Dedicato alla vedova Adele Tanini
ed ai figli dell'illustre Compagno.
FLAVIO PENDIBENE
Mia Madre e Lui.
Due date indimenticabili, due affetti spezzati, due speranze deluse
seguono di pari passo il corso della mia vita. Due rette impareggiabili per
precisione, lungo le quali muove oggi imperterrito e sicuro il mio spirito
combattuto e mai stanco, e sulle quali è necessario si avvalori vieppiù lo
svolgimento d'ogni mia azione fra gli uomini: anzitutto il Pensiero di mia
Madre che, assente il figliuol suo, morì benedicendomi e rammentando agli
astanti con severo orgoglio materno, il Bene per il quale io combattevo e
combatto ed al quale non verrò mai meno; secondariamente il ricordo e
l'ammirazione verso il carissimo fra gli amici di Fede e di Intendimenti:
Giulio Tanini.
Il mio Maestro.
Non posso rievocare la grande figura di Giulio Tapini senza provare
una profonda indicibile emozione. La grande manifestazione di cordoglio di
tutta la cittadinanza genovese nel giorno dei suoi funerali, è superiore ad
ogni sia pur appassionata e vibrante rievocazione.
La figura del Vegliardo della Federazione Italiana dei Lavoratori del
mare, ha lasciato imperitura eredità di affetti fra quanti ebbero occasione di
avvicinarlo. I di lui scritti poi, che dovrebbero essere meditati da tutti gli
italiani, sono un ammaestramento impareggiabile dal quale scaturisce la grande
missione del divenire umano e indicano luminosamente la via da seguirsi da chi
intenda degnamente esercitare una Santa Missione nel mondo per il bene dei
traviati e dei sofferenti.
Appresi non senza amaritudine, degli ultimi istanti di sua vita,
attraverso la descrizione commovente fatta dalla chiarissima scrittrice Valeria
Vampa. Quella lettura raddoppiò in me il rammarico col quale assistetti col
cuore in sussulto al di lui eterno commiato dai vivi; ed allora soltanto mi
parve che di Giulio Tanini si poteva dire di più.
Certo gli fui amico fra i più cari ed accetti. Meditai e sognai
insieme a lui di conseguire il giusto concetto della vita. Ancora navigante, e
in preda a dubbi innumerevoli, gli mandavo sovente per iscritto i miei
pensieri: meditazioni lunghissime di mie veglie d'oltroceano. Ai quali scritti
Egli sempre amorevole e convincente, rispondeva con vivo interessamento
dimostrando, sia il compiacimento di poter trarre la mia fantasia eccitata sulla
strada maestra del Bene, sia di avere un giovanissimo collaboratore nelle lotte
per l'Umanità. Ed in vero i suoi scritti mi riempivano l'anima di buona volontà
operatrice, mi rendevano meno penose le sofferenze ed i pericoli del mare,
insegnandomi a soffrire, a benedire, ad amare. La mia comunione con Giulio
Tanini crebbe fino al punto di chiamarlo Maestro, benefattore, padre mio.
Qualche volta gli affacciai l'idea di condurlo a vivere i suoi giorni
di pace nella mia casa paterna in Bonassola. A malincuore se ne mostrò sempre
contrario per la soverchia lontananza da Genova, centro del suo immenso lavoro
intellettuale e mèta del suo apostolato filosofico, morale.
Gli scritti da Lui indirizzatimi, oggi non esistono più. Causa questa
di immenso dolore, perchè stampati potrebbero servire di altissimo
ammaestramento agli uomini. Li tenni con me, luce spirituale della mia vita a
tutto il 4 Gennaio 1918, data in cui un malaugurato siluro li seppellì in fondo
al mare assieme alla nave. Perdetti così le lettere che furono insegnamento
salutare alle mie aspirazioni e per le quali oggi lavoro nella Federazione
Marinara.
Lesse per primo e corresse il mio Inno dei Lavoratori del Mare,
inno che fu poi pubblicato sul giornale omonimo nell'Agosto 1920. La semplicità
e la Fede sincera che inspirarono quei versi, aumentarono in Lui la simpatia
verso il giovanissimo amico. Dovetti inviargli altre poesie e scritti, dietro
suo incitamento e incoraggiamento, che gli furono grati oltre ogni dire. Più di
tutte una in risposta alla Sua meravigliosa lirica: «Il cipresso abbattuto»,
che fu da me intitolata «spes ultima Dea», dalla quale Egli si accingeva
a ritrarre un riassunto di tutte le sofferenze provate nella sua lunga e
travagliata esistenza.
Si deve lavorare per il bene dell'Umanità.
È ripugnante, mi diceva una volta, vivere al modo di tanti che vivono,
se pur non insozzati nel vizio, senza un concetto preciso della vita e senza
mai alzare gli occhi verso il cielo stellato o il mare immenso, alimentando
esclusivamente il corpo e vivendo solo per il corpo.
Dalle molteplici tendenze che oggi tengono schiava e divisa l'umanità,
noi dovremmo trarre i frutti migliori e formarne un tutto armonico, atto ad
evolvere ed a guidare la famiglia umana sul retto sentiero che le è stato assegnato
dall'Eternità.
Invece l'uomo, dotato di naturale ragionevolezza, si scaglia contro
l'uomo, come la materia contro la materia.
Il pensiero di dover un giorno dar conto della nostra esistenza allo
stesso principio di esistenza che ha operato in ciascun di noi il mistero della
vita, dovrebbe essere il punto di concentrazione di ogni attività umana,
sostituendo così alla massima inverosimile che ogni individuo debba possedere
un proprio metodo di pensare e di agire, la massima che tutta l'umanità debba pensare
uniformemente ed agire verso una meta unica, perchè uno solo è il fine ad essa
assegnato ed uno solo il mezzo per raggiungerlo. «Ogni uomo deve riflettere
nella propria coscienza il principio morale dell'Umanità, e per essa lavorare,
sacrificarsi e, qualora occorra, dare anche la vita».
Il benessere dell'Umanità era il fine da Lui predicato. Benessere
spirituale e materiale, elevazione della mente e del cuore al disopra del
fango, delle ambizioni, del ludibrio, delle passioni brutali.
A contrastare la retta ascensione umana verso l'unico fine, citava
sovente i vizi de' quali l'uomo s'è fatto inconsciamente depositario a proprio
ed altrui detrimento: quei vizi degenerano nella completa rovina, nello
sconvolgimento dell'opera della creazione.
Il suo Credo.
Gli narravo qualche volta, nei momenti di sconforto, le tristissime
vicissitudini della mia giovinezza, trascorsa fra i comodi e l'agiatezza a casa
od in collegio, data poi in pasto ai faticosi lavori del mare. Egli, nella sua
paterna affabilità, mi traeva ad osservare il cielo stellato, l'immensità
dell'orizzonte, suadendo l'anima stanca e desolata a trovar sollievo e più
grande soddisfazione in quella parte di infinito estendentesi dinanzi al mio
sguardo, e al dovere di sacrificio per la redenzione delle plebi.
«Nessuna cosa è più grande! esclamava. Lungo quella strada siamo
chiamati a perfezionarci. Domani all'alba tutti que' astri scompariranno;
l'orizzonte si annebbierà, si confonderà, si cancellerà ai nostri occhi.... In
quel passaggio misterioso la nostra vita si trasfonde e senza avvedercene segue
il moto avvolgente; illanguidisce, sparisce, non è più.... E di là non v'è
niente, amico caro; abbilo per massima. Sorgeranno, la notte appresso, nel
cielo dell'umanità, le tue opere buone: altrettante stelle che rischiareranno
il cammino ai molti superstiti traviati.... Possa la loro voce alzarsi a
benedire quelle stelle, ed i loro occhi possano trasfondersi in quell'orizzonte
così come io penso, così come io desidero....»
All'infuori della legge naturale, che con mezzi infiniti regola il
moto dell'Universo, non ammetteva altra forza palese o lontana. Giusta
ricompensa, unico premio all'esistenza era per lui la soddisfazione di aver
fatto il bene.
Schivo quindi da qualsiasi elogio, come bene scrisse Valeria Vampa,
condusse una vita esemplare, privandosi di moltissime comodità e godimenti,
forse convinto di una massima sublime ch'io ebbi occasione di leggere sopra un
foglio, scritta di suo pugno: «L'esempio è la forza più bella dell'autorità».
E così dagli uomini, come nulla chiese, nulla ottenne. Il destino, avverso
tutta la vita, gli serbò però una consolazione: un Uomo, dalla mente vasta e
dal gran cuore d'oro, incontratolo un giorno – già avanzato in anni, ma saldo
d'animo – gli porse fraternamente la mano e se lo strinse forte al petto,
amandolo e confortandolo fino al suo ultimo respiro. E forse questa è stata la
sola consolazione di sua vita.
Un aneddoto.
Un giorno a Genova, lungo Via Roma, gli camminavo a fianco mentre più lungi
un corteo marinaro si dirigeva a Staglieno per deporre una corona di fiori
sulla tomba del Compagno Cucurullo.
Per la violenza della malattia, che già da qualche tempo lo
tormentava, il Vegliardo ansava penosamente. Frattanto il corteo s'era molto distanziato.
Incontrammo sulla strada una donna lacera con un bimbo in collo, elimosinante.
Ci fermammo a guardarla. Passavano in quel mentre due superbe matrone, una
delle quali, alla vista di quei cenci ambulanti, disse in linguaggio italiano:
«È scandaloso che in una via principale, frequentata dalla migliore
aristocrazia, si lasci transitare quella miseria!...»
Le parole furono accolte da Tanini con uno scatto violento, talchè
rivoltosi a quelle signore, esclamò con tutta la sua voce: «Ebbene, o signore, io
mi vergogno di voi poichè siete più miserabili della polvere che quella miseria
calpesta!».
Tremò dall'indignazione. Consegnò il suo obolo alla povera donna,
accarezzò il bimbo macilento, poi rimase silenzioso e vivamente commosso fino
alla soglia del cimitero di Staglieno dove raggiungemmo il corteo.
I suoi ultimi Versi.
Presentì la
sua fine. Un giorno, poco prima del 15 Giugno 1921, ricevetti una sua lettera.
Accompagnava alcuni versi. Terminavano così:
«....... tende nel corso rapido
«atropo immane il velo funéreo:
«nella vertigine l'anima è oppressa
«e, come stella al tramonto, vòlgesi».
Da quel giorno restò
inoperoso sul letto di dolore, intento a prepararsi, stoicamente come visse, al
viaggio verso l'Infinito. Non mi scrisse più, nè più lo rividi. Il timore di
recargli grave sconforto mi tenne lontano dal suo capezzale. Piansi silenzioso,
in disparte, là nella mia Savona indimenticabile, fra le mura di quella Sezione
Marinara dove lavorai e scrissi per due anni; piansi come ho pianto per mia Madre.
Il suo sogno avverato: "Unione Federale" e
Cooperativa "Garibaldi"
Marinai, Compagni miei! La Federazione prima, la «Garibaldi» poi,
furono il Sogno Ideale dell'Augusto Vegliardo.
Giulio Tanini – a tutti è noto – lavorò indefessamente per la Federazione
Marinara e più di una volta la sua parola ferma fu di incitamento ai marinai
nelle conquiste morali ed economiche contro l'ingordigia del capitalismo
marittimo.
Egli ci insegnò coll'esempio a combattere, a soffrire, fissi, con la
mente e col cuore, nel segno della Vittoria.
Ricordate sempre e dovunque le sue parole, così come io le ricordo: «Le
cause giuste sono sempre le più aspre. Tali sono le vostre cause, o marinai. Ma
guai, a chi tenta distruggere ciò che è scritto nelle pagine dell'Infinito! Voi
siete nati per vivere e progredire, poichè i segni del diritto e della
giustizia sono impressi sulla vostra fronte. Abbiate fede in Colui che vi
guida, poichè in fè mia è l'uomo giustissimo dell'Infinito.
Amate e coltivate la vostra «Garibaldi», la più santa Istituzione
che vi condurrà al porto della vera Redenzione.
Aborrite gli odii. Insegnate ai vostri nemici coll'esempio, più che
con le minacce, coll'assiduità nel lavoro, con la disciplina nei vostri
servizi, che le vostre aspirazioni son superiori alle miserie della terra,
della materia, della vanità.
Siate uniti sempre, qualunque sia il vostro credo politico o
religioso. Amate, sopra ogni cosa, la culla dalla quale traeste i natali:
amatevi vicendevolmente come fratelli guidando i deboli e sollevando gli
infelici. Sopratutto sperate, sperate, sperate, perchè chi vi guida vede molto
lontano e i suoi atti e le sue parole non falliranno giammai».
Marinai, con questa convinzione nell'anima ho voluto scrivere una
pagina in memoria di Giulio Tanini. Non a far pompa di me, ma per convincervi
che l'Umanità progredisce principalmente col sacrificio dei suoi uomini
migliori come precisamente avvenne del nostro grande Compagno e Maestro, la cui
vita fu lotta e sacrificio. E ancora scrissi questa pagina per ripetervi le
parole di quell'Apostolo, affinchè ognuno le incida nel proprio cuore.
L'Ombra dell'Illustre Vegliardo ci sia guida nei pensieri e nelle
azioni nostre fra gli uomini, in modo che degni frutti si possano raccogliere nel
giorno della mietitura che non è molto lontana.
Lavoriamo e amiamoci
Da
Piombino, 1 Giugno 1922.
Me non
contamini venduta lode,
Non premio sordido d'util perfidia
Vinca io con semplice petto
l'invidia,
Vinca la frode.
|