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Giovanni Rajberti
L'arte di convitare

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PREFAZIONE

 

 

Pensando fra me stesso a quale categoria di libri appartenga questo mio, giacchè sarebbe troppo pretendere che faccia classe da , trovo che si può chiamarlo un frammento o una fetta di Galateo. Difatti, che cosa è un Galateo? all’ingrosso, l’arte di stare col prossimo il meno male per e per gli altri, ossia l’arte di vivere in società. Ma, delle ventiquattro ore del giorno, tra quelle che si voltano via dormendo, e quelle altre che si passano in qualsiasi modo isolati, più della metà, grazie al cielo, si sottraggono alla pedantesca tirannide del Galateo. Delle rimanenti un pajo, e le più gradite, che si consumano a tavola, prendo a governarle io col presente trattato.

Da ciò vorrei inferire che con quattro o cinque altri libri come questo avrò dato al mondo la scienza di tutta la vita, e la mia missione sarà giunta al suo fine. Si vorrà oppormi di primo colpo che di Galatei ve ne sono già due, e famosi; quello del Casa e quello del Gioja. E invero, se fossero due opere corrispondenti alla loro fama, ve ne sarebbe già una d’avanzo: eppure ne abbisogna ancora una terza, perchè la prima non si legge più, e non si può più leggere la seconda. Non si legge la prima per essere una cosuccia magrina, mingherlina, da fanciullini, un vero abecedario della creanza; oltre di che è scritta in una lingua e in uno stile che, quantunque facciano sdilinquire di tenerezza gli intelligenti, oggidì non sarebbero da augurarsi a nessuno; perchè, a dirla fra noi ignoranti, contengono il secreto di addormentare alla prima pagina, meglio del più destro magnetizzatore.

Quanto al Gioja, il suo libro è così poco italiano, il suo porgere così fiacco, stracco e bislacco, sono scelte così male le sue citazioni, e i suoi mille aneddotini così insignificanti, e così abbondante quella sua aritmetica ficcata negli affari di sentimento, che, a leggerlo tutto è un lungo supplizio, per non dire una fortissima impresa, come a salire l’ultima vetta del Monte Bianco.

Però non crediate che io neghi il mio rispetto a una celebrità ancora calda, o non ancora raffreddita abbastanza: oh, mai! Il Gioja, costituitosi in ragioniere di tutte le scienze, fa loro i conti con una precisione, che non gli scappa mai la miseria di un quattrino: e può chiamarsi l’antesignano o quasi il padre di quella gloriosa plejade di filosofoni e di filosofini che posero tutto lo scibile e tutto lo imaginabile sotto al dominio dell’abbachino, riducendo a calcolo esattissimo ogni cosa che sia anche futile o assurda a calcolarsi. Per esempio, non basta loro di sapere quante oche, fino all’ultima, la Lombardia mangi in dicembre: ma sanno quante volte quelle oche agitarono orizzontalmente la coda, quasi insultandoci e dicendo: Siete fritti! e quante penne portava ogni coda, e quanti filamenti ogni penna. Sanno il numero dei cavalli, degli asini e dei muli di ciascuna parte dell’Impero, un’orecchia di più una gamba di meno: e che la tale provincia conta muli cinque! e se dopo varii anni sono diventati sei o quattro, è perchè ne sarà nato uno o morto un altro, o alcuno compromesso sarà fuggito in Isvizzera. Essi vi diranno, colla gravità di chi avesse scoperto la bussola o la locomotrice a vapore, quante libbre e quante oncie di marmo di Carrara entrino nello studio d’uno statuario in un decennio: con che si pesa fino all’ultimo grano tutto il genio dell’artista. Vi diranno quante migliaja di miglia quadrate si coprirebbero di carta, se tutti i fogli di tutti i libri della maggior biblioteca di Parigi si distendessero per terra, uno vicino all’altro: e voi subito esclamate: Oh che sterminata biblioteca! Volete sapere quante bestemmie dica in un giorno chi spasima di un dente guasto? o quante occhiate torbide lanci in un anno sulle rivali una donna di classica gelosia? o quante occhiatine sentimentali volga in un secolo alla luna una fanciulla di romantica languidezza? dimandatelo a loro, che tutte queste cose le sanno di certo. Oh scienza della statistica, salvezza e gloria del secolo decimonono! Insomma, con due ore di preavviso, e col solo breviario sotto agli occhi, sarebbero capaci di dirvi quanti versetti, quante parole, quante sillabe e quante lettere si contengano nel cantico Laudate pueri Dominum. Amici, verso la fine del primo pranzo che darete, vi raccomando di fare un brindisi alla statistica, e poi un altro alle academie della statistica, e poi ancora un terzo alla statistica delle academie.

Ma ogni troppo è troppo; e di statistica o di aritmetica il Gioja in quel Galateo ne versa troppo: e sì che i temi di gentilezza e di affetto sotto alla pressione dei numeri e alle indagini del calcolo si impiccoliscono, si rincantucciano, e finiscono a dileguarsi affatto come fa il diavolo sotto all’aspersorio dell’esorcista. L’opera è divisa in molti libri, ogni libro in molti articoli, ogni articolo in molti capi, ogni capo in moltissimi paragrafi; e ognuno di questi ha la sua filza di argomenti I, II, III, IV, V, VI, ecc., e ognuno di questi numeri romani ha la sua processione subalterna di numeri arabici 1, 2, 3, 4, 5, 6, ecc., e ognuno di questi si sminuzza in a) b) c) d) e) f) g) ecc., e talvolta ognuna di queste lettere è tonda e majuscoletta per aver campo di tirarsi appresso il suo strascico di lettere corsive e minuscole. Cose da mandare in visibilio cinquanta archivisti, cento controllori, e per giunta tutto un dicastero di contabilità. Oh che cervello pieno di scatoline aveva quel Gioja sotto alla scatola del cervello! E quelle scatoline racchiudono altre scatoline, e queste ne capiscono altre più piccole ancora, e così via via fino al microscopico. Sono infinite, ma distinte per serie, sezioni e sotto-sezioni, che almeno non c’è molto da fare a ordinarle per un inventario. C’è la serie che contiene gli esempii storici, e poi quella dei fattarelli lepidi e non abbastanza storici, tutta mercanzia ammuffita, polverosa, da museo, e che a perizia complessiva da rigattiere non si stimerebbe cinque soldi. V’è la serie delle scatoline che racchiudono le citazioni in versi: oh che formicaio! dove diamine è andato a pescare tanti versi cattivi! Meno alcuni pochi di Parini o d’altri valenti che gli forzano la mano, non si sa capire come un uomo possa non che leggere, copiare e mettere in serbo per le occorrenze, tante povere inezie. Lo spargere quà e per la prosa alcuni versi fa buon effetto, quando rendono l’idea dell’autore con una formola ardita, calzante, efficace, che s’impronta nella memoria: ma quando la poesia è peggiore della vostra prosa, non ispezzate le righe, e trascinatele innanzi del vostro, senza rime e senza piedi: perchè la più meschina prosa del mondo riesce uno zucchero in confronto ai versi ladri. E poi con quella enorme congerie di precetti che invadono tutto e monotonizzano tutto, tende a sopprimere ogni individualità di carattere. E poi col continuo lodare ogni uso d’altre nazioni, vorrebbe farci perdere anche la fisonomia d’Italiani. E poi non ha mai un movimento di bile per le vigliaccherie e le infamie. E poi tante volte consiglia le virtù per sole ragioni indegne, come la modestia e la ritenutezza alle donne, perchè così otterranno di farsi meglio desiderare; sul quale proposito ha una mezza pagina d’una incredibile luridezza. E molte altre cose grosse sarebbero a dirsi, che tralascio a risparmio di noja. Insomma, come repertorio copioso e raccolto con fatica, può avere il suo valore, massime per chi volesse trarne materiali per un buon Galateo che manca ancora: ma come libro, specialmente ad uso della gioventù, non esito a dichiararlo meschino e cattivo perchè, mentre per l’indole sua doveva essere fatto colla testa e col cuore, e sulla base di buoni e solidi principii, non ci si trova che la schiena e lo scetticismo e l’indifferenza. Perciò non consiglierei una madre saggia a darlo da studiare alle proprie figliuole, che hanno bisogno di tutt’altro pascolo intellettuale e morale.

Sarei dolentissimo che gli amici e i corrispondenti della ditta Melchiorre Gioja e Figli montassero sulle furie contro di me: ma in fine che potrebbe accadere? sentirmi a dare per le stampe del petulante e dell’ignorante. Poco male, massime in istato di assedio: a quelle conclusioni ci sono avvezzo da tanto tempo, che è lo stesso come a darmi dell’illustrissimo. Anzi, se avranno la pazienza di ripetermele ancora, chi sa mai che una volta o l’altra non finisca anch’io, con qualche riserva, a convenire un poco nel loro parere? Intanto ho creduto che questa tirata fosse molto opportuna, e ora è fatta, e mi sembra un debito saldato. Se avrò vita ne salderò alcuni altri.

Ma io sono qui per lodare il mio libro, che è lo scopo delle prefazioni, e comincio dal biasimare i libri altrui. Che volete? quasi tutti gli autori fanno così: solamente ci mettono minore sincerità, e furberia maggiore. È come quando si ricorre ad un impiego: che, se non sulla carta, almeno all’orecchio delle persone influenti, o per un verso o per l’altro, c’ingegniamo a far capire che tutti i competitori sono asini o birboni, e che nessuno di loro è adattato per quel posto, e che noi soli siamo degni di mangiare quel salario. A ogni modo, la vera prefazione incomincia adesso, e il già scritto, se non vi piace, laceratelo pur via qual ciarla inconcludente.

Come sia nato in me il pensiero di questo libro non saprei dirlo in coscienza, perchè non me ne ricordo più. Era in parte già fatto assai prima dei trambusti che fecero dimenticare tante inutili cose. Ora, da alcuni mesi ripigliai la penna, e di mano in mano che l’argomento mi dettava pagine una più matta dell’altra, il cuore mi diceva con forza sempre crescente, che io mi allontanava troppo dalle esigenze dei tempi, e che adesso il publico non si mena più a spasso con delle parole (che sciocco d’un cuore!), e che la gente non ha più voglia di ridere. E io gli rispondeva: «Taci, bestia, che i muscoli del riso non sono scomparsi dalle faccie degli uomini, e siccome gli uomini usano delle loro facoltà finchè possono, così in questo mondo si riderà sempre, per quanto gli affari vadano alla peggio: e meno c’è da ridere sulle cose grandi, più si ha bisogno di rivolgersi alle cose piccole per occuparsene piacevolmente, e assopire, almeno per intervalli, il dolore dei fiaschi grossi.» Ma su questa objezione del ridere, giacchè me la fanno molti, ho inventato un dilemma che mi pare d’una forza da levarvi il respiro: perciò vi consiglio di non affrontarlo. O avete la volontà di ridere, o no. Se l’avete, benone! eccomi a servirvi, il mio libro è fatto a posta per questo. Se poi non l’avete, meglio ancora! è proprio il mio caso, e mi ci provo di cuore e di puntiglio, perchè abbisognerà niente meno di tutta la mia virtù a farvi ridere per forza: ben inteso che, se ha da essere una sfida, cominciate a leggere: altrimenti sareste come coloro che si turano gli orecchi per non sentire la verità.

Dunque, a far ridere la gente allegra e disposta, ogni inezia basta: i lazzi d’una scimia, i bisticci d’uno stenterello, l’aria invasata d’un poetino, i titoli academici di un cacciatore di diplomi, i ciondoli pendenti dall’abito d’un solenne minchione. È come quando uno corre alla spensierata, che ogni pugno appoggiatogli per di dietro lo manda lungo e disteso: ma a distendere per terra un atleta fermo e in guardia ci vuole M. Roux. Così per mettere in buon umore le persone ingrugnite, e anche quelle ingrugnite per progetto, bisogna ricorrere al dottoraccio in Monza: perchè il nuovo ramo di scienza ortopedica applicata alla testa, che consiste nell’allargare le faccie lunghe, nessun chirurgo la possiede come lui: il quale, per parentesi, m’incarica di annunziarvi che del ridere egli ne tiene ai vostri comandi una provigione inesauribile. Tutto sta a voler farne acquisto all’ingrosso: che, aver legna da vendere a cataste, e doverla dar via a oncie, e tagliuzzata in zolfanelli e stecchi, è una cosa da languire d’inedia. Un mese fa mi capita in casa un amico. «Ho sentito che vuoi publicare un opuscolo; quanto costerà? — Non è tanto un opuscolo, giacchè probabilmente si tratterà di un tallero; prepara il tuo. — Un tallero! mio caro, tu sei leso nel nomine patris, e una idea così matta non me la sarei aspettata. Una lira, o due al più, pazienza; ma un tallero è una utopia in questi tempi, massime per un libro da ridere. — E dalli con questo ridere! è appunto per ciò che lo voglio mettere a un tallero: se fosse da piangere, lo darei per meno della metà, e ancora me lo lascerebbero tutto per me, chè delle lagrime ne piovono già abbastanza. — No, no; ti replico sul serio che la cosa non può andare: credi tu che adesso il fare denari con carta sia impresa da privati, quando non siano banchieri o agiotatori? noi vedremo piuttosto a diventar carta tutto il denaro. — Ebbene, quand’è così, a costo di una grave truffa a me stesso, metterò il libro a cinque lire. — Ma siamo lontani ancora che diamine! non fosti mai avvezzo a rubare più di tre lire nei tempi dell’abbondanza e delle letture oziose, e ora che ribassano tutti i generi, hai da salire in prezzo tu solo? — Oh, insomma, di calcoli interessati io non me ne intendo, e li detesto; e per la patria mi sento capace di qualunque sacrifizio. Perciò, sai cosa penso di fare? dividerò l’opera in due parti, ciascuna delle quali al prezzo di un solo fiorino, e coll’immenso vantaggio di un lungo respiro tra i due versamenti. Il primo fiorino è la moneta che si spende per andare ad annojarsi alcune ore in un teatro, e non portar via nulla: che qui almeno si paga per uno e, alla peggio, si può annojarsi in molti; e poi qualche cosa resta nelle mani, un libro servibile a cento usi famigliari. Quanto al secondo fiorino, chi è quel disperato che non possa disporsi alla scadenza di una sì piccola cambiale dietro il preavviso di quattro mesi? E nota bene che io farò lucrare ai miei avventori un’usura strepitosa, inaudita; perchè il mio libro inspira il gusto del convitare, e inculca la frequenza degli inviti. Quindi una sola volta che t’invitino a pranzo per opera mia, ecco guadagnato il mio fiorino, cioè il secondo de’ tuoi fiorini che diventerà mio. Hai capito bene? ogni giorno che tu impresterai via la pancia in virtù del mio libro, avrai l’interesse depurato e nitido del cento per cento. Ma, anche senza di ciò, ritieni che a più buon mercato di così non potrei farla, e che mi sembra già di dare uno scandalo grave. Ascolta. L’opera contiene molte vedute scientifiche affatto nuove, che sono vere ed effettive scoperte; ebbene, le do tutte gratuitamente, perchè i lumi non si pagano, essendo superiori a qualunque prezzo. L’opera è piena di filosofia; la do gratis anche questa, giacchè i filosofi raccomandano il disprezzo del denaro. Di morale poi ce n’è un profluvio, anzi il libro vi nuota dentro come un peperone nell’aceto; anche questa la regalo tutta, sentendomi incapace di mettere una tassa sui consigli saggi e virtuosi. Non parlo della erudizione storica, delle citazioni dei classici, dei testi latini, francesi, italiani, in prosa e in poesia. Chi ha sudato e vegliato tutta la vita alla conquista del sapere è trascinato dal cuore a farne generoso dono alla società. Infine, siccome non si può dare tutto per niente, altrimenti tutta quanta l’Italia vorrebbe il libro, e dovrei perderci qualche milione del mio; così mi limito, come prezzo del lavoro, a volere un quattrino per ogni epigramma, e due per ogni freddura, essendo il secondo genere assai più di moda che il primo. Non ti pare che sia la vera bancarotta dello spirito? Ma viviamo in un’epoca che fa bancarotta di tutto: bisogna dunque adattarci al destino universale

Questo dialogo vi svela, o lettori, la prima causa della divisione del libro in due parti, e dell’intervallo tra la publicazione dell’una e dell’altra. Ma poichè mi sento in vena di sincerità e di parlantina, ve ne confiderò una seconda non meno importante, perchè move da una opportunità di tempo, che occorre una sola volta nella vita d’uno scrittore, e non di tutti: sarebbe peccato a lasciarmela fuggire di mano. Fra poche settimane finisce la prima metà del secolo, e subito dopo, senza la interruzione d’un minuto, comincia la seconda. Ed ecco che colla prima parte del mio lavoro giungo ancora in tempo di dare un addio al mezzo secolo che sta per piombare negli abissi del passato: e colla parte seconda saluterò l’altro mezzo secolo appena che sarà entrato in azione. In questo modo parmi quasi di chiudere coll’opera mia un’epoca che finisce male, e aprirne un’altra che forse comincerà peggio. Parmi di mettere un’ipoteca sul secolo tutto, e di prenderne possesso; di bilanciarmi e dondolarmi sul suo centro: ovvero di salirgli in groppa, proprio a mezza schiena, come su di un cavallaccio spaventoso, e di frustarlo davanti e di dietro a tutto potere. Il più grande uomo dell’epoca nostra si assise arbitro fra due secoli (come scrisse il più grande lirico delle epoche tutte), e li fece tacere: ei fe’ silenzio... ed io mi accontento di assidermi appena fra due mezzi secoli, e li lascio anche ciarlare. Delle quali imagini il sugo è questo: Intendo che l’opera mia appartenga egualmente alle due metà del secolo: perciò mando fuori il primo volumetto colle ultime rape del cinquanta e manderò fuori il secondo coi primi ravanelli del cinquantuno.

Giacchè mi è riescito di trascinarvi sulle idee grandiose, uditene ancora una, e così la prefazione sarà adattata al libro, a un dipresso come la stupenda sinfonia guerriera della Gazza ladra s’attaglia alla fiaba d’un uccello che nasconde i cucchiaj. Uno di questi giorni monta da me un tale, e mi prega di leggergli un poco del mio lavoro. Lo servo, e, durante la lettura, vedo occhiacci e visacci, e sento una filza di ah, di oh, di uh: ed io tranquillamente «Ih, capisco che non ti piace, eh? — Non dico questo, ma è un prodotto fuori di stagione, un anacronismo: però, sai? diventerebbe una cosa eccellente, facendola passare sotto all’aspetto d’una grande ironia.» Queste parole mi fecero irrompere nella fantasia un ordine di idee nuove, e mi sentii nel petto un vulcano. Passeggiando concitatamente innanzi indietro per il mio studio, come una belva feroce nella gabbia di ferro, gridai: «Sì, sì, deve essere in questo modo, anzi è: ecco il vero concetto: non aveva trovata l’espressione, ma il pensiero mi bolliva terribilmente nel cervello. Appunto; una grande, una crudele ironia, mifistofélica, satanica: il convulso e beffardo cachinno della disperazione che esce dall’averno! Dietro ad ogni pagina si travederà la faccia dell’autore con la bocca fino agli orecchi, con gli orecchi fino... insomma una figura da diavolo, che diabolicamente ride, e si fa scherno degli uomini e delle cose. Oh! che io fossi la personificazione di quell’immenso sghignazzamento, nel quale, al dire d’un poeta furibondo, dovrà dissolversi l’universo?» Ma questo sublime sonnambulismo durò appena qualche minuto; mi sentii subito troppo grosso e pesante per uno spirito degli abissi: e poi, riandando in mente l’opera mia per sommi capi onde giustificarne l’indole diabolica, trovai che certi elogi e certi entusiasmi basterebbero a smentirla, perchè sentono assai più di lardo e di cavoli che di resina o di zolfo o di altre sostanze infernali. Dunque a monte il gran concetto; e conclusi che se io commisi un anacronismo, non sarà certo di centinaja d’anni, come usano a pigliarne i dotti, senza che alcuno se ne scandalizzi, o nemmeno se ne accorga. In relazione al passato, il mio è un anacronismo di tre anni appena; e in relazione al futuro, speriamo che sia di molto meno: perchè insomma, dopo le ostinate pioggie appare il sole splendido, e dopo il crudo verno la stagione dei fiori, e dopo la carestia l’abbondanza. Queste vicende non mancano mai in natura: tutto sta ad attenderle pazientemente, perchè chi dispera ha una bella illusione di meno e un brutto male di più. Cari amici, quante altre cose interessanti e consolantissime avrei a dirvi! ma penso che per un fiorino ne ho dette d’avanzo.

Però me ne resta una di troppo rilievo per dimenticarla. Sappiate che quest’opera mia non è postuma, ossia pubblicata per cura de’ miei eredi inconsolabili; ma che sono proprio io in corpo e anima a dirigerne la stampa. Dico questo, perchè avendo fatto una malattia nell’autunno del 1848, si sparse la notizia della mia morte, e furono scritte varie lettere di condoglianza alla mia povera vedova; e nessuno pensò di scrivere direttamente a me, che in qualità di medico avrei saputo dir loro il nome greco del morbo che mi rapì di vita.

Dunque, tutti coloro che mi compassionarono defunto li ringrazio e delle tante volte che mi avranno detto povero diavolo, è crepato anche lui! e dei suffragi che m’avranno fatto correre appresso dalla parte di : i quali li ho impiegati tutti già da due anni alla cassa di risparmio dell’altro mondo, affinchè cogli interessi semplici e composti abbiano a moltiplicarsi in un capitale ricchissimo per quando verrà davvero l’ora del mio rendiconto. Ma intanto voi, amici lontani, cominciate a rendere conto a me del come abbiate potuto credere alla mia morte per più d’una settimana. L’eloquente silenzio di tutti i giornali non vi fece sospettare che quella notizia fosse un poco inesatta? Dunque pensaste che nel secolo delle necrologie per tutti, io solo non meritassi la mia! E in questo caso, perchè l’amicizia non mi venne in ajuto, inventandomi talenti e virtù, e abborracciandomi un poco di piagnisteo per le gazzette? l’avrei tanto gustata la mia paginetta necrologica, sormontata da una piccola urna, e con un modesto N. N. ai piedi. Basta, vi perdono perchè sono vivo; morto, non lo potrei. Però, vi prego ad ajutarmi almeno adesso a distruggere dappertutto quella credenza, giacchè sussiste tutt’ora in qualche luogo. In un opuscolo di autore anonimo, pubblicato a Torino quest’anno, la mia morte è brevemente compianta, e, per quanto io sappia, fu l’unico annuncio officiale del fatto, benchè un po’ tardivo. Che più? nel borgo di Soncino, che non è poi agli antipodi, in questo corrente novembre fu fatta una scommessa di quattro bottiglie di Sciampagna sul punto se io sia vivo o morto: anzi vi soggiungerò che la scommessa fu vinta da quello che mi sosteneva vivo. E so che ne ebbe molto piacere, e ne provo moltissimo anch’io, perchè nelle scommesse altrui è troppo difficile mantenersi imparziali. Ma, e l’altro che, conoscendomi appena di nome, ha perduto e pagato in grazia mia? Io mi metto un istante nei di lui panni, e sarei pronto a scommettere una bottiglia anch’io, che il mio rivivere dopo una morte avvenuta da due anni e più, deve essergli riescito abbastanza strano, inopportuno e molesto.

Dunque concluderò con una sentenza morale, e passatemela per buona, giacchè sapete che la do gratuitamente. Regolatevi secondo la coscienza vi detta nel parlare, nell’agire, nello scrivere, senza troppo preoccuparvi delle altrui simpatie: perchè fino nel fatto semplicissimo del morire o del campare, che non dipende dal nostro arbitrio, è impossibile incontrare il genio di tutti.

 

Poscritto. Avrei da fare una piccola lista di errata-corrige: per esempio alla pagina 110, linea 1, sarà meglio leggere sincerità che verità. Alla pagina 121, linee 20 e 21 in cambio di calpesta e passargli leggasi calpestano e passare. Alla pagina 102, linea 2, in luogo di anche in questi tempi di libertà sarebbe forse più naturale il dire specialmente in tempo di assedio: una piccola differenza!

Ma a monte tutti gli scrupoli di lingua, di grammatica, e anche di senso commune: che, a sottilizzare in siffatte inezie, bisognerebbe forse cambiare tutto il libro.

L’importante è che l’amico Giorgio (col quale farete conoscenza) è in collera meco, non già per averlo criticato e tribolato durante il pranzo, dalla prima fetta di salame fino all’ultimo sorso di caffè; anzi di ciò mi ringrazia; ma perchè, ripetendo una sua descrizione, ho dimenticato alla pagina 133, linea 6, le parole un poco di salsa di pomi d’oro. Di questa omissione capitale è inconsolabile, come se gli avessi stampato un sonetto senza l’ultima terzina. Ma giacchè quella salsa non può più mettersi a quel posto, prego i lettori a farla mettere almeno nella pentola quando vorranno mangiare una minestra di quel genere veramente perfetta.

 

25 novembre 1850.

 




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