Gli ultimi
momenti dell'Apostolo
Valeria Vampa
Ricordo la sensazione dolorosa che provai quando lo vidi semidisteso
sul bianco letto nella vasta camera della Casa di Salute in Via Silvio Pellico
e le prime parole che mi rivolse, abbracciandomi: – Voi siete venuta a vedere
un uomo morire.
Morire?! No, poichè se la malattia aveva affilato il suo bel volto di
apostolo, ancora tanto splendore di vita traluceva dai suoi grandi limpidi
occhi azzurri.
Viceversa, dopo mesi e mesi di indescrivibili sofferenze, trascorsi in
una trepidante alternativa di speranze e di scoraggiamenti, la morte crudele lo
ghermí con i suoi rapaci artigli.
Fu essa la più forte, la inesorabile dissolvitrice che annullò tutte
le risorse della scienza medica, rendendo vana l'assidua e intelligente
assistenza dei marinai e le amorevoli cure della sposa devota e fedele che,
quasi il disperato dolore dell'imminente eterno distacco l'avesse resa
insensibile ai bisogni della materia, non si staccava nè notte nè giorno dal
letto dove il suo Giulio si spegneva in una lenta e straziante agonia.
Quanto, quanto ha patito prima di giungere all'estremo anelito! C'era
ancora tanto tempo per morire, Lui che avrebbe dovuto vivere a lungo per la
famiglia che adorava, per la scienza di cui fu ardente cultore e per l'Umanità.
Pure, quantunque torturato dal morbo inesorabile, conservava intatta
la sua meravigliosa lucidità di mente e l'acutezza del pensiero indagatore.
Non era un moribondo, ma bensì un osservatore a cui niente sfuggiva.
Ed io ascoltando silenziosa e attenta, reverente e commossa le sue parole dove
si rispecchiavano le sue vicende di fede e di speranza, di passione e di
dolore, comprendevo la sua esistenza avventurosa, i sogni immensi e le peggiori
delusioni, gli slanci incessanti verso un più equo assestamento delle società;
quelli slanci che non ostante lo facessero brutalmente cadere nella dura realtà
non riuscivano ad abbatterlo, a scoraggiarlo, a rammolirgli il cuore a deviarne
la coscienza.
Non aveva febbre, quella febbre che talvolta è un benificio, la
salvezza dell'ammalato. Così assisteva da stoico allo spezzarsi della sua fibra
robusta creata per la lotta a oltranza del bene; allo sfacelo di quella sua
intellettualità che col suo fascino gli aveva popolata la fantasia con le
immagini più belle d'un mondo ideale.
Peraltro un pensiero fisso lo dominava: i naviganti e la loro
Federazione più che mai accanitamente ostacolata, insidiata da tutte le
perfidie e da tutte le viltà, presa di mira dagli appetiti pescicaneschi degli
uni e dalle sfrenate ambizioni degli altri e che rimaneva salda nella sua poderosa
compagine schiacciando ad ogni passo la verminaia dei traditori codardi e degli
sfruttatori ingordi che gli pullulano intorno.
– Giulietti, Giulietti – andava sovente ripetendo – che tu possa
essere fortemente coadiuvato da tutti coloro per la cui elevazione morale
lavori con piacere, passione e tenacia; e così dicendo guardava teneramente
l'ottimo marinaro Raimondo Panariello che assieme ai figli e alla compagna lo
vegliò di continuo.
– Figli miei – diceva – mi tormenta altresì il non potere essere più
utile a nessuno.
Perchè oltre l'angoscia di doversi staccare dai suoi cari e da tutto
ciò che amava sulla terra, oltre al dispiacere di recare disturbo, dovuto alla
sua squisita delicatezza di sentire, l'affliggeva il non avere conseguita la
mèta prefissa, condotta a termine l'opera per il cui compimento, lievi gli
erano sembrate le più ardue difficoltà, e dolci i più duri sacrifici.
«Ebbi il dono della sofferenza e divenni poeta», disse Ibsen.
Lo stesso si può dire di Giulio Tanini che a traverso sofferenze
d'ogni specie sviluppò il suo fervido ingegno, lasciando dovunque una fiera
impronta della sua originalità.
Gli sarebbe stato facile divenire ricco, trascorrere l'esistenza fra
gli agi e gli onori, cingere il capo, dalla superba fronte spaziosa, dell'aureola
della gloria. Non volle.
Era troppo onestamente sdegnoso di servilismo adulatore e di
corruzione comunque. La sua inflessibile dirittura che gli faceva ritenere
tutte le transazioni della coscienza a danno dell'individuo e della
collettività, gli dimostrava il guasto inquinatore dell'arrivismo venale sotto
la brillante vernice della nostra civiltà così iperbolicamente vantata e
decantata dai fossili conservatori.
Quindi, all'apposto di farsi un gonfio e tronfio satellite dei
potenti, di procurarsi con loiolesca grazia insinuante, le protezioni più
proficue, flagellò senza posa tutte le ingiustizie, colpendo a guisa del
chirurgo che scandaglia col bisturi la piaga facendone schizzare il micidiale
pus, vieppiù là dove si addensava il putridume larvato da decrepiti
convenzionalismi, gli inganni e la menzogna.
Poniamo quest'Uomo che viveva da asceta nella sua solitudine di
Apparizione, che conobbe sereno e immutabile tutti i disagi e tutte le
rinunzie, che vide nel suo irrequieto pellegrinaggio a traverso il mondo i
proletari in folla sui mercati internazionali del lavoro e constatò come le più
ingrate fatiche fossero sempre riservate ai più poveri ed ai più umili, che
volontariamente si era privato di qualsiasi lusso e comodità, ritenendo che il
superfluo degli uni fosse a detrimento di chi è privo del necessario,
poniamolo, ripeto, a confronto dell'odierno egoismo imperante. Poniamolo, Egli,
che fu poliglotta, scienziato, letterato e poeta, di fronte ai tanti che si
valgono dell'ingegno per crear posizioni a loro esclusivo profitto, ossia per
salire le vette olimpiche impinguati d'oro e di boria.
Eppure è a costoro che la folla ignara, attratta più facilmente dalle
apparenze che non dalla verità, cortigiana plaudente i vittoriosi e tiranna
spietata con i vinti, abbagliata dallo sfarzo di ciarlatanesco orpello, prodiga
genuflessioni e applausi.
Ma Egli sorrideva di tutto ciò, come di sciocche vanità, volgari
esaltamenti, indegne debolezze, basso mercantilismo.
Sorrideva, ma forse a quando a quando, lo assillava il dubbio scettico
ed amaro. Ricordo a proposito che una mattina fissandomi con i suoi larghi
occhi analitici, mi chiese:
– Perdete voi mai la fiducia negli uomini?
Per altro, nè lo scetticismo, le delusioni, la sua esistenza errante,
agitata e disagiata ebbero influenza alcuna sul suo ideale politico sociale: la
fratellanza concorde dei popoli. Non solo, ma vi cooperò costante e intrepido
con la penna, con la parola, con l'azione, convinto che il vero studioso deve
essere un lottatore tenace e valoroso, non un semplice sognatore e il sapere un
mezzo efficace per conseguire sempre nuove migliorie civili e non un'avida
speculazione comunque.
Questo suo convincimento esprimeva ancora nel suo letto di agonizzante,
nei rari intervalli lasciatigli dal male, e in questa convinzione vi è tutto
l'Uomo che fu. No davvero quella mente alata d'una eccelsa superiorità,
quell'altruista, quale solo poteva esserlo Gesù o il Poverello d'Assisi, non
poteva essere interpretata e giustamente valutata dalla maggioranza che sa
magari fare bene i conti tondi, ma che considera il genio una malattia
sporadica e spregia l'altruismo siccome una teoria di perenne contrasto
stridente con la prosaica realtà.
Nulla per sè e il tutto equamente diviso affinchè i tentacoli
orribilmente vischiosi della miseria non vadano smisuratamente stendendosi e
moltiplicando e le vittime della spaventevole piovra non si accomunino un
giorno per la vendetta.
Occorre fare sempre più e del proprio meglio – diceva – non per i
singoli individui, ma per la comunità. Così scrisse la lirica «A te Marinaio»
tutta vibrante di umanesimo e le note biografiche su Amilcare Cipriani a prò
dell'Asilo dei «Senza tetto» per il quale diede il primo obolo. Questa frase è
un grido di ribellione contro tutto ciò che è iniquo:
«I lupi hanno le loro tane e gli uomini ramminghi sulla terra non
sanno dove riposare la notte le stanche ossa»
Certo Giulio
Tanini pensava a questo detto di Cristo invocando a Genova il rifugio dei deseredati,
per i quali ci si dovrebbe chiedere sul serio che rapporti vi sono fra l'umana
volontà e il destino, e certo in questo pensiero si rivolge al poeta
Malinverni:
«Carlo, la notte quando tutto tace,
di tua Genova onusta e insuperbita,
solivago cruciato, senza pace,
scruto la vita;
e m'avvicino con immenso duolo
a chi geme per terra in vichi
oscuri,
veggo madri coi figli al nudo
suolo, un giorno puri;
travolti ora agli orror de la
miseria;
sozzi, malviventi dissipati
ludibrio estremo a l'ultima materia,
co i cuor malati».
E non voleva la
consueta carità bottegaia dei farisei, bensì una solidarietà che aiutasse a
redimere e sollevare l'esercito anonimo che spesso la sventura ha reso incapace
alla ricerca dignitosa del lavoro da cui si trae un pane onorato e sicuro,
sapendo altresì, come a causa dei sociali ordinamenti difettosi e deficienti la
vita che si vive è in continua contraddizione con l'individuo e auspicava col
socialismo la rigenerazione della civiltà.
Ma vagheggiando una fraternità universale che cessi dal fare dell'Uomo
il nemico e l'antagonista implacabile dell'Uomo, rimase italianissimo,
desiderando fosse la sua salma arsa a Lucca sua città natale.
Sensi di italianità, desiderii, idee, aspirazioni, credenze, che
mantenne intatti sino all'estremo sospiro.
Nel suo
volume «Calatafimi», sui Mille, leggesi questa dedica:
«La mia vision quì sta - Bronzetti
addio, è l'ultima parola;
accolga il mio cor stanco il folto
oblio nel sogno che s'invola,
tarda pietà, postume lodi io sdegno
de la gente volgare;
fonda in faville il cor tra rosso
legno e lo inabissi il mare,
ed entro il mar scintilli, e nel
più folto formicolio di vita,
con gli ultimi bagliori ei venga
accolto ne l'energia infinita».
Non ebbe nel trapasso
della vita che va verso il mistero del principio e della fine, la pietà dei
volgari.
Spirò circondato dai suoi, salutato dall'amico suo dilettissimo: il
capitano Giulietti, che seppe penetrare sino nel profondo di quello spirito
eletto. Spirò dopo aver detto: – addio addio, addio a tutti, mentre con gli
occhi rivolti in alto sussurrava: – vengo vengo, vedo la mia strada fatta di
luce.....
Ora Egli non è più. La sua Salma si è sciolta in un grande bagliore di
fiamma. Rossa come il Suo cuore ardente d'infinita bontà.
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