al sangue fratelli contro fratelli; e così su l'anima mia ho creduto,
e credo che fosse.
Allora mi referirono che
il Generale Zannetti avviluppato in altra strada prossima si trovava a mal
partito. Rimontai a cavallo, e seguitato dai Dragoni mi diressi in Piazza Nuova
di Santa Maria Novella; la Civica si aperse per lasciarmi passare, ma presto
conobbi non essere possibile entrare a cavallo nella Via de' Banchi dove stava
il Generale Zannetti, perchè, riselciandola allora, copia di pietre nuove e
vecchie ne ingombrava lo sbocco. Qui incontrai uno stuolo di Popolo armato di
grossi bastoni fermo su per le pietre ammonticchiate; e mentre io mi
approssimava mi furono tratti due sassi da un medesimo uomo giallo, e
pessimamente in arnese; però un sasso solo mi colse fra il petto e la spalla
destra. Io mi accostai sempre più, esclamando: A me? E il plebeo: Sì a
te; ed io di nuovo avanzando: A me? Il plebeo scappò mutolo
appiattandosi dietro ai compagni. Chi sa quanti Alberi della Libertà aveva
piantato costui! Intanto seppi che il Generale Zannetti non correva più
rischio. La Guardia Nazionale che mi stava attorno mi si dimostrava amorevole
oltremodo, e sentivo ad ogni passo dirmi proprio così: «A lei vogliamo bene;
ella è un galantuomo davvero, ma mandi via i Livornesi.» Ed io rispondevo: «Sì,
avete ragione, e subito.» Con senso di gratitudine parimente rammento, come non
mancasse taluno dei Nazionali che precorrendo e a lato mi sgombrasse il
cammino, e fidata scorta fino alla Via degli Avelli mi facesse.
E premuroso che i
Livornesi tutti, anche quelli che venuti per istruirsi ed armarsi avevano
stanza nel Castello di San Giovanbattista, più presto che si potesse se ne
andassero, mi vi condussi io stesso, e persuasi la gente di ridursi
immediatamente a casa. Certo, parve duro a costoro, dopo averla abbandonata per
militare alla frontiera, ritornarvi così subito a guisa di scomunicati; ma alle
mie esortazioni si arresero, se non che domandavano gli schioppi; però anche
questi con molte ragioni ricusaronsi; e, se io non erro, il Colonnello Tommi mi
fu assai efficace aiutatore nella bisogna del rimandare i Volontarii disarmati
a Livorno. Per questo modo dopo avere ordinato i carri della Strada ferrata, ed
accertata la partenza, lasciai il Castello insieme col Capitano Montemerli e il
signor Chiarini Segretario.
Prima però che per me la
Fortezza si abbandonasse, ecco comparirmi davanti i signori Conte Digny e
Avvocato Brocchi, i quali, dopo avermi con oneste parole commendato sì per
quello che avevo fatto, sì per quello avevo disposto si facesse, mi
significavano come la città non potesse posare tranquilla, finchè non avesse
sicurezza che da Livorno non fosse per muoversi Popolo armato contro Firenze:
questa voce sparsa nella città, e creduta, tenere agitati gli animi dei
cittadini a stupenda irritazione; studiassi anche qui di trovare modo a sedare.
Negando che simile motivo potesse accadere senza mio ordine, o almeno a mia
insaputa, essi fervorosamente instarono onde io per via telegrafica, ad ogni
buon fine, ordinassi che nessuno da Livorno si muovesse; e questo feci con
volenteroso animo, aggiungendo: che dove per sorte Volontarii si trovassero per
via, subito indietro si richiamassero; - scritto il Dispaccio alla presenza di
moltissima gente, lo consegnai al signor Conte Digny, il quale disse correre
col fido Brocchi alla Stazione di Livorno per ispedirlo.
E questo risponda
all'accusa stupida, che io mi accingessi alle difese estreme. Veramente chi così
intende non provoca la partenza di milleseicento Giovani, non li toglie da un
Castello provveduto in copia di armi e di cannoni; ma qui dentro gli aduna, gli
arma, e poi minaccia. Ma ormai a queste perfidie non crede più neanche la plebe
di Firenze, e deh! non mi togliete il conforto della fiducia, che il Popolo
fiorentino generosamente si penta di averle creduto un momento!
Pensai condurmi allo
Spedale di Santa Maria Nuova per visitare i feriti, e ci giungemmo davanti; ma
cambiai consiglio, perchè veramente, fra le angoscie dell'animo e del corpo, io
era come immemore di me. Avevo appena riposato il capo, che vennero a
significarmi (e penso che fossero Guardie Nazionali di presidio al Palazzo)
come un capannello di Popolo accennasse atterrare l'Albero della Libertà in
Piazza, e a domandarmi che cosa dovessero fare; ebbero in risposta: «Il
Popolo lo ha alzato, il Popolo lo atterri.»
Qui sorge l'Accusa, e
rampogna come diretti a combattere la Restaurazione gli apparecchi ordinati
durante la notte dell'11 al 12 aprile 1849. - Prima di tutto ella dissimula i
Livornesi, non dispersi, ch'è falsità, sibbene da me rimandati a casa;
inoltre, nemmeno si studia ad onestare le sue contradizioni, imperciocchè
avendo concesso prima, che, quantunque tardi, io mi fossi mostrato propenso
alla Restaurazione, quando per le sventure della guerra considerava la tornata
del Principe possibile, ad un tratto mutato consiglio, pretende che io l'abbia
all'ultimo avversata, quando il moto impresso agli avvenimenti la faceva
inevitabile. E così non solo mi trovo accusato di traditore dall'Accusa,
non pure qualificato da lei di doppio cuore, non pure convertito in donna;
chè adesso attende a dimostrarmi anche matto...
O pazïenza, che tanto
sostieni!
Ciò nasce dalla insania
di ritenere come diretto alla Restaurazione qualsivoglia atto di reazione e di
anarchia; e questo è torto grande, e, a parere mio, ingiuria manifesta alla
dignità del Paese e del Principato. - Quando, tolto pretesto dalla persona del
Principe o dalla forma del Governo, le vendette private fiutano l'aria come
segugi per conoscere s'è il tempo di lacerare, - la calunnia e lo spionaggio
tendono trabocchetti agli ufficiali per iscorticarli degl'impieghi, e gli
ufficiali minacciati per conservarli si mostrano pronti a vendere trenta Cristi
per un danaro solo, - l'astio codardo si affaccia all'uscio socchiuso, celando
dietro la schiena la mano armata di stiletto, - la mediocrità velenosa si
apparecchia a fare scontare altrui il martirio di sentirsi nulla, - il
fanatismo rinfresca la sua fiaccola con la pece e coll'olio, - e la plebe
gallonata o cenciosa, strascinandosi alla coda chi presumeva starle alla testa,
stende le mani ladre od omicide: - cotesta è reazione.
Il Conciliatore ci ammoniva, come questo motivo sarebbe stato Restaurazione
popolare di libertà, non Reazione, facendo fede così quanto l'una
dall'altra differenziasse; ma quando favellò in simile sentenza il Conciliatore?
Il giorno 13 aprile; e sta bene, ed io concedo volentieri, che gli uomini del Conciliatore
in quel giorno potessero e dovessero credere così. Nella notte dell'11 al 12, e
per la massima parte della mattina del 12 aprile poteva, all'opposto, e doveva
temersi, che o tutte o la massima parte delle infamie che compongono la reazione sarebbonsi vedute. L'Accusa,
confondendo i tempi, da per sè stessa si confuta: invero ritiene in tutti i
suoi Documenti, come nel giorno 12 aprile soltanto si trattasse di
Restaurazione; differiscono poi nello indicare in quale ora del 12 questo
successo si compisse; chè il Decreto del 7 gennaio, sconsigliato quanto
intemperante, lo dichiara compíto allorchè i Membri del Municipio vennero
nella Sala delle Conferenze dell'Assemblea. - e la Requisitoria in quel punto
lo dice incoato soltanto, e questa sentenza troviamo essere vera. Dalle
quali cose apparisce, che i provvedimenti presi nella notte dell'11 al 12
aprile, e nello stesso giorno fino allo apparire dei Membri del Municipio nella
Sala delle Conferenze, non potevano contrastare alla opera della Restaurazione,
come quella che non era per anche iniziata. I casi del giorno 11 aprile ebbero
indole di tumulto popolare suscitato dal conflitto co' Livornesi in Piazza
Vecchia; fin lì non ispiega il carattere politico che nel giorno susseguente
gli impressero; nessuno lo conduce, o se ne mostra capo. Nè temevo soltanto la
reazione in Firenze, bensì anche a Livorno, e altrove, e la temevo come cagione
di guerra civile, onde io mi mostrai solertissimo a prevenirla da per tutto705. - Però il Guerrazzi non doveva supporre mai,
aggiunge l'Accusa, che fossero per nascere scandali, e che tutto si sarebbe
composto in santissima pace. - Davvero! E dei Livornesi ch'erano rimasti in
città non mi dovevo prendere cura io? Non sono uomini essi? E mi venivano
informando parecchi trovarsi nascosti nella Chiesa di S. Maria Novella, nè
sapevo che cosa fosse avvenuto di quelli stanziati in Borgo Ognissanti.
L'Accusa insiste dicendo: - non v'era mestieri straordinarii provvedimenti;
sarebbe bastata la Guardia Nazionale. - Domando con ribrezzo licenza di
sollevare un lembo del panno insanguinato, che cuopre quel giorno maledetto....
non vi spaventate.... lo lascio cadere subito.... e perdonatemi ancora, -
perchè, vedete, io sono sforzato a difendermi da un'Accusa, che mi rugge
d'intorno. Presso il canto al Mondragone in via dei Banchi era allora, e forse
havvi anche adesso, una bottega di Vendita di Tabacco; colà, nella sera dell'11
aprile, si rifugiarono tre Livornesi perseguiti da uno stuolo di Veliti, che li
chiamava a morte. Zannetti, Generale della Guardia Civica, ordinava
lasciasserli stare; vedendo come poco frutto facessero i comandi, pregò supplichevole;
lo insultarono, lo ributtarono, ed egli ebbe a fuggirsi via, inorridito, da un
luogo, che rimarrà perpetuamente infame per la strage di tre uomini operata a
sangue freddo. Il Colonnello Emilio Nespoli, e Paolo Feroni Capitano, a stento
salvarono, riparandolo nel Palazzo Riccardi, un giovinetto livornese, che la
plebe indracata voleva finire.... Di nuovo scongiuro perdono, e calo il panno.
- Quale alba promettesse cotesta orribile notte, lascio che quanti leggono
considerino! Onde maturamente esaminando la scrittura dei Giudici ho, per onore
della umanità, creduto e credo, che quando essi scrissero le parole: in
faccia a questo moto unanime, risoluto, evidente nel suo scopo, la
Restaurazione del Principe, non potevano concepirsi mali, che non avvennero; il
Guerrazzi richiama nella notte dell'11 la Guardia Municipale per opporla alle
mene, egli diceva, diaboliche dei retrogradi, - questi ed altri casi
ignorassero: se così non fosse, dovrei deporre sgomento la penna, e piangere su
lo abisso di miseria, che opprime la nostra Patria.... Obbrobrio! - Il Ministro
dello Interno ordinò la Guardia alle Porte si raddoppiasse; se i campagnoli vi
si presentassero in frotta, si chiudessero; grosse pattuglie la città
perlustrassero. Il Ministro della Guerra non mancò neppure egli di apprestare
opportuni ripari per la difesa della pubblica salute. Nella notte vennero a
rammentarmi importare grandemente la Guardia Municipale si richiamasse, ed io
ordinai il ritorno di cotesta milizia, come quella che per suo speciale istituto
è preposta alla tutela della pubblica e privata sicurezza. Dove io nella
mia mente per diaboliche mene avessi inteso il motivo del giorno successivo
tendente alla Restaurazione, ed avessi voluto contrastarlo, o come immagina
l'Accusa, che mi sarei disarmato di 1600 e più Volontarii Livornesi? Quando
l'Accusa ne dimostrerà che i Capitani, licenziando i soldati, si apparecchiano
alla battaglia, noi dal nostro canto ci persuaderemo di quello che ci vuole
dare ad intendere. Nè questo è tutto; così meno iniqui mi procedessero gli
uomini, come mi si mostra il cielo propizio; chè dalle carte medesime raccolte
dall'Accusa per offendermi mi viene somministrato argomento di difesa; e di
vero, se io durante la notte dell'11 al 12 avessi creduto, che il motivo del
giorno 12 per la Restaurazione fosse la mena diabolica che disegnavo prevenire
o reprimere, mi si ha a concedere ancora, che delle Guardie Municipali avrei
adunato in Firenze il maggiore numero che per me si potesse. Ma no: appunto
perchè presagivo d'indole prava i moti temuti, e quindi ristretta, io giudicava
bastanti a reprimerli, come altra volta accadde, la Guardia Nazionale, le poche
milizie rimaste, e 400 Municipali.
Il Colonnello Solera
disegna cavare da Pisa tutti i Municipali per condurli a Firenze; ed io,
interpellato dal Prefetto, rispondo:
«Firenze,
12 aprile 1849. Ore 6, min. 55 ant.
Al
Prefetto di Pisa.
Ritenga i Municipali di
Pisa se le sono necessarii. - Bastano gli uomini di Solera; ma vengano presto;
ed entri con solennità in Firenze.
Guerrazzi.»
Lo allontanamento delle
milizie livornesi, le cittadine preposte alle Porte e ai luoghi più importanti,
dimostrano a chiara prova come un solo pensiero mi dominasse, quello di
mantenere l'ordine nella città. Bastevoli gli apparecchi delle poche milizie
stanziali e dei 400 Municipali a contenere o reprimere un moto di reazione o di
anarchia, insufficienti a contrastare la Restaurazione desiderata dal voto
universale, e però evidentemente non destinati contro di quella.
Quanti mi hanno in
pratica sanno come per lunga infermità io patisca d'infiammazione intestinale,
e sanno altresì in quale stato le commozioni e le fatiche del governo
procelloso mi avessero ridotto; però non sarà difficile credere che dopo i
successi dell'11 aprile io passassi le ultime ore della notte oltremodo
agitato. La mattina più volte tentai levarmi, e proprio non potei; finalmente,
non vedendo più venire persona a ragguagliarmi di quanto accadesse, mi sforzai
reggermi in piedi, e passando dalle stanze alte del Palazzo, secondo il
consueto, entrai nell'Ufficio del Ministro della Guerra signore Gio. Manganaro.
Domandai quali provvedimenti avesse preso, e me li disse706. In questa sopraggiunge il Colonnello Tommi,
che veniva a referire non potere trarre i cannoni in Piazza, perchè mancante di
arnesi e di cavalli; parendo a me coteste scuse frivole,
osservava che gli arnesi per trasportarne due vi avevano ad essere; e in quanto
a cavalli, potersi servire di quelli della Posta. Egli tolse commiato, e non
fece trasportare i cannoni; avendolo riveduto verso le tre pomeridiane nello
Ufficio del Ministro della Guerra, gli domandai a mo' di scherzo: «Perchè non
avete fatto trainare i cannoni in Piazza?» Egli rispose: «Perchè mi parve che
non si trattasse di tumulti, ma di moto universale appoggiato dalla Guardia
Nazionale, e però non ne vidi il bisogno.» Al che soggiunsi: «Avete fatto
bene.» Però si voglia notare di grazia che i cannoni non erano stati punto
ordinati da me; e che se io insistei, ciò fu meno per avere i cannoni, che per
confutare gli ostacoli che proponeva il signor Tommi, i quali, a vero dire, non
persuadevano troppo.
Dopo il Colonnello Tommi
entra il signor Diana Maggiore di Cavalleria, domandando ordini precisi su
quello che doveva operarsi da lui. Devo confessare che io mi sentiva alquanto
indisposto contro questo ufficiale, parendo a me che nella sera precedente non
avesse adempito al suo dovere standosene in luogo appartato, mentre i cittadini
si laceravano con iscambievole strage; nella quale opinione mi confermava
eziandio l'atteggiamento in cui mi era comparso il Capanna, imperciocchè, se
questo animoso giovane bene faceva slanciandosi, perchè il suo Maggiore non lo
seguiva, o, piuttosto, perchè non lo precedeva? E se il Capanna faceva male,
perchè il suo Superiore non lo richiamava? Però io non nego avergli detto un
po' turbato: «Quando vede tumulto si cacci tramezzo e divida.» Il Maggiore
Diana non rammenta un'altra cosa che gli richiamerò io alla memoria, e non
creda già in suo disdoro, ma sì in onore, ed è la sua risposta alle mie parole,
la quale fu questa: - lo farebbe, ma desiderare conoscere se la Guardia
Nazionale stava per l'Assemblea. - Questa domanda rivela, per mio giudizio,
ottimo discernimento nel Maggiore, conciossiachè, dove la Nazionale si fosse
mostrata avversa al moto, era a temersi che si presentasse o prendesse indole
di reazionario e di anarchico; laddove all'opposto la Nazionale lo avesse
secondato e diretto, siffatti timori cessavano, nè doveva contrastarsi. Fermo
nella mia opinione, avvegnadio veruna conoscenza di fatti mi fosse giunta per
farmela mutare, risposi: «Di ciò stia sicuro; come vuole ella che la Nazionale
non difenda l'Assemblea, se lo ha promesso?» Il Maggiore Diana afferma avergli
io ordinato di caricare; io nego apertamente essermi valso di cotesto
termine; ma supposto che io lo avessi adoperato, ignaro del tecnicismo,
- da me, poche ore prima, il Maggiore aveva conosciuto col fatto quello che io
mi intendessi per caricare, - dare di sprone ai cavalli, gittarsi inermi
colà dove il Popolo si mesce in empia battaglia, strappare ai forsennati le
armi di mano, mettere risolutamente in avventura la propria vita per salvare
l'altrui.
Parliamo di Bernardo
Basetti. Interrogato come testimone, dichiara «che nel giorno 12 mi comparve davanti,
e appena lo vidi gli dissi: - In Piazza; - se non che avendo egli considerato
quello che vi accadeva, e la probabilità con la sua azione di dare luogo
alla guerra civile, formò subito il pensiero di non andare; anzi, al
contrario, condurre gli uomini al Quartiere. Solera, protestando non intendersi
delle cose nostre, lasciò a lui la cura di fare pel meglio; egli dette ordini
rigorosi ai soldati e agli Ufficiali di starsi su la spianata del Convento di
San Firenze. Da mano ignota ricevè un biglietto aperto del Guerrazzi, il quale,
in sostanza, gli rinnuovava l'ordine di andare in Piazza, ch'egli lasciò
inadempito per la ragione già addotta; poco dopo, invitati dal Municipio gli
Ufficiali della Guardia a recarsi alla Comunità, vi si condusse col Solera e
con altri; - quivi dichiara l'animo suo; è accolto e lodato; - in cotesto
riscontro Orazio Ricasoli gli consegna un secondo biglietto aperto del
Guerrazzi, il quale, comecchè contenesse le medesime istanze, ottenne il
medesimo resultato. Egli ha conservato i biglietti e li conserva tuttora, ed è
pronto ad esibirli.» E gli esibisce.
Ora io nego di avere
veduto Bernardo Basetti; e non lo nego già per comodo che mi faccia,
imperciocchè a me nulla nuoce affermarlo: io lo nego, prima di tutto, perchè
tale è la verità, e poi perchè questa verità ridonda a onore della intelligenza
e dell'animo del Basetti. No, il Basetti non mi ha veduto, avvegnadio, se così
fosse, amico e beneficato da me, mi avrebbe chiarito, dicendo: «Avverti a
quello che fai; se pensi opporti a qualcheduno dei soliti tumulti, o reprimere
un moto di anarchia, non è questo il caso; da quanto ho veduto in Piazza, e
posso giudicare io, la universa città si commuove a restaurare di comune
consenso il Principato Costituzionale.» Egli è certo che favellandomi così, mi
avrebbe istruito intorno lo stato delle cose, e, adempiendo ufficio di
amicizia, alla Patria giovava, ed a me, e forse anche a sè; perocchè, più
spesso che altri non crede, l'utile si trova in compagnia dell'onesto; e se non
mi voleva procedere amico, il suo obbligo, come Ufficiale, gl'imponeva
farmi rapporto di quanto fosse stato considerato da lui, domandarmi che cosa
avrebbe dovuto fare in Piazza, in che modo, a quali fini operare; e udite da me
le debite spiegazioni, il suo dovere, come Ufficiale, gl'imponeva
esporre i pericoli e la impossibilità di eseguire i comandi; e supposto, che
tutto ridotto all'acqua chiara, io per ultimo lo incombensassi a tutelare la
vita dei Deputati e mia, dal deposto di Bernardo Basetti si viene alla conseguenza,
che, per dubbio di effusione di sangue, lasciava con deliberato consiglio, che
il nostro certamente si versasse dalla plebe indracata. Giudichi Bernardo
Basetti se queste conseguenze del suo deposto gli accomodano: per me, averlo
veduto o no torna indifferente; e se lo nego, lo faccio soltanto perchè non è
vero.
Mentre io stava tuttavia
nelle prime ore della mattina nelle stanze del Ministro della Guerra, mi
ragguagliavano come al presentarsi della Guardia Municipale la turba che era
stipata in Piazza, e minacciosa, rovesciatasi sopra di sè aveva fatto sembiante
di andarsene più che di passo, se non che la Guardia invece di attelarsi
s'incamminava ai Quartieri per essere stata presa dall'acqua nel cammino.
Allora fu che scrissi i due biglietti intorno ai quali furono mosse sì strane
calunnie:
«Firenze,
12 aprile 1849.
Basetti,
In Piazza vi sono
Veliti, Guardia Nazionale, entra la Cavalleria e l'Artiglieria. - Esca la
Municipale, o si cuopre di vergogna.
Guerrazzi.»
Ministero e Segreteria di Stato
della Guerra e Marina.
1° Ripartimento.
«Basetti,
Prendi il Comando della
Municipale: fuori in Piazza a difendere l'Assemblea, e la Patria, e la Libertà,
e il tuo amico
Guerrazzi.»
Col primo lo ammonisco, che
stando in Piazza (come credeva) Guardie Civiche e le Milizie stanziali, la
Guardia Municipale con la sua viltà sarebbesi tirato addosso un carico grande.
Questo biglietto chiaro si comprende essere scritto prima che al Ministro della
Guerra si presentassero il Colonnello Tommi e il Maggiore Diana, perchè appaia
fondato sul supposto, che la Cavalleria e l'Artiglieria già si trovassero in
Piazza. Dopo il colloquio col signor Tommi non avrebbe potuto scriversi con
verità; - che se l'Accusa appuntando il dito sotto l'occhio notasse: Tu lo
facesti apposta per eccitare il Basetti con lo esempio, - io le risponderei: Tu
se' maliziata indarno; imperciocchè l'arte sarebbe tornata vana, essendo egli
passato per la Piazza, ed avendo potuto co' proprii occhi vedere se le mie
parole erano vere; - posto ancora che per altra via si fosse condotto ai
Quartieri, agevole cosa era mandare da San Firenze in Piazza del Granduca
qualcheduno che speculasse gli eventi. - Col secondo lo conforto di difendere
l'Assemblea, la Patria, la Libertà ed il suo amico; ed anche questo fu scritto
nelle stanze del Ministro della Guerra, come ne fa fede la stampiglia impressa
sul margine del foglio. Queste avvertenze dimostrano come ambedue i biglietti
fossero scritti e mandati innanzi che io scendessi nella Sala delle Conferenze,
e così prima che per me si conoscessero le trattative incoate fra il
Municipio e l'Assemblea, di operare concordi alla restaurazione del Principato
Costituzionale. Apprendo come uno di questi biglietti fosse consegnato aperto
al Basetti dal signor Orazio Ricasoli, a cui pure chiusa ed intatta
rimisi la lettera sospetta, che mi recò l'ufficiale della Posta; il qual fatto
non dissuase il Conciliatore, di Angiolo ad un tratto convertito in Demonio
contro di me, nel suo manifesto di guerra del giorno 19 aprile 1849, da mettere
a carico mio: «il segreto della Posta non rispettato.»
Ora, che cosa l'Accusa
trova da appuntare in cotesti biglietti? il modo, o il fine? Se il modo; lo so,
- quando la stampa di questa mia Patria mi si rovesciava addosso come calcina
viva sopra corpo morto, prevalendosi del mio silenzio costretto, e nella
speranza di consumarmi moderatamente fino le ossa, vi fu chi scrisse
avere io ordinato a Bernardo Basetti di trarre sul Popolo; onde coscienza punse
cotesto uomo, e non patì che si facesse tanto disonesto strazio di tale che gli
fu amico, lo aveva beneficato, e adesso non si poteva difendere; e pubblicò con
le stampe, calunnie essere quelle voci707. Di vero poteva io mai
dare questo empio ordine? La sera precedente mettevo a cimento la vita perchè
cessasse la strage fraterna, e poche ore dopo la comando? L'11 aprile strappo
le armi ai cittadini, per riporle in mano loro il 12, e aizzarli a fare sangue?
Preoccupato da tremenda ansietà, nel giorno 11, non mi do pace finchè la città
non è sgombra di Livornesi onde i lugubri scontri non si rinnuovino, nel 12 li
cerco e li provoco? Nei giorni 10 ed 11 scrivo al Prefetto Landi, conforme la
Sentenza della Corte Regia di Lucca, del 4 giugno 1850, riporta: «Attesochè
avvertisse il Guerrazzi al Landi, con i suoi Dispacci de' 10 e 11
aprile, come lasciare nemici dietro, mentre la milizia era ordinata a
recarsi alle frontiere non fosse prudenza, e come avrebbero ottenuta lode
per parte degli amici e dei nemici adoprandosi alla difesa esterna, come per la
sicurezza interna, e conseguentemente gl'ingiungesse di operare il disarmo,
di procedere ad arresti senza rispetto, meglio essendo, siccome egli
litteralmente si esprimeva, di arrestare e disarmare che dare l'esempio più
tardi di mutue stragi.» E mentre a Lucca aborro la strage, e la prevengo,
qui a Firenze dopo breve giro di tempo l'amo, e la cerco? Mi si dieno gli
Archivii, odansi (non come chi ha paura del vero, quasi fosse una di quelle
visioni notturne che mettono il tremito nelle ossa, bensì come chi lo ama al
pari di una benedizione) i miei Segretarii, eziandio quelli rimasti in carica,
e conoscerete qual cuore, quali ordini fossero i miei. Dunque l'Assemblea, la
Patria, la Libertà, e l'amico, non si difendono con altro che con le morti?
Quando difesi la vita dei cittadini, allagai di sangue la piazza? L'amico sa
difendere l'amico anche esponendo il proprio petto per lui, ma ahimè! queste
cose non sapeva Bernardo Basetti. Il vanto (e gli parve tale!) del Basetti di
non essere uscito in piazza per timore di accendere la guerra civile ha dato
fondamento all'Accusa; cotesto vanto è insensato: ma che importa ciò
all'Accusa, che di ogni campo fa strada nella sua persecuzione? Dunque, e in
quel giorno e poi, la Guardia Civica doveva astenersi dalla difesa dell'ordine
pubblico e della privata sicurezza, per sospetto di guerra civile? Il
Colonnello Nespoli, che pure non mi era amico, quando mi offerse scortarmi e
tutelarmi con una compagnia di Guardia Nazionale, commetteva atto di guerra
civile? Per timore che possa correre sangue, lascinsi esposti a morte certa
rispettabili cittadini..... alla belva plebea si dieno non contrastato pasto! -
Ma voi non avevate mestiero difesa, ammonisce l'Accusa, poichè ogni cosa
avvenne con modi soavi. - Eh! via, apprenda verecondia l'Accusa; queste cose
non possono dirsi, nè devono, da chi fa professione di verità. Lascio di
rammentare gli atroci avvenimenti del giorno innanzi; non torno ad avvertire
che in quel punto quale carattere potesse assumere la sommossa ignorava, e
dagli esordii io doveva presagirla nefandissima ed empia. Si esamini pure il
moto quando gli dettero forma e direzione; coloro che se ne posero a capo
giunsero forse a contenerlo sempre nei confini desiderati? Non rimasero talora
atterriti degli elementi che si confusero con essi? I nuovi amici piacquero
loro tutti? Le opere di quei giorni approvarono tutte? Per me so, e ne
depongono i testimoni, che la plebe, dopo avere spiantato gli Alberi che aveva
piantato, venne per irrompere nell'Assemblea e manomettere i Deputati; per me
so che fece forza al Palazzo Vecchio, prima e dopo che vi avesse tolto stanza
la Commissione Governativa; io so, che da gente prava fu spinta, per buona parte
della notte, plebe avvinata ad aggirarsi intorno alla mia dimora, come lupo nei
giorni di neve, a urlare: morte! morte! - io so, che il giorno 13 aprile
una torma di villani con falci, e vanghe, e zappe, invasero i cortili del
Palazzo Vecchio gridando la parte, a modo di musicanti venuti a farti la
serenata sotto ai balconi: Morte al Guerrazzi! Morte al ladro! Morte
all'assassino! con altre più cose che io non ho ritenuto a mente, come
sembrava, pur troppo, che bene avessero appreso a ritenere costoro. Queste
dimostrazioni di esultanza non furono già del tutto buccoliche, come va
idilieggiando l'Accusa, dacchè il Prefetto provvisorio Pezzella, nel Proclama
del 14 aprile 1849, bandiva:
«Peggiore ed altrettanto
deplorabile cosa ella è, se trasmodi fino a recriminazioni di Partiti, violenze
alle persone, e guasti alle proprietà.
Se infelicemente sia ciò
in qualche parte accaduto, confido che non sarà mai più.»
E noi sappiamo quanto
nei Documenti officiali si limino e aggarbino le espressioni, per modo che
dicono mille volte meno di quello che veramente sia; nè tardarono uno istante a
mostrarsi gli avvoltoj: «i quali, - come c'istruisce Ferdinando Zannetti, -
mossi, più che da leale affezione di Partito, da invidie ed animosità
particolari, immaginano secrete macchinazioni per dare a credere misteriose
trame, designando intanto le persone su le quali a sfogo di rancore vogliono
proclamati arresti, esilii ed altre coercizioni708.»
La Reazione comparve subito e sopraffece le buone intenzioni (perchè non dubito
punto che la Commissione e il Municipio si proponessero a scopo il
ristabilimento dello Statuto, e la preservazione della Patria dalle armi
straniere), se al grido della plebe di: Viva la Monarchia, fu mestieri
che la Guardia Nazionale aggiungesse: «Costituzionale;» e all'altro: Viva
la Restaurazione: «con libere istituzioni709:»
e più apertamente parlando il lealissimo uomo, nella lettera che scriveva al
buon Pietro Bigazzi: «Nei momenti attuali - tu non devi negare i ripetuti
gridi: Morte ai liberali ec.710»
Dunque pel modo non
furono esorbitanti i miei ordini, nè capaci a fare nascere guerra civile, come
opina Bernardo Basetti, il quale da un lato s'ingegna onestare la
disobbedienza, e lo abbandono; dall'altro, farsi merito presso il nuovo
Governo: senonchè la toppa appare più trista dello sdrucio, e per cuoprire una
cosa brutta ne dice quattro assurde; e l'Accusa, poichè le giovano, piglia
anche le assurde, e con obliquo scopo palesate, e me lo appunta al petto come
Lanzo alabarda.
E se non ponno
biasimarsi gli ordini miei pel modo, molto meno si vorranno riprendere pel
fine, dacchè io non lo chiamavo alla difesa di una forma determinata di
Governo, bensì dell'Assemblea, la quale doveva in breve pronunziare in modo
civile, e con voto del pari che con universale contentezza (e lo abbiamo
veduto) la restaurazione del Principato Costituzionale; - però l'Accusa pare
che trovi eziandio essere delitto difendere la Patria; e ritiene ogni atto
mosso a questo scopo santissimo, ostile alla Restaurazione: sul quale proposito
io devo avvertire, che se l'Accusa non sentì vergogna a incriminare, io provo
quanto farei ingiuria al pudore spendendo pure una parola a difendermi in
questa parte; e lo stesso dicasi della Libertà, - e fermamente, credo che a non
pochi Magistrati palpiteranno più frequenti i polsi udendo come nei Tribunali
Toscani la difesa della Libertà suoni misfatto; e se Libertà sapessi in che e
come differisca dalla licenza, per qual modo si custodisca e con quali
argomenti si difenda, voi tutti conoscete a prova; - finalmente dopo avere
pensato alla Rappresentanza del Paese, alla Patria e alla Libertà. parmi possa
essere concesso di pensare un poco anche a sè. Comprendo benissimo come
l'Accusa aggravandosi sopra il mio capo mi ha tenuto in conto di un ghiabaldano,
di cui i nostri antichi per proverbio dicevano: che ne davano trentasei per
un pelo di Asino711; ed io quantunque
presuma di me poco, pure anche in questo non mi accordo con l'Accusa, essendo
la propria conservazione di Natura; e intorno a me educai creature, che amo e
che mi amano, che piangerebbero e soffrirebbero per la morte mia.... Ami tu
qualcheduno, Accusa? - Supposto che tu l'ami, troverai doverti conservare meno
per ragione del diritto, che per l'obbligo di non partirti o lasciarti
strappare dalla vita, finchè le tue creature non sappiano aiutarsi da per sè
stesse nel mondo. - Vero è però, - e in questa parte sarei tentato di dare
ragione all'Accusa, - vero è però che, o lasciassi libero il freno alla plebe
indracata, e avvinata e pagata, o mi commettessi alla fede di gentiluomini
cristiani, poco divario è corso, perchè la prigionia assomiglia alla morte, in
ispecie per la educazione dei figli, o delle creature insomma che si amano...
ma allora io credevo, che differenza ci fosse!
Rimane a vedere se io
potessi confidare in questa prova di amicizia sviscerata per la parte di
Bernardo Basetti, e parmi di sì; imperciocchè non v'era mestieri che fosse
sviscerata, anzi bastava mediocre; e neppure, se ben si considera, amicizia
bisognava, ma sentimento di dovere e semplice gentilezza. Il signore Emilio
Nespoli, e l'ho detto, per bene due volte, venne ad avvertirmi di pormi
in salvo, e offerse mandare verso il Prato una compagnia di Guardia Nazionale a
tutelarmi, comecchè non mi stringesse seco vincolo di amicizia. Ora è da
sapersi avere io conosciuto Bernardo Basetti nel 1830 a Montepulciano, dove mi
fu cortese di buoni ufficii e di consolazioni, onde me gli attaccai con amore,
parendomi forte e generosa natura: provò fortune diverse, e le contrarie forse
non senza colpa sua; me ebbe in tutte uguale; esulò, tornò, e molto mi
affaticai presso i suoi creditori, affinchè quieto lo lasciassero stare in
Toscana, e l'ottenni; però non sembra che la vita volgesse troppo gioconda per
lui, dacchè mi scrisse lettere ortatorie, quando fui assunto al Potere, di
accomodarlo di qualche impiego, e segnatamente nella Guardia Municipale che
stava sul formarsi in Firenze, sentendosi, sia per la perizia acquistata
nell'Algeria nelle cose militari, sia per la operosità naturale, sufficiente ad
esercitarlo, onde io gli conferii dignità e soldo di Capitano, e di grado in
grado quello di Comandante supremo; se non che, non gli parendo essere
bastevole a tanto ufficio, me lo confessò modesto, ed io onorevolmente, e
secondo il suo genio, lo collocai. Non basta: consentii che impiegasse nel
Corpo medesimo un giovane che ei teneva in parte di figlio. Aveva eziandio due
fratelli onestissimi, Agostino e Ferdinando; e raccomandatimi entrambi, il
primo conseguì impiego, all'altro pensava provvedere quando me ne capitasse il
destro. Io so che parlando del fratello Bernardo gli affliggo, e Dio sa se
anche me attristo; - scusimi appo loro non poterne fare a meno, e il modo
discreto col quale io ne parlo. - E non è tutto ancora: nel 19 novembre 1848 lo
mando Capitano provvisorio della Municipale a Livorno712; non accettato costà, Pigli, compiacendo alle
intemperanze popolari, lo respinge a Firenze713. Per l'offesa dello
amico, turbato, senza porre tempo fra mezzo domando informazioni del fatto714. Il Governatore Pigli risponde nel modo
seguente:
«Al
Ministro dello Interno.
Fino da ieri sera si
conosceva pubblicamente il desiderio di molti di avere qui il Capitano Roberti.
Nella dimostrazione fatta ieri a favore dei Deputati, benchè poco numerosa, un
cartello diceva: Viva il Roberti, Capitano della Municipale di Livorno. E già
si sapeva che egli era partito per Firenze. Gli Ufficiali chiamati da me
furono, ieri sera, presentati a Basetti con gradimento reciproco. Fu fissato
che stamani all'appello del mezzogiorno si sarebbe presentato alla Compagnia.
Stamani i rapporti verbali dei tre Ufficiali, fatti a me, assicurano che il
Capitano Basetti presentandosi avrebbe avuto una dimostrazione contraria; che
la presenza del Governatore l'avrebbe potuta mitigare forse, ma non impedire;
che quanto allo scioglimento era pericoloso, per essere quasi tutti concordi,
in ispecie i graduati: doversi riflettere che sono tutti armati e hanno molti
aderenti a favore di Roberti nel Popolo. In questo stato di cose ho creduto
savio consiglio, senza farne sentore alla Compagnia, far partire il Basetti,
che referisse a viva voce: il quale ha di buon grado aderito alla proposta.
Prego a riflettere come sia pericoloso l'impegnarsi a cosa che non siamo certi
di poter sostenere.
Pigli.»
Voi lo vedete: Basetti
cede il campo; Pigli, con partiti che gli sembravano cauti, ed erano vili,
insinua a lasciarlo offeso. Geloso dell'onore del Basetti più di quello ch'egli
se ne mostrasse, odasi un po' come lo sostenessi io:
«Al
Governatore di Livorno.
Guerrazzi e Montanelli
mandano al Governatore che ordini la rivista della Municipale, e dica in nostro
nome che il Basetti ha da essere il Capitano, perchè nostro amico e uomo di
nostra fiducia. Che Roberti deve stare qua, che noi non soffriamo soverchierie,
e ci dimettiamo piuttosto, lasciando alla Municipale l'odio della sua
resistenza. Che se credono di strascinarci per il collo, s'ingannano per Dio.
Il Governatore eseguisca gli ordini, e avverta che, così procedendo le cose,
ritenere il Governo è una vergogna, un insulto. Intanto se la Municipale
continua nel sistema di ribellione, si sciolga e si sospendano le paghe. Così
vogliamo; queste sono vergogne, e bisogna che cessino. Gli Ufficiali e tutti
quelli che si mantengono fedeli alla libertà vengano a Firenze. La Caserma si
chiuda. Risposta subito.
Guerrazzi.»
Mi sembra che da me non
si potesse dare a Bernardo Basetti prova più alta di amicizia oltre quella di
mettere a repentaglio per lui perfino la mia carica, e questo perchè lo stimo
amico mio e persona di fiducia. Quindici minuti dopo pongo da capo in moto il
telegrafo, indicando la via da seguirsi onde ottenere il fine desiderato:
«Al
Governatore Pigli.
Chiamate Fabbri, Lauri, Notari,
Betti, e Frediani e altri, e dite loro che il Ministero è disposto a sciogliere
la Municipale, a dimettersi anzichè lasciarsi imporre dalla Municipale stessa.
Però usino tutti la loro influenza a farla vergognare dell'enormezza commessa.
Domani vengo col Basetti. Arte, prontezza e vigore. I Livornesi si lasciano
guidare, ma da mani non deboli. La Cecilia torna contento. Sua Altezza ha
approvato. Risposta subito.
Guerrazzi.»
Pigli obbedisce, e
annunzia:
«Al
Ministro dello Interno.
Sentite le persone indicate
nel Dispaccio Ministeriale, ci siamo presentati alla Guardia Municipale,
riunita, e in considerevole numero, Fabbri, la Cecilia, i Consiglieri, ed io.
Ho incominciato a parlare parole di fiducia per prendere ad annunziare alla
nomina del Capitano provvisorio Basetti, il quale domani prenderà il Comando
della Municipale. Le contestazioni e opposizioni, per quanto presentate con
rispetto, sono state molte. È stato detto che promosso il Capitano Roberti, si
deve procedere per la stessa via di ragioni, e promuovere gli Ufficiali nella
Compagnia. Ha detto alquante parole il Gonfaloniere, molto più e più efficaci
La Cecilia, spontaneamente intervenuto. Io finalmente ho concluso che la nomina
del Basetti non distrugge i titoli ed i diritti di alcuno, e che il Governo
nella sua imparzialità e giustizia saprà tutti proteggere e rimunerare secondo
il merito. Siamo partiti in mezzo agli applausi. Basetti venga e sarà ben
ricevuto. Il resto al tempo e alla saggezza del Governo.
Pigli.»
Ed io prometto il giorno
successivo recarmi in Livorno conducendo meco Bernardo Basetti, fino alle
lacrime commosso del come voglia e sappia proteggerlo.
«Al
Governatore di Livorno.
Si lodi la Municipale.
Quante volte si mostrerà obbediente alli ordini del suo creatore avrà diritto
alla sua particolare considerazione. Roberti non è promosso. Basetti non è
Capitano definitivo, ma provvisorio. Tutta la Guardia dovrà essere
definitivamente approvata dal Consiglio. Ho passato una cattiva giornata.
Domani sera io sarò in Livorno con Basetti. A ore dieci passerò la rivista in
Caserma della Municipale. Viva la Municipale fedele alla libertà, nemica
della licenza.
Guerrazzi.»
Trionfante entrò Basetti
nei Quartieri dond'ebbe poco anzi a partirsi con fronte dimessa, e finchè
stette a Livorno l'onorarono ed amarono; ed anche si dica a lode di lui, seppe
farsi rispettare ed amare.
Per le cose esposte io
pensava trovarmi un cotal poco fondato ad aspettarmi da Bernardo Basetti una
prova di amicizia; se non voleva ricordarsi a quell'ora essermi amico, io
doveva credere ch'egli avrebbe eseguito il mio ordine, se avesse potuto farsi
umanamente ed efficacemente; e se no, mi avrebbe ragguagliato con fedeltà come
a probo Ufficiale appartiene; se infine le parti di amico e di Ufficiale volle
dimenticare, non dovevo credere ch'egli avrebbe posto mai in oblio quelle di
uomo, che non consentono (nella folle speranza di proprio comodo) pronunziare
assurde opinioni; delle quali l'Accusa, intenta solo a nuocere, si varrà per
fabbricarvi sopra assurde e futili incolpazioni, è vero, ma rincrescevoli
sempre, non fosse altro per avermi dato il fastidio di spendere tante parole a
dimostrare la stolidità e malizia loro.
Non mi comparendo
davanti il Ministro dello Interno, nè il Prefetto, ignaro dello stato delle
cose m'incammino alla Sala delle Conferenze, dove seppi adunata l'Assemblea.
Ora sentiamo raccontare dal Professore Taddei, Presidente, quello che, a mia
insaputa, era successo nella prima parte della mattinata. Il Municipio desidera
unirsi all'Assemblea per proclamare la Restaurazione, come senno e amore vero
di Patria persuadevano; però... ma parli il labbro del vecchio illustre: «Mi
rammento che il signor Giuseppe Martelli venne a cercarmi nella Camera stessa,
ed a pregarmi di volere secolui recarmi al Municipio: io aderii immediatamente,
e trovati poi in una carrozza i signori Ricasoli e Cantagalli, vi montai;
c'incamminammo uniti al Palazzo Riccardi per condurre insieme con noi al
Municipio il Professore Zannetti. Radunati tutti al Municipio, e trovatici unanimi
ad operare ognuno dal suo canto per restaurare la Monarchia Costituzionale, non
rimase altro da fare, che mettere d'accordo l'Assemblea e il Municipio, nello
stabilire il modo col quale legalmente e dignitosamente si potesse
soddisfare al desiderio di tutti. Due del Municipio, e segnatamente i
signori Digny e Brocchi, si recarono nella Sala delle Conferenze, in qualità di
Commissionati dello stesso Municipio per comprovare quello che già
aveva io referito, e devenimmo alla stesura di concisa Notificazione, la
quale fu letta e ratificata dai Commissionati suddetti, ed immediatamente
spedita ai torchj715.»
Il Proclama fu questo:
«Toscani! L'Assemblea
Costituente Toscana si dichiara in permanenza. Essa prenderà, d'accordo con la
Guardia Civica e col Municipio, i provvedimenti necessarii per salvare il
Paese.
Firenze, 12 aprile 1849.
Taddei Presidente.»
Mentre l'Assemblea da
una parte adempiva la promessa, come tra gente onesta si conviene, dall'altra
prevalevano nel Municipio consigli pessimi; e fatto nuovo partito, i suoi
Membri statuiscono mancare di parola all'Assemblea, e disprezzato il Collegio
nella sua rappresentanza, come nelle singole persone dei Deputati, senza
neppure avvisarlo di volere procedere soli, e, se bisognasse, avversi nel
disegno fermato, - quasi per ardere le carra, e non dare luogo ad ammenda,
stampano un Proclama, ed in fretta lo appiccano su pei cantoni. In questa
sentenza quel Proclama bandiva:
«Cittadini,
Nella gravità della
circostanza, il vostro Municipio sente tutta la importanza della sua missione.
Egli a nome del Principe assume la direzione degli affari, e si ripromette di
liberarvi dal dolore di una invasione.
Il Municipio in questo
solenne momento si aggrega cinque cittadini che godono la vostra fiducia, e
sono:
Gino Capponi,
Bettino
Ricasoli,
Luigi
Serristori,
Carlo
Torrigiani,
Cesare
Capoquadri.
Dal Municipio di
Firenze,
Li 12
aprile 1849.
Per il Gonfaloniere
impedito
Orazio
Cesare Ricasoli
Primo Priore.»
Di questo Proclama del Municipio,
di cui taluno aveva portato frettolosamente novella all'Assemblea, si facevano
accesi ed amari discorsi, quando i signori Digny, Brocchi e Martelli tornarono
nella Sala delle Conferenze. Questa è la scena che il Visconte D'Arlincourt,
togliendola di peso dal Duca di Ossuna del nostro Federigi, ha inserito
nella sua Italia Rossa, nella quale il Conte Digny, nobile e fedele
realista, spalanca la porta ed intima la sedicente Assemblea a
ritirarsi. Però hassi a notare, per rendere unicuique suum, che
l'attributo di sedicente non appartiene proprio al Visconte
D'Arlincourt, ma al Brocchi, il quale se ne compiace così, che per bene due
volte nel corso del suo esame lo viene ripetendo. Ed è poi strana a
considerarsi quest'altra cosa, che il Conte Digny ha protestato contro la
qualificazione di nobile e fedele realista, che a parere mio non fa torto,
allorchè nasca da convincimento coscienzioso, o da personale affetto, mentre
contro il pubblico grido, che lui accusa di fede tradita, è stato cheto come olio.
E di vero, l'apparizione del Conte era tutto altro che nobile, conciossiachè
versasse in questo: il Municipio volere rompere i patti, anzi averli rotti;
l'accordo invocato prima con l'Assemblea adesso respingere;
aborrirla compagna, dichiararla nemica; si disperdesse, lasciasse operare da sè
solo il Municipio. A tanta slealtà, non è da dire se si levassero, e a ragione,
amari richiami. E prima di ogni altro il Presidente Taddei, a cui pareva,
com'era vero, che di lui e della sua onoratezza si fosse fatto bindolissimo
giuoco. - Accesi, e meritamente, sopra gli altri si mostravano i Deputati
signori Ciampi e Cipriani, i quali (sempre si abbia presente questa avvertenza)
non offesi già dalla proposta di Restaurazione da operarsi d'accordo col
Municipio, che annunziata testè dal Professore Taddei era stata da loro
accettata, bensì dalla brutta mancanza di fede, esclamarono, che bisognava
arrestare il Municipio fedifrago. E poichè il Conte rispondeva con petulanza
molta e senno poco, io mi posi in mezzo alla disputa favellando in questo
concetto: «Voi fate una Rivoluzione716; onde non partorisca le
conseguenze che le sono ordinarie, procurate unire a voi quanti maggiori
consensi potete; non rigettate quelli che vi si offrono.» E siccome il Conte
rispondeva con petulanza molta e senno poco, aggiunsi: «Voi meritereste essere
arrestato!»
L'Accusa, come vedemmo,
sostiene che io mi opposi alla incoata Restaurazione, minacciando prima e
intimando poi l'arresto dei signori Digny, Brocchi e Martelli, che venivano ad
ammonirmi di non volere opporre ostacoli alla iniziata opera loro. Il più lieve
rimprovero che possa farsi all'Accusa, è ch'ella non sa quello che si dice.
E la ragione apparisce evidente: suppongasi vero tutto quanto afferma l'Accusa;
concedasi per un momento la minaccia e la intimazione dell'arresto; sembra che,
per accusare l'uno atto e l'altro come avversi alla Restaurazione, dovesse
ricercarsi la causa che gli motivarono. Ora è provato per dichiarazione di
coloro che di queste minaccie depongono, come non muovessero già da
opposizione; al contrario, dal volere l'Assemblea esclusa da cooperare al
ristabilimento della Monarchia Costituzionale, e più poi dalla tradita fede,
dopo essere stata a questo fine ricercata dal Municipio, e dopo essersi posto
secolei pienamente d'accordo.
In qual guisa i
Commissionati del Municipio potevano condursi a intimare l'Assemblea di non
opporsi alla incoata Restaurazione, se, ricercata poco anzi, aveva consentito?
Se a questo fine aveva stampato un Proclama? Se anche sul tenore del Proclama
avevano convenuto?
Onde il tribunale della
Coscienza Pubblica giudichi fra me e i miei Giudici, è di mestieri esporre le
prove che l'Accusa ha raccolto, e certo non in benefizio di me. Il Professore
Taddei così depone: «Gli stessi Deputati (che come Commissionati del Municipio
avevano letta e approvata la Notificazione dell'Assemblea, Digny, Brocchi e
Martelli) ritornarono a dire che la fusione dell'Assemblea col Municipio non
era compatibile (dopo averla ricercata!). Questa risposta non poteva a meno
di dispiacere. - oltre a mancare di lealtà verso di me, e verso gli altri717.» L'Avvocato Panattoni dichiara, che udì lamenti....
sopra un malinteso, che pareva nato a motivo di non avere il Municipio
secondati certi accordi che dicevansi passati col signor Presidente Taddei, e
che resultavano ancora da un Manifesto stampato. - Il signor Venturucci
(avvertasi, che sopra questo testimone l'Accusa fonda la incolpazione dello
intimato arresto ai Municipali) depone come i signori Conte Digny, Brocchi e
Martelli, si scusavano di avere pubblicato il Manifesto del Municipio
(ed era ragione che si scusassero), e promettevano di andare d'accordo con
l'Assemblea, e combinare. E Guglielmo Conte Digny, che tanto poco e tanto
male le più volte rammenta, nondimeno su questo proposito dichiara: «È un
fatto, che tanto lui (sic) che tutti quelli, che volevano indurre
il Municipio a concertarsi coll'Assemblea, si appoggiavano specialmente
sulla osservazione, che il Municipio di Firenze aveva bisogno di appoggio
dei Rappresentanti di tutte le Popolazioni toscane per essere riconosciuto da
esse. E fu dietro questa idea che furono redatti (sic) i progetti
di Proclama di cui ho parlato. Anzi uno di questi progetti era redatto
fino dalla mattina da uno dell'Assemblea.»
Non è pertanto vero,
anzi è turpemente falso, che alla restaurazione del Principato Costituzionale
mi opponessi, quando facevo sentire la necessità di riunire il consenso
universale, e per atto immediato al partito preso dal Municipio fiorentino; è
vero, all'opposto, che la breve disputa nacque dal rifiuto dell'adesione
dell'Assemblea, che il Municipio faceva, dopo averla richiesta, e accettata. Ed
ho creduto allora, e fermamente credo adesso, che in cotesto modo operando bene
meritassi della Patria. Con l'adesione dell'Assemblea si sarebbe tolto al
partito la indole di municipale che mostrò negli esordii, indirizzandosi
perfino col primo Proclama il Municipio Fiorentino ai soli Fiorentini. Con
l'adesione dell'Assemblea, i fattori del 12 Aprile non avrebbero avuto a
deplorare nel giorno 16 aprile la esitanza di alcuni Municipii718, nè nel giorno 24 la resistenza di taluni alla
manifestazione dello spirito pubblico, e si sarebbe per essi ottenuto veramente
quel voto universale che avrebbe blandito gli animi e consolate le memorie719. Con l'adesione dell'Assemblea, Livorno si
sarebbe sottomessa, e quindi tolto via il pretesto come la necessità di
chiamare armi straniere. Con l'adesione dell'Assemblea, non era mestieri
appoggiarsi su le forze che somministrava la Reazione, le quali trassero il
Municipio e la Commissione aggiunta, repugnanti certo, ma obbedienti allo
impulso della necessità, oltre ai confini stabiliti. Con l'adesione
dell'Assemblea, non veniva nel Municipio e nella Commissione aggiunta la paura,
e con essa la infelice compagnia di esilii, di carcerazioni, di famiglie
disfatte, e di sventure che ormai mano di uomo non può riparare, e quella di
Dio può consolare soltanto. Con l'adesione dell'Assemblea, il Municipio e la Commissione
molte morti che ci hanno contristato potevano evitare. Con l'adesione
dell'Assemblea, voi non avreste avuto bisogno di giostrare meco con la lancia
di Giuda.
Voi, usurpando il mio
disegno, voi, ritorcendo contro me ingratamente gli apparecchi con tanta fatica
e tanto pericolo condotti a termine, quasi finale, avete guasto il presente e
l'avvenire; poichè avvertite, che qui considerato e qui fu scritto, come le
commozioni popolari fossero di augumento a Roma, avvegnadio colà con una legge
si concludessero, mentre partorirono la perdizione di Firenze, terminando
quaggiù con offesa nelle persone e negli averi720.
Quando, falliti i vostri disegni, gittaste un grido, voi nol voleste confondere
col gemito universale; anche in quello voleste lasciare una memoria di superbia
e di odio: «Se gli avvenimenti del 12 aprile dovevano avere questa
conchiusione, meglio era che non fossero accaduti, e che coloro, che
condussero la Toscana a questa dura necessità, fossero gli attori di questa
ultima parte del Dramma ignominioso721.» I Parti ferivano
fuggendo; voi mordete spirando: e pure, invece di mordere me, offendete voi
stessi: infatti qui sta appunto la condanna vostra; se voi non eravate certi di
fare meglio di me, se l'opera di Parte non vi ha procurato meno triste sorti di
quelle che andavate predicando sarebbero uscite dalle mie mani, dovevate
lasciarmi fare. Però io non dimentico, nè tampoco voi stessi dovete obliare,
che me giudicaste degno di salvare quel più si potesse dell'onore e della indipendenza
nazionale; me animaste ad usare per la salute della Patria i mezzi che
la esperienza mi avrebbe saputo consigliare più opportuni ed efficaci; me
confortaste a perdurare nella impresa, offrendo il soccorso e il concorso
dei poteri municipali722. Sono questi essi i
concorsi vostri? È questo il sapore dei vostri soccorsi? Perchè dopo avermi
tradito mi avete oltraggiato? E perchè dopo avermi onorato mi avete detto
obbrobrio? - Ma poco importa essere rigettato da voi; a me basta, che non mi repudii
il Paese, e mi conservi la benevolenza che io spero non essermi demeritata723.
Ma non è da voi che mi
tocca adesso a difendermi; bensì dall'Accusa, a cui mi avete consegnato
nell'orto.... voleva dire nella Fortezza di San Giorgio. Ora che ho dimostrato
come la minaccia e la intimazione dell'arresto, quando pure fossero avvenute,
avevano lo scopo diametralmente opposto a quello finto dall'Accusa, io
dimostrerò che non sono, e non possono essere vere.
Tre sono (e pare
impossibile!) i deposti sopra i quali fonda questa incolpazione l'Accusa. Primo
è Digny, succede Brocchi, viene ultimo Venturucci. Io non dirò come i due
primi, così facendo, tentano onestare il tradimento di cui mi dolgo; non
osserverò che mendaci sempre con gli altri, e il primo lo è quattro volte con
sè stesso sopra un medesimo punto; non dirò nemmeno che ambedue confusi,
perplessi, contradittorii, sono costretti (per paura di sentirsi rimproverare
dallo stesso Ministro processante) a ripetere, - il primo fino a quattro volte,
- che non sa, non ricorda, ha perduto la memoria dei particolari, - forse egli,
forse altri s'inganna, - e tali altri rifugii per cui si rendono da per sè
stessi spregevoli assai più che altri non potesse fare; - tutto questo, e non è
poco, passeremo; confrontiamo i deposti:
«Digny. - Nacque
fra noi e parecchi di loro una discussione viva e confusa intorno al
Proclama già pubblicato dal Municipio, col quale annunziava assumere a nome del
Principe la direzione dei pubblici affari. Io non rammento con sufficiente
precisione i dettagli (sic) di cotesta discussione; - solo mi sovviene che
il signor Guerrazzi rivolgendosi agli adunati diceva: - Voi avete fatta una
Rivoluzione, - e per poco che le cose sostassero, e che piacesse agli
adunati, egli ne avrebbe fatto arrestare i Componenti, i quali designava con le
parole: questi Signori; per il che io non posso asserire s'egli volesse
intendere tutti i Componenti del Municipio, o la Deputazione quivi presente. A
queste parole sollevavasi una certa confusione fra i presenti, ma,
domandata la parola da me e dal Brocchi, facemmo successivamente intendere, che
le conseguenze di un passo simile sarebbero state gravissime, e ricadute su le
persone di chi le avesse ordinate (sic), per cui sorsero
proposizioni di conciliazione, e una deputazione si formò che ci accompagnò al
Municipio.»
«Brocchi. - Rapporto
(sic) al primo incontro, noto la circostanza che l'Avvocato Guerrazzi,
rimproverando al Municipio di andare a promuovere la guerra civile, disse: - che
sarebbe stato capace di fare arrestare tutti i componenti del Municipio. Il
Dottore Oreste Ciampi e il Professore Emilio Cipriani, presenti, insistevano
che si arrestassero quei Componenti del Municipio, che allora nella Sala si
trovavano, ed io ed il Conte Digny replicammo, che ponessero mente a tale
arresto.» E più oltre da capo: «questa proposizione volevano si portasse
all'atto il Dottore Ciampi, e il Professore Cipriani.»
«Venturucci. - Mi
rammento benissimo che Guerrazzi alzatosi in piede, e con veemenza,
disse queste parole: - Signori, voi avete fatta una Rivoluzione; voi vi rendete
responsabili delle conseguenze che ne possono derivare. Sì, voi avete
fatto una Rivoluzione, ed io sarei capace di farvi arrestare tutti: anzi,
siete tutti in arresto. Cui Digny replicò: Signori, pensino a quella che
fanno: - faceva riflettere di più all'Assemblea non essere in numero
sufficiente per deliberare, che ormai era evidente qual piega prendevano le
cose. - Il signor Guerrazzi mutò tono, e con voce calma parlò con quelli del
Municipio, che si scusavano di avere pubblicato un Manifesto, e dichiaravano
essere pronti a mettersi d'accordo con l'Assemblea, e di concertare le cose.»
Ora questa intimazione
di arresto non può essere vera, perchè me ne mancava l'autorità, e me ne
mancava il potere. Mi mancava l'autorità per queste ragioni: il fatto del
Presidente dell'Assemblea, confermato dai Deputati presenti, di unirsi al
Municipio per provvedere alla salute della Patria, mi aveva tolto il mandato di
Capo del Potere Esecutivo; e così ritenni, e così dissi; vedremo più tardi
quando il Municipio andava in cerca di un pretesto per onestare la sua brutta
azione, e non l'aveva ancora trovato, fare annunziare che a me repugnante aveva
svelto di mano il potere: ma poi, considerando ch'ella era questa troppo grossa
bugia, variò con l'arresto; la verità è, che io con animo lietissimo
appresi la novella di essere esonerato da tanto carico, e che fino dalla sera
precedente aveva dettato una renunzia spontanea, la quale deve essersi trovata
nella stanza che occupavo in Palazzo Vecchio.
Mancavo di potere
immediato, perocchè, verun corpo di guardie stanziando alla Camera, dove io non
avessi preteso stringere con una mano sola i tre colli dei Municipali, non si
sa davvero comprendere come gli avrei potuti arrestare; e se non avevo armi
allora, peggio era da aspettarmi nel seguito, dacchè, trovato modo in mezzo a
cotesto trambusto d'interpellare il Generale Zannetti intorno alle disposizioni
della Civica, n'ebbi in risposta: nella massima parte sembrargli decisa ad
appoggiare il Municipio.
Da siffatta scienza, in
quel punto e non prima di allora acquistata, - insieme alla ignoranza di
cotesto caso, espressa parlando al Maggiore Diana, e scrivendo al Maggiore
Basetti, - non meno che dalla contemporanea notizia del convenuto fra
l'Assemblea e il Municipio di concertare le provvidenze per la salute della
Patria, imparai che mi era stato ritirato il potere, e che ormai poteva
sperarsi che ladronecci non sarebbero successi, omicidii non rinnuovati;
insomma il motivo, temuto reazionario ed anarchico, diventava politico, e
tendente al fine, che fra tre giorni ancora, in virtù di solenne
deliberazione dell'Assemblea Costituente, avrebbe conseguíto pacificamente il
Paese.
Esaminiamo i tre
deposti. - Quello del Conte accenna a cosa non presente, bensì da farsi in
futuro, e sotto due condizioni: la prima, che le cose sostassero; la seconda,
che agli adunati piacesse. Quello del Brocchi spiega una propensione, non
volontà determinata, a operare cose presenti, o future. Quello del Venturucci
dichiara: volontà portata all'atto. Tutto questo che monta? Importa: che un
deposto per necessità esclude l'altro; - importa: che da un uomo comecchè
versato mediocremente, non dirò nelle regole della ermeneutica forense, ma in
quelle della Logica e del senso comune, dovrebbersi rigettare tutti i deposti.
Invece l'Accusa, che sta insieme con la Logica come gennaio con le more, gli
allega tutti, comecchè si contradicano, e si elidano, in prova del medesimo
fatto! - Oltre il contrasto fra loro, che gli rende inattendibili, per poco che
tu rifletta su quello del Digny, tu vedi correre i vermini della bugia su tutte
le sue parole; infatti, come poteva egli prendersi travaglio di un partito che
doveva effettuarsi in avvenire impossibile? Come richiamare l'attenzione degli
adunati su le conseguenze di cosa non avvenuta, e che non poteva accadere? Come
ammonire le persone dei pericoli a cui si avventuravano per colpa di una
minaccia partita unicamente da me? Il Brocchi almeno si mostra meno stolido, se
non più verace, poichè, le minaccie da lui si affermano di arresto immediato, e
veramente furono per la parte dei signori Ciampi e Cipriani, ma nel senso di
rammarico di mancata parola; e poichè da più era mossa la minaccia, sta bene
eziandio che a più lo ammonimento si dirigesse. L'Accusa pertanto, comecchè
alleghi tre deposti discordi, tuttavolta si fonda sopra uno solo (altra prova
di senno nell'Accusa!), ed è quello del Dottore Venturucci. Conoscendo la
lealtà dell'uomo onorandissimo, io viveva sgomento e dubitava della mia
memoria, quando venne a confortarmi la lettura del suo esame, dove dichiara:
«Rispetto alla prima domanda, cioè se il Guerrazzi accogliesse benignamente la
proposta della Deputazione nella Sala delle Conferenze, ripeto quello
che ho annunziato. - e presso a poco disse le parole che ho riferito, -
ma tardò poco a calmarsi e a convenire con i signori Municipali; ed è da
notarsi eziandio che il Guerrazzi era già alterato per alcuni rimproveri che
gli avevano fatto di non essere comparso, secondo il convenuto, la sera
antecedente nella ora stabilita all'Assemblea.» Non deponendo pertanto il
Dottore Venturucci assolutamente, ma a un dipresso, non è da dubitarsi
neppure un momento, che non sia per trovare esatta la mia narrativa, molto più
che stando egli dal lato opposto, in fondo della tavola lunghissima, e lontano
dal gruppo dei disputanti, non distinse da cui si partisse la intimazione dello
arresto, la quale in vero fu fatta, come ho avvertito, per la parte dei signori
Cipriani e Ciampi, e secondo che per bene due volte dall'avvocato Brocchi
ancora si dichiara. - Nè già si creda che io qui arresti la dimostrazione: io
vo' perseguitare l'Accusa con la verità, com'ella mi ha perseguitato con la
fallacia. Il Cavaliere Martelli, uno dei tre Municipali, interrogato, depone:
che, quando egli venne col Conte Digny e col Brocchi per la seconda volta
all'Assemblea, vi trovò anche me, e che a lui rivolgendo la parola mostrai:
«propensione grandissima per conciliare le cose, e gli dissi: farmi paura i
Partiti, e dichiararmi parato a tutto per metterli d'accordo;» inoltre,
contestatogli il deposto del Conte Digny su le minaccie, risponde
francamente: «Io non intesi cotesto discorso di certo; può essere che
l'abbia fatto quando non vi ero io» (e questo non poteva darsi, perchè si
presentò con gli altri, e la disputa avvenne alle prime parole). «Al
Municipio in cotesto giorno sentii parlare delle minaccie di arresto state
fatte contro il Municipio da alcuni Deputati, ma non intesi includere fra essi
il Guerrazzi.» Ed è questo il secondo riscontro della verità della mia
narrativa, e della fallacia del supposto dell'Accusa. - Terzo riscontro:
Panattoni, Avvocato, attesta che dai colloquii uditi rilevò che minaccie
veramente non accaddero, ma rammarichi per la parte di alcuni Deputati,
e forse anche del Capo del Potere Esecutivo, a cagione che il Municipio
non avesse secondato gli accordi che si dicevano passati col signor Professore
Taddei, e resultanti ancora dal Manifesto stampato, ecc724. Quarto riscontro: Panattoni, Avvocato,
condottosi al Municipio per proporre temperamenti conciliatorii, ascolta urli
di gente tumultuante che dice: essersi deliberato arrestare il Municipio;
ond'egli esce ad arringare cotesta turba per ismentire la voce calunniosa,
non si sa come diffusa fra il Popolo, e Digny conferma la verità della buona
intelligenza che passa fra l'Assemblea e il Municipio725. Quinto riscontro: Panattoni, Avvocato, espone,
che fu detto, e gli pare anche da qualche Deputato, che il Dottore Venturucci
narrasse poco dopo questo fatto, ma che fu giudicato un suo male inteso. Sesto
riscontro: Se le minaccie in discorso fossero state profferite da me, e
ritenute temibili dai Municipali, non è da credersi ch'eglino si sarebbero per
un'altra volta, come fecero, commessi in mia potestà. Settimo riscontro: Se io
avessi bruscamente intimato l'arresto al Conte, breve ora dopo trattenendosi
col Chiarini non gli avrebbe dimostrato dispiacenza per non essere io stato
accettato, com'egli ne faceva istanza, a parte della Commissione Governativa726. Ottavo riscontro: Nel giorno 14 aprile il
Conte trova il Chiarini Segretario al Ministero dello Interno, e gli dice:
«Giusto, aveva bisogno di vederti; insomma, tentano fare una Reazione?»
Interrogato da cui, risponde: «Dagli esagerati.» Ed ingegnandosi il Chiarini di
provargli cotesto suo concetto fallace, il Conte soggiunge: «Ma intanto
volevano ieri l'altro arrestare il Municipio.» Chiarini di nuovo: «Non ho
sentito dire niente di questo, e non lo credo.» E il Conte: «Eppure mi viene
assicurato che lo dicesse il Guerrazzi.» - «Io» obiettava Chiarini «non lo
crederei nè anche se glielo avessi sentito dire727.»
Digny tacque; Chiarini fu dispensato prima, poi dimesso dallo impiego. Io ho
notato come il proverbio, che corre fra noi, dice: chi il suo can vuole
ammazzare, un pretesto sa trovare; - ma Digny non seppe trovare neanche il
pretesto, dacchè il Conciliatore del 13 aprile annunzia un motivo per
giustificare la trama ordita a mio danno, ma, parendogli che non potesse
reggere in confronto degli atti miei, va in cerca di un altro, e, come vediamo,
non è più felice adesso. E quale il pretesto affermato nel 13 aprile dal Conciliatore?
Eccolo, e somministra il nono riscontro della verità delle mie parole:
«Il Dittatore Guerrazzi ostinavasi
nel ritenere nelle mani un potere rimasto senza valore. Alcuni Deputati
ostinavansi a rivaleggiare (sic) di forza col Municipio. Non mancò
tra loro chi chiedesse fosse posto in istato di accusa il Municipio e la
Commissione aggiunta.» - Pretesto alla iniqua guerra nel 13 aprile era la
mia renitenza a lasciare il Potere; la proposta di porre in istato di accusa il
Municipio e la Commissione annunziavasi sì, ma ad alcuni Deputati attribuivasi;
trovata debole la prima calunnia, estendono anche a me, anzi unicamente a me,
la seconda; però che nella musica della calunnia s'impari maravigliosamente
presto a trapassare da una nota all'altra.
Dunque è chiarito: non
essermi opposto alla Restaurazione, ma invece adoperato onde riuscisse
subitamente universale e felice; - avere rampognato i Municipali, non già della
iniziata Restaurazione, bensì di slealtà per mancata parola, e di periglioso
consiglio, convertente a vittoria meschina di Partito quella deliberazione, che
per essere dentro e fuori proficua doveva e poteva presentare i caratteri che
ho qui avanti notati: - non avere minacciato, molto meno intimato l'arresto di
persona.
Con tale e siffatto lusso
di prove in contrario, la imperterrita Accusa scrive, senza che la mano le
tremi, come io nello intento di oppormi alla Restaurazione un po' compita,
un po' incoata, minacciassi prima, intimassi poi l'arresto ai
Municipali. Le mie parole dovrebbero suonare severe a carico di quanti nei
Documenti dell'Accusa parteciparono, ma taccio, e raccomando al Paese Civile,
ai Governanti nostri, al Principe nostro temperantissimo, considerare se per
questa via si renda rispettabile l'Autorità, e veneranda la Giustizia, salute
estrema di società commosse.
Riprendo la mia
narrazione. I motivi che mi persuadevano a insistere, perchè il Municipio
deponesse il pensiero di camminare disgiunto dall'Assemblea, erano di due
sorte: i primi di onestà, e fu dimostrato; i secondi di politica convenienza, e
gli esposi ai Commissionati Municipali che ne rimasero percossi così, che,
condannato lo intempestivo Manifesto, promisero correggerlo. «Il Municipio» io
diceva «si propone due fini parimente ottimi, e necessarii: preservare il Paese
dalla invasione straniera, mantenere incolumi le libertà costituzionali; in
quanto a me, avevo disposto le cose in modo, che la Restaurazione in guisa
diversa, che mi sembrava più onorevole, e ad un punto più sicura, si operasse;
ma l'uomo trama e la fortuna tesse. Quello ch'è stato è stato, ed ormai tutto
lo studio nostro si ha da riporre in questo, che ciò che ebbe mal principio
riesca a prospero fine. Importa massimamente che non si manifesti dissenso in
veruna parte delle Provincie, e che il moto si dilati universale e spontaneo. A
conseguire un tanto scopo, parmi, non che utile, necessaria l'adesione
dell'Assemblea, per rimuovere l'obietto che taluno potesse fare, questo essere
un partito imposto da Firenze, non consentito da Toscana tutta728. Versiamo in cosa di pericolo grandissimo,
procuriamo con sommo studio evitare ogni accidente capace a fornire appiglio o
pretesto di offenderci. Quando anche l'adesione dell'Assemblea non vi paresse
necessaria, e forse nemmeno utile, accettatela tuttavolta per misura di
cautela, che negli eventi dubbiosi non è mai troppa. Se nel rifiuto ostinandovi
ne venisse a nascere danno, pensate, a qual carico voi vi esporreste? Di faccia
al Paese voi sareste tenuti a rendere conto di qualunque sventura potesse
succedere. Comprendo voi andare orgogliosi della presa iniziativa; voi non
volete dividere con altri la gloria delle durate fatiche, per infrenare
l'anarchia e la parte repubblicana; voi non consentite partecipare con nessuno
l'onore dei pericoli corsi, per apparecchiare questo evento; e sia così; la sua
parte ad ognuno729: ma adesso, dato bando
ai consigli della vanità, vediamo insieme quali rimedii possiamo apportare alle
fortune afflitte della Patria.» Piacquero i consigli e le parole; suonavano
uguali a quelle che adoperò più tardi il Conciliatore, Giornale di
cotesto Partito, - con una differenza però: che io le diceva di cuore, egli per
finzione730; - e fu risoluto che
una Deputazione dell'Assemblea si conducesse al Municipio per confortarlo di
non operare scissura, e starsi unito per carità di Patria. Affermano testimoni
degni di fede, che per me in questa occasione si dettasse una carta731, dove erano indicate le guise dell'operare
congiunto dell'Assemblea col Municipio; e questo dimostrerebbe quale e quanto
studio da me si ponesse, onde la bene iniziata alleanza non si disfacesse, e a
fine fruttuoso s'incamminasse. Questi consigli e queste profferte andavano a
presentare al Municipio il Generale Zannetti e l'Avvocato Panattoni,
accompagnati dal Dottore Venturucci, e dai tre Municipali, Digny, Brocchi e
Martelli. Quivi giunti esposero la commissione, la sostennero con buoni
argomenti, sicchè fu di nuovo statuito solennemente che, in tanta opera,
Municipio e Assemblea avrebbero proceduto congiunti.
Tardando le risposte, fu
avviso di condurre l'Assemblea nel Palazzo Vecchio, però che la Camera, non
avendo chi la guardasse, poteva di leggieri, siccome già minacciavano, essere
forzata; e così fu fatto. Tornarono alla perfine i Municipali, Digny, Brocchi e
Martelli, e poichè, secondo quello che Panattoni racconta, le profferte
nostre erano state con lieta fronte accolte dal Municipio, vuolsi credere che
per accordarsi con noi intorno alle ulteriori operazioni venissero; - tutto al
contrario: essi venivano ad accertarci, che il Municipio, rigettata ogni
proposta di conciliazione, aveva deliberato di fare da sè solo. - Commosso da
questo partito, di cui prevedevo e sentivo gli effetti perniciosi, con quelle
parole che la profonda convinzione sa suggerire meglio persuasive, io
supplicava a considerare i mali a cui stavano per esporre la Patria. Livorno
alle ordinanze del Municipio Fiorentino non era da credersi si volesse
sottomettere, e la ragione non importava che si dicesse; e il suo dissenso solo
guasterebbe l'armonia del disegno, e metterebbe in repentaglio tutto il bene
che si auguravano ricavare da quello. «Ma che cosa è mai» io domandava «questa
durezza? Qual tristo genio v'insinua nell'animo i fatali consigli?» Mi
avvertirono come i loro Dottori avessero considerato, che l'unione
dell'Assemblea col Municipio veniva a contaminare la origine governativa di
questo, e forse a metterlo in imbarazzo co' Rappresentanti delle Potenze Estere
da cui speravano protezione. Alle quali ragioni io fervidamente rispondeva: «Ed
è prudenza questa, per guardare fuori di casa, trascurarla dentro, e per una
protezione dubbia, che non verrà forse mai, non attendere a pericolo sicuro che
accadrà di certo? - E poi anche a questo vi ha rimedio, e pronto; uditelo se vi
talenta. - Io sarei di avviso, che si mettesse fra noi una proposta a partito;
la quale, deliberata, si pubblicasse con le stampe, e dicesse:
«Il Municipio
fiorentino, provvedendo alla salute della Patria, ha deliberato restaurare il
Principato Costituzionale in Toscana, e assumere il Governo Provvisorio del
Paese, finchè non abbia disposto in altro modo la Corona. L'Assemblea
Costituente Toscana, considerando che il Municipio fiorentino con questa sua
Deliberazione altro non abbia fatto che prevenire il suo voto, aderisce
pienamente alla deliberazione, dichiara il suo mandato adempito, e, lasciando
al prelodato Municipio la cura di condurla a compimento, si scioglie.»
Proponevo eziandio che il Generale Zannetti e il Professore Taddei si chiamassero
a parte della Commissione Governativa per senso di convenienza; e ciò tanto più
agevolmente potevano assentire, in quanto che Zannetti avessero già chiamato, e
il Professore Taddei fosse per ogni conto meritevole di tanto onore. I
Municipali accettarono la mia proposta piuttosto con esultanza che con
soddisfazione; come savissima e opportunissima la lodarono; e commisero la cura
di compilarla a taluno dei presenti; e questi sì fece, ma, letto lo scritto,
non parve suonasse, e veramente non suonava, a dovere; onde Guglielmo Conte
Digny prese a dire: «Troppo più mi garbavano le parole del signor Guerrazzi;
via, signor Guerrazzi, la prego non le sia grave di scrivere ella stessa quanto
ha proposto.» Al che risposi lo avrei fatto molto volentieri; se non che
sentendomi, pei tanti travagli patiti, un po' confuso di mente, io gl'invitava
a lasciarmi solo; e questo di leggieri assentirono732.
Qui fu. - e il cuore mi
si stringe a raccontarlo, - che letta la minuta dello scritto, e andata
altamente a grado ai Commissionati, il signor Digny con tale una sembianza, -
che parea Gabriel che dicesse: Ave! - mi parlava le parole, che per
certo egli deve aver fatto stampare nel Conciliatore del 14 aprile 1849:
«Si stringano dunque i Liberali intorno al Vessillo Costituzionale, salvino con
esso gl'interessi della Libertà, salvino le ragioni dell'avvenire..... Gli
errori comuni saranno argomento di reciproco compatimento; i sagrifizii che
tutti faranno delle private opinioni saranno cagione di reciproca stima; la cooperazione
di tutti a ristorare i mali passati sarà garanzia di nuova concordia.» Bene è
sciagurato quegli di cui il cuore sta duro a questi nobili inviti; ma come ha
da considerarsi l'uomo che fabbrica dei sensi magnanimi e santissimi una
coltella per tagliarti proditoriamente i garretti? - Nè qui si rimasero i
fervorosi favellii del Conte, che me lodava tuttavia e levava a cielo per
l'ottima mente dimostrata sempre, e più che mai scongiuravami a soccorrere la
Patria; ed io commosso rispondeva: «O che credete, che la Patria prema a me
meno che a voi? Salvate le Libertà Costituzionali. Spero andrà bene ogni cosa,
ma temo che da Livorno voglia venire opposizione; pure io mi vi porterò subito,
e opererò in maniera, mercè lo aiuto degli amici, che stia contenta al fatto;
però considero che Livorno è ingombra di gente straniera, la quale non ha
cuore, nè interessi toscani, e questa per certo farà resistenza. Bisognerebbe,
se il mio presagio si avverasse, e si avvererà di certo, avere autorità di
farla arrestare e allontanarla: ora a me simile autorità è venuta a mancare, e
non potrei ordinare l'arresto di persona senza offendere le leggi. Se vi pare
bene, datemi facoltà capace a ovviare questo temuto impedimento, e riposate
sopra la mia fede tranquilli.» Il Conte Digny accolse premurosamente la
proposta, e mi domandò quando contavo di partire per Livorno; alla quale
interrogazione avendo risposto: «subito, col treno della Strada ferrata delle
4;» egli mi fece osservare, come nello spazio breve di tempo non avrebbe potuto
procurarmi la commissione in discorso, e ch'egli trovava opportunissimo mi
fosse conferita; però pregarmi a volere attendere fin dopo le ore ventiquattro,
ch'egli sarebbe allora venuto a portarmi la spedizione necessaria. «E come
potrò partire io dopo le 24, se non vi sono altre partenze?» gli osservai; ed
egli rispose: con treno speciale. Qui certamente fu, che narrando io la
mia amministrazione avermi stremato di pecunia, così che pochi paoli mi erano
rimasti addosso, e non potere commettere la spesa, piuttosto grave a privato,
di un traino a posta per la Strada ferrata, il Cavaliere Martelli,
generoso e buono, soggiunse: «Non essere di ostacolo il danaro.» Ed io credei
ancora profferire le parole che ho detto di sopra, avvegnadio già sentissi
romoreggiarmi attorno certe male voci di danari espilati, che nella sera poi si
convertirono apertamente con infamia eterna di chi le suggeriva alla plebe
sciagurata in: «ladro!733» Allora il Conte
soggiunse: «Dunque mi dia parola aspettarmi;» ed io: «Le do parola;» e ci
toccammo le mani.
Per completare il
racconto, mi giovo adesso della relazione che mi fanno pervenire testimoni
oculari dei casi che narro. Letto lo scritto che fu da me dettato a richiesta
del Digny, e approvato largamente così dai Municipali come dai Deputati, era
rimesso al Municipio dai signori Dottor Venturucci, Alimonda, Digny, Brocchi e
Martelli. Il Municipio, accolto il messaggio, e consideratolo, invitò i
messaggeri Dottore Venturucci e Alimonda a ritirarsi, per deliberare; indi a
breve richiamati, ebbero a sentirsi dire: il Municipio essere ormai deciso
operare solo, e respingere dal suo seno qualsivoglia rappresentante della
Costituente Toscana. Allora il Dottore Venturucci, altamente compreso della
convenienza di accettare il proposto temperamento, sia perchè si effettuasse
istantanea l'adesione delle Provincie, in virtù del voto dei loro
Rappresentanti, sia pei riguardi dovuti ai Deputati, i quali pure animosamente,
e non senza pericolo, avevano avversato la proclamazione della Repubblica e la
Unificazione con Roma, prese prudenti raziocinii a discorrere, affinchè il
Municipio dalla deliberazione sconsigliata si remuovesse; e poichè vide ogni
ragionamento tornare vano, esortò i signori del Collegio a darsi cura perchè ai
Deputati tutti, ed a me, fosse fatta amplissima abilità di partirci sicuri in
qual parte meglio ci talentasse. La
Commissione Governativa e il Municipio, unanimi, non solo assentirono, ma
solennemente promisero osservare la proposta del Dottor Venturucci, e Gino Capponi,
stretta la mano al Dottore, lo lodò per la solerte umanità di averla fatta.
Mentre attendevamo la
risposta per la parte del Municipio, ci venne referito come una turba di plebe
commossa già schiamazzasse dicendo vituperio all'Assemblea, ed a me. Il
Colonnello Tommi, sedendomi accanto, mi offeriva condurmi seco lui nella
vettura che l'aveva condotto, e che lo aspettava a piè dell'uscio del Palazzo
in via dei Leoni; io lo ringraziai, ma non ricordo, se la data fede di non
partirmi allegassi. Il Ministro Manganaro poco dopo propose di andare per una
carrozza di posta, e trarmi di là, ed anche questa gentile esibizione venne da
me rifiutata, fermo nel proponimento di osservare, come fra la gente dabbene si
costuma, la parola.
Digny e Brocchi, furono quelli
che vennero a significare la ripulsa, ed a me, cui pareva che in quel giorno
Dio ne volesse male, però che i nostri antichi costumassero dire: «Dio a cui
vuol male toglie il senno,» riuscì molestissima. Io non sapeva comprendere come
da uomini savii potesse rigettarsi il voto istantaneo di una adesione
complessiva, preferendo correre le dimore, le perplessità, e i pericoli dello
sperimentare le molteplici ed individue volontà municipali. Davvero, se fu
sapienza questa, io confesso di non conoscere più che cosa sia insania! Però
non mi sapevo dare pace, e, nello intento di accomodare la vela al vento
superbo che soffiava, per ultimo proposi che, messo da parte ogni concetto di
accogliere nel loro seno due Rappresentanti dell'Assemblea, il Municipio e la
Commissione stessero contenti al Decreto che l'Assemblea avrebbe pronunziato in
questa sentenza: «Aderisce all'operato del Municipio e si discioglie;» e se ne
giovassero. - Le ragioni che io dicevo così prorompono evidenti dalle viscere
stesse del soggetto, che Digny, rimastone commosso, mi richiese di ciò pure gli
facessi scrittura, ed anche in questo il compiacqui. Tale è la carta a cui
forse allude nel suo esame l'Avvocato Brocchi, e non ricorda portata al
Municipio; poichè per l'altra, precedentemente rimessa, è vero quanto fu detto
di sopra, ed anzi, oltre al doversi trovare negli Archivii del Municipio,
taluno dei Priori ne trasse copia per uso privato. In questa congiuntura
insistendo io su Livorno, e confortando il Conte a pensare alle difficoltà che
potrebbero sorgere da quella parte; egli alla presenza del Chiarini mi richiamò
ad osservare la mia promessa di aspettarlo la sera, rinnovandomi la sua, che il
Municipio e la Commissione mi avrebbero fatto partire munito delle domandate
facoltà, per treno speciale; e qui pure successero i fatti che depone il
Chiarini, nella parte seguente del suo esame: «Le idee di Restaurazione nel
signor Guerrazzi non erano ignote ad alcuni componenti il Municipio di Firenze;
ciò è tanto vero che, allora quando nel 12 aprile 1849 ebbe luogo quel
rovescio, e fu creata la Commissione Governativa, fu proposto che il Guerrazzi
si comprendesse nella Commissione, e tale proposizione fu appoggiata molto dal
Segretario del Ministro di Francia, e sostenuta da quelli del Municipio che lo
conoscevano bene. Oltre il prefato Segretario, potrebbe attestare questo fatto
il Conte Digny, il quale, allorchè più tardi venne nelle stanze del Ministro
della Guerra, disse al signor Guerrazzi: dispiacergli che non fosse stato
accettato per uno dei componenti la Commissione Governativa; e facendo sperare
che la sua proposta sarebbe stata accolta dal Municipio, lo pregò a
fargliene la minuta, la quale da questo fu fatta e consegnata al Digny. Questo
discorso del signor Digny, pare a me che provi abbastanza la sua persuasione
intorno alla tendenza del signor Guerrazzi a restaurare il Principato
Costituzionale, imperciocchè diversamente il Digny non si sarebbe attentato di richiedere
il Guerrazzi a stendergli cotesta minuta, ch'egli subito, e volentierissimo
dettò, ringraziando il signor Digny delle premure che diceva avere fatto per
lui onde nella Commissione Governativa si comprendesse, aggiungendo che non
avrebbe accettato, atteso il modo col quale il cambiamento politico era
avvenuto.»
Dopo piccolo spazio di
tempo mi comparvero innanzi i signori abate Bulgarini e Capaccioli,
incumbenzati dal Municipio e dalla Commissione Governativa a parteciparmi la
giunta loro imminente, e il desiderio che sgombrassi il Palazzo.
Il signore Bulgarini per commissione speciale del Conte Digny mi domandava
dov'egli avesse potuto rivedermi la sera; razionale ricerca a cui bene
intende, perchè, nel presagio che io rendendomi allo invito cortese sgombrassi
il Palazzo, il buon Conte voleva sapere in quale orto.... voglio dire in
qual parte avesse potuto darmi, secondo il convenuto.... la risposta.
Dissi: «Mi sarei ritirato nelle mie stanze; attendere il Conte nella sera
colà.» Il Capaccioli andò a portare la risposta al Conte, Bulgarini attese a
fare schiudere i passi che dal Palazzo conducono alla Camera dei Deputati734.
Intanto che il signor
Bulgarini e i custodi indugiavano in questa faccenda, io accolsi i Deputati in
casa mia. Indi a breve vennero ad avvisare aperta la strada; chiunque volesse
potersene andare liberamente, dove meglio gli talentasse. Parecchi fra i
Deputati pregarono, e con reiterate istanze sollecitarono affinchè seco loro io
mi partissi; ricusai sempre, allegando la promessa di aspettare fino a sera la
Commissione del Municipio; però gli accompagnai per le scale, e per la sala
alta del Palazzo, e poi mi ridussi da capo nelle mie stanze. Poco dopo mi
visitarono i signori Generale Zannetti e Colonnello Nespoli, il quale mi
consigliò a mettermi in salvo, offrendomi mandare una compagnia di Guardia
Nazionale per tutelarmi, andando alla Via ferrata Leopolda, ed io ricusai le
offerte rispondendo non avere alcun timore, ed essermi legato di aspettare fino
a sera. Egli allora con parole di affetto mi disse Addio, e chiese
potermi baciare, ed io lo baciai di gran cuore, ricambiandogli le parole con
quelle lodi che alla virtù del giovane egregio mi parvero condegne. Zannetti
aggiungeva: «Dunque io verrò a prenderti stasera, e allora ti bacierò735.»
Adesso, su per certi
Giornali ho letto che l'adesione dell'Assemblea non si poteva accettare dal
Municipio per tre ragioni, e non si doveva per una quarta. La prima
poichè l'Assemblea era prorogata; la seconda perchè pochi apparivano i Deputati
presenti; la terza perchè siffatta accettazione gli avrebbe tolto il credito
presso le Potenze. Nessuna di queste ragioni regge allo esame. L'Assemblea, per
prorogarsi che faccia, non perde il diritto di revocare la proroga quando le
piace, al sopraggiungere di casi gravi, e i sopraggiunti comparivano
gravissimi; non è poi vero che pochi fossero i Deputati; in breve ora potevansi
richiamare i partiti per Pisa, Lucca e Livorno; finalmente pel fine morale
dell'adesione bastavano pochi, non facendo punto mestieri specificarne il
numero, e la deliberazione si sarebbe presa alla unanimità dei Deputati
presenti; l'avrebbero sottoscritta il Presidente e i Segretarii soltanto, come
si costuma. Intorno alla terza io non voglio dire adesso, chè si è veduto a prova
qual frutto abbiano cavato da cotesto concetto; imperciocchè bene ammaestravano
i nostri vecchi, - che dopo il fatto, di senno sono piene le fosse; bensì
argomentando a priori, non si arriva a comprendere come una espressione
di consenso (al quale termine si era per ultimo limitata la mia proposta)
avesse potuto nuocere al credito del Municipio736,
che dall'Assemblea non desumeva autorità od incumbenza. - La quarta
ragione, per cui i Dottori affermano che non doveasi accettare l'adesione, consiste
nella sua inanità, perchè i Deputati sarebbero stati costretti a consentire; e
questo è cavillo mero, avvegnadio dalla storia degli avvenimenti successi parmi
chiarito abbastanza come l'Assemblea avesse dimostrato tale essere la sua
volontà, e per la opera sua a sostenerla gagliardamente, e con pericolo, da
questi stessi Dottori era stata lodata. No, tutti i sofismi col tempo
scompaiono, e, sviluppata dalla moltitudine delle parole dolose, rimane questa
verità: «pei consigli di superbia non si aborrirono gli eventi infelici che
avvennero pur troppo, i quali forse tutti, ma certamente in parte,
sarebbesi potuto evitare, e con essi le conseguenze che la Patria deplora.»
Sono così dolenti le
cose che mi avanzano a raccontare, così piene di amarezza infinita, che, non mi
comportando l'animo afflitto andare in fondo tutto di un fiato, forza è che mi
riposi continuando la digressione. Per mio giudizio, se il moto popolare sorto
dalla rissa dell'11 aprile potè convertirsi in politico nel giorno 12, vuolsi
attribuire alla cessata febbre del Popolo, - alla Guardia Nazionale, che in
nome di Leopoldo II accettava la Monarchia Costituzionale, e difendeva la città
dall'anarchia invano acclamante il nome del Principe; conflittava al Municipio,
e a quel Partito di Costituzionali che si presume ortodosso; che ritrovava, per
seguitare il Popolo, il coraggio che aveva smarrito nel giorno in cui bisognava
guardarlo in faccia; - agli animi disposti, agli ostacoli rimossi, alla paura
della invasione straniera, alla speranza, bandita come sicurezza, di evitare un
tanto infortunio col sollecito richiamo del Principe Costituzionale, e
finalmente, io pure lo dirò, al bisogno in moltissimi di fare porre in oblio,
dal Principato che ritornava, lo zelo professato alla Parte Repubblicana che
partiva. Però siffatte Rivoluzioni non sono mica miracolose, nè si operano da
sè; e come la Rivoluzione presente, e da chi fosse apparecchiata e disposta in
tutte quelle parti che non sono vili, se fin qui non giunsi a dimostrarlo,
oggimai tornerebbe vano insistervi sopra con altre parole. Supporre, come
l'Accusa ha fatto, pochi e deboli i Faziosi, e nondimeno potenti a tenere
oppressi Popolo, Curia e Senato, e da un punto all'altro vederli sparire, e'
sono novelle che non furono mai nel mondo, dalle cavallette in fuori: «e Moisè
stese la bacchetta sopra il paese di Egitto... e come fu mattina il vento
orientale aveva portate le locuste... poi voltò il vento in un fortissimo vento
occidentale, il quale portò via le locuste, e le affondò nel Mare Rosso, e non
vi rimase pure una locusta in tutti i confini di Egitto737.» L'Accusa, a quanto sembra, aveva in mente
questo passo dell'Esodo quando dettò le sue carte; ma coteste, giova ripeterlo,
sono storie di cavallette, non di uomini. Faziosi eranvi e non pochi, e
ardimentosi, e maneschi; non tanti però, che potessero violentare un Popolo
fermo nel volere di non sopportarli. Rammentate la notte del 21 febbraio 1849,
quando la città insorse come un uomo solo, contro la minacciata
irruzione dei villani? Or bene, di chi andava composta la turba accorrente a
respingerli? Di Popolo, non senza mistura, è vero, ma per la massima parte
fiorentino. - Chi lo chiamò? - Nessuno; spontaneo venne. - Chi io spingeva
allora? - Ebbrezza e paura. - Dunque leggiero o mendace fu nel 12 aprile, e
tale insomma da non fidarsene mai? - All'opposto io tengo che deva reputarsi
sincerissimo; e giova chiarire questo punto. Le anime umane conturbano di rado,
ma pure qualche volta, febbri più ardenti assai delle corporali, e non soltanto
quelle del Popolo per passione mobilissimo, bensì ancora quelle dei Magistrati,
dei Parlamenti, degli uomini insomma e dei Collegi, i quali, per istituto e per
dovere, hanno da camminare prudenti738. Come narrammo essere
accaduto in Inghilterra ai tempi di Carlo II, successe qui. Il Popolo, non
mendace, non finto, sibbene sanato dalla momentanea insania e sincerissimo,
abbatteva gli Alberi, che niente altro dicevano a lui senonchè le turbolenze,
le offese giudiciali e cittadine, e la invasione straniera degli anni 1796 e
1799: il Popolo sincerissimo ripose con affetto la granducale insegna, che gli
prometteva indipendenza patria, le riforme di Leopoldo I, lo Statuto di
Leopoldo II. Il Popolo era sanato; male pagò il Medico!
Così almeno giudicai
secondo il mio intendimento, ma non sembra che abbia ad essere in questo modo;
imperciocchè quantunque il Popolo a me paresse sano, pur vedo che lo continuano
a purgare.
E poichè la materia mi
tira, io voglio palesare quello che serbo riposto nell'animo, intorno al
contegno di quella parte di Costituzionali, che adesso chiamerò direttrice del
12 aprile 1849; e ciò faccio tanto più volentieri, in quanto che vedo due
Partiti alle prese fra loro, ed ho diritto di metterci ancora io la mia voce.
Uno di questi Partiti lamenta perpetuamente le speranze deluse di mercede pel
Paese, e credo eziandio un pocolino le speciali sue; l'altro, che richiama al
pensiero la immagine di Dante:
Come
procede innanzi dall'ardore
Per lo
papiro suso un color bruno,
Che non è
nero ancora, e il bianco muore;
alla scoperta gli dice: «Tu non hai fatto nulla;
ti posasti un bel giorno come la mosca su i bovi, e poi desti ad intendere a
cui ti voleva credere che arasti il campo.» Mi sia permesso affermare, che il
Partito dal color bruno, che non è nero ancora e il bianco muore, nel
giorno 8 febbraio avrebbe a buoni patti dato una gamba per essere lasciato
andare illeso con l'altra; doloroso e lacrimoso esclamava: Siam fratelli;
siam stretti ad un patto, con quanto tiene dietro. Il Partito direttore del
12 aprile, in cotesto naufragio avvisando salvare la pencolante società, attese
a promuovere la elezione del Governo Provvisorio con la voce e con la stampa;
io mi persuado che alle persone elette avrebbe voluto aggiungere qualche altra
dei suoi; ma che noi, o alcuni di noi volesse rifiutare, non credo: provveduto
in questa guisa al pericolo più urgente, incominciò a speculare intorno ai modi
capaci di restituire le forme costituzionali alla Toscana, - che in coscienza
le si confanno, e le bastano per quanto ho potuto conoscere di certo, mentre
stava al Potere, - e parve così a lui come a me trovarli nella Costituente
Toscana; di qui i suoi conforti a sciogliere il Parlamento, le persuasioni ai
Deputati a non intervenirvi se il Governo si mostrasse restío a farlo, e le
istanze a consultare il Paese col mezzo del suffragio universale. Il Partito
direttore del 12 aprile volle procedere solo nelle elezioni, senza dare al
Governo aiuto, nè riceverlo da lui; tuttavolta, malgrado che i Repubblicani vi
si affaticassero attorno con isforzo maraviglioso, ebbero a convincersi del
poco frutto che facevano, e lo confessarono739. I Direttori del 12
aprile non prevalgono nelle elezioni, però prendono ad avversare l'Assemblea da
loro medesimi voluta; mutato avviso intorno alle cospirazioni da essi
vilipese, adesso cospirano; e negarlo non giova, chè mi erano note coteste
conventicole e i luoghi dove si raccoglievano, ed io lasciavo fare però che
tendessero allo scopo a cui io stesso mirava, e, se amici non gli speravo,
nemmeno sperimentarli nemici temevo; e se taluno mi avesse presagito lo strazio
che reputarono onesto praticare meco, io gli avrei detto: «taci, tu menti!» I
Direttori del 12 aprile potevano, accostandosi a me, darmi forza e coraggio a muovere
l'ultimo passo, e dirmi apertamente: questi sono i nostri disegni; quali sono i
vostri? Potevano altresì, se tanto ero venuto loro in odio, persuadere
l'Assemblea a non eleggermi, a dimettermi, e precipitare le deliberazioni;
anzi, come avrebbero dovuto, potevano starsi allo stabilito nella mattina del
12 con l'Assemblea, che pure dichiararono della Patria benemerente; tutto
questo a loro rincrebbe, e davvero non si comprende a qual fine parlassero
affettuose parole, quando nei fatti incocciarono a mostrarsi superbi; dicevano
volere stringere tutti in amplesso fraterno: ma di che cosa sappiano cotesti
amplessi, provo io, che ne porterò i segni finchè mi duri la vita. Non
avrebbero per avventura giovato meglio a tutti parole meno soavi, fatti più degni?
- Ma no, essi calpestarono l'Assemblea e me, e si posero a capo del moto
popolare per sentirsi rinfacciare più tardi, che, se gli andarono avanti, ciò
fecero come il tronco dell'albero menato via dalla piena. Però, se i Direttori
del 12 aprile non erano, la sommossa popolare veniva sicuramente soppressa
dalla Guardia Nazionale e dai borghesi; imperciocchè le sommosse, dai cittadini
industriosi ed abbienti odiate sempre, ai nostri tempi mettano ribrezzo; i
cervelli incominciano a preoccuparsi anche fra noi della salute della Società:
quel rimescolarsi delle plebi cittadine co' proletarii delle campagne fa stare
pensosi, e le smodate condanne non giovano a nulla e la esperienza n'è vecchia.
I Direttori del 12 aprile, tolta in mano la sommossa, l'avvivarono,
l'atteggiarono, le diedero moto, le diedero, affetto740 la vestirono di tutte le speranze del tempo,
con i timori del tempo e degli uomini la fasciarono, l'afforzarono con tutte le
previdenze e con tutti gli apparecchi di lunga mano raccolti; ed avendola
assunta alla dignità di Restaurazione Costituzionale trovarono quaggiù
favorevoli tutti, dissidenti pochissimi o nessuno. Ora provano la
ingratitudine; ed io invece di rallegrarmi con empia gioia, e dir loro: qual
seme gittaste, tal messe raccogliete; piango con essi i nostri non degni
destini; e Dio, che vede i cuori, sa se io avrei mosso neppure un lamento per
lo strazio disonesto a cui mi hanno condotto, se oggi, mercè loro, la Patria
comune andasse consolata delle benedizioni, che essi le promettevano.
La sera il conte Digny
non mancava al convegno, e con esso venne il Generale Zannetti; e l'uno
e l'altro, come Mandatarii speciali del Municipio e della Commissione
Governativa, dicevano con accomodate parole: fossi contento esulare, tanto che
fossero quietate le cose, in estero paese. Ma sentiamo un po' il Generale
Zannetti come racconta il fatto: «Ella
m'invita» (così rispondeva l'uomo di coscienza cristiana al
Processante), «Ella m'invita a tornare
sopra una giornata della quale io dovrò rammentarmi, perchè, contro mia
volontà, è vero, ma pure in quel giorno anche io divento complice di mancata
parola. - Mi spiego: nella sera del 12 aprile riunitasi la nuova Commissione
Governativa, fra le varie e molte risoluzioni che ella prese, fu pure quella di
allontanare da Palazzo Vecchio il signor Guerrazzi, e siccome pareva alla
Commissione medesima prudenziale provvedimento, che il signor Guerrazzi si
allontanasse dalla Toscana, e dubitando ch'egli non volesse accettare, la
Commissione incaricava il signor Digny e me di comunicare questo progetto al
signor Guerrazzi ed invitarlo ad aderirvi; ed invero il signor Guerrazzi non
ESITÒ un momento ad accettare la proposizione di un passaporto per uscire di
Toscana, perchè, egli diceva: in qualunque luogo di Toscana io vada, se per
sorte succede qualche movimento, sarò io lo incolpato. Allora, in adempimento
della commissione ricevuta, il signor Digny ed io dicemmo al signor Guerrazzi che sarebbe partito nella
notte con passaporto per l'estero.»
Guglielmo Conte Digny
nega il convegno, nega la proferta del passaporto, nega il contratto religioso
e solenne; tutto nega: - qui occorrono due vie da governarmi col Conte; scerrò
la più mite.
Vi ricordate del
personaggio di commedia chiamato Rosignolo? Sì, certo, voi rammentate quel
gobbo che aveva tante e poi tante inventato girandole, che alla perfine, non
sapendo come districarsene, immaginò, per non essere côlto in fallo, un suo
trovato, e fu il seguente: narrò (e anche questa era girandola) come, navigando
per mare, un grossissimo cavallone lo aveva portato via dalla coverta, e
fattagli percuotere la testa nel bastimento così, che ne aveva perduto la
memoria; col quale pretesto quando gli tornava il ricordarsi, ei rammentava; e
quando non gli tornava, scusavasi con la capata nel bastimento.
Digny, intorno ai concerti
presi dal Municipio col Presidente Taddei la mattina del 12 aprile, rammenta
perfettamente avere letta la Notificazione dopo stampata; per gli altri
fatti, non ha la minima memoria avere letto la Notificazione prima che fosse
mandata alla stampa741.
Contestatagli la disputa
nella Sala delle Conferenze a cagione della mancata fede al Presidente Taddei, Digny
si sovviene solo che il Guerrazzi disse: «Signori, avete fatto una Rivoluzione,
ecc.;» per le altre cose, non rammenta con sufficiente precisione i
dettagli (sic).
Contestatogli il fatto
gravissimo del passaporto promesso e accettato, e però del contratto consumato,
Digny rammenta, che la Commissione non prese deliberazione sul Guerrazzi
finchè non fu trasportato a Belvedere; intorno al religioso deposto del
Generale Zannetti, dichiara: «non rammento avere data alcuna
assicurazione.... in tanta confusione di avvenimenti, dopo tanto tempo,
forse la mia memoria, - forse quella dello Zannetti si confondono....»
Contestatogli il fatto
dei danari da me richiesti al Marchese Capponi per le spese del viaggio, e
somministrati poi con autorizzazione ed ordine della Commissione
Governativa dal Municipio pel titolo espresso del viaggio, Digny
ricorda: «che la mattina del 13 Guerrazzi gli scrisse un biglietto a lapis, nel
quale lo pregava di domandare al Marchese Capponi una somma in prestito;»
quindi «sa che i danari per mezzo del Martelli mi erano stati trasmessi,
ma non sa menomamente che ci fosse la idea di farli servire al mio viaggio!»
Contestatogli che
Giovanni Chiarini, presente al contratto del passaporto, depone che fu promesso
al Guerrazzi di farlo partire mediante treno speciale, tre volte gli vacilla la
memoria, e dice: «Non ho memoria di avervi messo che poche parole e
insignificanti....; sebbene la mia memoria sia molto confusa in questa
parte, credo rammentarmi che condizionalmente si parlasse di
treni speciali; ma, ripeto, non ho memoria di avere avuto commissione formale,
sempre perchè la Commissione non aveva neppure discusso su questo soggetto.»
Ma sapete voi, signor Conte, che la vostra memoria è veramente infelice?
Nè qui soltanto
Guglielmo Conte Digny è d'infelice memoria; ma basti per ora. Forse il Conte si
lagnerà che non gli si abbiano i debiti riguardi, ed anche in questo avrà
torto; conciossiachè, se io dovessi prendere da lui lo esempio del punto
rispetto che a sè stesso porta, davvero che io temerei incorrere la taccia di
sboccato; e, al fine che lo asserto non vada disgiunto da prova, cred'egli che
io vorrei smentirlo quattro volte sopra la medesima cosa com'egli fa? - In
certa parte del suo deposto narra come egli venisse la sera a trovarmi nel mio
appartamento in Palazzo Vecchio, dove io lo aveva chiamato fino dalle 4 del
pomeriggio per dirgli che voleva andare a Livorno, ma egli nulla rispose!
In altra parte, narrando il medesimo fatto: «Guerrazzi insisteva col Zannetti e
con me per andare a Livorno, ma noi
adducemmo le grida e il tumulto per consigliarlo a non pensarvi per ora;»
dunque parlava, e sinistre parole, se io male non mi appongo? - In altra parte:
«È vero.... che col Guerrazzi e Zannetti si parlò di partenza;» dunque,
che siate benedetto, signor Conte, parlaste ancora di partire? - In altra
parte: «La conversazione si aggirò sulla possibilità di una partenza del
Guerrazzi, ma io non ho memoria di avervi messo che poche parole e
insignificanti....; credo rammentarmi che condizionalmente si parlasse di
treni speciali.» Dunque prima non parlaste; poi parlaste che non potevo
partire, e parmi questa significantissima cosa; poi parlaste parole
insignificanti, dopo averle parlate significantissime; finalmente parlaste di
treni speciali sotto condizione. Qual mai condizione? - Signor Conte, sapete
voi come nel nostro Paese si appellino coloro che quattro volte smentiscono sè
stessi? - Io glielo direi se non mi trovassi dove mercè sua mi trovo; o
piuttosto, tutto bene considerato, mi sembra che non glielo direi. A lui basti
sapere ch'è il testimone di predilezione dell'Accusa!
Cinque furono testimoni
presenti al fatto; e siccome essi non hanno battuto, come Rosignolo, il capo
nel bastimento, così non importa tenere su questo proposito più lungo discorso,
molto più che dalle cose successive viene maravigliosamente confermato.
Adesso cresce intorno al
Palazzo un tumulto di plebe ed uno schiamazzo di gridi: Morte! morte al
Guerrazzi! Chi poi cotesti urli incitasse, io non dirò; dirò soltanto la
contesa infame che dalla ringhiera che guarda Via della Ninna udimmo più tardi,
nella notte, agitarsi lì sotto al lampione. I gridatori non trovavano modo di
spartirsi la moneta ricevuta per la egregia opera di maledire e imprecare morte
a cui non conoscevano, e non gli aveva offesi mai, e nelle vecchie frenesie
loro trattenuti. Gli adulti, per assottigliare il prezzo ai garzoncelli,
adducevano la ragione che, avendo meno voce, men forte avessero gridato Morte
al Guerrazzi; e i garzoncelli non si arrendendo allo argomento, comunque
affiochiti, strepitavano, che era stato promesso a tutti (come agli Operaj
della vigna) mercede uguale; che quanto e più di loro avevano strillato: Morte
a Guerrazzi! e che non volevano soffrire bindolerie. E qui da una parte e
dall'altra un bisticciarsi da fare piangere gli Angioli, e ridere i Demonii.
Ahi sciagurati! Il fanciullo che avvezzaste a vendere l'anima sua a prezzo di
poca moneta per gridare morte a un uomo, gliela darà più tardi per rubargliela.
Voi renderete conto a Dio di quel delitto e di quel sangue. Tali erano le opere
civili e cristiane che nella notte del 12 aprile si commettevano a Firenze!
Di lì a breve fu inteso
romore come di gente che prorompe; e poi spalancata la porta del mio quartiere,
tra una mano di Guardie Nazionali, comparvero alcuni del Popolo; e il Generale
Zannetti venuto per me mi pregava a mostrarmi, ed io andai; e con accento
commosso volgendomi ai Popolani, dissi: «Che cosa volete da me? In che vi ho
offeso? Qual peccato voi mi rimproverate?» Essi tacquero; non una parola, non
un grido profferirono: io sarei stato curioso davvero di sapere quale colpa il
Popolo fiorentino mi apponesse. Però non cessavano in Piazza il tumulto e lo
schiamazzo, onde quei dieci o dodici che stavano quivi dentro rinchiusi meco,
fra servi, custodi, segretarii, e la mia nipote giovinetta pure ora uscita di
Convento, e la sua governante, si mostravano sgomenti, e lo dirò con
compiacenza, assai più per me che per loro. Temendo che la Plebe rompesse le
porte, alcuni tentarono a questo estremo caso un riparo. - Io auguro a tutti
quelli che mi hanno offeso di non trovarsi mai in simili strette, perchè
all'uomo può forse bastare il coraggio per sè fino in fondo; ma quel trovarsi
intorno gente atterrita, e di tutti avere a confortare gli spiriti smarriti, è
tale uno sfinimento a cui mal regge l'anima umana. Non pertanto l'Accusa acuta
e sottile si studia mettermi la mano sul cuore, e sentire com'egli mi battesse.
- Egli batteva come deve battere il cuore dell'uomo, che sa quali mali possono
fare gli uomini, e sente non meritarli742.
E poichè, - lasciamo da
parte il volere, - sembrava che i nuovi Governanti non avessero il potere di opporsi
alla plebe, che ad ogni ora ci dicevano in procinto di sbarattare la Guardia
Nazionale, e fracassate le imposte irrompere dentro a far carne; parecchi dei
racchiusi meco procuravano spiare luogo di salute, là dove questo estremo
accadesse, e qui pure il mio pensiero si consola, rammentando che quantunque mi
fossero per la più parte sconosciuti, nondimeno queste apprensioni per me
sentissero, queste diligenze per me facessero. In che queste ricerche
consistessero, a qual fine fossero dirette, e qual parte io vi prendessi, sarà
bene lasciare referire ai testimoni, perchè nel ricordare quel tempo parmi che
il mio strazio si rinnovelli. Però mi maraviglio, e non posso astenermi di
rimproverare a nome della Legge l'Accusa, che omise interrogare testimoni su
punti capitali, e con tanta compiacenza si allargò su questi particolari, forse
per argomentare dal mio spavento e dai miei conati di fuga la coscienza
colpevole, e poi non ne trasse costrutto essendole tornati contrarii; come se
potesse apprendersi quale indizio di colpa, lo studio di sottrarsi ai bestiali
furori di plebe avvinata e indracata743.
Dopo parecchie ore di
tediosa aspettazione, standoci, la mia famiglia ed io, in procinto di partire, ecco
una Guardia Nazionale, dopo l'ora fissata alla partenza, portarmi un biglietto
del Generale Zannetti, il quale diceva: «Alcuni non volere lasciare
libero il passo; opinare la Commissione di trasferirmi pel corridore dei Pitti
in Belvedere, donde remossi i Veliti avrebbe messo la Nazionale: però questo
accadrebbe nella prossima mattina; non dubitassi di niente, stessi tranquillo;
andassi a prendere per qualche ora riposo, che giudicava doverne avere di
mestieri744.» Questo biglietto unii
alla lettera, che nel tumulto di angosciose passioni io scrissi sotto gli occhi
del signor Galeotti, castellano di San Giorgio (poichè tale era l'ordine; e le
cose necessarie a scrivere di lasciare in potestà mia si negava!), e mandai a
Gino Capponi e agli altri Componenti la Commissione Governativa il 25 aprile
1849. Questo biglietto è stato soppresso! Così tentavasi abolire ogni
prova del patto violato a mio danno, e me seppellire sotto la lapide del
tradimento, senza neppure lasciarmi la consolazione di potere dire al mondo:
«Popoli civili e anche barbari, vedete come si tiene fede a Firenze!» Ma ciò,
come a Dio piacque, non valse al fiero disegno. Mi stava su l'anima una
amarezza infinita, come un Zannetti, che pure mi parve angelica natura, avesse
potuto avvilirsi tanto da sostenere meco le parti di brutto Giuda Scariotte, e
tuttavia mi pesa per Gino Capponi... e mentre scrivo queste righe infelici...
la mano mi trema, e gli occhi mi si offuscano di lacrime, - ma non per me.
Un'aura di refrigerio penetrando nello infame carcere, mi portò che avessi a
deporre ogni amarezza contro il Generale Zannetti, avvegnadio fosse stato
ingannato, non ingannatore; quasi nel punto stesso mi capitava sott'occhio il
suo Rendiconto generale del servizio sanitario dell'armata toscana spedita
in Lombardia per la guerra della Indipendenza, dove trovai scritto il nome
di Domenico Guerrazzi, giovane accademico, rimasto ferito di mitraglia
nell'avambraccio sinistro, nella sempre onorata e sempre dolorosa battaglia di
Montanara, e di qui trassi argomento per dirgli, che io avevo dubitato di lui,
ma oggimai, saputo il vero, avergli ridonato la mia stima; si consolasse:
continuare io a ritenerlo, come lo reputai sempre, quanta lealtà viveva al
mondo; ond'egli subito, per riparare al mal soppresso biglietto, mi
scriveva la lettera seguente, che, senza sentirsi più spessi sussultare i
polsi, io non credo si possa leggere da uomo vivente, amico, od avverso, che
sia.
«Pregiatissimo
Amico.
«9
settembre 1850.
«La lettera che mi dirigevi l'altro jeri, fu a me carissima e di
verace conforto. Infatti, il pensiero di dovere nell'animo tuo essere
considerato come uomo sleale, come vilissimo traditore, ed ogni traditore ed
ingannatore è vigliacchissimo uomo, mi gravava potentemente su l'anima. Vero è
però, che dopo i miei costituti quel gravame si alleggeriva non poco; vero è,
che almeno allo Avvocato tuo difensore la dovutagli lettura del Processo doveva
palesare quanto io mi fossi stato leale in cotesta epoca. Pure essere oggi
fatto conscio, che tu pure lo sai, e non mi reputi reo in veruna particola di
quel turpissimo fallo della Commissione Governativa, agevolmente immaginerai
che mi fu, ed è di solenne consolazione. Però accogli sincero il ringraziamento
per la lettera che mi scrivesti, e pel gentile pensiero che ti prese di me dal
fondo del tuo sepolcro, monumento storico di vergogna........................
Ti lascio col desiderio che presto tu possa essere confortato dal termine di
una procedura, che già già per la sua lunghezza ha indignato i Cittadini, ed
anco i più avversi a te....»
Così mi scriveva il
Generale Zannetti or fa un anno e 20 giorni! - Ed io gli rispondeva:
«Caro
Amico.
«Ti ringrazio della
lettera e del libro. Certo la condizione del tradito è dura, ma troppo peggio è
quella del traditore. Questo mi dà conforto nel disonesto carcere. Il tempo poi
conduce le sue giustizie, e in ciò confido. Aspettare e sperare sono fondamento
di sapienza umana. Tra noi non abbisogna più lungo discorso. Addio; ci
rivedremo: io su la panca degli accusati, tu nel seggio dei testimoni.»
Come io dormissi, lascio
che altri pensi; - sul fare del giorno scrissi una lettera alla Commissione, e
questa pure è stata soppressa; non ricordo il dettato, ma lo effetto fu che
fece muovere il Conte Digny per assicurarmi stessi tranquillo, non volersi già
attentare alla mia sicurezza; solo alla Commissione non piacere che io toccassi
Livorno; mi adattassi a partirmi da un altro lato. Allora, e con ragione,
tornai a ricordargli mancarmi il danaro per questo viaggio; però pregarlo a
dire al Marchese Capponi, che le cose mie conosceva, m'imprestasse trecento
scudi, i quali gli verrebbero rimborsati a vista dal mio Procuratore a
Livorno; anzi questa domanda scrissi col lapis, e non mandai, ma
consegnai allo stesso Digny. Costui confessa possedere questo biglietto; lo
mostri. Indi a breve sopraggiunse il signor Martelli, al quale narrando il
successo, e sollecitandolo a fare in guisa che il Conte la commissione assunta
non obliasse, come persona turbata da cosa che le dia fastidio prese ad
esclamare: «no davvero! mancherebbe anche questa! - ella devia dal suo cammino
per compiacere il Municipio e la Commissione aggiunta; è giusto ch'essi pensino
alle spese del viaggio.» E poichè io avvertivo ciò non montare a nulla, perchè
ricco io non era, ma neppure tanto povero da non sopportare la spesa del
viaggio; il signore Martelli, sempre più infervorandosi nel discorso,
aggiungeva: «Il Municipio e la Commissione non lo possono patire assolutamente:
adesso andrò, e procurerò quanto bisogna.» - Allora, per una ragione che non
sarà difficile comprendere, favellai: «In questo caso, signor Martelli,
basteranno mille lire, di cui il Municipio potrà rivalersi sopra la
Depositeria, perchè dimani l'altro, 15 del mese, scade la rata mensile del mio stipendio,
ed il Cassiere della Comune potrà riscuoterla per me745.»
Per questo modo disposte
le cose, passa un'ora, passano due, senza più vedere uomo in faccia; nuove
adunate di plebe accadono in piazza, e me inique voci, ma più languide assai della
sera, maledicono e chiamano fuori.... ed io sarei andato fuori a domandare
ragione dei vituperii, e se avessi potuto parlare avrei condotto di quella
gente, almeno la onesta, a vergognarsi; invece Gino Capponi parlò per me! -
Come favellò Capponi? - Parole triste non disse, - di queste non può dire
Capponi.... ma io per Gino Capponi avevo, e avrei discorso in bene altra
maniera746! -
Verso le undici fu vista
una frotta di villani armati di falci, vanghe, ed altri arnesi rurali,
precedere le Guardie Nazionali, che piegavano verso il Palazzo; i villani
allagano i cortili, e levano su urli d'inferno, che per le angustie del luogo
forte commuovendo l'aria ebbero virtù di scuotere i vetri così, che pareva
volessero spezzarsi; io non comprendevo nulla, o piuttosto un'ombra truce di
sospetto passò su l'anima mia, e mandai pel Digny chiedendogli quali arti
infami fossero coteste; rispondeva scrivendo un biglietto, ov'è da notarsi
questa frase: «stessi tranquillo, darsi moto per provvedere alla mia personale
sicurezza.» Fors'egli per mia sicurezza personale intendeva trarmi in Castello
per consegnarmi poi all'Accusatore? Questa opera emulerebbe la immanità di
Maometto II, quando, dopo avere promesso a Paolo Erizzo salva la testa, lo fece
segare nel mezzo per non tradire la fede della capitolazione! Se non che il
fatto del Turco è dubbio, mentre quello del Conte so bene io se sia vero747. Verso le ore 12, venti o poche più Guardie
Nazionali in compagnia del Generale Zannetti e del signor Martelli vengono a
prendermi; non si mostrò Digny: - l'Accusa in vece sua si mostra, e indaga se
impallidii, se repugnai; e, raccolte risposte contrarie al desiderio, sta
cheta. Pellegrini, fra i primi testimoni ricercati dall'Accusa, a
siffatte inquisizioni risponde: «La mattina successiva rividi il signor
Guerrazzi fino alle ore 11 e 1/2, alla quale ora vennero a prenderlo il
Generale Zannetti e l'Ingegnere Martelli; - avendo io sentito che il signor
Zannetti gli disse: che andasse con lui (e mi pare anzi, che glielo dicesse
come domandargli se voleva andare con lui, e soggiungendogli che poteva,
volendo, condurre seco la famiglia): ed il signor Guerrazzi sentii che gli
rispose: «Eccomi;» e andò via unitamente con quei Signori.» - E più oltre: -
«Non mi accòrsi che si turbasse, e vidi, e sentii, che si mostrò subito
disposto di andare, come di fatto andò con quei Signori.»
E perchè doveva
impallidire io? Con me stavo bene; degli altri un sospetto mi aveva traversato
la mente, ma lo avevo respinto come tentazione del Demonio. Doveva dubitare di
Gino Capponi amico ventenne, mio confortatore nei primi passi che mutai nel
sentiero delle lettere umane? Poteva sospettare io avrebbe sofferto a tenere di
mano ad una prigionia, la quale me ha disertato e la mia casa, quel Capponi che
nel 25 gennaio 1848, al Carcere Elbano, così mi scriveva: «Per me, che io ti
abbia a scrivere in cotesto luogo, è cosa tale che io pongo tra le afflizioni
della mia vita: dispiace a tutti, credilo pure, e a me più che ad altri, per
quella antica familiarità ed affezione che ora mi preme più che in altro tempo
di attestarti; credimi ec.?» Poteva dubitare che me volesse prigione e
calpestato e distrutto Orazio Ricasoli, uomo che mi era parso di cuore
dolcissimo, e che tante grazie, pochi giorni innanzi, mi aveva profferto per
non crederlo capace di turbare lo acque già torbide? O Digny e Brocchi, che,
lasciato da parte quanto fu discorso fin qui, la sera stessa del ricevimento
dei Legati Romani, avevano tenuto meco discorso lunghissimo, nella Sala del Guardaroba
in Palazzo Vecchio, intorno alla necessità della Restaurazione Costituzionale?
O il Marchese Torrigiani, col quale intervennero onestissimi officii, di cui le
inchieste sollecito compiacqui, e a cui la sospetta lettera senza sospetto
rimisi? O il Senatore Capoquadri che, Ministro di Giustizia e Grazia, volle,
per eccezione amplissima ed onorevolissima, che senza esame la Curia fiorentina
nell'Albo degli Avvocati potesse ascrivermi? quel Senatore Capoquadri, il
quale, da me visitato Ministro, mi palesò breve sarebbe la sua durata al
Ministero, dacchè l'animo suo non gli consentisse patire certe emergenze che
non gli parevano regolari del tutto; onde io da lui dipartendomi nello scendere
le scale ripeteva col Dante:
O
dignitosa coscïenza, e netta,
Come t'è
picciol fallo amaro morso!
quel Senatore Capoquadri, che la sospetta
lettera ebbe da me senza sospetto, e me ne profferse grazie? Forse doveva
dubitare del Barone Bettino Ricasoli? Se mai avesse potuto rimanermi dubbio per
qualcheduno, di lui doveva sospettare meno che degli altri, perchè emulo
pubblico. Io così sento, e così con esso adoperai; ma pur troppo, e tardi, mi
accorgo che di siffatta magnanimità, che pure si ammirava virtù tra uomini
barbari e semibarbari, presso i civili è spento il seme. Temistocle, sè
confidando prima ad Admeto re dei Molossi, poi a Serse barbaro, fu reputato
sacro da loro; Santa Elena grida che cosa giovasse a Napoleone avere imitato
Temistocle; e se ai grandi esempii è lecito mescolare l'umilissimo mio, il
Castello di San Giorgio e l'infame Carcere delle Murate testimonieranno ai
presenti ed agli avvenire a che meni commettersi in balía della fede degli
uomini civili! - Mentre siamo per muovere, il signor Cavaliere Martelli Priore
mi consegna con autorizzazione ed ordine della Commissione
Governativa lire mille pel viaggio, che, dopo essermi fermato due o tre
giorni in San Giorgio, tanto che la plebe quietasse, dovevo effettuare
fuori di Toscana. - Martelli: «Peraltro, sebbene la Commissione su la
sorte del Guerrazzi non avesse deliberato, pure tra le altre idee vi fu quella,
non mi ricordo da cui esternata, di farlo allontanare dalla Toscana, dandogli
il danaro per ciò effettuare. Mille lire ebbi dalla Cassa Comunitativa, e le
consegnava la mattina del dì 13 al momento che da Palazzo Vecchio muoveva per
la Fortezza di Belvedere, sembrandomi
il momento di adempire all'autorizzazione ed ordine che mi aveva dato la
Commissione Governativa.» Ecco il Mandato in virtù del quale, nel giorno 13
aprile 1849, furono estratte dalla Cassa del Municipio lire mille.
Questo Documento, già
senza che vi sia mestiero avvertirlo,
non s'incontra nel
volume dell'Accusa, che pure stampò (Dio la
perdoni) fino la nota
della roba dei bauli. Però non è solo; altri
ne occorrono parimente inediti
che confermano la verità del fatto.
Il danaro dato prima fu
ripreso, perchè quei Signori pensarono
che pel viaggio da
Palazzo Vecchio al Castello di San Giorgio dovesse
essermene avanzato, e
per questa volta saviamente pensarono;
depositato presso il
Segretario del Ministro di Giustizia e
Grazia, Giuseppe
Cavaliere Martelli scrive la seguente lettera al
Cancelliere del
Municipio Fiorentino:
«Sig.
Cancelliere Preg.mo
Allorchè avvenne l'arresto
dell'Avvocato F. D. Guerrazzi, ella sa
che la Commissione Governativa si decise di aderire alla di lui richiesta, ad esso
accordando la somma di Lire 1,000, perchè trattavasi in quel momento di farlo
altrove transitare, mentre egli asseriva non aver presso di sè alcun danaro pel
viaggio.
Ed
avendomi l'annunciata Commissione affidato l'incarico di fare avere
all'Avvocato Guerrazzi la detta somma di Lire 1,000, in seguito di
diverse inutili premure da me fatte, per combinare in Palazzo Vecchio le
persone che dovevano farmene il mandato, io mi rivolsi a pregare Lei, signor
Cancelliere, per avere dal Cassiere della Comunità le Lire 1,000, onde subito io le potessi passare al signore
Guerrazzi, come di fatto feci.
Questa somma fu poi
ripresa nella perquisizione che ebbe luogo ai detenuti di Belvedere, ed ora si
trova al Dipartimento di Grazia e Giustizia presso il signor Segretario
Duchoqué, il quale lo aspetta oggi alle ore 12 al suo Uffizio, per
riconsegnarla a lei o ad un suo delegato, dietro una circostanziata ricevuta.
Così Ella ed io
resteremo esonerati da ogni responsabilità, in questo affare, per lo che io la prego
a favorire di ritirarmi la ricevuta che ritiene il cassiere del Comune di
Firenze. E pregandola a praticare in quest'affare la sua consueta esattezza,
onde il signor Segretario Duchoqué non aspetti inutilmente, passo con ossequio
e rispetto all'onore di dichiararmi,
Dall'Uffizio delle RR.
Fabbriche, li 2 giugno 1849.
Dev.
serv. Giuseppe Martelli.
All'Eccellentissimo
Sig.re il Sig.r M. Gotti
Cancelliere
della Comunità di Firenze.»
Il Cancelliere, che sa tutte
le cose che il Cavaliere leale gli contesta, scrivendo al Segretario ne
dichiara eziandio bene altre ancora: egli sa, a modo di esempio, che la
Commissione, composta di tutti i
Priori residenti nel Magistrato rappresentante il Municipio Fiorentino, ordinò a lui Cancelliere, si dessero le
lire mille per la causa espressa nella lettera del Cavalier Martelli.
Documento a c. 570 nero.
Illus.mo
signor P.ne Col.mo
Dall'unita ufficiale del
signor Cavalier Giuseppe Martelli, uno dei Componenti la già Commissione
Governativa Toscana, di questo stesso giorno, rileverà la causa che motivò la stessa Commissione, che si componeva di
tutti i signori priori residenti nel magistrato rappresentante il Municipio di
firenze, ad ordinarmi di spedire, conforme feci, nella mattina del 13 aprile
decorso, un mandato di llre 1,000, marcato di n° 424, a favore del prelodato
signor Cavalier Martelli, per passarsi all'Avvocato F.-D. Guerrazzi, per il
titolo espresso in detta officiale. E siccome la somma predetta esiste
presso V. S. Illustrissima, per quanto resulterebbe dalla mentovata lettera del
signor Martelli, mentre questa Comunità non ha ottenuto rimborso dal Regio
Erario, così prego la somma di lei bontà a volere liberamente passare allo
stesso Camarlingo, e per esso al suo Sostituto Legale, latore della presente,
l'ammontare di detto Mandato; ritirando dal medesimo o distinta ricevuta, o
meglio (almeno per quanto a me sembra) in calce di detto Mandato. E colla più
alta considerazione e profondo ossequio, passo al pregio di protestarmi,
Di VS. Illustrissima,
Dalla Cancelleria
Comunitativa di Firenze, li 2 giugno 1849.
Umiliss. Servo
Firmato - G. Gotti.
Al signor Segretario del
Ministero di Grazia e Giustizia.»
Andando con la nepote e
la governante, chiesi (dacchè trattavasi di pochi giorni) mi seguitassero
Roberto Ulacco segretario, e i due servitori; e lo concessero; Ulacco subito, i
servitori più tardi. Durante il cammino.... Ma giova sempre, quando si può, che
da per loro i testimoni raccontino. - Generale Zannetti: «Siccome,
strada facendo, il signor Guerrazzi mi domandò più volte s'egli era
prigioniero, oppure se così si agiva per tutelarlo semplicemente dal Popolo, non mancai riassicurarlo, dicendogli che la
Commissione non poteva mancare a sè medesima. ma poichè ebbi ad accorgermi
che la commissione governativa non
manteneva altrimenti la sua promessa, e più che mancava di fede e di riguardo
alla Guardia Nazionale, ed allo stesso Capitano consegnatario, unendo i
Carabinieri alla Guardia Nazionale, per tutelare il signor Guerrazzi; e di più
vedendo che la Commissione Governativa non teneva la promessa della intera
ripristinazione del Governo Costituzionale; io che aveva firmato con
lei, a nome della intera Guardia Nazionale, il primo Decreto da essa fatto
della Restaurazione del Governo Costituzionale, non trovai altra via lecita e
conveniente a calmare la mia coscienza, che quella di ritirarmi dal posto di
Generale748.» Però mi veniva
confermando, che la Commissione di mandarmi a Livorno non aveva voluto
intendere nulla, e mi tornava a interrogare se io fossi contento davvero di
starmi per qualche tempo lontano dal paese; ed io gli rispondeva: - che lo
avrei reputato (tanto mi sentiva sbigottito dalle sventure della Patria) sommo
beneficio; però conoscere egli le mie fortune, e a vivere fuori con la mia
famiglia lungamente non mi bastare; ed egli cortese si esibiva tornare la sera
a conferire meco in proposito; la quale cosa non consentii, dicendo tenermi per
soddisfatto se avesse voluto favorirmi il giorno veniente. - Così alternando
varii discorsi arriviamo al quartiere del Comandante le Guardie di Onore, dove
ci tratteniamo alquanto; quindi prendendo passo passo su per l'erta del monte
giungiamo sotto le mura della Fortezza di San Giorgio. Qui mi occorre un'altra infamia;
le mura apparivano gremite di Veliti, i quali presero a profferire minaccie e
improperii contro di me. Io strinsi il braccio al Generale Zannetti, e
guardatolo in volto lo interrogai con voce tranquilla: - Dove mi porti? - Come
restasse quel virtuoso uomo, male può con parole referirsi; chiamò tutto
commosso il Comandante del Forte signor Cavalier Galeotti, il quale o non
poteva reprimere cotesta ignominia, o la sopportava, e acerbamente lo
rimproverava dicendogli: «Così non mantenersi patti; Carabinieri non dovere
essere in Fortezza; ricondurmi indietro finchè non isgombrassero.» Il
Comandante Galeotti lo chiamò in disparte, sussurrandogli non so quali parole
nell'orecchio, a cui il signor Zannetti non parve acquietarsi. Retrocedemmo al
Palazzo Pitti; passata qualche ora, torna il Generale affermando che adesso
potevamo andare sicuri, perchè i Veliti a tenere dei patti erano stati remossi,
e che le parole date si avevano ad osservare. Certo, quando pervenimmo la
seconda volta sotto la Fortezza, Veliti non vedemmo: i Veliti erano stati
appiattati nel quartiere; partito appena il Generale Zannetti uscirono fuori! -
Così, postergato ogni pudore, prendevano bruttissimo giuoco della fede di
uomini onesti! - In quanto al Comandante del Forte, mi proverò a sforzarmi di
credere che egli non fosse partecipe di cotesta infamia. E infamia fu, però
che, come ho annunziato altrove, questi, soldati no, ma della onorata milizia
onta perpetua, sotto le finestre venissero a inasprirmi con disoneste parole
l'amarezza del carcere, e traverso le imposte della porta taluno di loro
minacciasse volere darmi della baionetta traverso il corpo. O non vi bastava il
trofeo del canto al Mondragone749?
Mentre a diligenza del
Municipale signor Cavaliere Martelli apparecchiano il quartiere molto alla
lesta, come quello che doveva bastare per giorni, e si può dire per ore, io e i
miei ci riduciamo nelle stanze del Prevosto. Qui mi si mostrava assiduo al
fianco il Capitano Galeotti, e volendolo io dispensare dall'ufficio, risponde
secco: «avere ordine di guardarmi a vista.» Finalmente prendiamo stanza nello
alloggio preparato. Il Capitano Galeotti domanda se avessi armi addosso per
risparmiarmi la visita su la persona! «Ma che sono io arrestato?» gli domandai.
«Tali non sono i patti.» Il Capitano risponde secco: «avere i suoi ordini.» La
mattina appresso volendo accostarmi alla finestra per bere un sorso di aria
pura, m'impongono ritirarmi; nè stette molto, che alle quattro finestre ebbero
messo le ferrate, poi le tramoggie, poi le graticole, poi le ribalte guarnite
di festoni di tela, le quali calavano alle ore 24; sicchè mi parve essere
diventato proprio Giona in corpo alla balena. Se l'ardore del Sole schiantava
le tavole tanto che un pelo di luce passasse, ecco di subito calafati e
falegnami, che penzoloni imbracati con corde inchiodavano, sverzavano,
ristoppavano la fessura: poi visita alle finestre due volte il giorno, nè la
rimanente casa restava imperquisita: nè basta ancora: guardie di sotto, guardie
di sopra e all'uscio, e per le scale; nessuno usciva; fu dopo qualche giorno,
non senza difficoltà, e non so se previa visita personale, concesso dal
Cavaliere Galeotti castellano al cane di prendere aria pel Forte, ma
legato. - Colà stemmo raccolti sei: rappresentai la indecenza che le donne non
potessero avere stanza appartata. Credei che a gentiluomini e a padri di
famiglia dovesse comparire sacra la ragione del pudore: non risposero.
Rappresentai il modo disonesto del prendermi, che mi pareva nato a un parto con
quello tenuto dal Valentino a Sinigaglia per ammazzare Vitellozzo Vitelli,
Oliverotto da Fermo e compagni: non risposero. In cotesta dimora, che di
bellissima erano riusciti a rendere infernale, durammo giorni 44, tranne un
servo (anch'egli, poveretto! côlto al laccio), che, caduto infermo di febbre,
era trasportato per refrigerio al Carcere delle Murate.
Fu
tramutato di Arno in Bacchiglione!
Così sepolto vivo,
ignaro affatto di quello che pel mondo accadeva, mando il nepote al suo zio in
Roma credendo sottrarlo al pericolo, quando ad un tratto con profondo rammarico
conosco averlo esposto a pericolo maggiore. E se vi talentasse sapere quali
pericoli il mio nipote, qui nella sua Patria, corresse, ve lo dirò. Giovane di
15 anni, un bel giorno mi significò volere ridursi in campo per fare il suo
ufficio nell'arme dell'artiglieria. Io per distornelo gli dissi, che se voleva
andare si scrivesse soldato. La età novella, il duro mestiere, la qualità del
semplice gregario, gli affetti domestici e i comodi della casa, non valsero a
trattenerlo; nè io, premendo il dolore, lo trattenni. Il giovanotto dopo il 12
aprile dai proprii camerati fu preso in abbominio; - uno gli sparò dietro lo
archibugio! - Non vi pare questa una turpissima azione, o Signori? - Ed ora egli
naviga l'Oceano fuggendo una terra così poco amica al suo sangue. Forse i miei
occhi non lo rivedranno più; ma la mia benedizione lo accompagnerà da per
tutto; - e la nepote, che uscita di convento per visitare lo Zio si trovò ad
accompagnarlo in prigione, anch'essa come grano di spelda vive balestrata fuori
della Patria sua... Oh! il primo passo che mosse per la vita fu doloroso per
lei, - e queste sono le sventure che dissi: mano di uomo non può riparare,
quella di Dio consolare soltanto.
Dopo 44 giorni, certa
notte di maggio con misterioso terrore mi strappano allo improvviso dalle
braccia della mia nepote, e mi trasportano al Carcere delle Murate; quinci la
notte appresso pure mi rimuovono, e mandano a Volterra: di là finalmente, nel
novembre del 1849, mi tolgono e ricacciano dentro alle Murate, dove fino da
quel tempo giaccio sepolto.
Qui per ammenda,
dopo lunga procedura, un giorno, armati fino ai denti di tutte armi, e a me
nudo affatto, e legato, quasi per ischerno, di repente dicono: Difenditi!
Per ammenda, l'Accusa, esordita da uno Zagri barattiere e prevenuto
adesso di falsità, sopra le traccie somministrate da lui di continuare non
rifuggono. Per ammenda, i Documenti della mia Amministrazione all'Accusa
concedonsi, che ad uno ad uno gli esamina e gli sceglie; a me poi l'Accusa, e i
Giudici fino ad ora li contendono750. Per ammenda, si
trovano Giudici, che scrivono avermi colto in fragranti! quando mi
trovavo in Belvedere, dove dimoravo sotto fede che alla mia libertà non si
attentasse. Per ammenda, i miei Giudici naturali e necessarii,
trattandosi d'imputazione relativa alla malleveria ministeriale, dove
intervenne perfino Decreto firmato dalla Corona, non mi consentono. Per ammenda,
immaginano non so quale delitto continuo e complesso, per cui mi
troverei esposto a rispondere perfino dei fatti, che io stesso mi credei in
dovere reprimere. Per ammenda novella, congiungono il mio con non so
quale altro, processo di Pistoia, dove, per quanto intendo, si tratta di
espilazione e di altre simili turpitudini. Per ammenda (incredibile a
dirsi se non fosse vero!), L'ACCUSA il
testimone Zannetti rifiuta, il testimone Digny chiama a deporre, - e
questo parmì che tocchi la cima di quello che può osare un'Accusa... - Certo io
sono vivo... la morte violenta di Oliverotto da Fermo, nè del Carmagnola, ho
sofferto. Il secolo e il paese civili queste immanità non consentono... dal
sangue aborriscono... i troppo delicati nervi se ne irritano. Lo imputato si
lascia per anni e anni nella trista compagnia dei suoi pensieri angosciosi; gli
si dà spazio infinito a contemplare la sua famiglia distratta, la dissoluzione
del suo corpo, la etisia della sua intelligenza; gli si nega un sorso di aria
pura. - Era barbarie, ma barbarie grande, quella di levare dal mondo un uomo
per morte violenta: oggi la carità persuade restituirglielo, decorso spazio che
reputasi conveniente di tempo. - Andate, affrettatevi al carcere, amici e
parenti; l'ora venne per riscattare dalle mani di questa carità il prigioniero;
ricevetelo, amici e parenti; ella vi consegna - che cosa mai? - un matto
o un moribondo.
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